Fëdor Dostoevskij
MEMORIE DI UNA CASA MORTA
Nota dei curatori: Quest'opera, pubblicata nel 1861-62, è fedelmente autobiografica. L'autore venne condannato a morte per motivi politici e, dopo un'orribile messa in scena che tra l'altro peggiorò la sua epilessia, la sentenza di morte venne commutata in condanna ai lavori forzati.
INTRODUZIONE DELL'AUTORE
Nelle lontane regioni della Siberia, fra le steppe, i monti e le foreste impraticabili, s'incontrano di tanto in tanto piccole città di un migliaio o, a dir molto, due migliaia di abitanti, città di legno, meschine, con due chiese - una in città, l'altra al cimitero - e somiglianti più a un buon villaggio alle porte di Mosca che a città. Esse sono di solito più che sufficientemente fornite di commissari di polizia, di assessori e di tutti gli altri impiegati subalterni. Prestare servizio in Siberia, nonostante il freddo, è in generale oltremodo confortevole. Ci vivono persone semplici, aliene dal liberalismo; gli ordinamenti sono vecchi, solidi, consacrati dai secoli. I funzionari, che a buon diritto rappresentano la parte della nobiltà siberiana, o sono del posto, siberiani di vecchio ceppo, o sono venuti dalla Russia, per lo più dalle capitali, allettati da uno stipendio non pagato ad acconti, dalle doppie trasferte e da lusinghiere speranze di avvenire. Di essi, quelli che sanno sciogliere l'indovinello della vita quasi sempre rimangono in Siberia e con piacere vi mettono radici. In seguito danno ricchi e dolci frutti.
Ma gli altri, la gente leggera e incapace di sciogliere l'indovinello della vita, presto si stufano della Siberia e si domandano: "perché ci siamo venuti?". Con impazienza essi compiono il loro periodo legale di servizio, tre anni, e alla sua scadenza subito brigano per il trasferimento e se ne tornano a casa vituperando la Siberia e deridendola. Hanno torto: non solo sotto l'aspetto del servizio, ma anche sotto parecchi altri, in Siberia si può vivere beati. Il clima è eccellente; ci sono molti mercanti notevolmente ricchi e ospitali; molti stranieri oltremodo rispettabili. Le signorine vi fioriscono come rose e sono costumate oltre ogni dire. La selvaggina vola per le vie e va da sé addosso al cacciatore. Di sciampagna se ne beve una quantità inverosimile. Il caviale è stupendo. Il raccolto è in certi luoghi quindici volte la semente... In generale, una terra benedetta.
Bisogna soltanto saperne approfittare. In Siberia sanno approfittarne.
In una di tali gioconde e soddisfatte cittadine, dalla popolazione quanto mai simpatica, il cui ricordo resterà incancellabile nel mio cuore, io incontrai Aleksàndr Petrovic' Goriàncikov, un colono nato in Russia nobile e proprietario, poi deportato e forzato di seconda categoria per aver ucciso la moglie, che, scaduto il termine decennale dei lavori forzati fissatogli dalla legge, terminava umile e quieto i suoi giorni nella città di K., quale colono. Propriamente egli era ascritto a un paese suburbano, ma viveva in città, avendo modo di procacciarvisi non fosse che un po' di sostentamento insegnando ai ragazzi. Nelle città siberiane spesso s'incontrano maestri che provengono dai coloni mandati a confino; non li si disdegna. Ed essi insegnano prevalentemente la lingua francese, tanto necessaria nella carriera della vita, e della quale, senza di loro, nelle lontane regioni della Siberia non si avrebbe nemmeno idea. Incontrai per la prima volta Aleksàndr Petrovic' nella casa di un antico, emerito e ospitale funzionario, Ivàn Ivanic' Gvòsdikov, che aveva cinque figlie, di varia età, le quali facevano ottimamente sperare di sé. Aleksàndr Petrovic' dava loro lezioni, quattro volte per settimana, a trenta copeche d'argento per lezione. Il suo esteriore m'incuriosì. Era un uomo straordinariamente pallido e magro, ancora giovane, sui trentacinque anni, piccolo e gracile. Era vestito sempre assai pulitamente, all'europea. Se vi mettevate a discorrere con lui, vi guardava con estrema fissità e attenzione, ascoltava con severa urbanità ogni vostra parola, come riflettendoci su, come se voi, con la vostra domanda, gli aveste posto un problema o voleste strappargli un qualche segreto, e finalmente rispondeva in modo chiaro e breve, ma pesando ogni parola della sua risposta a tal segno che voi, tutt'a un tratto, vi sentivate, chi sa perché, a disagio, e infine vi rallegravate voi stesso che la conversazione fosse finita. Io già allora interrogai Ivàn Ivanic' sul conto suo e seppi che Goriàncikov viveva una vita moralmente irreprensibile, giacché, in caso diverso, Ivàn Ivanic' non l'avrebbe invitato come insegnante per le sue figliole, ma era insocievole all'eccesso e si nascondeva a tutti; era oltremodo intelligente e leggeva molto, ma parlava pochissimo e, in generale, era abbastanza difficile attaccar discorso con lui. Taluni affermavano che era proprio pazzo, pur giudicando che, in fondo, questo non fosse ancora un difetto tanto grave; che molti fra i più onorevoli cittadini erano disposti verso Aleksàndr Petrovic' a ogni possibile gentilezza, che egli avrebbe potuto perfino rendersi utile scrivendo istanze eccetera. Si supponeva che dovesse avere in Russia dei parenti perbene, forse anche gente di non infima condizione, ma si sapeva che egli, fin dalla deportazione, aveva caparbiamente rotto con loro ogni rapporto: in una parola, nuoceva a se stesso. Inoltre, da noi, tutti conoscevano la sua storia, sapevano che aveva ucciso sua moglie, già nel primo anno di vita coniugale, l'aveva uccisa per gelosia ed era andato egli stesso a denunciarsi (il che aveva molto attenuato la sua pena). Simili delitti sono sempre considerati come sciagure e se ne ha compassione. Ma, nonostante tutto ciò, quell'originale si appartava ostinatamente da tutti e compariva fra la gente solo per dar lezioni.
Sul principio non gli avevo rivolto particolare attenzione, ma, non so nemmeno io perché, egli incominciò poco per volta a interessarmi. C'era in lui un che di enigmatico. Di mettersi a discorrere con lui non si aveva la minima possibilità. Certo, alle mie domande rispondeva sempre, anzi con un'aria come se vedesse in ciò il primo dei suoi doveri; ma, dopo le sue risposte, io in certo qual modo mi facevo scrupolo di interrogarlo oltre; e poi anche sul suo volto, dopo tali conversazioni, si leggeva sempre come sofferenza e stanchezza. Ricordo che una volta venivo via con lui, in una magnifica sera estiva, dalla casa di Ivàn Ivanic'. Di colpo mi venne l'idea di invitarlo per un momento da me a fumare una sigaretta. Non posso descrivere l'orrore che si dipinse sul suo viso; egli si smarrì del tutto, prese a borbottare non so quali parole sconnesse e a un tratto, gettatomi uno sguardo malevolo, si buttò a correre dalla parte opposta. Rimasi perfino stupito. Da quel giorno, incontrandomi, egli mi guardò, si direbbe, con un certo sgomento. Ma io non mi arresi; qualcosa mi attirava verso di lui, e un mese dopo, di punto in bianco, passai io stesso da Goriàncikov. Agii, s'intende, in modo sciocco e indelicato. Egli dimorava proprio alla periferia della città, da una vecchia borghesuccia che aveva una figlia malata di tisi, mentre questa aveva una figlia illegittima, una bambina sui dieci anni, bellina e di umore gaio. Aleksàndr Petrovic', seduto accanto a lei, stava insegnandole a leggere nel momento in cui entrai.
Vedutomi, si turbò a tal punto come se l'avessi colto in qualche flagrante delitto. Si sgomentò addirittura, balzò su dalla sedia e stette a guardarmi con gli occhi spalancati. Infine ci mettemmo a sedere; egli seguiva fissamente tutti i miei sguardi, quasi sospettasse in ciascuno di essi un qualche speciale, recondito significato. Indovinai che era diffidente sino alla follia. Mi guardava con odio, e per poco non domandava: "Ma te ne andrai presto di qui?". Io presi a parlare con lui della nostra cittadina, delle novità del giorno; egli si schermiva col silenzio e sorrideva astiosamente; apparve che non solo ignorava le più usuali novità cittadine, a tutti note, ma nemmeno si interessava di saperle. Poi mi misi a parlare della nostra regione e dei suoi bisogni; egli mi ascoltava in silenzio e mi guardava negli occhi così stranamente che infine mi vergognai della nostra conversazione. Del resto per poco non lo esasperai coi libri e le riviste di nuova pubblicazione: li avevo in mano, ritirati appena allora alla posta e glieli offrii ancora da tagliare. Egli ci gettò sopra un'avida occhiata, ma subito dopo cambiò intenzione e ricusò l'offerta adducendo la mancanza di tempo. Infine mi accomiatai e, uscito di casa sua, sentii che mi era caduto dal cuore non so quale insopportabile peso. Provai vergogna e mi parve enormemente sciocco importunare un uomo che si proponeva appunto come essenziale suo scopo di nascondersi il più possibile al mondo intero. Ma la cosa era fatta. Ricordo che di libri da lui non ne avevo quasi notati per nulla, e quindi a torto dicevano di lui che leggesse molto. Nondimeno, passando un paio di volte, a notte assai tarda, davanti alle sue finestre, le vidi illuminate. Che faceva dunque vegliando fino all'alba? Che scrivesse? E se era così, che cosa precisamente?
Le circostanze mi allontanarono dalla nostra cittadina per circa tre mesi. Tornato a casa che era già inverno, appresi che Aleksàndr Petrovic' era morto nell'autunno in solitudine, senza aver chiamato il medico nemmeno una volta. Nella cittadina lo avevano già quasi dimenticato. Il suo quartierino era deserto. Io feci immediatamente conoscenza con la padrona di casa del defunto, con l'intenzione di farmi dire da lei di che cosa particolarmente si occupasse il suo pigionale e se non avesse scritto qualche cosa. Per una moneta di due "grivne", essa mi portò tutto un cestino pieno di carte lasciate dal defunto. La vecchia confessò che due quadernetti li aveva già consumati. Era una donna tetra e taciturna, da cui era difficile cavare qualcosa di sensato. Del suo pigionale non poté dirmi nulla di particolarmente nuovo.
Secondo le sue parole, egli non faceva quasi mai niente e per mesi non apriva un libro e non pigliava la penna in mano; in cambio passava nottate intere a camminare su e giù per la camera pensando sempre a qualche cosa e a volte parlando anche con se stesso; aveva voluto un gran bene alla sua nipotina, Katia, e la trattava con molta amorevolezza, specialmente dopo aver saputo che si chiamava Katia, e il giorno di Santa Caterina andava a far dire una messa funebre per qualcuno. Non poteva soffrire i visitatori; di casa usciva soltanto per insegnare ai bambini; guardava di traverso perfino lei, la vecchia, quando, una volta alla settimana, andava a fare solo un pochino d'ordine nella sua stanza, e non le aveva detto quasi mai neanche una parola, nel corso di tre buoni anni. Domandai a Katia se si ricordasse del suo maestro. Lei mi guardò in silenzio, poi si voltò verso il tramezzo e si mise a piangere. Dunque aveva pur potuto quell'uomo farsi amare da qualcuno.
Portai via le sue carte e per tutto un giorno le sfogliai. Tre quarti di quei fogli erano futili, insignificanti brandelli di carta o esercizi di scolari con modelli di calligrafia. Ma c'era lì anche un quadernetto abbastanza voluminoso, coperto di una scrittura minuta e non finito, forse abbandonato e dimenticato dall'autore stesso. Era una descrizione, sia pure scucita, della vita di lavori forzati sopportata per dieci anni da Aleksàndr Petrovic'. Qua e là questa descrizione era interrotta da non so quale altro racconto, da non so che strani, orribili ricordi, buttati giù in modo ineguale, febbrile, come per una qualche costrizione. Più di una volta rilessi questi brani e quasi mi convinsi che erano stati scritti in uno stato di follia. Ma le memorie dei lavori forzati - "Scene di una Casa Morta", come egli stesso le chiama in qualche punto del suo manoscritto - mi parvero non del tutto prive d'interesse. Un mondo assolutamente nuovo, fino ad ora ignorato, la stranezza di certi fatti, alcune particolari osservazioni sulla gente perduta mi trascinarono, e io ne lessi qualcosa con curiosità. S'intende che posso ingannarmi.
Per saggio, scelgo dapprima due o tre capitoli; giudichi il pubblico...
PARTE PRIMA
IL nostro reclusorio era situato all'estremità della fortezza, proprio accanto al bastione del forte. Se mai ti capitava di guardare il creato attraverso le fessure della palizzata, - chi sa che non si potesse scorgere qualcosa? - non vedevi se non un piccolo lembo di cielo e l'alto bastione di terra coperto di erbacce, mentre su e giù per il bastione, giorno e notte, passeggiavano le sentinelle; e subito pensavi che sarebbero trascorsi interi anni, e tu proprio cosi ti saresti ancora avvicinato a guardare per le fessure della palizzata e avresti visto quello stesso bastione, le stesse sentinelle e lo stesso piccolo lembo di cielo, non di quel cielo che sovrastava al reclusorio, ma di un altro, lontano, libero cielo. Immaginatevi un vasto cortile, di un duecento passi di lunghezza e centocinquanta circa di larghezza, tutto recinto all'intorno, in forma di esagono irregolare, da un'alta palizzata, cioè da uno steccato di alti pali, profondamente piantati ritti nel suolo, saldamente appoggiati l'uno all'altro coi fianchi, rafforzati da sbarre trasverse e aguzzati in cima: ecco la cinta esterna del reclusorio. In uno dei lati della cinta è incastrato un robusto portone, sempre chiuso, sempre sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle; lo si apriva a richiesta, per mandarci fuori al lavoro. Di là da questo portone c'era un luminoso, libero mondo e vivevano degli uomini come tutti. Ma da questa parte del recinto ci si immaginava quel mondo come una qualche impossibile fiaba.
Qui c'era un particolare mondo a sé, che non rassomigliava a nessun altro; qui c'erano delle leggi particolari, a sé, fogge di vestire a sé, usi e costumi a sé, e una casa morta, pur essendo viva, una vita come in nessun altro luogo, e uomini speciali. Ed ecco, è appunto questo speciale cantuccio che io mi accingo a descrivere.
Appena entrate nel recinto, vedete lì dentro alcune costruzioni.
Dai due lati del largo cortile interno si stendono due lunghi baraccamenti di legno a un piano. Sono le camerate. Qui vivono i detenuti, distribuiti per categorie. Poi, in fondo al recinto, un'altra baracca consimile: è la cucina, divisa in due corpi; più oltre ancora una costruzione dove, sotto un sol tetto, sono allogate le cantine, i magazzini, le rimesse. Il mezzo del cortile è vuoto e costituisce uno spiazzo piano, abbastanza vasto. Qui si schierano i reclusi, si fanno la verifica e l'appello al mattino, a mezzogiorno e a sera, e talora anche più volte durante il giorno, secondo la diffidenza delle guardie e la loro capacità di contare rapidamente. All'interno, tra le costruzioni e lo steccato, rimane ancora uno spazio abbastanza grande. Qui, dietro le costruzioni, taluni dei reclusi, più insocievoli e di carattere più tetro, amano camminare nelle ore libere dal lavoro, sottratti a tutti gli sguardi, e pensare a loro agio. Incontrandomi con essi durante queste passeggiate, mi piaceva osservare le loro facce arcigne, marchiate, e indovinare a che cosa pensassero. C'era un deportato la cui occupazione preferita, nelle ore libere, era contare i pali. Ce n'erano millecinquecento e per lui erano tutti contati e numerati. Ogni palo rappresentava per lui un giorno; ogni giorno egli conteggiava un palo di più e in tal modo, dal numero dei pali che gli rimanevano da contare, poteva vedere intuitivamente quanti giorni ancora gli restasse da passare nel reclusorio fino al termine dei lavori forzati. Era sinceramente lieto, quando arrivava alla fine di un lato dell'esagono. Gli toccava attendere ancora molti anni; ma nel reclusorio c'era il tempo di imparare la pazienza. Io vidi una volta come si congedò dai compagni un detenuto che aveva trascorso in galera venti anni e finalmente usciva in libertà. C'erano di quelli che ricordavano come egli fosse entrato nel reclusorio la prima volta, giovane, spensierato, senza pensare né al suo delitto, né alla sua punizione. Usciva vecchio canuto, con un viso arcigno e triste. In silenzio fece il giro di tutte le nostre sei camerate. Entrando in ciascuna di esse, pregava dinanzi all'immagine e poi si inchinava ai compagni profondamente, fino a terra, chiedendo che lo si ricordasse senza malanimo. Rammento pure come un giorno, verso sera, un detenuto, prima agiato contadino siberiano, fu chiamato al portone. Sei mesi avanti aveva ricevuto notizia che la sua ex- moglie aveva ripreso marito, e se ne era fortemente rattristato.
Ora lei stessa era venuta in vettura al reclusorio, lo aveva fatto chiamare e gli aveva messo in mano un obolo. Essi parlarono un paio di minuti, piansero un poco tutti e due e si salutarono per sempre. Io vidi il suo volto, mentre tornava nella camerata... Sì, in questo luogo si poteva imparare la pazienza.
Quando imbruniva, ci facevano rientrare tutti nelle baracche, dove ci rinchiudevano per l'intera notte. Per me era sempre penoso tornare dal cortile nella nostra camerata. Era un lungo, basso e soffocante stanzone, fiocamente rischiarato da candele di sego dall'odore greve, opprimente. Non capisco ora come ci sia vissuto per dieci anni. Sul tavolaccio avevo per me tre assi: era tutto il mio posto. E su questo tavolaccio erano distribuite, nella nostra camerata, una trentina di persone. D'inverno ci rinchiudevano per tempo; bisognava aspettare forse quattro ore, prima che tutti si fossero addormentati. E fino a quel momento, chiasso, baccano, sghignazzi, ingiurie, rumore di catene, acido carbonico e fuliggine, teste rase, facce marchiate, vestiti a brandelli, tutto fatto oggetto di ludibrio e di infamia... sì, grande è la vitalità dell'uomo! L'uomo è l'essere che a tutto si abitua, e io penso che sia questa la sua migliore definizione.
Si era nel reclusorio circa duecentocinquanta persone in tutto:
cifra quasi costante. Gli uni arrivavano, altri finivano il loro tempo e se ne andavano, altri ancora morivano. E che gente non c'era lì! Io credo che ogni provincia, ogni zona della Russia vi avesse i suoi rappresentanti. C'erano anche degli allogeni, c'erano fra i deportati perfino alcuni montanari caucasici. Tutta questa gente veniva suddivisa secondo il grado delle colpe e, di conseguenza, secondo il numero degli anni assegnati per il delitto. Bisognava supporre che non ci fosse delitto non rappresentato li dentro. Il grosso dell'intera popolazione del reclusorio era costituito dai deportati forzati della categoria civile (i galeotti "per forza" [1], come ingenuamente si esprimevano gli stessi detenuti). Questi erano delinquenti del tutto privati di qualsiasi diritto civile, brandelli recisi dalla società, col viso marchiato a perenne testimonianza del loro ripudio. Erano inviati ai lavori per un periodo da otto a dodici anni e poi spediti in qualche paese siberiano come coloni. C'erano delinquenti anche della categoria militare, non privi dei diritti civili, come, in genere, nelle compagnie russe militari di detenuti. Erano inviati lì per brevi periodi e, al termine di essi, rimandati là donde erano venuti, a fare il soldato nei battaglioni siberiani di linea. Molti di essi quasi subito tornavano indietro nel reclusorio per gravi recidive, ma non più per brevi periodi, bensì per venti anni. Questa categoria era detta "permanente". Ma i "permanenti" tuttavia non erano privati di ogni diritto civile. Infine c'era ancora una particolare categoria di delinquenti più temibili di tutti, in prevalenza militari, abbastanza numerosa. Essa si chiamava "sezione speciale". Da tutta la Russia si mandavano qua tali criminali.
Essi stessi si consideravano condannati a vita e ignoravano il termine dei loro lavori. Per legge, si potevano loro raddoppiare e triplicare i lavori da compiere. Erano tenuti nel reclusorio fino a che non si fossero aperti in Siberia i bagni penali più duri.
"Per voi la galera a tempo, per noi a vita", essi dicevano agli altri reclusi. Ho poi sentito dire che questa categoria era stata soppressa. Inoltre fu soppresso nel nostro reclusorio anche il reparto civile e istituita una compagnia comune di detenuti militari. S'intende che, insieme con ciò, fu cambiata anche la direzione. Io descrivo quindi un tempo lontano, cose passate e finite da un pezzo...
E' già lungo tempo che questo è accaduto; tutto ciò mi appare ora come in sogno. Ricordo come entrai nel reclusorio. Era di sera, nel mese di dicembre. Già imbruniva, gli uomini tornavano dal lavoro; si preparavano per la verifica. Un barbuto sottufficiale mi aprì finalmente la porta di questa strana casa in cui dovevo passare tanti anni e provare tante sensazioni, delle quali, senza averle sperimentate in realtà, non potrei avere un'idea nemmeno approssimativa. Per esempio, in nessuna maniera potrei figurarmi questo: che c'è di terribile e di tormentoso nel fatto che per tutti i dieci anni dei miei lavori forzati non sarò solo neanche una volta, neanche un minuto? Al lavoro sempre sotto scorta, dentro sempre con duecento compagni, e non una volta, non una volta solo! Del resto dovevo ancora abituarmi a ben altro!
C'erano lì assassini occasionali e assassini di mestiere, banditi e capi di banditi. C'erano semplici scrocconi e vagabondi, cavalieri d'industria e professionisti del furto. Ce n'erano anche di quelli per i quali era difficile rispondere al quesito: per che cosa mai sono potuti venir qui? E intanto ciascuno aveva la sua storia, torbida e greve, come i fumi del vino per la sbornia del giorno prima. Generalmente, del loro passato parlavano poco, non amavano raccontare e facevano visibili sforzi per non pensare all'accaduto. Io conoscevo tra loro perfino degli assassini tanto facili all'allegria, tanto incapaci di ogni riflessione, che si poteva scommettere che la coscienza non aveva mai rivolto loro un rimprovero. Ma c'erano anche dei visi tetri, quasi sempre silenziosi. In generale, era ben raro che qualcuno narrasse la propria vita, e poi anche la curiosità non era di moda, in certo qual modo non era negli usi, non era ammessa. Lì nessuno poteva far stupire nessuno. "Noi siamo gente istruita!", essi dicevano spesso, con una certa strana presunzione. Mi ricordo che una volta un bandito, brillo (ai lavori forzati qualche volta ci si può ubriacare), cominciò a raccontare come avesse sgozzato un bambino di cinque anni, come dapprima lo avesse adescato con un balocco, condotto in qualche posto, in una rimessa deserta, e là poi lo avesse sgozzato. Tutta la camerata, che fino a quel momento aveva riso delle sue barzellette, si mise a gridare come un sol uomo, e il bandito fu costretto a tacere; non per indignazione la camerata si era messa a gridare, ma così, perché DI QUESTO NON BISOGNAVA PARLARE, perché parlar DI QUESTO non era negli usi. Noterò in proposito che quella gente aveva in realtà un principio d'istruzione, e non in senso figurato, ma in senso letterale.
Certamente più della metà di loro sapevano leggere e scrivere. In quale altro luogo, dove il popolo russo si raccolga in grandi masse, potreste isolare un gruppo di duecentocinquanta persone, metà delle quali sappiano leggere e scrivere? Ho poi sentito dire che qualcuno da simili dati aveva voluto dedurre che l'istruzione rovina il popolo. Questo è un errore: qui ci sono tutt'altre cause, sebbene non si possa non convenire che l'istruzione sviluppa nel popolo la fiducia in se stesso. Ma questo non è punto un difetto. Le varie categorie si distinguevano dal vestire: gli uni avevano una metà della casacca di un bruno carico e l'altra grigia, come pure, nei calzoni, una gamba grigia e l'altra di un bruno scuro. Una volta, sul lavoro, una ragazzetta venditrice di panini, avvicinatasi ai detenuti, mi osservò a lungo e poi a un tratto scoppiò a ridere. "Oibò, come sta male!", gridò, "il panno grigio era scarso, e anche il panno nero era scarso!". C'erano pure di quelli che avevano tutta la casacca di solo panno bigio e soltanto le maniche scure. Anche la testa veniva rasa in modo diverso: agli uni metà del capo era rapata per il lungo del cranio, agli altri per traverso.
Fin dalla prima occhiata si poteva notare in tutta quella strana famiglia una certa pronunciata affinità; perfino le più spiccate, le più originali personalità, che involontariamente dominavano le altre, anche quelle cercavano di adeguarsi al tono comune dell'intero reclusorio. In generale poi dirò che tutta quella gente, con alcune poche eccezioni di persone inesauribilmente gaie, che per questo riscuotevano l'universale disprezzo, era gente tetra, invidiosa, millantatrice, permalosa e in sommo grado formalista. La capacità di non meravigliarsi di nulla era somma virtù. Tutti avevano questa fissazione: come contenermi esteriormente? Ma non di rado l'aspetto più altezzoso si mutava con la rapidità del fulmine in quello più pusillanime. C'erano alcuni uomini veramente forti; quelli erano semplici e non posavano. Una cosa strana: fra questi veri, forti uomini ce n'erano alcuni vanitosi all'estremo, quasi fino alla malattia. In genere la vanità e l'esteriorità stavano in primo piano. La maggioranza era corrotta e tremendamente incanagliata. I pettegolezzi e le maldicenze non cessavano mai: era quella una bolgia, un inferno. Ma ai regolamenti interni e agli usi invalsi nel reclusorio nessuno osava ribellarsi; tutti vi s'inchinavano.
C'erano dei caratteri fortemente spiccati che si sottomettevano con difficoltà, con sforzo, ma tuttavia si sottomettevano.
Giungevano al reclusorio dei tali che in libertà anche troppo si erano sbrigliati, troppo avevano ecceduto la misura, tanto che anche i loro delitti li avevano commessi, alla fine, come fuori di sé, come non sapendo essi stessi perché, come in un delirio, in uno stato di ebrietà; spesso per una vanità eccitata al più alto grado. Ma da noi subito li mettevano al passo, nonostante che taluni, prima dell'arrivo al reclusorio, fossero stati il terrore d'intere borgate e città. Guardatosi attorno, il novellino ben presto si accorgeva di non essere capitato dov'egli pensava, che lì non c'era nessuno da far stupire, e infallibilmente si acquietava e si uniformava al tono generale. Questo tono generale consisteva esteriormente in una certa speciale, particolare dignità, di cui era penetrato quasi ogni abitante del reclusorio.
Come se realmente la qualità di forzato, di condannato costituisse un qualche grado, e per giunta onorifico. Nessun segno di vergogna o di pentimento! Del resto c'era anche un certo acquietamento esteriore, per così dire, ufficiale, una certa tranquilla abitudine ragionatrice: "Noi siamo gente perduta", essi dicevano, "non hai saputo vivere in libertà, ora assaggia la strada verde, passa in rivista le file" [2]. "Non obbedisti a padre e madre, obbedisci ora a una pelle di tamburo". "Non volesti ricamare, ora batti le pietre col martello". Tutto questo si diceva spesso, a mo' di sermone e nella forma dei soliti adagi e proverbi, ma mai seriamente. Tutte queste erano soltanto parole. Era ben difficile che uno di loro riconoscesse nell'intimo la propria iniquità. Se qualcuno dei non forzati si fosse provato a rinfacciare a un detenuto il suo delitto, a redarguirlo (benché del resto non sia nello spirito russo di rimbrottare il delinquente), gli improperi non avrebbero più avuto fine. E che maestri dell'ingiuria erano tutti! Ingiuriavano in modo raffinato, artistico. L'ingiuria era presso di loro eretta a scienza; cercavano di colpire non tanto con la parola offensiva quanto col significato offensivo, con lo spirito, con l'idea, e questo è più raffinato, più velenoso. Gli ininterrotti alterchi ancora più sviluppavano fra loro questa scienza. Tutta quella gente lavorava sotto il bastone, per conseguenza era amante dell'ozio, per conseguenza si pervertiva; anche se prima non era pervertita, si pervertiva in galera. Essi tutti non si erano raccolti li per volontà propria; essi tutti erano estranei l'uno all'altro.
"Il diavolo ha consumato tre paia di scarpe, prima di riunirci in mucchio", dicevano essi stessi di sé; perciò i pettegolezzi, gli intrighi, le calunnie donnesche, l'invidia, i battibecchi, il malanimo erano sempre al primo posto in quella vita d'inferno.
Nessuna comare avrebbe potuto essere tanto comare quanto taluni di quegli assassini. Lo ripeto, c'erano fra loro anche degli uomini forti, dei caratteri avvezzi in tutta la vita loro a schiantare e a comandare, temprati a fuoco, impavidi. Costoro erano involontariamente rispettati; essi poi, dal canto loro, pur essendo gelosissimi della propria fama, in generale cercavano di non essere di peso agli altri, non si abbandonavano a vane contumelie, si comportavano con non comune dignità, erano giudiziosi e quasi sempre obbedienti ai superiori, non per principio, non per consapevolezza dei loro doveri, ma così, come per una specie di contratto, avendo acquistato coscienza dei reciproci vantaggi. Del resto anche con loro si procedeva cautamente. Ricordo che uno di tali detenuti, un uomo intrepido e risoluto, noto ai superiori per le sue tendenze bestiali, fu una volta, per non so quale colpa, chiamato a subire il castigo. Era una giornata estiva, un'ora in cui non si lavorava. L'ufficiale superiore, prossimo e immediato capo del reclusorio, arrivò in persona al corpo di guardia, che era proprio accanto al nostro portone, per assistere al castigo. Questo maggiore era per i detenuti una specie di essere fatale; li aveva ridotti al punto che di lui avevano paura. Era severo fino alla demenza, "si gettava sulle persone", come dicevano i forzati. Più di tutto essi paventavano in lui il suo sguardo penetrante, linceo, a cui nulla si poteva nascondere. Egli vedeva, in certo qual modo, senza guardare. Entrando nel reclusorio, già sapeva che cosa si facesse all'altro capo di esso. I detenuti lo chiamavano "Ottocchi". Il suo sistema era sbagliato. Egli non faceva che inasprire coi suoi atti furiosi, cattivi, della gente già inasprita, e se sopra di lui non ci fosse stato il comandante, persona nobile e giudiziosa, che a volte mitigava le sue selvagge trovate, egli avrebbe combinato con la sua direzione un mucchio di guai. Non capisco come abbia potuto finire bene; andò in congedo sano e salvo, pur essendo stato mandato sotto processo.
Il detenuto impallidì, quando lo chiamarono ad alta voce. Di solito egli si stendeva in silenzio e con fare risoluto sotto le verghe, in silenzio sopportava la punizione e, dopo la punizione, si alzava come se nulla fosse stato, considerando a sangue freddo e filosoficamente l'infortunio toccatogli. Con lui del resto agivano sempre cautamente. Ma questa volta egli credeva per qualche motivo di aver ragione. Impallidì e, di nascosto alla scorta, riuscì a cacciarsi nella manica un aguzzo coltello inglese da calzolaio. I coltelli e ogni sorta di arnesi acuminati erano inflessibilmente proibiti nel reclusorio. Le perquisizioni erano frequenti, inattese e fatte sul serio, i castighi crudeli; ma poiché è difficile scovare una cosa, quando il ladro ha deciso di nasconderla in modo speciale, e poiché coltelli e arnesi erano nel carcere una necessità quotidiana,così, nonostante le perquisizioni, non scomparivano. E anche se venivano tolti, ne spuntavano dei nuovi. Tutti i forzati si erano precipitati verso lo steccato e, col cuore sospeso, guardavano per le fessure tra i pali. Tutti sapevano che Petròv quella volta non voleva stendersi sotto le verghe e che per il maggiore era giunta la fine. Ma proprio nel momento decisivo il nostro maggiore montò sul carrozzino e partì, dopo avere affidato l'esecuzione a un altro ufficiale. "Dio stesso l'ha salvato!", dicevano poi i detenuti.
Per quanto riguarda Petròv, egli subì il castigo tranquillissimamente. La sua collera era passata con la partenza del maggiore. Il detenuto è obbediente e docile fino a un certo punto; ma c'è un limite che non bisogna oltrepassare. A proposito:
non c'è nulla di più curioso di questi strani scatti d'impazienza e di rivolta. Spesso un uomo sopporta per alcuni anni, si placa, subisce i più crudeli castighi, e tutt'a un tratto esplode per una qualche piccolezza, per una qualche bazzecola, quasi per nulla.
Sotto un certo aspetto lo si può perfino chiamare pazzo, e così si fa.
Ho già detto che nel corso di più anni non ho veduto mai fra quella gente né il minimo segno di pentimento, né la minima contrita meditazione sul proprio delitto, e che la maggior parte di loro crede nell'intimo di avere assolutamente ragione. Questo è un fatto. Certo, la vanità, i cattivi esempi, la baldanza, una falsa vergogna ne sono, in gran parte, la causa. D'altro lato, chi può dire di avere esplorato il fondo di quei cuori perduti e di averci letto ciò che è celato al mondo intero? Eppure si sarebbe potuto, in tanti anni, almeno notare qualcosa, cogliere, sorprendere in quei cuori almeno un qualche tratto che attestasse l'intima angoscia, la sofferenza. Ma questo non mi è accaduto, non mi è assolutamente accaduto. Sì, il delitto, a quanto pare, non può essere concepito da punti di vista fissi, bell'e pronti, e la sua filosofia è alquanto più difficile che non si supponga. Certo, i reclusori e il sistema dei lavori coatti non correggono il delinquente; essi lo puniscono soltanto e preservano la società da ulteriori attentati del malfattore alla sua sicurezza. Nel delinquente poi il reclusorio e i lavori forzati più intensi non sviluppano altro che l'odio, la sete dei piaceri proibiti e una terribile spensieratezza. Ma io sono fermamente convinto che il famoso sistema cellulare raggiunge soltanto uno scopo sbagliato, illusorio, esteriore. Esso succhia all'uomo la linfa vitale, gli snerva l'anima, la indebolisce, la sbigottisce, e poi presenta una mummia moralmente rinsecchita, un mezzo pazzo come un modello di correzione e di pentimento. Certo, il delinquente, che è insorto contro la società, la odia e quasi sempre stima sé nel giusto e lei nel torto. Inoltre egli ne ha già ricevuto il castigo e, grazie a ciò, quasi si considera purificato, sdebitato. Si può giudicare infine, da tali punti di vista, che quasi quasi sia da giustificare lo stesso delinquente. Ma, nonostante ogni possibile punto di vista, ognuno consentirà che ci sono dei delitti che sempre e dappertutto, secondo tutte le leggi possibili, fin dal principio del mondo si sono stimati incontestabili delitti e tali si stimeranno fino a che l'uomo rimarrà uomo. Soltanto nel reclusorio ho udito dei racconti sulle più spaventose, più innaturali azioni, sui più spaventosi, più mostruosi assassinii, narrati fra le risate più incontenibili, più infantilmente allegre. In particolare non mi esce di mente un parricida. Era di famiglia nobile, faceva l'ufficiale, ed era, nella casa del proprio padre settantenne, qualcosa come un figliuol prodigo. La sua condotta era assolutamente scapestrata, si era sprofondato nei debiti. Il padre lo limitava, lo esortava; ma il padre aveva una casa, aveva una cascina, lo si sospettava danaroso, e il figlio lo uccise, per cupidigia dell'eredità. Il delitto non fu scoperto che dopo un mese. Lo stesso assassino denunciò alla polizia che suo padre era scomparso chi sa dove. Tutto quel mese l'aveva trascorso nel modo più depravato. Finalmente, in sua assenza, la polizia trovò il cadavere. Nel cortile, per tutta la sua lunghezza, passava un fosso per lo scolo delle acque immonde, coperto di assi. Il corpo giaceva in questo fosso. Era vestito e azzimato, la testa canuta era stata recisa e appoggiata al busto, e sotto la testa l'omicida aveva messo un cuscino. Egli non confessò; fu privato della nobiltà, del grado e inviato ai lavori forzati per venti anni. In tutto il tempo che io rimasi con lui, egli fu sempre di eccellente, giovialissimo umore. Era un uomo in sommo grado scapato, sventato, irriflessivo, benché niente affatto sciocco. Mai ebbi a notare in lui una qualche speciale crudeltà. I detenuti lo disprezzavano non per il suo delitto, di cui non restava più nemmeno il ricordo, ma per la sua stravaganza, perché non sapeva comportarsi. Nelle conversazioni qualche volta accennava a suo padre. Un giorno, parlando con me della sana costituzione ereditaria nella loro famiglia, soggiunse: "Ecco, IL MIO GENITORE, quello fin proprio alla sua fine non si lagnò mai di alcuna malattia". Una così bestiale insensibilità naturalmente è inconcepibile. E' un fenomeno; qui c'è un qualche difetto di costituzione, una qualche mostruosità fisica e morale, ancora ignota alla scienza, e non un semplice delitto. S'intende che a questo delitto io non avevo creduto. Ma persone della sua città, che dovevano conoscere ogni particolare della sua storia, mi raccontarono tutta la faccenda. I fatti erano talmente chiari che era impossibile non credere.
I detenuti l'avevano udito una volta, di notte, gridare nel sonno:
"Tienilo, tienilo! Tagliagli la testa, la testa la testa!".
Quasi tutti i detenuti parlavano di notte e deliravano. Ingiurie, parole del gergo, coltelli e accette erano ciò che più spesso veniva loro sulla lingua nel delirio.
"Noi siamo gente battuta", dicevano, "il nostro interno è fracassato, è per questo che gridiamo di notte".
Il lavoro coatto dei forzati per il governo non era un'occupazione, ma un obbligo: i detenuti finivano il compito loro fissato o terminavano le ore di lavoro prescritte, poi tornavano nel reclusorio. Il lavoro lo consideravano con odio. Senza una sua propria, particolare occupazione, a cui dedicarsi con tutta la sua intelligenza, con tutto il suo spirito calcolatore, l'uomo nel carcere non potrebbe vivere. E in che modo tutta quella gente, gente sveglia, che intensamente era vissuta e desiderava vivere, raccolta colà a forza in un sol mucchio, strappata a forza alla società e alla vita normale, avrebbe potuto acclimatarsi lì in modo normale e regolare, di sua propria volontà e inclinazione?
Già solo a causa dell'ozio si sarebbero lì sviluppate in lei delle qualità criminali di cui prima non aveva nemmeno l'idea. Senza il lavoro e senza una legittima, normale proprietà, l'uomo non può vivere, si deprava, si trasforma in un bruto. E perciò ciascuno nel reclusorio, per effetto di un naturale bisogno e di un certo senso di autoconservazione, aveva la sua arte e la sua occupazione. La lunga giornata estiva era quasi per intero riempita dal lavoro governativo; nella breve notte c'era a mala pena il tempo di dormire a sazietà. Ma d'inverno il detenuto, secondo il regolamento, appena imbruniva, doveva già essere chiuso nel carcere. Ma che fare nelle lunghe, noiose ore delle sere invernali? Perciò quasi ogni camerata, nonostante il divieto, si convertiva in un enorme laboratorio. Propriamente il lavoro, l'occupazione non erano vietati; ma era severamente vietato di avere presso di sé, nel reclusorio, degli arnesi, e senza di essi il lavoro era impossibile. Ma si lavorava alla chetichella e, a quanto pare, la direzione in certi casi non guardava troppo per il sottile. Dei detenuti, molti giungevano nel carcere che non sapevano far nulla, ma imparavano dagli altri e poi uscivano in libertà buoni artigiani. C'erano lì e calzolai, e ciabattini, e sarti, e falegnami, e magnani, e intagliatori, e indoratori. C'era un ebreo, Issàj Bumstejn, gioielliere, che era anche strozzino.
Tutti lavoravano e guadagnavano qualche soldo. Le ordinazioni si avevano dalla città. Il denaro è libertà monetata, perciò all'uomo totalmente privato della libertà è dieci volte più caro. Purché esso gli tintinni in tasca, egli è già mezzo consolato, anche se non possa spenderlo. Ma il denaro si può spendere sempre e dappertutto, tanto più che il frutto proibito è doppiamente dolce.
E nel reclusorio si poteva avere perfino l'acquavite. Le pipe erano rigorosamente vietate, ma tutti le fumavano. Denaro e tabacco salvavano dallo scorbuto e da altre malattie. Il lavoro poi salvava dai delitti: senza il lavoro, i detenuti si sarebbero mangiati a vicenda, come ragni in un barattolo. Ciò nonostante, sia il lavoro, sia il denaro erano proibiti. Non di rado la notte si facevano improvvise perquisizioni, tutto ciò che era vietato veniva tolto e, per quanto bene si nascondesse il denaro, tuttavia qualche volta capitava in mano ai perquisitori. Ecco, in parte, perché non veniva risparmiato, ma bevuto in breve tempo; ecco perché nel reclusorio circolava anche l'acquavite. Dopo ogni perquisizione, il colpevole, oltre che venir privato di tutto il suo avere, era di solito gravemente punito. Ma, dopo ogni perquisizione, subito si ricolmavano i vuoti, immediatamente circolavano nuovi oggetti, e tutto andava come prima. E la direzione lo sapeva, e i detenuti non si lagnavano delle punizioni, benché tale vita fosse simile a quella della gente stabilita sul Vesuvio.
Chi non aveva un'arte trafficava in altra maniera. C'erano dei metodi abbastanza originali. Taluni, per esempio, non facevano che gli accaparratori, e a volte si vendevano tali cose che a nessuno, fuori del reclusorio, sarebbe potuto venire in mente non solo di comprarle e di venderle, ma nemmeno di considerarle come cose. Ma il reclusorio era poverissimo e oltremodo industrioso. L'ultimo degli stracci aveva un prezzo assai alto e andava bene per un qualche uso. Ma, data la povertà, anche il denaro aveva nel carcere un valore ben diverso che in libertà. Per un grande e complesso lavoro si pagavano dei centesimi. Taluni si dedicavano con fortuna all'usura. Il detenuto che si era indebitato o rovinato portava le sue ultime cose all'usuraio e ne riceveva qualche moneta di rame, a tassi spaventosi. Se non riscattava quegli oggetti in tempo, essi venivano improrogabilmente e spietatamente venduti; lo strozzinaggio prosperava a tal punto che si accettavano in pegno perfino i capi di corredo governativi, come: biancheria, calzature eccetera, cose indispensabili a ogni detenuto in ogni momento. Ma in tali pignoramenti accadeva anche che la faccenda prendesse un'altra piega, non del tutto inattesa del resto: il pignorante che aveva ricevuto il denaro andava immediatamente, senz'altri discorsi, dal sottufficiale anziano, che era nel reclusorio il superiore immediato, a denunciargli il pegno dei capi di corredo, e questi subito venivano ritolti allo strozzino, senza che nemmeno si facesse rapporto all'autorità superiore. E' curioso che ciò avveniva a volte senza alcun litigio: lo strozzino restituiva, silenzioso e torvo, quel che bisognava e pareva perfino aspettarsi egli stesso che così sarebbe stato. Forse non poteva non riconoscere dentro di sé che, al posto del pignorante, anche lui avrebbe fatto lo stesso. E perciò se qualche volta poi imprecava, lo faceva senza malanimo, ma soltanto così, a scarico di coscienza.
In generale, tutti si derubavano l'un l'altro a gran forza. Quasi tutti avevano la loro cassetta con serratura per custodire le cose del governo. Questo era consentito, ma le cassette non giovavano.
Ci si può immaginare, io credo, quali abili ladri ci fossero là. A me un detenuto, un uomo che mi era sinceramente devoto (lo dico senza esagerazione alcuna), mi rubò la Bibbia, unico libro che fosse concesso di tenere nel reclusorio; quello stesso giorno egli me lo confessò da sé, non per pentimento, ma per compassione, perché io l'avevo cercata a lungo. C'erano dei cantinieri che vendevano acquavite e si arricchivano rapidamente. Di questa vendita dirò un giorno o l'altro in modo speciale; essa è abbastanza singolare. Nel carcere c'erano molti venuti lì per contrabbando, e perciò non c'è da meravigliarsi che, pur con tali verifiche e scorte armate, si introducesse nel reclusorio dell'acquavite. A proposito: il contrabbando è, per il suo carattere, un delitto in certo qual modo speciale. Ci ci può immaginare, per esempio, che il denaro, il guadagno rappresentino, per certi contrabbandieri, solo una parte secondaria, vengano in seconda linea? Eppure suole essere proprio così.Il contrabbandiere lavora per passione, per vocazione. E' un poco poeta. Egli arrischia tutto, va incontro a un tremendo pericolo, gioca di astuzia, inventa, si cava d'impiccio; a volte agisce finanche per una sorta d'ispirazione. E' una passione tanto forte quanto il giocare a carte. Io conoscevo nel reclusorio un detenuto, esteriormente un colosso, ma tanto mite, quieto, umile, che era impossibile figurarsi in qual modo fosse venuto a trovarsi in carcere. Era dolce e accomodante a tal segno che, in tutto il tempo della sua permanenza nel reclusorio, non litigò mai con alcuno. Ma egli era della zona di confine occidentale, era venuto lì per contrabbando e, naturalmente, non aveva saputo resistere e si era dato a portar dentro acquavite. Quante volte l'avevano punito per questo e come temeva le verghe! E poi la stessa introduzione dell'acquavite gli fruttava i guadagni più irrisori.
Con l'acquavite si arricchiva soltanto l'appaltatore. Quel bel tipo amava l'arte per l'arte. Era piagnucoloso come una donnetta, e quante volte, dopo il castigo, giurava e spergiurava di non far più contrabbando! A volte si dominava eroicamente per tutto un mese, ma alla fine tuttavia non poteva resistere... Grazie a queste persone appunto l'acquavite non scarseggiava nel reclusorio.
Infine c'era ancora un altro reddito che, sebbene non arricchisse i detenuti, era però continuativo e benefico. Era l'elemosina. La classe superiore della nostra società non ha idea di come si diano pensiero dei "disgraziati" i mercanti, i piccoli borghesi e tutto il nostro popolo. L'elemosina è quasi ininterrotta e quasi sempre consiste in pane, pagnottelle e panini a ciambella, molto più di rado in denaro. Senza queste elemosine, in molti luoghi, per i detenuti, specialmente per i giudicabili, che sono trattati ben più severamente dei condannati, sarebbe troppo difficile vivere.
L'elemosina viene religiosamente divisa dai detenuti in parti uguali. Se non ce n'è abbastanza per tutti, i panini si tagliano in uguali porzioni, a volte perfino sei, e ogni recluso infallibilmente riceve il suo pezzetto. Ricordo come io, la prima volta, ricevetti la carità in denaro. Fu poco dopo il mio arrivo al reclusorio. Tornavo, solo, dal lavoro mattutino col soldato di scorta. Mi venne incontro una madre con la figlia, una bambina sui dieci anni, graziosa come un angioletto. L'avevo già vista una volta. La madre era la vedova di un soldato. Suo marito, un giovane soldato, era stato sotto processo ed era morto all'infermeria nella corsia dei detenuti, al tempo in cui anch'io vi giacevo ammalato. Moglie e figlia erano venute a salutarlo; entrambe piangevano dirottamente. Vedutomi, la bambina arrossì, bisbigliò qualcosa alla madre - questa subito si fermò, cercò nel borsellino un quarto di copeca e lo diede alla bimba, che si mise a correre per raggiungermi. - To', "disgraziato", prendi per amor di Cristo! - gridava correndomi dinanzi e ficcandomi in mano la monetina. Io la presi, e la bambina tornò verso la madre tutta contenta. Questa copeca la conservai a lungo su di me.
Il primo mese e, in genere, l'inizio della mia vita di recluso si presentano ora al vivo alla mia immaginazione. I miei successivi anni di reclusorio mi balenano nel ricordo molto più confusamente.
Taluni di essi sono come sbiaditi del tutto, si sono fusi tra loro lasciando dietro di sé una sola, omogenea impressione: greve, uniforme, opprimente.
Ma tutto ciò che io provai nei primi giorni dei miei lavori forzati mi si presenta ora come se fosse accaduto ieri. E così dev'essere.
Ricordo chiaramente che, fin dal primo passo compiuto in questa vita, mi colpì il fatto di non aver trovato in essa, così mi parve, nulla di particolarmente impressionante, d'insolito o, per dir meglio, d'inatteso. Era come se anche prima tutto ciò mi fosse già balenato dinanzi nell'immaginazione, quando io, andando in Siberia, cercavo di indovinare anticipatamente la mia sorte. Ma ben presto una caterva dei più strani imprevisti, dei fatti più mostruosi incominciò ad arrestarmi quasi a ogni passo. E soltanto in seguito, dopo esser vissuto già abbastanza a lungo nel reclusorio, concepii appieno tutta l'eccezionalità, tutto l'imprevisto di una simile esistenza, e me ne meravigliai sempre di più. Confesso che questa meraviglia mi accompagnò in tutto il lungo periodo dei miei lavori forzati; io non ho mai potuto rassegnarmici.
La mia prima impressione, entrando nel carcere, fu in generale la più repellente, ma ciò nonostante - cosa strana! - mi parve che vivere nel reclusorio fosse molto più facile di quanto mi ero immaginato durante il viaggio. I detenuti, sia pure coi ferri ai piedi, giravano liberamente per tutto il carcere, si ingiuriavano, cantavano canzoni, lavoravano per sé, fumavano la pipa, bevevano perfino acquavite (benché pochissimi), e di notte taluni si mettevano a giocare a carte. Per se stesso, il lavoro, ad esempio, non mi sembrò affatto così pesante, così da galera, e solo un bel pezzo dopo intuii che la gravosità da galera di quel lavoro non stava tanto nella sua difficoltà e continuità quanto nel fatto di essere coattivo, obbligatorio, eseguito sotto il bastone. Il contadino in libertà lavora magari senza confronto di più, a volte perfino la notte, specialmente d'estate; ma lavora per se stesso, lavora con uno scopo ragionevole, ed egli si sente incomparabilmente meglio del forzato nel suo lavoro coatto e per lui del tutto inutile. Una volta mi venne da pensare che, se si fosse voluto totalmente schiacciare, annientare un uomo, punirlo col castigo più orrendo, tanto che il più efferato assassino dovesse tremarne e anticipatamente averne spavento, sarebbe bastato soltanto conferire al lavoro il carattere di una perfetta, assoluta inutilità e assurdità. Se l'odierno lavoro forzato è senza interesse e noioso per il galeotto, in se stesso però, come lavoro, è assennato: il detenuto fa dei mattoni, scava la terra, fa lo stuccatore, costruisce; in questo lavoro c'è un senso e uno scopo. Il forzato a volte ci si infervora persino, vuole eseguirlo con più abilità, in modo migliore. Ma se lo si costringesse, per esempio, a travasare dell'acqua da un tino in un altro e viceversa, io credo che il detenuto dopo pochi giorni si impiccherebbe o commetterebbe un migliaio di delitti, pur di morire, ma uscire da una simile umiliazione, vergogna e tortura.
S'intende che un tale castigo si trasformerebbe in un supplizio, in una vendetta, e sarebbe assurdo, perché non conseguirebbe alcun fine ragionevole. Ma poiché una parte di tale tortura, assurdità, umiliazione e vergogna c'è inevitabilmente anche in ogni lavoro coatto, così anche il lavoro forzato è senza paragone più tormentoso di quello libero, appunto perché coatto.
Del resto io entrai nel reclusorio d'inverno, nel mese di dicembre, e non avevo ancora un'idea del lavoro estivo, cinque volte più gravoso. D'inverno poi, nel nostro forte, di lavori governativi in genere ce n'erano pochi. I detenuti andavano sull'Irtis a demolire i vecchi barconi demaniali, lavoravano nei laboratori, spalavano presso le costruzioni governative la neve ammonticchiata dalla tormenta, cuocevano e pestavano l'alabastro eccetera. La giornata invernale era corta, il lavoro terminava rapidamente e tutta la nostra gente tornava presto nel reclusorio, dove non avrebbe avuto quasi nulla da fare, se non le fosse capitato qualche lavoro suo personale. Ma di lavoro per conto proprio si occupavano forse appena un terzo dei detenuti, gli altri stavano con le mani in mano, girellavano senza necessità per tutte le camerate del carcere, s'ingiuriavano, tessevano fra loro intrighi e pettegolezzi, si ubriacavano, se venivano a trovarsi con un po' di denaro; di notte perdevano, giocando a carte, l'ultima camicia, e tutto questo per la noia, l'oziosità e il non saper che fare. In seguito capii che, oltre la privazione della libertà, oltre il lavoro coatto, nella vita del reclusorio c'è un altro tormento, quasi quasi più forte di tutti gli altri. E' questo la convivenza obbligatoria generale. La convivenza generale, certo, esiste anche in altri luoghi, ma nel reclusorio arrivano tali persone che non tutti vorrebbero affiatarsi con esse, e io sono sicuro che ogni forzato sentiva questo tormento, sebbene, certamente, per lo più senza averne coscienza.
Anche il vitto mi parve abbastanza soddisfacente. I reclusi assicuravano che tale non era nelle compagnie di detenuti della Russia Europea. Su questo non mi attento a giudicare: non ci sono stato. Inoltre molti avevano la possibilità di un vitto proprio.
La carne di manzo costava da noi mezza copeca per libbra, d'estate tre copeche. Ma si procuravano un vitto proprio soltanto coloro a cui non mancava mai il denaro; la maggioranza dei forzati invece mangiava quello governativo. Del resto i detenuti, lodando il nostro vitto, parlavano unicamente del pane e benedicevano appunto il fatto che da noi il pane fosse in comune e non venisse assegnato a peso. Quest'ultimo sistema li atterriva: con un'assegnazione a peso, un terzo degli uomini sarebbe stato affamato; nella comunità di lavoro invece ce n'era per tutti. Il nostro pane era, non so come, particolarmente gustoso e per questo, rinomato in tutta la città. Si attribuiva ciò alla felice costruzione dei forni del reclusorio. La minestra di cavoli invece era molto scadente. Si faceva cuocere in un calderone comune, si ammanniva con un po' di semolino e, specialmente nei giorni feriali, era liquida, rada. Mi inorridì l'enorme quantità di scarafaggi che c'erano dentro. Ma i detenuti a questo non badavano punto.
Nei primi tre giorni non andai al lavoro; così si faceva con ogni nuovo arrivato: lo si lasciava riposare dal viaggio. Ma fin dal giorno seguente mi toccò uscire dal reclusorio per riferrarmi. I miei ferri non erano regolamentari, erano fatti di anelli poco "squillanti", come dicevano i detenuti. Si portavano esternamente.
Invece i ferri regolamentari del reclusorio, adattati per il lavoro, erano composti non di anelli, ma di quattro bacchettine di ferro, dello spessore di un dito, unite tra loro da tre anelli. Si dovevano portare sotto i calzoni. All'anello di mezzo era legata una cinghia che, a sua volta, si fissava alla cinghia della cintola, sovrapposta direttamente alla camicia.
Ricordo la mia prima mattina in camerata. Al corpo di guardia presso il portone del reclusorio il tamburo aveva suonato la sveglia e, dopo una diecina di minuti, l'ufficiale di guardia incominciò ad aprire le camerate. I detenuti presero a svegliarsi.
Al fioco lume di una candela di sego da sei per libbra essi si sollevavano, tremanti di freddo, dai loro tavolacci. Molti erano taciturni e tetri dal sonno. Sbadigliavano stirandosi e corrugavano le loro fronti marchiate. Taluni si segnavano, altri già si mettevano a litigare. L'afa era spaventosa. L'aria fresca invernale irruppe nella porta, appena l'aprirono, e corse per la camerata formando turbini di vapore. Presso i secchi dell'acqua si affollarono i detenuti; essi pigliavano a turno la mestola, si riempivano la bocca di acqua e si lavavano mani e viso versandola dalla bocca. L'acqua era stata preparata fin dalla sera dai battipaglia. In ciascuna camerata, secondo il regolamento, c'era un detenuto, scelto dalla comunità, per fare i servizi. Era detto battipaglia e non andava al lavoro. La sua occupazione consisteva nel curare la pulizia della camerata, nel lavare e piallare i tavolacci e i pavimenti, nel portar dentro e fuori i bigonci notturni e nel procurare acqua fresca in due secchi: al mattino per lavarsi e di giorno per bere. Per la mestola, che era unica, incominciavano immediatamente gli alterchi.
- Dove ti cacci, fronte sbarrata! - brontolava un detenuto arcigno, alto, scarno e abbronzato, con una certa strana prominenza sul cranio raso, urtandone un altro grasso e tarchiato, dal viso allegro e colorito, - sosta un momento!
- Che hai da gridare! Per la sosta da noi si pagano quattrini; alza i tacchi, tu ! To', si è stirato il monumento. Si vede, fratelli, che stroppiature non ce n'ha.
Quello "stroppiature" produsse un certo effetto: molti risero. Non ci voleva che questo per il grassone allegro, che, evidentemente, era nella camerata qualcosa come un buffone volontario. Il detenuto alto lo guardò col più profondo disprezzo.
- Vacca gingillina! - egli pronunciò come tra sé, - guarda un po' come s'è imbuzzato col pane bianco del reclusorio! E' contento che per la fine del digiuno metterà al mondo dodici porcellini.
- E tu che grosso uccello sei? - gridò l'altro facendosi improvvisamente tutto rosso.
- Proprio così, un grosso uccello!
- Quale?
- Tal e quale.
- Come tal e quale?
- Ma sì, in una parola, tal e quale.
- Ma quale?
Essi si piantarono gli occhi addosso a vicenda. Il grassone aspettava la risposta e stringeva i pugni, come se volesse subito azzuffarsi. E io credevo davvero che ci sarebbe stata una zuffa.
Per me tutto era nuovo e guardavo con curiosità. Ma appresi con l'andar del tempo che tutte le scene consimili erano oltremodo innocue e si rappresentavano, come in una commedia, per il divertimento di tutti; fino alla rissa però non si giungeva quasi mai. Tutto ciò era abbastanza caratteristico e denotava i costumi del reclusorio.
Il detenuto alto se ne stava calmo e maestoso. Sentiva che lo si guardava e che si attendeva di vedere se si sarebbe o no coperto di vergogna con la sua risposta; sentiva che bisognava tenersi su, dimostrare che egli era in realtà un "grosso uccello" e far vedere quale uccello precisamente. Con inesprimibile disprezzo egli sbirciò il suo avversario sforzandosi, per far maggiore l'offesa, di guardarlo come di sopra le spalle, dall'alto in basso , quasi lo esaminasse come si esamina un piccolo scarabeo, poi lentamente, nettamente proferì:
- "Kagàn" [3]!...
Cioè egli era l'uccello "kagàn". Una rumorosa salva di risate saluta la presenza di spirito del detenuto.
- Sei un furfante tu, e non un "kagàn"! - urlò il grassone, avendo sentito di essere stato battuto su tutta la linea, e piombando in un estremo furore.
Ma appena il litigio si fece serio, immediatamente i due bravacci furono richiamati all'ordine.
- Perché strepitate? - si mise a gridare contro dl loro l'intera camerata.
- Ma piuttosto picchiatevi, invece di sgolarvi, - gridò qualcuno da un angolo.
- Si, tienili, che si picchiano! - si udì in risposta. - Noi altri siamo gente in gamba e focosa; in sette non abbiamo paura di uno solo...
- Sono tutt'e due buoni. Uno è venuto al reclusorio per una libbra di pane e l'altro è una sgualdrina, l'ha scialata alle spalle di una donna, e in cambio ha dato mano al bastone.
- Via, via, via! - si mise a gridare l'invalido che viveva nella camerata per mantenervi l'ordine e perciò dormiva in un angolo su una branda a parte.
- Acqua, ragazzi! L'invalido Petrovic' s'è svegliato! Per l'invalido Petrovic', il caro fratellino!
- Fratello... Che fratello sono io per te? Un rublo insieme non lo abbiamo bevuto, e sarei tuo fratello! - borbottava l'invalido infilando le maniche del cappotto.
Ci si preparava per la verifica; cominciava ad albeggiare; in cucina si era ammucchiata una folla densa di gente, da non poterci passare. I detenuti facevano ressa, coi loro pellicciotti e i loro berretti metà e metà, davanti al pane che affettava per loro uno dei cuochi. I cuochi venivano eletti dalla comunità, due per ciascuna cucina. Ed essi serbavano presso di sé anche il coltello per tagliare il pane e la carne, uno solo per l'intera cucina.
In tutti gli angoli e intorno alle tavole si erano disposti i detenuti in berretti e pellicciotti, con una cintura alla vita, pronti per andare subito al lavoro. Davanti ad alcuni stavano delle ciotole di legno piene di "kvas" [4]. Nel "kvas" sminuzzavano il pane e lo mangiavano bevendo. Il baccano era insopportabile; ma certuni discorrevano assennatamente e a bassa voce negli angoli.
- Al vecchio Antonic', pane e sale [5], buon giorno! - disse un giovane detenuto sedendo accanto a un recluso accigliato e sdentato.
- Be', buon giorno, se non sfotti, - rispose l'altro, senza alzare gli occhi e cercando di abboccare il pane con le sue gengive senza denti.
- Ma sai, Antonic', io ti credevo morto, davvero.
- No, muori prima tu, e io poi...
Io sedetti accanto a loro. Alla mia destra discorrevano due detenuti posati sforzandosi visibilmente di conservare l'uno di fronte all'altro la propria gravità.
- A me è difficile che rubino, - diceva uno di essi; - temo piuttosto, fratello, di rubare io qualche cosa.
- Be', anche me non m'agguantare con la mano nuda: ti scotteresti.
- Ma che vuoi scottare! Sei anche tu un galeotto; un altro nome per noi non c'è... loro ti pigliano tutto e non ti dicono nemmeno grazie. Qui, fratello, sono sfumati anche i miei soldini. Poco tempo fa venne lui in persona. Dove ficcarli? Cominciai a pregare Fedka il boia: quello che aveva una casa nel sobborgo, e l'aveva comprata da Solomonka, l'ebreo rognoso, ecco, quello che poi s'impiccò.
- Lo so. Da noi due anni fa faceva il cantiniere, e il suo soprannome è Griska-bettola-scura. So.
- Vedi che non sai, è un'altra bettola scura.
- Come un'altra! Soltanto tu lo sai! Ma io ti porterò tanti di quei testimoni...
- Mi porterai! Tu di dove vieni, e io di dove sono?
- Di dove sei! Ma io ti ho già picchiato, e non mi vanto, e tu chiedi ancora di dove sei!
- Tu mi hai picchiato! Ma quello che picchierà me non è ancora nato, e chi mi ha picchiato, quello è sotto terra.
- Appestato che sei!
- Che ti prenda il carbonchio!
- Che tu abbia da fare con la sciabola turca!...
E giù contumelie.
- Su via, su via! Si sono messi a far baccano! - gridarono in giro. - In libertà non hanno saputo vivere; buon per loro che qui hanno trovato il pane bianco.
Subito si calmano. Di ingiuriarsi, di "picchiare" con la lingua è permesso. Questo è un po' un divertimento per tutti. Ma fino alla rissa non sempre li lasciano arrivare, e solo in qualche caso eccezionale gli avversari vengono alle mani. Sulla rissa si fa rapporto al maggiore; cominciano le perquisizioni, viene il maggiore in persona, insomma, andrà male per tutti, ed è per questo che non si permettono risse. E poi gli stessi nemici si insultano, più che altro, per passatempo, per esercizio di stile.
Non di rado ingannano se stessi, incominciano con terribile foga, con accanimento... pensi già che si avventeranno l'uno sull'altro; niente affatto: arrivano fino a un certo punto e di colpo si separano. Tutto ciò da principio mi riempiva di meraviglia. A bella posta ho citato qui un esempio dei più usuali dialoghi del reclusorio. Sulle prime non potevo immaginarmi come fosse possibile ingiuriarsi per diletto, trovarci uno svago, un grato esercizio, un piacere. Del resto non bisogna dimenticare nemmeno la vanità. L'ingiuriatore-dialettico era tenuto in gran concetto.
Mancava solo che lo applaudissero, come un attore.
Fin dalla sera del giorno prima mi ero accorto che mi guardavano di traverso.
Già avevo sorpreso alcuni sguardi cupi. Per contro, altri detenuti mi giravano intorno sospettando che avessi recato con me del denaro. Si fecero subito servizievoli: cominciarono a insegnarmi come portare i nuovi ferri ai piedi; mi procurarono, naturalmente per denaro, una cassetta con serratura per riporvi la roba governativa che già mi era stata data e alquanta mia biancheria che avevo portato nel reclusorio. Il giorno dopo me l'avevano già rubata e bevuta. Uno di essi mi si fece in seguito devotissimo, benché non cessasse di derubarmi a ogni occasione propizia. Egli faceva questo senza alcun turbamento, quasi inconsciamente, come per dovere, e contro di lui era impossibile adirarsi.
Tra l'altro, essi m'insegnarono che bisognava avere il proprio tè, che non avrei fatto male a provvedermi anche di una mia teiera, e intanto mi procurarono in prestito quella di un altro e mi raccomandarono il cuoco dicendo che per una trentina di copeche al mese mi avrebbe cucinato quel che mi garbava, se avessi desiderato mangiare a parte e comprarmi i viveri... S'intende che si fecero imprestare da me del denaro e ciascuno di loro soltanto nel primo giorno venne a farsene prestare due o tre volte.
Gli ex-nobili ai lavori forzati li guardano in generale con occhio torvo e malevolo.
Nonostante che quelli siano già privati di tutti i loro diritti civili e pienamente parificati agli altri detenuti, questi non li riconoscono mai per compagni. Ciò non avviene nemmeno per una prevenzione cosciente, ma così, in modo del tutto sincero, inconsapevole. Essi ci riconoscevano sinceramente per nobili, malgrado che loro stessi amassero poi punzecchiarci a proposito della nostra caduta.
- No, ora basta, alto là! Una volta Piotr scarrozzava per Mosca, ora Piotr intreccia corde, - e altre simili gentilezze.
Essi osservavano con compiacimento le nostre sofferenze, che noi ci sforzavamo di nasconder loro. Specialmente ci toccava il fatto nostro da principio sul lavoro, perché noi eravamo meno vigorosi e non potevamo aiutarli validamente. Non c'è nulla di più difficile che acquistare la fiducia del popolo (e particolarmente di simile gente) e meritarne l'affetto.
Ai lavori forzati c'erano parecchie persone di origine nobile. In primo luogo, quattro o cinque polacchi. Di essi dirò un giorno o l'altro a parte. I forzati detestavano i polacchi, ancor più dei deportati russi ex nobili. I polacchi (parlo dei soli delinquenti politici) erano con loro di una certa quale raffinata, offensiva cortesia, insocievoli all'estremo, e in nessun modo potevano nascondere ai detenuti la propria ripugnanza per essi, e quelli lo capivano assai bene e li ripagavano della stessa moneta.
A me è stato necessario passare quasi due anni nel reclusorio per acquistarmi la benevolenza di alcuni dei forzati. Ma la maggior parte di loro finalmente mi posero affezione e riconobbero in me una "brava" persona.
Di nobili russi, oltre me, ce n'erano quattro. Uno era una creatura bassa e vile, tremendamente depravata, spia e delatore di mestiere. Ne avevo udito parlare ancora prima di giungere al reclusorio e fin dai primi giorni ruppi con lui ogni rapporto. Un altro era quello stesso parricida di cui ho già parlato nelle mie memorie. Il terzo era Akim Akimic'; di rado avevo visto un originale come questo Akim Akimic'. Egli mi si impresse nettamente nella memoria. Era alto, magro, debole di mente, privo di ogni istruzione, straordinariamente sofistico e diligente come un tedesco. I forzati ridevano di lui, ma alcuni temevano perfino di averci a che fare per il suo carattere puntiglioso, esigente e attaccabrighe. Fin dal primo momento era diventato un loro pari, con loro scambiava ingiurie e si azzuffava perfino. Era onesto in modo incredibile. Se notava un'ingiustizia, subito s'impicciava, anche se non era affar suo. Ingenuo all'estremo: per esempio, altercando coi detenuti, li rimbrottava a volte perché erano ladri e li esortava seriamente a non rubare. Aveva prestato servizio nel Caucaso come tenente. Feci relazione con lui fin dal primo giorno, ed egli tosto mi raccontò la sua storia. Aveva cominciato a servire nel Caucaso, come sottufficiale nobile, in un reggimento di fanteria, aveva tirato a lungo la carretta e infine era stato promosso ufficiale e mandato in non so che fortificazione come capo anziano. Un principotto vicino, che si era sottomesso, incendiò il suo forte e compì contro di esso un attacco notturno, che non riuscì. Akim Akimic' giocò d'astuzia e non fece neppure mostra di sapere chi fosse l'aggressore. La faccenda fu messa a carico dei ribelli, e un mese dopo Akim Akimic' invitò amichevolmente il principotto come ospite. Quello ci andò, non sospettando di nulla. Akim Akimic' schierò il suo reparto, accusò e rimproverò il principotto dinanzi a tutti, gli dimostrò che appiccare il fuoco alle fortezze è vergognoso. E lì stesso gli fece una minuziosissima predica sul come un principe sottomesso avrebbe dovuto comportarsi in avvenire e, a mo' di conclusione, lo fece fucilare, e poi immediatamente ne riferì ai superiori con ogni particolare. Per tutto ciò fu processato e condannato alla pena di morte, ma si mitigò la condanna e lo si deportò in Siberia, ai lavori forzati di seconda categoria, in fortezza, per dodici anni. Egli riconosceva pienamente di aver agito in modo irregolare, mi diceva che lo aveva saputo anche prima della fucilazione del principotto, sapeva che un principe sottomesso si doveva giudicarlo secondo le leggi; ma, pur sapendolo, pareva che non potesse in alcun modo farsi un giusto concetto della propria colpa:
- Ma scusate tanto ! Aveva pure incendiato il mio forte! Che, avrei dovuto per questo fargli ancora un inchino? - mi diceva in risposta alle mie obiezioni.
Ma, nonostante che i detenuti si burlassero delle stramberie di Akim Akimic', tuttavia lo stimavano per la sua diligenza e abilità.
Non c'era mestiere che Akim Akimic' non conoscesse. Era falegname, calzolaio, ciabattino, verniciatore, indoratore, magnano, e tutto ciò aveva imparato già ai lavori forzati. Egli faceva ogni cosa da autodidatta: gettava un'occhiata e poi faceva. Fabbricava anche ogni sorta di cassette, cestini, lanterne, balocchi per bimbi, e li vendeva in città. In tal modo aveva sempre denaro e subito lo spendeva in biancheria di riserva, in un guanciale più morbido; si era procurato un pagliericcio pieghevole. Egli si trovava nella mia stessa camerata e mi rese molti servizi nei primi giorni dei miei lavori forzati.
Uscendo dal reclusorio per andare al lavoro, i detenuti si disponevano dinanzi al corpo di guardia, su due file; davanti e dietro ai detenuti si schieravano i soldati di scorta coi fucili carichi. Comparivano l'ufficiale del genio, l'assistente e alcuni genieri di grado inferiore, sorveglianti ai lavori. L'assistente contava i detenuti e li mandava a gruppi dove occorreva per il lavoro.
Insieme con altri io mi avviai all'officina del genio. Era una costruzione bassa, in muratura, che sorgeva in un vasto cortile, ingombro di materiali vari. Lì c'erano una fucina, un laboratorio di magnano, uno di falegname, uno di verniciatura e altri. Akim Akimic' andava lì e lavorava nel laboratorio di verniciatura, faceva cuocere l'olio di lino, combinava i colori e verniciava tavole e mobili a uso noce.
In attesa che mi si riferrasse, io mi misi a discorrere con Akim Akimic' sulle mie prime impressioni di reclusorio.
- Sissignore, i nobili non li amano, - egli osservò, specialmente i politici, li divorerebbero con piacere, è facile a capire. In primo luogo, voi siete altra gente, diversa da loro, e in secondo luogo, essi tutti, prima, o appartenevano a proprietari o erano di condizione militare. Giudicate voi stessi, possono affezionarsi a voi? Qui, vi dico, vivere è difficile. E nelle compagnie di detenuti della Russia è ancora più difficile. Da noi, ecco, ce ne sono che vengono di là e non cessano di lodare il nostro reclusorio, come se dall'inferno fossero passati in paradiso. Il guaio non sta nel lavoro. Dicono che là, nelle case di prima categoria, la direzione non è interamente militare, per lo meno agisce in altro modo che da noi. Là, dicono, il deportato può vivere nella sua casetta. Io là non ci sono stato, ma così dicono.
Non vengono rasi e non vestono l'uniforme, benché del resto sia una bella cosa che da noi portino l'uniforme e siano rasi: c'è pur sempre più ordine, ed è più gradevole all'occhio. Solo che a loro appunto questo non piace. E poi guardate un po' che accozzaglia!
Uno viene dai cantonisti [6], uno dai circassi, un terzo dai settari, il quarto è un contadino ortodosso che ha lasciato in patria la famiglia, i suoi cari bambini, il quinto è un ebreo, il sesto uno zingaro, il settimo non si sa chi, e tutti devono assuefarsi a stare insieme, a qualunque costo, andare d'accordo a vicenda, mangiare nello stesso piatto, dormire su un unico tavolaccio. E poi che libertà! un boccone di più non lo si può mangiare che di soppiatto, ogni centesimo bisogna nasconderlo negli stivali, e non c'è altro che reclusorio e reclusorio...
Senza volere, la pazzia ti entra in capo.
Ma questo io già lo sapevo. Avevo voglia, in particolare, d'interrogarlo sul nostro maggiore. Akim Akimic' non fece misteri e ricordo che la mia impressione non fu del tutto piacevole.
Ma ero destinato a vivere ancora due anni sotto la sua direzione.
Tutto ciò che mi raccontò di lui Akim Akimic' risultò pienamente esatto, con la differenza che l'impressione della realtà è sempre più forte di quella lasciata da un semplice racconto. Era quello un uomo terribile, appunto perché un uomo simile era il capo, quasi illimitato, di duecento anime. Per se stesso era soltanto un uomo sregolato e cattivo, nulla di più. I detenuti li considerava come suoi nemici naturali, e questo era il suo primo e principale errore. Aveva realmente alcune capacità, ma tutto, anche il buono, si presentava in lui sotto un aspetto così deformato!
Intemperante, malvagio, qualche volta irrompeva nel reclusorio perfino di notte e, se notava che un detenuto dormiva sul fianco sinistro o bocconi, al mattino lo puniva: "Dormi", diceva, "sul fianco destro, come ho ordinato". Nel carcere era odiato e temuto come la peste. Aveva una faccia paonazza, rabbiosa. Tutti sapevano che era interamente dominato dal suo attendente, Fedka. Ma più di tutto amava il suo barbone Tresorka e per poco non impazzì dal dispiacere, quando Tresorka si ammalò. Dicono che singhiozzasse sopra di lui come su un proprio figlio; scacciò il veterinario e, al suo solito, per poco non venne alle mani con lui; e avendo udito da Fedka che nel reclusorio c'era un detenuto-veterinario- autodidatta, che curava con straordinaria fortuna, immediatamente lo fece chiamare.
- Salvalo! Ti coprirò d'oro, guarisci Tresorka! - gridò al detenuto.
Era questi un contadino siberiano, furbo, intelligente, in realtà abilissimo veterinario, ma proprio un contadino.
- Guardo Tresorka, - egli raccontava poi ai detenuti, del resto lungo tempo dopo la sua visita al maggiore, quando già tutta la faccenda era stata dimenticata, - guardo: il cane è disteso sul divano, sopra un cuscino bianco, e vedo che ha un'infiammazione, che bisognerebbe cavargli sangue, e il cane guarirebbe, dico davvero! Ma penso tra me: e se non lo guarissi? e se crepasse?
"No", dico, "eccellenza, mi avete chiamato troppo tardi; se fosse stato ieri o ieri l'altro, a quest'ora, avrei guarito il cane; ma ora non posso, non lo guarirei"...
E così mori Tresorka.
Mi si raccontò con tutti i particolari come avevano voluto uccidere il nostro maggiore. C'era nel reclusorio un certo detenuto. Viveva da noi già da un anno e si distingueva per la mitezza del suo comportamento. Avevano pure notato che non parlava quasi mai con alcuno. Cosicché lo consideravano un po' come uno strambo. Sapeva leggere e scrivere e in tutto l'ultimo anno lesse continuamente la Bibbia, leggeva giorno e notte. Quando tutti si erano addormentati, a mezzanotte, si alzava, accendeva un cero da chiesa, saliva sulla stufa, apriva il libro e leggeva fino al mattino. Un giorno andò a dichiarare al sottufficiale che non voleva andare al lavoro. Ne riferirono al maggiore; costui s'infuriò e accorse immediatamente in persona. Il detenuto si gettò su di lui con un mattone che si era procurato in precedenza, ma fallì il colpo. Fu preso, giudicato e punito. Tutto si svolse molto rapidamente. Di lì a tre giorni egli morì all'infermeria.
Morendo disse che non aveva rancore contro alcuno, ma aveva voluto soltanto soffrire. Non apparteneva del resto ad alcuna setta di dissidenti. Nel reclusorio lo ricordavano con rispetto.
Finalmente mi ebbero ferrato. Intanto nel laboratorio erano comparse, una dopo l'altra, alcune venditrici di panini. Talune erano proprio delle bambinette. Finché non erano grandicelle, ci andavano di solito coi panini; le madri li facevano cuocere e loro li vendevano. Cresciute in età, continuavano ad andarci, ma senza più panini; tale era quasi sempre l'uso. Ce n'erano anche di non più bambine. Un panino costava mezza copeca e quasi tutti i detenuti ne compravano.
Io notai un detenuto, un falegname, già brizzolato, ma colorito in viso, che sorridendo si era messo a scherzare con le venditrici di panini. Un istante prima del loro arrivo, egli si era messo al collo un fazzolettino rosso di cotone. Una donnetta grassa e tutta butterata posò sul suo banco da lavoro il proprio vassoio. Tra i due iniziò una conversazione.
- Perché ieri non siete venuta qui? - prese a dire il detenuto con un sorrisetto presuntuoso.
- Ecco! Io sono venuta, ma voi eravate stato chiamato da Mitka,- rispose la vispa donnetta.
- Ci avevano chiamati, se no ci saremmo di sicuro trovati sul posto... Ma da me ieri l'altro vennero tutte le vostre.
- Chi, chi?
- Ci venne la Mariaska, ci venne la Chavroska, ci venne la Cekunda, ci venne la Dvugrosciavaia...
- Che è questo? - io domandai ad Akim Akimic', - possibile?...
- Accade, sì, - egli rispose abbassando gli occhi con verecondia, perché era un uomo oltremodo pudico.
Questo, certo, accadeva, ma ben di rado e con le maggiori difficoltà. In generale erano più gli amatori, per esempio, di una bevuta che di simili faccende, nonostante tutta la naturale gravosità del vivere coatto. Era difficile procurarsi delle donne.
Bisognava scegliere l'ora, il luogo, accordarsi, fissare appuntamenti, cercare l'isolamento, che era particolarmente difficile, propiziarsi i soldati di scorta, il che era ancora più difficile e, in generale, spendere, relativamente parlando, un mucchio di denaro. Ma tuttavia mi riuscì, in seguito, di essere qualche volta testimone anche di scene amorose. Mi ricordo che un giorno d'estate eravamo in tre in una certa rimessa sulla riva dell'Irtis e accendevamo un forno per calcinazione; i soldati di scorta erano buoni. Infine comparvero due "suggeritrici", come le chiamano i detenuti.
- Be', perché vi siete fermate tanto? Forse dagli Zvierkòv? così le accolse il detenuto da cui erano venute e che le attendeva già da un pezzo.
- Io mi sono fermata? Ma una gazza, poco fa, si è fermata su un palo più a lungo che io da loro, - rispose allegramente una ragazza.
Era la ragazza più sudicia del mondo. Era appunto la Cekunda. Con lei era venuta la Dvugrosciòvaia. Questa poi era superiore a ogni descrizione.
- Anche voi è un pezzo che non vi ho vista, - continuò il donnaiolo rivolgendosi alla Dvugrosciòvaia; - come va che sembrate dimagrita?
- Può darsi. Quanto ero grassa prima! e ora sembra che abbia inghiottito un ago.
- Sempre coi soldati?
- No, questo ve l'hanno riportato sul conto nostro delle persone cattive; ma del resto che fa? Meglio esser magrolina, ma amare un soldatino!
- Ma voi piantateli, e amate noi: noi abbiamo dei soldi...
Per completare il quadro, figuratevi questo donnaiolo rasato, coi ferri ai piedi, col vestito a righe e sotto scorta.
Io mi accomiatai da Akim Akimic' e, saputo che potevo tornare nel reclusorio, presi un soldato di scorta e andai a casa. Gli uomini già si andavano ammassando. Prima di tutti tornano dal lavoro quelli che lavorano con un compito assegnato. L'unico mezzo di indurre un detenuto a lavorare con zelo è quello di fissargli un compito. A volte gli si fissano compiti enormi, ma tuttavia essi vengono adempiuti due volte più presto che se lo si facesse lavorare fino al rullo di tamburo del rancio. Finito il suo compito, il detenuto era libero di andarsene a casa, e nessuno più lo importunava.
Non desinavano insieme, ma come capitava, man mano che giungevano; e poi la cucina non avrebbe potuto contenerli tutti in una sola volta. Io assaggiai la minestra di cavoli, ma, non essendoci abituato, non potei mangiarla e mi feci il tè. Ci mettemmo a sedere in capo alla tavola. Con me c'era un compagno che proveniva anche lui dai nobili.
I detenuti arrivavano e se ne andavano. C'era del resto molto spazio; non tutti ancora erano riuniti. Un gruppo di cinque uomini prese posto a parte intorno a una gran tavola. Il cuoco versò loro la minestra di cavoli in due ciotole e mise in tavola un'intera padella di pesce fritto. Essi festeggiavano non so che cosa e mangiavano a due palmenti. Noi ci guardarono di traverso. Entrò un polacco e sedette accanto a noi.
- Non sono stato a casa, ma so tutto! - si mise a gridar forte un detenuto alto entrando nella cucina e girando lo sguardo su tutti i presenti.
Egli era sulla cinquantina, muscoloso e asciutto. La sua faccia aveva qualcosa di astuto e, insieme, di allegro. Particolarmente notevole era il suo grosso labbro inferiore pendente; esso conferiva al suo viso un che di oltremodo comico.
- Be', avete passato una buona notte? Perché non mi salutate? Ai nostri di Kursk, - soggiunse sedendo accanto a quelli che desinavano con la loro roba, - pane e sale! Fate buona accoglienza all'ospite.
- Ma noi, fratello, non siamo di Kursk.
- Allora di Tambòv?
- Nemmeno di Tambòv. A noi, fratello, non hai niente da cavare.
Va' da un ricco contadino e chiedi a lui.
- Nel mio ventre, fratelli, oggi ci sono crampi e singhiozzi; ma dov'è, il ricco contadino?
- Ecco là Gasin, un contadino ricco; va' da lui.
- Oggi, fratelli, fa baldoria Gasin; prende la sbornia e si beve tutto il borsellino.
- Ha venti rubli d'argento, - osservò un altro. - E' una cosa che rende, fratelli, fare il cantiniere.
- Ebbene, non accogliete un ospite? Be', allora mangeremo la roba del governo.
- Ma tu va', chiedi del tè. Là i signori lo stanno bevendo.
- Che signori, qui non ci sono signori; ora sono come noi, disse cupamente un detenuto che sedeva in un angolo. Fino a questo momento non aveva pronunciato una parola.
- Mi riempirei di tè, ma ho vergogna di chiedere: noi si ha dell'amor proprio! - osservò il detenuto dal grosso labbro guardandoci bonariamente.
- Se volete, ve ne dò, - dissi io invitando il detenuto, - vi fa piacere?
- Piacere? E come non mi farebbe piacere! - Egli si accostò alla tavola.
- To', a casa tirava su la minestra con la scarpa, e qui ha conosciuto il tè; gli è venuto voglia di quel che bevono i signori, - disse il detenuto tetro.
- Ma forse che qui nessuno beve tè? - gli domandai. Ma non mi degnò di una risposta.
- Ecco che portano i panini. Favoritemi anche un panino!
Portarono i panini. Un giovane detenuto ne aveva tutta una treccia e li vendeva in giro per il reclusorio. La venditrice gli aveva ceduto il decimo panino, e lui appunto su quel panino contava.
- Panini, panini! - gridava entrando in cucina, - caldi, di Mosca!
Ne mangerei anch'io, ma ci vogliono soldi. Be', ragazzi, è rimasto l'ultimo panino: chi ha avuto una madre?
Questa invocazione all'amor materno fece ridere tutti, e gli presero alcuni panini.
- E che, fratelli, - egli disse, - oggi Gasin si sbornia sino a farne qualcuna! Parola mia! Ma quando mai gli è saltato in testa di far bisboccia! Da un momento all'altro può arrivare Ottocchi.
- Lo nasconderanno. Ma è molto ubriaco?
- Altro che! Ed è cattivo, si appiccica.
- Be', allora si sbornierà sino a fare a pugni...
- Di chi parlano? - io domandai al polacco seduto accanto a me.
- E' Gasin, il detenuto. Lui traffica acquavite. Quando ha guadagnato un po' di soldi, subito se li beve. E' crudele e cattivo; del resto, quando non ha bevuto, è tranquillo; ma quando si ubriaca, in lui tutto viene a galla; si avventa sulla gente col coltello. Allora lo calmano.
- E come lo calmano?
- Si gettano su di lui una diecina di detenuti e si mettono a tempestarlo di botte fino a che non abbia perduto tutti i sentimenti, cioè lo lasciano mezzo morto. Allora lo stendono sul tavolaccio e lo coprono col pellicciotto.
- Ma possono ammazzarlo, non è vero?
- Un altro lo ammazzerebbero, ma lui no. E' spaventosamente forte, più forte di quanti sono qui nel reclusorio, e ha la costituzione più robusta. Il giorno dopo si alza e sta benissimo.
- Dite, per favore, - continuai a interrogare il polacco, anche quelli là, ecco, mangiano la roba loro, e io bevo il tè. E intanto mi guardano come se invidiassero questo tè. Che vuol dire ciò?
- Non è per il tè, - rispose il polacco. - Ce l'hanno con voi perché siete nobile e non somigliate a loro. Molti di essi vorrebbero attaccar lite con voi. Hanno una gran voglia d'insultarvi, di umiliarvi. Qui vedrete ancora molte altre cose spiacevoli. Qui per tutti noi è orribilmente duro. Per noi è più duro che per tutti gli altri sotto ogni aspetto. Ci vuole molta indifferenza per abituarcisi. Ancora più di una volta andrete incontro a dispiaceri e villanie per il tè e per il vitto separato, sebbene qui moltissimi e molto spesso mangino roba loro, e alcuni bevano regolarmente il tè. Loro possono, e voi non potete.
Detto questo, egli si alzò e se ne andò via da tavola. Dopo pochi minuti si avverarono anche le sue parole.
Appena fu uscito M-zki (il polacco che aveva parlato con me), Gasin, totalmente ubriaco, si precipitò in cucina.
Un detenuto ubriaco, in pieno giorno, in una giornata feriale, quando tutti avevano l'obbligo di andare al lavoro, con un capo severo che in ogni momento poteva arrivare al reclusorio, con un sottufficiale che amministrava i forzati e si trovava nel carcere di continuo, coi soldati di guardia, con gli invalidi, insomma con tutti quei rigori, sconvolgeva interamente tutte le idee che erano germogliate in me circa il modo di vivere dei detenuti. E dovetti soggiornare nel reclusorio abbastanza a lungo prima di chiarire a me stesso tutti i fatti del genere, per me tanto enigmatici nei primi giorni dei miei lavori forzati.
Ho già detto che i detenuti avevano sempre un lavoro proprio e che questo lavoro è una naturale esigenza della vita di galera; che, a parte questa esigenza, il detenuto ha appassionatamente caro il denaro e lo apprezza più di ogni cosa, quasi al pari della libertà, e prova già un conforto se esso gli tintinna in saccoccia. Al contrario, è depresso, triste, inquieto e si perde d'animo, se non ne ha, e allora è pronto al furto e a qualunque cosa, pur di procurarsene. Ma, nonostante che il denaro fosse nel reclusorio tanto prezioso, esso non rimaneva a lungo presso il fortunato che lo possedeva. In primo luogo, era difficile custodirlo in modo che nessuno glielo rubasse o togliesse. Se il maggiore, nelle improvvise perquisizioni, lo scovava, immediatamente glielo toglieva. Forse lo impiegava nel migliorare il vitto dei detenuti; per lo meno, veniva portato a lui. Ma il più spesso lo rubavano: non ci si poteva fidare di alcuno. In seguito fu scoperto da noi un sistema di custodire il denaro con piena sicurezza. Lo si dava in deposito a un vecchietto, un vecchio credente, venuto a noi dai sobborghi di Starodùb, dai viètkovtsi di un tempo. Ma non posso trattenermi dal dire qualche parola di lui, anche se mi discosto dall'argomento. Era un vecchietto sui sessant'anni, piccolo, brizzolato. Mi aveva vivamente impressionato fin dalla prima occhiata. Era così diverso dagli altri detenuti: c'era nel suo sguardo qualcosa di placido e calmo a tal segno che io, mi ricordo, guardavo con un certo particolare piacere i suoi occhi limpidi, luminosi, circondati da minute rughettine a raggiera. Spesso parlavo con lui, e di rado avevo incontrato nella mia vita un essere così buono e benigno. Lo avevano mandato lì per un delitto di estrema gravità. Fra i vecchi credenti di Starodùb avevano cominciato a spuntare dei convertiti.
Il governo, che fortemente li incoraggiava, aveva messo in opera ogni sforzo per l'ulteriore conversione di altri dissidenti. Il vecchio, insieme con altri fanatici, decise di "tenere per la fede", com'egli si esprimeva. Si era preso a costruire una chiesa unificata, ed essi la incendiarono. Come uno degli istigatori, il vecchio fu inviato ai lavori forzati. Era un borghese agiato, un commerciante, a casa aveva lasciato moglie e figli, ma andò alla deportazione con fermezza, perché, nel suo accecamento, la considerava come un "martirio per la fede". Dopo aver trascorso con lui un po' di tempo, involontariamente vi sareste domandato:
come ha potuto quest'uomo pacifico, mite come un bambino, essere un ribelle? Più di una volta io mi misi a discorrere con lui "di fede". Egli non rinunciava ad alcuna delle sue convinzioni; ma nelle sue repliche non c'era mai ombra di malanimo o di odio. E intanto aveva devastato una chiesa e non lo negava. Pareva che, date le sue convinzioni, avrebbe dovuto riguardare il suo atto e i "tormenti" da lui in conseguenza accettati come un'azione gloriosa. Ma, per quanto io lo scrutassi, per quanto lo studiassi, non ebbi mai a notare in lui segno alcuno di vanità o di orgoglio.
C'erano da noi nel reclusorio anche altri vecchi credenti, per lo più siberiani. Erano gente semplice, contadini furbi, oltremodo eruditi nelle sacre scritture e pedanti e, a modo loro, forti dialettici; gente altezzosa, arrogante, astuta e intollerante in sommo grado. Un uomo tutto diverso era il vecchio. Erudito forse più di loro, rifuggiva dalle dispute. Era di indole sommamente comunicativa. Era gioviale e spesso rideva: non di quel grossolano, cinico riso che avevano i forzati, ma di un riso sereno, sommesso, in cui c'era molta infantile bonomia e che si confaceva in un certo modo speciale ai suoi capelli grigi. Forse m'inganno, ma mi pare che dal riso si possa conoscere un uomo, e se fin dal primo incontro vi riesce piacevole il riso di una qualche persona affatto sconosciuta, dite pure arditamente che quella è una brava persona. In tutto il reclusorio il vecchio si era acquistato il rispetto universale, di cui non menava alcun vanto. I detenuti lo chiamavano nonnino e non l'offendevano mai.
Io compresi in parte quale influsso egli potesse avere sui suoi correligionari. Ma, nonostante la visibile fermezza con cui sopportava i suoi lavori forzati, si celava in lui una profonda, incurabile tristezza, che egli cercava di nascondere a tutti. Io vivevo con lui nella stessa camerata. Una volta, dopo le due di notte, mi svegliai e udii un pianto sommesso, contenuto. Il vecchio sedeva sulla stufa (quella stessa sulla quale, di notte, prima di lui, aveva pregato quello che leggeva sempre e che aveva voluto uccidere il maggiore) e pregava seguendo il suo libro manoscritto. Egli piangeva, e io sentivo che diceva di tanto in tanto: "Signore, non abbandonarmi ! Signore, dammi forza !
Bambinelli miei cari, bambinelli miei cari, non ci vedremo mai più!". Non posso dire quanto mi rattristai. Ora, è a questo vecchio che a poco a poco quasi tutti i detenuti presero ad affidare i loro denari in custodia. In galera quasi tutti erano ladri, ma tutti, chi sa perché, si erano subito persuasi che il vecchio era assolutamente incapace di rubare. Sapevano che egli nascondeva in qualche posto il denaro affidatogli, ma in un luogo così occulto che nessuno poteva scovarlo. In seguito egli svelò il suo segreto a me e ad alcuni dei polacchi. In uno dei pali c'era un nocchio in apparenza fortemente incastrato nel legno, ma esso si poteva levar via e nel legno rimaneva una grossa cavità. Era lì che il nonnino nascondeva il denaro e poi tornava a incastrare il nocchio, cosicché nessuno aveva mai potuto scoprire nulla.
Ma io mi sono allontanato dal racconto. Mi ero fermato a questo punto: perché il denaro non rimaneva a lungo in tasca a un detenuto. Ma, a parte la fatica di custodirlo, nel reclusorio l'angoscia era così grande, e il detenuto poi, per natura sua, è un essere tanto assetato di libertà e infine, per la sua condizione sociale, tanto leggero e disordinato che si sente naturalmente portato, tutt'a un tratto, a "darsi alla pazza gioia", a fare baldoria spendendo tutto il suo capitale, con baccano e musica, così, per dimenticare, non fosse che un istante, la sua angoscia. Faceva perfino specie vedere come qualcuno di loro lavorasse senza alzare il capo, a volte per più mesi, unicamente per dissipare in un sol giorno tutti i suoi guadagni, fino all'ultimo soldo, e poi nuovamente sgobbare sul lavoro fino a una nuova baldoria, per parecchi mesi. A molti di loro piaceva sfoggiare nuovi capi di vestiario, e immancabilmente di foggia particolare: certi calzoni neri, non regolamentari, caffettani senza maniche, "siberiane". In gran voga erano anche le camice di percalle e le cinture con piastre di rame. Si agghindavano per le feste e poi non mancavano di fare il giro di tutte le camerate per farsi vedere da tutti. La soddisfazione di chi era ben vestito giungeva fino alla puerilità, e in molte cose i detenuti erano veri bambini. E' vero che tutte queste belle cose improvvisamente sparivano di dosso al padrone, a volte la sera dello stesso giorno venivano impegnate e cedute a vile prezzo. Del resto la baldoria si svolgeva per gradi. Di solito essa faceva seguito ai giorni festivi o all'onomastico del gozzovigliante. Il detenuto di cui ricorreva l'onomastico, alzandosi al mattino, metteva una candeletta davanti all'immagine e pregava; poi si agghindava e si ordinava il pranzo. Veniva comprata della carne di manzo, del pesce, si facevano i gnocchi siberiani; egli si rimpinzava come un lupo, quasi sempre solo, di rado invitando del compagni a condividere la sua mensa. Poi compariva l'acquavite: il festeggiato si ubriacava come un ciabattino e andava senza fallo per le camerate barcollando e incespicando, sforzandosi di far vedere a tutti che era ubriaco, che "faceva baldoria", e con ciò di meritare l'universale rispetto. Dappertutto, nel popolo russo, si prova per l'ubriachezza una certa simpatia; nel carcere poi verso chi si era messo a gozzovigliare si facevano perfino ossequiosi. Nella bisboccia del reclusorio c'era un'aristocrazia sui generis. Datosi alla pazza gioia, il detenuto infallibilmente noleggiava la musica. C'era nel carcere un polaccuzzo, già soldato disertore, molto brutto, ma che suonava il violino e aveva con sé lo strumento, tutto il suo patrimonio. Mestiere non ne aveva e non esercitava altra industria che quella di prestarsi a suonare allegre danze per i gozzoviglianti. Il suo ufficio consisteva nel seguire continuamente il noleggiatore ubriaco di camerata in camerata strimpellando il violino a tutta forza. Spesso sul viso gli compariva la noia, l'angoscia. Ma il grido: "Suona, i soldi li hai presi!", lo induceva nuovamente a strimpellare, strimpellare.
Il detenuto, cominciando a far baldoria, poteva essere fermamente sicuro che, se si fosse ubriacato sul serio, gli altri avrebbero senza fallo vegliato su di lui, mettendolo a dormire in tempo e nascondendolo sempre in qualche posto all'apparire dei superiori, e tutto ciò col più perfetto disinteresse. Da parte loro, il sottufficiale e gli invalidi che vivevano nel reclusorio per il buon ordine potevano pure essere assolutamente tranquilli, l'ubriaco non poteva provocare alcun disordine. Tutta la camerata l'osservava e, se egli si fosse messo a far baccano, a ribellarsi, lo avrebbero subito domato, magari semplicemente legato. Perciò i capi in sottordine del reclusorio avevano indulgenza per l'ubriachezza, anzi non volevano nemmeno badarci. Sapevano benissimo che, se non si fosse tollerato l'acquavite, sarebbe stato anche peggio. Ma di dove ci si procurava l'acquavite?
L'acquavite si comprava nel carcere stesso, dai cosiddetti cantinieri. Essi erano parecchi ed esercitavano il loro commercio incessantemente e con fortuna, sebbene di bevitori e di gozzoviglianti ce ne fossero, in genere, pochi, perché la gozzoviglia richiedeva denaro e il denaro dei detenuti veniva guadagnato con fatica. Il commercio si iniziava, si svolgeva e si risolveva in modo abbastanza originale. Il tal detenuto, poniamo, non ha un mestiere e non desidera faticare (di costoro ce n'erano), ma vuole aver denaro, e inoltre è un uomo impaziente e vuole arricchire in fretta. Egli ha un po' di denaro per incominciare e decide di trafficare acquavite: impresa ardita, che presenta un gran rischio. Si poteva pagarne il fio con la propria schiena e perdere insieme la merce e il capitale. Ma il cantiniere affronta tutto ciò. Denaro sul principio ne ha poco, e perciò la prima volta porta da sé l'acquavite nel reclusorio e, s'intende, la spaccia con profitto. Ripete l'esperienza una seconda e una terza volta e, se non dà negli occhi ai superiori, arricchisce rapidamente, e allora soltanto impianta un vero commercio su larghe basi; diventa appaltatore, capitalista, tiene agenti e aiutanti, arrischia sempre meno e si impingua sempre di più. Per lui arrischiano gli aiutanti.
Nel carcere c'è sempre molta gente che ha scialacquato, perduto al gioco, consumato in bagordi fin l'ultima copeca, gente senza mestiere, misera e cenciosa, ma dotata in certo grado di audacia e di risolutezza. A tali uomini rimane integra, come capitale, soltanto la schiena; essa può ancora servire a qualcosa, ed ecco, è quest'ultimo capitale che il bisboccione rovinato si risolve a mettere in circolazione. Egli va dall'appaltatore e si ingaggia con lui per portare l'acquavite nel reclusorio; un cantiniere ricco di tali lavoranti ne ha parecchi. In qualche luogo fuori del carcere c'è una persona - un soldato, un piccolo borghese, a volte perfino una sgualdrina - che, con denaro dell'appaltatore e per un certo premio, relativamente assai forte, acquista in una bettola l'acquavite e la nasconde in qualche posticino appartato, dove i detenuti vanno a lavorare. Sempre il fornitore, come prima cosa, verifica la bontà della vodca e il bevuto si reintegra in dosi inumane con acqua; puoi prenderla o non prenderla, ma un detenuto non può essere troppo difficile; è già bene che il suo denaro non è andato del tutto perduto e gli viene fornita una vodca sia pure scadente, ma pur sempre vodca. A questo fornitore appunto si presentano, indicatigli anticipatamente dal cantiniere del reclusorio, i portatori, muniti di budella di bue. Queste budella prima le lavano, poi le riempiono d'acqua e in tal modo esse si conservano nello stato di umidità ed elasticità primitivo, per essere atte col tempo a ricevere la vodca. Riempite le budella di vodca, il detenuto se le avvolge intorno al corpo, possibilmente nei tratti più nascosti. Naturalmente in ciò si rivela tutta l'abilità, tutta l'astuzia bricconesca del contrabbandiere. Il suo onore è un po' in gioco, bisogna che egli inganni e i soldati di scorta e quelli di guardia. Egli li inganna: il soldato di scorta di un buon ladro, a volte una qualche giovane recluta, se la lascia sempre fare. S'intende che il soldato di scorta lo si studia preventivamente; inoltre si prende in considerazione l'ora e il luogo del lavoro. Il detenuto, per esempio, è uno stufaio, sale sopra una stufa: chi può vedere che cosa egli fa lassù? Il soldato non gli va mica dietro. Avvicinandosi al reclusorio, egli prende in mano una monetina - quindici o venti copeche d'argento - per ogni evenienza e attende al portone il caporale. Ogni detenuto che torna dal lavoro il caporale di guardia lo fruga tutto e lo palpa, e soltanto dopo gli apre la porta del carcere. Il portatore di acquavite di solito spera che ci si farà scrupolo di palparlo troppo minuziosamente in certe parti del corpo. Ma talora quel volpone di un caporale si spinge fino a tali parti e scopre l'acquavite. Allora non resta che un ultimo mezzo: il contrabbandiere, in silenzio e di soppiatto al soldato di scorta, ficca in mano al caporale la monetina da lui nascosta nella mano.
Accade che, per effetto di tale manovra, egli entri nel reclusorio felicemente e porti dentro l'acquavite. Ma qualche volta la manovra non riesce, e allora tocca pagare con l'ultimo capitale proprio, cioè con la schiena. Si fa rapporto al maggiore, il capitale viene bastonato, e bastonato dolorosamente, e il contrabbandiere prende tutto su di sé, senza tradire l'appaltatore; non già, notiamolo, perché gli ripugni la delazione, ma unicamente perché la delazione gli è svantaggiosa; lo bastonerebbero lo stesso e avrebbe soltanto la consolazione che li bastonerebbero tutti e due. Ma dell'appaltatore egli ha ancora bisogno, sebbene, secondo l'usanza e secondo i patti preventivi, il contrabbandiere non riceva dall'appaltatore, per la sua schiena bastonata, nemmeno una copeca. Per quanto riguarda, in genere, le denunce, esse di solito fioriscono. Nel reclusorio il delatore non si espone alla minima mortificazione; lo sdegno contro di lui è anzi inconcepibile. Non lo si sfugge, con lui si fa amicizia, cosicché, se voi vi metteste, nel carcere, a dimostrare tutta la bassezza della delazione, non vi si capirebbe assolutamente. Quel detenuto di origine nobile, depravato e abietto, col quale io ruppi ogni rapporto, era in amicizia con l'attendente del maggiore, Fedka, e gli faceva la spia, e quello riportava quanto aveva udito sui detenuti al maggiore. Da noi tutti lo sapevano e nessuno ebbe mai neppure l'idea di punire o, almeno, rimproverare il farabutto.
Ma io ho fatto una digressione. Accade anche, s'intende, che l'acquavite venga introdotta felicemente; allora l'appaltatore riceve le budella che gli sono state portate, dopo averne pagato il prezzo, e comincia a fare i conti. Dal conto risulta che la merce gli costa carissima; perciò, per averne maggiori profitti, la travasa ancora una volta, allungandola daccapo con acqua una volta di più, quasi della metà, e, in tal modo ormai perfettamente pronto, attende il compratore. Alla prima festa, e talora in giorno feriale, il compratore si presenta: è un detenuto che ha lavorato alcuni mesi come un bue e ha messo da parte ogni copeca, per bersi tutto in un giorno all'uopo anticipatamente fissato.
Questo giorno, già lungo tempo prima che spuntasse, appariva in sogno al povero lavoratore e nel sonno e nelle felici fantasticherie durante il lavoro, e col proprio fascino sorreggeva il suo spirito nella uggiosa carriera della vita di reclusorio.
Infine l'aurora del luminoso giorno si mostra a oriente; il denaro è stato raggranellato, non gli è stato tolto, né rubato, ed egli lo porta al cantiniere. Questi gli dà sul principio dell'acquavite pura il più possibile, cioè non allungata che un paio di volte; poi, man mano che la bottiglia si vuota, tutto il bevuto è immediatamente sostituito con acqua. Per una ciotola di acquavite si paga cinque, sei volte più che alla bettola. Ci si può immaginare quante ciotole simili è necessario bere e quanto denaro sborsare in cambio, per ubriacarsi? Ma, disabituato al bere e a causa della preventiva astinenza, il detenuto diventa ebbro abbastanza in fretta, e di solito continua a bere finché non abbia consumato tutti i suoi soldi. Allora entrano in circolazione tutti i nuovi capi di vestiario; il cantiniere è al tempo stesso anche strozzino. Prima vanno a finire da lui le cose particolari inaugurate dal detenuto, poi si arriva ai vecchiumi, e infine anche alla roba governativa. Bevuto tutto quanto, fino all'ultimo straccio, l'ubriacone si corica e il giorno dopo, svegliatosi con l'inevitabile frastuono nella testa, invano chiede al cantiniere non fosse che un sorso di acquavite per il mal di capo.
Tristemente sopporta la disavventura e quello stesso giorno si rimette al lavoro, e lavora di nuovo alcuni mesi, senza levar la testa, sognando il giorno felice della baldoria, irrevocabilmente dileguato nell'eternità, e ricominciando man mano a infervorarsi e ad attendere un altro giorno consimile, che è ancora lontano, ma tuttavia giungerà pure, a sua volta, quando che sia.
Per quanto riguarda il cantiniere, dopo aver finalmente guadagnato un'enorme somma, alcune decine di rubli, egli prepara per l'ultima volta l'acquavite e non l'allunga più con acqua, perché la destina a se stesso; basta commerciare: è ora anche per lui di far festa!
Incomincia una baldoria: bevute, mangiate, musica. La pecunia è molta; si rabboniscono perfino i superiori immediati, di infimo grado, del reclusorio. La baldoria si protrae a volte per alcuni giorni. Naturalmente l'acquavite approntata è presto bevuta; allora il bisboccione va da altri cantinieri, che già lo attendono al varco, e beve fino a che non abbia consumato tutto, fino all'ultima copeca. Sebbene i detenuti veglino sul gozzovigliante, qualche volta egli capita sotto gli occhi dell'autorità superiore, del maggiore o dell'ufficiale di picchetto. Lo portano al corpo di guardia e gli tolgono i capitali, se gliene trovano addosso, e in conclusione lo bastonano. Datasi una scrollatina, egli torna nel carcere e di lì a qualche giorno riprende il mestiere di cantiniere. Certi bisboccioni, s'intende, quelli un po' ricchi, sognano anche il bel sesso. Sborsando molto denaro, riescono talvolta ad avviarsi in segreto dalla fortezza, anziché al lavoro, in qualche sito del sobborgo, in compagnia del soldato di scorta comprato. Là, in qualche solitaria casetta, proprio alla periferia della città, si dà un festino coi fiocchi e si buttano realmente forti somme di denaro. Se paga, anche il detenuto non è disdegnato; il soldato di scorta poi, pratico di queste faccende, ce lo si assicura in precedenza. Di solito tali soldati sono essi stessi futuri candidati al reclusorio. Del resto col denaro tutto si può fare, e simili viaggi rimangono quasi sempre segreti. Va aggiunto che essi avvengono assai di rado; per queste cose ci vuole molto denaro, e gli amatori del bel sesso ricorrono ad altri mezzi, esenti da ogni pericolo.
Fin dai primi giorni della mia vita di reclusorio, un giovane detenuto, un ragazzo oltremodo grazioso, aveva suscitato in me una speciale curiosità. Si chiamava Sirotkin. Era un essere abbastanza enigmatico, sotto molti aspetti. Più di tutto mi aveva colpito il suo bel viso; egli non aveva più di ventitré anni. Si trovava nella sezione speciale, cioè in quella dei permanenti, per conseguenza era considerato come uno dei maggiori criminali militari. Quieto e mite, parlava poco, raramente rideva. I suoi occhi erano azzurri, i lineamenti regolari, il visino puro e delicato, i capelli di un biondo chiaro. Perfino la testa semirasa non lo sfigurava se non leggermente: tanto grazioso era quel ragazzo. Mestiere non ne aveva, ma denaro se ne procacciava, sia pure un poco alla volta, ma con frequenza. Era notevolmente pigro, trasandato nel vestire. Magari l'uno o l'altro gli regalava un bel capo di vestiario, a volte perfino una camicia rossa, e Sirotkin era visibilmente lieto del suo indumento nuovo: andava in giro per le camerate, si faceva vedere. Non beveva, non giocava a carte, non litigava quasi mai con nessuno. Soleva passeggiare dietro le baracche: con le mani in tasca, pacifico, pensoso. A che potesse pensare era difficile anche figurarselo. Se a volte lo chiamavi e, per curiosità, gli facevi qualche domanda, subito ti rispondeva, e finanche con una certa quale ossequiosità, non da detenuto, ma sempre brevemente, senza loquacità, e ti guardava come un bambino decenne. Se si trovava ad avere del denaro, non si comprava nulla di indispensabile, non dava la casacca a rammendare, non metteva su degli stivali nuovi, ma comprava un panino, un panpepato, e se lo mangiava, come se avesse sette anni. "Ehi, tu, Sirotkin!", solevano dirgli i detenuti, "orfano di Kasàn!" [7]. Nelle ore di riposo, gironzolava di solito per le camerate altrui; quasi tutti erano intenti al proprio lavoro, lui solo non aveva niente da fare. Se gli dicevano qualche cosa, quasi sempre per canzonarlo (di lui e dei suoi compagni spesso si burlavano), egli, senza dire nemmeno una parola, si voltava e andava in un'altra camerata, e a volte, se ridevano un po' troppo di lui, arrossiva. Spesso io pensavo: perché quest'essere pacifico e bonaccione è venuto al reclusorio ? Una volta io giacevo all'infermeria, nella corsia dei detenuti. Sirotkin era malato anche lui ed era coricato accanto a me; un giorno verso sera ci mettemmo a discorrere; egli per caso si animò e, a proposito, mi raccontò come lo avessero mandato soldato; come, accompagnandolo, la madre piangesse per lui e quanto si fosse trovato male fra le reclute. Soggiunse che in nessun modo poteva sopportare la vita di recluta: perché là tutti erano così rabbiosi, così severi, e i comandanti erano quasi sempre scontenti di lui.
- E com'è finita? - domandai. - Per che cosa sei capitato qui? E per giunta nella sezione speciale?... Ah, Sirotkin, Sirotkin!
- Sì, io, Aleksàndr Petrovic', in tutto passai al battaglione un anno; e qui sono venuto per aver ucciso Grigori Petrovic', il mio comandante di compagnia.
- Ho sentito dir questo, Sirotkin, ma non ci credo. Be', chi hai potuto uccidere tu?
- Così è accaduto, Aleksàndr Petrovic'. La vita si era fatta troppo dura per me.
- Ma com'è che le altre reclute ci vivono? Certamente, da principio è duro, ma poi si abituano, ed ecco venirne fuori eccellenti soldati. Tua madre deve averti viziato; ti avrà nutrito di panforti e di latte fino ai diciott'anni.
- La mia mammina, è vero, mi voleva un gran bene. Quando andai soldato, dopo la mia partenza, si mise a letto e, come ho inteso, non si è alzata più... Alla fine la vita di recluta si era fatta per me troppo amara. Il comandante non mi aveva messo affezione, mi puniva per tutto, e per che cosa poi? Io obbedisco a tutti, vivo regolarmente; acquavite non ne bevo, non prendo nulla a prestito, ed è un brutto affare, Aleksàndr Petrovic', quando uno prende a prestito. Tutti intorno sono così duri di cuore, non si sa dove versare una lacrima. Mi accadeva di andare dietro una cantonata, e là piangevo un poco. Ed ecco, una volta sono di guardia. E' già notte, mi hanno messo di sentinella, al corpo di guardia, presso la rastrelliera. C'è vento: era autunno, e l'oscurità era tale da potercisi cavar gli occhi. E mi sentii così triste, così triste! Mi accostai il fucile alla gamba, ne tolsi la baionetta, me la misi accanto; mi levai lo stivale destro, mi ci appoggiai sopra e col pollice del piede abbassai il cane. Guardo:
cilecca! Esaminai il fucile, ripulii il mirino, versai dentro della polvere fresca, battei l'acciarino e mi applicai nuovamente il fucile al petto. Ma che c'è ? La polvere si accese, ma niente sparo di nuovo! Che è questo? penso. Presi lo stivale, l'infilai, inastai la baionetta; sto zitto e passeggio. E fu allora che decisi di far questo: andarmene in qualsiasi luogo, purché lontano dal servizio. Dopo mezz'ora viene il comandante; faceva la ronda principale. Viene direttamente verso di me: "E' forse così che si sta di guardia?". Io presi il fucile in mano e gli piantai la baionetta in corpo fino alla canna. Ricevetti quattromila vergate, e poi qui, alla sezione speciale...
Egli non poteva mentire. E poi per che cosa l'avrebbero mandato alla sezione speciale? I soliti delitti sono puniti ben più lievemente. D'altra parte, il solo Sirotkin era fra tutti i suoi compagni un così bel giovane. Per quanto riguarda gli altri, a lui simili, che erano da noi in tutto una quindicina, faceva perfino senso a guardarli; soltanto due o tre facce erano ancora passabili: tutti gli altri erano così brutti, con le orecchie a ventola, sporchi; taluni perfino coi capelli grigi. Se le circostanze lo permetteranno, io dirò un giorno o l'altro in modo più particolareggiato di tutto questo gruppo. Sirotkin poi era spesso in buona armonia con Gasin, quello stesso a proposito del quale ho cominciato questo capitolo accennando che si era precipitato in cucina ubriaco e che ciò aveva sconvolto le mie primitive idee sulla vita di reclusorio.
Questo Gasin era un essere orrendo. Egli produceva su tutti una terribile, penosa impressione. Mi pareva sempre che nulla potesse esserci di più feroce, più mostruoso di lui. Avevo visto a Tobòlsk il brigante Kameniev, famoso per i suoi misfatti; vidi poi Sòkolov, un detenuto sotto processo, già soldato disertore, un efferato assassino. Ma nessuno di loro mi fece un'impressione così disgustosa come Gasin. Mi figuravo a volte di avere dinanzi a me un enorme, gigantesco ragno, della grossezza di un uomo. Era un tartaro; tremendamente forte, più forte di tutti nel reclusorio; di statura superiore alla media, di complessione erculea, con una brutta testa, sproporzionatamente enorme; camminava un po' curvo, guardando di sotto in su. Nel carcere correvano sul suo conto strane voci: si sapeva che veniva dai militari, ma i detenuti dicevano tra loro, non so se fosse vero, che era evaso da Nercinsk; in Siberia era già stato deportato più di una volta, più di una volta era fuggito, aveva cambiato nome, e finalmente era capitato nel nostro reclusorio, nella sezione speciale. Di lui raccontavano pure che in passato gli era piaciuto sgozzare dei fanciullini, unicamente per diletto; conduceva il bambino in qualche luogo propizio, dapprima lo spaventava, lo torturava e, dopo essersi beato a sazietà del terrore e dei tremiti della povera piccola vittima, la sgozzava adagio, lentamente, con voluttà. Tutto questo forse lo inventavano, a cagione della generale penosa impressione che Gasin faceva su tutti, ma queste invenzioni in certo qual modo gli si confacevano, gli andavano a pennello. E intanto, nel reclusorio, egli si comportava, quando non era ubriaco, in condizioni normali, assai ragionevolmente. Era sempre quieto, non litigava mai con alcuno ed evitava i litigi, ma come per disprezzo verso gli altri, come se si stimasse superiore a tutti gli altri; parlava assai poco ed era, in certo qual modo, premeditatamente insocievole. Tutte le sue mosse erano lente, tranquille, sicure. Dai suoi occhi si vedeva che era tutt'altro che sciocco e oltremodo scaltro, ma c'era sempre sulla sua faccia e nel suo sorriso un che di altezzosamente beffardo e di crudele.
Egli trafficava acquavite ed era uno dei cantinieri più agiati del carcere. Ma un paio di volte all'anno gli accadeva di ubriacarsi egli stesso, ed ecco, era allora che veniva a galla tutta la bestialità della sua natura. Divenendo gradatamente ebbro, cominciava dapprima ad aggredire la gente coi motteggi, i più maligni e calcolati e come preparati di lunga mano; infine, ubriaco fradicio, piombava in un tremendo furore, afferrava un coltello e si gettava sulle persone. I detenuti, conoscendo la sua terribile forza, scappavano via e si nascondevano: egli si avventava su chiunque incontrasse. Ma presto trovarono il metodo per aver ragione di lui. Una decina di uomini della sua camerata a un tratto gli si buttavano addosso tutti insieme e si mettevano a percuoterlo. Non si può immaginare nulla di più crudele di queste percosse: lo picchiavano nel petto, sotto il cuore, sotto la bocca dello stomaco, nel ventre; lo picchiavano molto e a lungo, e smettevano solo quando egli perdeva tutti i suoi sensi ed era come morto. Un altro non si sarebbero indotti a picchiarlo così:
picchiare a quel modo voleva dire ammazzare, purché non si trattasse di Gasin. Dopo le percosse, lo avvolgevano, affatto privo di sensi, nel pellicciotto e lo portavano sul tavolaccio.
"Si rimetterà dormendo!", dicevano. E in realtà egli si alzava al mattino quasi sano e, silenzioso e torvo, andava al lavoro. E ogni volta che Gasin si ubriacava a buono, nel reclusorio tutti già sapevano che la giornata sarebbe finita per lui infallibilmente con un carico di botte. Anche lui lo sapeva, e tuttavia si ubriacava. Così passarono alcuni anni; infine si accorsero che Gasin cominciava ad arrendersi. Aveva preso a lagnarsi di vari mali, a deperire visibilmente; sempre più spesso andava all'infermeria. "Si è arreso però!", dicevano di lui i detenuti.
Egli entrò nella cucina in compagnia di quel sordido polaccuzzo dal violino, che i bisboccioni di solito noleggiavano per far completa la loro baldoria, e si fermò in mezzo alla cucina silenzioso guardando in giro attentamente tutti i presenti. Tutti tacquero. Infine, avendo allora veduto me e il mio compagno, ci guardò con acredine e con aria beffarda, sorrise presuntuosamente, parve fare qualche riflessione tra sé e, barcollando forte, si avvicinò alla nostra tavola:
- Ma permettetemi di domandare, - incominciò (egli parlava il russo), - voi con quali entrate vi compiacete di sbevazzare qui il tè?
Io scambiai col mio compagno un'occhiata in silenzio, comprendendo che meglio di tutto era tacere e non rispondergli. Appena fosse stato contrariato, sarebbe entrato in furore.
- Dunque avete denaro? - seguitò a domandare. - Dunque avete un mucchio di denaro, eh? Ma forse che siete venuti in galera per sbevazzare il tè? Siete venuti a sbevazzare il tè? Ma parlate dunque, che vi possano!...
Ma vedendo che avevamo deciso di tacere e di non badare a lui, si fece paonazzo e si mise a tremare dalla frenesia. Accanto a lui, in un angolo stava una grande paniera in cui si disponeva tutto il pane affettato, pronto per il desinare o la cena dei detenuti. Era così grande che ci poteva stare il pane per mezzo reclusorio, ma ora era vuota. Egli l'afferrò con le due mani e la squassò su di noi. Ancora un poco, e ci avrebbe rotto la testa. Nonostante che un omicidio o un mancato omicidio rappresentasse una minaccia di straordinarie seccature per tutto il reclusorio (sarebbero cominciate inchieste, perquisizioni, intensificazione del rigore) e perciò i detenuti cercassero con tutte le loro forze di non arrivare a simili estremi di portata generale, nonostante ciò, ora tutti avevano fatto silenzio e attendevano. Non una parola in nostra difesa! Non un grido contro Gasin! A tal punto era forte in loro l'odio verso di noi! Ma la cosa terminò felicemente: mentre egli già voleva abbassare la paniera, qualcuno gridò dall'ingresso:
- Gasin! Hanno rubato l'acquavite!...
Egli lasciò piombare la paniera sul pavimento e, come pazzo, si precipitò fuori della cucina.
- Be', Dio ci ha salvati! - dicevano fra loro i detenuti. E poi per lungo tempo ripeterono queste parole.
Io non potei sapere poi se quella notizia circa il furto dell'acquavite fosse esatta o inventata a proposito, per la nostra salvezza.
La sera, quando già era buio, prima della chiusura delle camerate, io passeggiai lungo la palizzata e una greve tristezza mi scese sull'anima; mai ebbi a provare di poi, in tutta la mia vita di forzato, una tristezza simile. E' penoso sopportare il primo giorno di prigionia, in qualsiasi luogo: in un carcere, in una casamatta o in galera... Ma ricordo che più di tutto mi occupava un pensiero che in seguito mi perseguitò incessantemente per tutto il tempo della mia vita di recluso, un pensiero in parte inestricabile, e inestricabile per me anche ora: quello della disparità del castigo per i medesimi delitti. E' vero che anche i delitti non si possono paragonare l'uno con l'altro, nemmeno approssimativamente. Per esempio: due individui hanno ucciso ciascuno un uomo; si sono pesate tutte le circostanze dei due casi, e in un caso come nell'altro la pena viene a essere quasi la stessa. E tuttavia guardate che differenza passa tra i due delitti. Uno, per esempio, ha assassinato un contadino di passaggio, e costui non aveva con sé che una cipolla. "Su via, babbo! Tu mi hai mandato a far bottino: io là ho ammazzato un uomo, e in tutto e per tutto gli ho trovato una cipolla".
"Stupido! Una cipolla! è una copeca! Cento anime: cento cipolle, ed eccoti un rublo!" ( leggenda dei reclusi). E l'altro ha ucciso difendendo da un lussurioso tiranno l'onore della fidanzata, della sorella, della figlia. Uno ha ucciso, perché vagabondo assediato da tutto un reggimento di segugi, difendendo la sua libertà e la sua vita, e non di rado morendo di fame; e l'altro sgozza piccoli bimbi per il piacere di sgozzare, di sentirne sulle mani il sangue tiepido, di bearsi del loro spavento, dei loro ultimi fremiti di colomba sotto il coltello. Ebbene? L'uno e l'altro vanno agli stessi lavori forzati. C'è variazione, è vero, nei termini delle pene inflitte. Ma queste variazioni sono relativamente poche; invece, di variazioni nello stesso genere di delitti ce n'è una quantità innumerevole. A ogni carattere corrisponde una variazione. Ma supponiamo che conciliare, appianare queste differenze sia impossibile, che sia un problema insolubile sui generis, una quadratura del circolo, supponiamo che sia così. Ma anche se questa disuguaglianza non esistesse, considerate un'altra diversità, la diversità delle conseguenze stesse del delitto...
Ecco un uomo che in galera intisichisce struggendosi come una candela; ed eccone un altro che, prima di finire in galera, nemmeno sapeva che esistesse al mondo una vita così allegra, un così piacevole club di intrepidi compagni. Sì, al reclusorio ne arrivano anche di questi. Ecco, per esempio, un uomo istruito, dalla coscienza evoluta, che ha consapevolezza e cuore. Soltanto il rovello del suo proprio cuore, prima di qualsiasi castigo, lo ucciderà coi suoi tormenti. Egli stesso si condannerà per il suo delitto più implacabilmente, più spietatamente che non possa condannarlo la più terribile legge. Ed ecco accanto a lui un altro che, durante tutto il tempo dei lavori forzati, non pensa nemmeno una volta al delitto commesso. Egli crede perfino di aver ragione.
Ci sono anche di quelli che a bella posta commettono dei delitti, solo per finire in galera e con ciò liberarsi di una vita che in libertà era incomparabilmente più da galera. Prima costui viveva in un estremo grado di avvilimento, non mangiava mai a sazietà e lavorava per il suo imprenditore da mane a sera; nel reclusorio invece il lavoro è più leggero che a casa, il pane abbondante e quale egli ancora non aveva visto mai; alle feste carne di manzo, e c'è l'elemosina, c'è la possibilità di guadagnare qualche soldo.
E la compagnia? Gente scaltra, abile, onnisciente; ed ecco, egli guarda i suoi compagni con rispettoso stupore; non ne ha ancora mai veduti di simili; li considera come la più alta società che possa esserci al mondo. Davvero per questi due il castigo sarebbe ugualmente sensibile? Ma del resto a che occuparsi di questioni insolubili? Rulla il tamburo, è ora di andare in camerata.
Cominciò l'ultima ispezione. Dopo questa ispezione, si chiudevano le camerate, ciascuna con una diversa serratura, e i detenuti restavano rinchiusi fino all'alba.
L'ispezione era compiuta da un sottufficiale con due soldati.
All'uopo i detenuti a volte li schieravano nel cortile e veniva l'ufficiale di picchetto. Ma più spesso tutta questa cerimonia si svolgeva alla buona: si faceva la verifica nelle camerate. Così era anche adesso. I verificatori spesso sbagliavano, s'ingannavano nel conto, andavano via e tornavano di nuovo. Infine i poveri soldati contarono fino al numero voluto e chiusero a chiave la camerata. In essa trovavano posto fino a una trentina di detenuti, abbastanza strettamente ammucchiati sui tavolacci. Per dormire era ancora presto. Ognuno, evidentemente, doveva occuparsi di qualche cosa.
Dei superiori nella camerata non rimaneva che il solo invalido di cui già prima ho fatto cenno. In ogni camerata c'era anche un detenuto anziano, designato dallo stesso maggiore di piazza, naturalmente per la sua buona condotta. Spessissimo accadeva che anche gli anziani, a loro volta, incorressero in gravi mancanze; allora venivano fustigati, immediatamente degradati e sostituiti con altri. Nella nostra camerata l'anziano era Akim Akimic', che, con mia meraviglia, non di rado sgridava i detenuti. Questi gli rispondevano di solito con motteggi. L'invalido era più intelligente di lui e non s'immischiava in nulla e, anche se qualche volta gli accadeva di rigirar la lingua, ciò non faceva che per le convenienze, a scarico di coscienza. Egli stava seduto in silenzio sulla sua branda e cuciva uno stivale. I detenuti non gli facevano quasi attenzione.
In questo primo giorno della mia vita di reclusorio io feci un'osservazione che in seguito mi convinsi essere esatta. E precisamente: che tutti i non detenuti chiunque essi siano, incominciando da coloro che coi detenuti hanno immediati rapporti, come i soldati di scorta e di guardia, fino a tutti coloro, in genere, che abbiano qualcosa da fare con la vita del reclusorio, - hanno dei detenuti un concetto in certo qual modo esagerato. Come se in ogni momento si attendessero con inquietudine di vedere il detenuto gettarsi col coltello, di punto in bianco, su qualcuno di loro. Ma, cosa più di tutte notevole, gli stessi detenuti erano consci che se ne aveva timore, e questo dava loro visibilmente una specie di bravura. E invece il miglior capo per i detenuti suole essere proprio quello che non li teme. Anzi, in generale, nonostante la bravura, agli stessi detenuti fa molto più piacere che in loro si abbia fiducia. Con questa è possibile perfino cattivarseli. Durante la mia vita di recluso è accaduto, benché estremamente di rado, che qualcuno dei capi entrasse nel reclusorio senza scorta. Bisognava vedere come ciò impressionava i detenuti, e li impressionava favorevolmente. Un visitatore così impavido si attirava sempre il rispetto e, anche se in realtà fosse potuto accadere qualcosa di brutto, non sarebbe accaduto mentre c'era lui. La paura ispirata dai detenuti è universale, dovunque ci siano detenuti, e io non so davvero da che cosa propriamente derivi. Un certo fondamento ce l'ha di sicuro incominciando dallo stesso aspetto esteriore del recluso, del malvivente conclamato; inoltre ognuno, accostandosi al reclusorio, sente che tutta quella massa di uomini non si è riunita lì di sua volontà e che, nonostante ogni mezzo usato, non è possibile far di un uomo vivo un cadavere: egli conserva i suoi sentimenti, la sete di vendetta e di vita, le passioni e il bisogno di soddisfarle.
Ma, nonostante ciò, io sono positivamente sicuro che di temere i detenuti non è tuttavia il caso. Non così facilmente, né così alla lesta un uomo si getta col coltello su un altro. Insomma, anche se un pericolo è possibile, anche se qualche volta è reale, dalla rarità di tali casi disgraziati si può direttamente concludere che è irrilevante. S'intende che io parlo ora soltanto dei detenuti giudicati, molti dei quali sono perfino lieti di essere giunti, finalmente, nel reclusorio (a tal segno può essere bella a volte una vita nuova! ), e per conseguenza sono disposti a vivere tranquilli e pacifici; inoltre essi stessi, in realtà, non permetteranno ai più irrequieti dei loro di far troppo i bravi.
Ogni forzato, per audace e insolente che sia, nel reclusorio ha paura di tutto. Il detenuto sotto giudizio invece è un'altra cosa.
Costui è realmente capace di gettarsi su un estraneo, così, per nulla, soltanto perché domani, per esempio, deve andare incontro al castigo e, se ne combina una nuova, anche il castigo si allontana. Qui l'aggressione ha un motivo, uno scopo: quello di "mutare la propria sorte" a qualunque costo e al più presto possibile. Io conosco perfino uno strano caso psicologico di questo genere.
Da noi, al reclusorio, nella categoria militare, c'era un detenuto, un ex soldatino, non privato dei diritti civili, spedito nel carcere per un paio di anni in base a sentenza, uno straordinario spaccone e un raro vigliacco. In generale, spacconate e vigliaccheria s'incontrano nel soldato russo estremamente di rado. Il nostro soldato è sempre così occupato che, anche se volesse, non avrebbe il tempo di far lo spaccone. Ma se poi è spaccone, è quasi sempre un fannullone e un vile. Dutov (è il cognome del detenuto) finì di scontare la sua breve pena e tornò al battaglione di linea. Ma poiché tutti i suoi simili, inviati nel reclusorio per correzione, vi si guastano definitivamente, accade anche di solito che essi, trascorse in libertà non più di due o tre settimane, vadano di nuovo sotto processo e ricompaiano nel carcere, non più per due o tre anni, bensì nella categoria "permanente", per quindici o venti anni. E così accadde. Un tre settimane dopo l'uscita dal reclusorio, Dutov rubò forzando una serratura; inoltre insolentì e diede in escandescenze. Fu mandato sotto giudizio e condannato a una pena severa. Spaventatosi del castigo imminente oltre ogni dire, in grado estremo, come il più miserabile dei vigliacchi, la vigilia del giorno in cui doveva esser passato per le verghe, si scagliò con un coltello sull'ufficiale di guardia che era entrato nella camera dei detenuti. Naturalmente egli comprendeva benissimo che, con tale azione, avrebbe oltremodo aggravato la sua condanna e il suo periodo di lavori forzati. Ma il calcolo stava appunto nell'allontanare, non fosse che di qualche giorno, non fosse che di qualche ora, il pauroso momento del castigo! Egli era vigliacco al punto che, avventatosi col coltello, non aveva nemmeno ferito l'ufficiale, ma aveva fatto ogni cosa pro forma, solo perché ne risultasse un nuovo delitto, per il quale lo avrebbero nuovamente giudicato.
Il minuto che precede il castigo, certo, è terribile per il condannato, e a me, nel corso di alcuni anni, è toccato di vedere un buon numero di giudicabili alla vigilia del giorno per essi fatale. Per lo più mi sono incontrato con detenuti sotto processo all'infermeria, nelle corsie dei detenuti, quando vi giacevo ammalato, il che accadeva abbastanza spesso. E' noto a tutti i carcerati dell'intera Russia che le persone più compassionevoli verso di loro sono i medici. Essi non fanno mai distinzione tra i detenuti, come fanno involontariamente quasi tutti gli estranei, salvo forse soltanto il popolino. Questo non rimprovera mai il detenuto per il suo delitto, per quanto orribile sia, e gli perdona tutto per il castigo che ha subito e, in generale, per la sua disgrazia. Non per nulla tutto il popolo dell'intera Russia chiama il delitto "disgrazia" e i delinquenti "disgraziati". E' questa una definizione profondamente significativa. Essa è tanto più importante in quanto è data inconsapevolmente, istintivamente.
I medici invece sono, in molti casi, il vero rifugio dei detenuti, soprattutto poi dei giudicandi, che sono trattati più duramente dei condannati... Ed ecco che il giudicando, calcolato il termine probabile del giorno per lui tremendo, se ne va spesso all'infermeria, desiderando allontanare sia pure di poco il penoso momento. Quando poi ne viene dimesso, sapendo quasi con certezza che il giorno fatale è domani, è quasi sempre in preda a forte agitazione. Taluni cercano di nascondere i loro sentimenti per amor proprio, ma l'inabile, ostentata spavalderia non inganna i loro compagni. Tutti capiscono di che si tratti e tacciono per un senso di umanità. Io ho conosciuto un detenuto, un giovane omicida, ex-soldato, condannato al numero massimo di bastonate.
Egli si impaurì tanto che, alla vigilia della punizione, si risolse a bere una ciotola di acquavite, dopo averci messo in infusione del tabacco da fiuto. A proposito: l'acquavite compare sempre presso il detenuto sotto processo alla vigilia del castigo.
Essa gli viene recata ancora molto tempo prima del termine e gli è procacciata a caro prezzo, e l'imputato rinuncerà piuttosto per sei mesi alle cose più indispensabili, ma raggranellerà la somma necessaria per un quarto di bottiglia di acquavite, per berla un quarto d'ora prima del castigo. Fra i detenuti è diffuso il convincimento che l'uomo ebbro senta meno dolorosamente la frusta o i bastoni. Ma io mi sono distratto dal racconto. Il povero ragazzo, bevuta la sua ciotola di acquavite, in realtà si ammalò subito; gli cominciarono dei vomiti con sbocchi di sangue, e lo portarono all'infermeria quasi privo di sensi. Questo vomito gli sconquassò il petto talmente che alcuni giorni dopo si manifestarono in lui i sintomi di una vera tisi, della quale morì sei mesi dopo. I medici che lo curavano per la tisi non sapevano da che cosa fosse provenuta.
Ma parlando della pusillanimità che spesso s'incontra nei delinquenti di fronte al castigo, io devo aggiungere che, al contrario, taluni di essi fanno stupire l'osservatore per la loro non comune intrepidezza. Io mi ricordo di alcuni esempi di un ardimento che giungeva a una specie d'insensibilità, e questi esempi non erano affatto rari. Ricordo specialmente il mio incontro con un efferato criminale. Un giorno d'estate si diffuse nelle corsie dei detenuti la voce che la sera avrebbero punito il famoso bandito Orlòv, un ex-soldato disertore, e dopo la punizione lo avrebbero condotto in corsia. I detenuti ammalati, in attesa di Orlòv, affermavano che egli sarebbe stato punito crudelmente.
Tutti erano in una certa agitazione e, lo confesso, anch'io attendevo la comparsa del famoso bandito con estrema curiosità.
Già da un pezzo avevo udito miracoli sul suo conto. Era un malfattore come ce ne sono pochi, che aveva freddamente ammazzato vecchi e bambini, un uomo dotato di una tremenda forza di volontà e di un'orgogliosa consapevolezza della propria forza. Egli si era confessato autore di numerosi assassinii ed era stato condannato a subire il supplizio del bastone passando tra le file dei soldati.
Lo condussero che era già sera. Nella corsia si era ormai fatto buio e avevano acceso le candele. Orlòv era quasi privo di sensi, enormemente pallido, con folti capelli arruffati, neri come la pece. La sua schiena era gonfia e di color violaceo. Tutta la notte i detenuti l'assistettero, gli cambiarono l'acqua, lo voltarono da un fianco sull'altro, gli diedero la medicina, come se avessero cura di un parente di sangue o di un qualche benefattore. Il giorno dopo egli si era pienamente riavuto e passò un paio di volte per la corsia! Questo mi colmò di stupore: troppo debole e straziato era giunto all'infermeria! Egli aveva ricevuto in una volta una buona metà dell'intero numero di bastonate destinategli. Il medico aveva interrotto l'esecuzione solo quando si era accorto che l'ulteriore prolungamento del castigo minacciava di sicura morte il delinquente. Inoltre Orlòv era di piccola statura e di debole complessione, e per giunta estenuato dalla lunga detenzione preventiva. Chi ha avuto occasione di incontrare qualche volta dei detenuti sotto processo ha ricordato probabilmente a lungo i loro visi emaciati, magri e pallidi, i loro sguardi febbrili. Ciò nonostante Orlòv si rimetteva in fretta. Evidentemente la sua energia interiore, psichica, aiutava molto la natura. In realtà era un uomo non del tutto comune. Per curiosità io feci più stretta conoscenza con lui e lo studiai un'intera settimana. Posso dire positivamente di non aver mai incontrato nella mia vita un uomo più forte, più fermo di lui per carattere. Già avevo veduto una volta, a Tobòlsk, una celebrità dello stesso genere, un ex-capo di briganti. Quello era una vera bestia selvaggia e noi, standogli vicino e non sapendone ancora il nome, già per istinto presentivamo che ci stava accanto un essere tremendo. Ma in lui m'inorridiva l'ottusità spirituale. La carne a tal punto aveva il sopravvento su tutte le sue qualità morali che voi, fin dal primo sguardo alla sua faccia, vedevate non essere rimasto in lui altro che una sete sfrenata di godimenti fisici, di lussuria, di sensualità. Io sono sicuro che Kòreniev - era il nome di quel brigante - si sarebbe perduto d'animo e avrebbe tremato di paura davanti al castigo, sebbene fosse capace di ammazzare la gente senza nemmeno batter ciglio. Totalmente opposto a lui era Orlòv. C'era in costui una palese piena vittoria sulla carne. Si vedeva che quest'uomo era in grado di dominarsi illimitatamente, che disprezzava qualsiasi tormento e castigo e non temeva nulla al mondo. In lui non vedevate se non una infinita energia, sete di vendetta, sete di raggiungere lo scopo prefisso. Tra l'altro, io fui impressionato dalla sua strana arroganza. Egli considerava ogni cosa come da un'inverosimile altezza, ma senza punto fare sforzi per sollevarsi sui trampoli, così, in certo qual modo naturalmente. Non c'era, io credo, essere al mondo che potesse agire su di lui con la sola autorità. Egli guardava tutto con una specie di sorprendente placidità, come se non ci fosse sulla terra nulla che potesse farlo stupire. E, pur comprendendo pienamente che gli altri detenuti lo guardavano con rispetto, mai si pavoneggiava dinanzi a loro. E intanto la vanità e l'alterigia sono proprie di tutti i detenuti quasi senza eccezione. Era tutt'altro che sciocco e, in un certo strano modo, sincero, benché niente affatto chiacchierone. Alle mie domande rispondeva senz'altro che aspettava di essere guarito per subire al più presto il rimanente della punizione e che da principio, prima del castigo, aveva temuto di non sopportarlo. "Ma ora", soggiunse strizzandomi l'occhio, "è cosa fatta. Riceverò il resto dei colpi, e mi spediranno subito con uno scaglione a Nercinsk, ma io, durante il viaggio, fuggirò! Fuggirò di sicuro! Ecco, purché mi guarisca presto la schiena!". E in tutti quei giorni attese impazientemente di poter chiedere che lo si dimettesse dall'infermeria. E nell'attesa a volte era molto burlone e allegro. Io provai a mettermi a parlare con lui delle sue avventure. Egli si accigliava un poco a questi miei interrogatori, ma rispondeva sempre sinceramente. Quando però comprese che io cercavo di giungere alla sua coscienza e che cercavo in lui non fosse che un briciolo di pentimento, mi gettò uno sguardo così sprezzante e altezzoso come se io fossi tutt'a un tratto diventato ai suoi occhi non so che sciocco bimbetto, col quale non si poteva nemmeno ragionare come coi grandi. Gli si dipinse sul viso perfino qualcosa come della compassione a mio riguardo. Di lì a un minuto scoppiò a ridere di me del riso più bonario, senz'alcuna ironia, e io sono convinto che, rimasto solo e ricordando le mie parole, si mise forse più volte a ridere tra sé. Infine fu mandato via con la schiena non ancora del tutto guarita; anch'io andai quella volta per essere dimesso e dall'infermeria ci accadde di tornare insieme: io al reclusorio e lui al corpo di guardia accanto al nostro carcere, dove era detenuto anche prima. Salutandomi, egli mi porse la mano, ed era questo, da parte sua, un segno di profonda fiducia. Io credo che l'abbia fatto perché era molto contento di se stesso e di quel momento. In fondo, non poteva non disprezzarmi e senza fallo mi doveva considerare come un essere sottomesso, debole, meschino e, di fronte a lui, inferiore sotto ogni aspetto. Il giorno dopo lo condussero via per la seconda punizione...
Quando ebbero chiuso la nostra camerata, essa assunse a un tratto un certo aspetto speciale: l'aspetto di una vera abitazione, di un focolare domestico. Soltanto ora potevo vedere i detenuti, i miei compagni, proprio come in casa. Di giorno i sottufficiali, i soldati di guardia e, in genere, i superiori possono in ogni momento arrivare nel reclusorio, perciò tutti i suoi abitanti si comportano, in certo qual modo, altrimenti, come se non fossero del tutto tranquilli, come se a ogni istante attendessero qualcosa in una specie di ansietà. Ma, appena ebbero chiuso la camerata, tutti subito si disposero tranquillamente ciascuno al suo posto, e quasi tutti si accinsero a qualche lavoro manuale. La camerata a un tratto s'illuminò. Ciascuno aveva la sua candela e il suo candeliere, per lo più di legno. Chi si mise a rappezzare stivali, chi a cucire qualche indumento. L'aria mefitica dello stanzone si faceva più densa di ora in ora. Un gruppo di bontemponi si cacciò in un angolo sedendo sulle calcagna, davanti a un tappeto disteso, per giocare a carte. Quasi in ogni camerata c'era un detenuto che aveva con sé un misero tappetino lungo un "arscìn" [8], una candela e delle carte inverosimilmente sporche e unte. Tutto questo insieme si chiamava "majdàn". Il tenitore riceveva dai giocatori un compenso, una quindicina di copeche per notte; della cosa egli faceva commercio. I giocatori di solito giocavano a tre carte, a bassetta eccetera. Tutti i giochi erano d'azzardo.
Ciascun giocatore spargeva dinanzi a sé un mucchietto di monete di rame - tutto quel che aveva in tasca - e cessava di star coccoloni soltanto dopo essersi ridotto al verde o dopo avere spogliato i compagni. Il gioco terminava a tarda notte, e a volte si prolungava fino all'alba, fino al preciso momento in cui si apriva la baracca. Nella nostra camerata, come pure in tutte le altre del reclusorio, c'erano sempre dei poveri, dei cenciosi, che avevano perduto e bevuto tutto, o poveri semplicemente così, per natura.
Io dico "per natura" e insisto in modo particolare su questa espressione. Effettivamente, dappertutto nel popolo nostro, in qualsiasi congiuntura, in qualsiasi condizione, sempre ci sono e sempre ci saranno certe strane persone, pacifiche e non di rado tutt'altro che indolenti, predestinate dalla sorte a rimanere eternamente povere. Costoro sono sempre dei tapini, sono sempre malmessi, hanno sempre un certo aspetto di gente abbattuta e oppressa da non so che cosa e si trovano in perpetuo alla mercé di qualcuno, alle dipendenze di qualcuno come galoppini, di solito in casa di bisboccioni o di persone subitamente arricchite e salite in alto. Ogni impresa, ogni iniziativa è per essi un dolore e un peso. Sembrano nati a patto di non avviare mai nulla per loro conto e di rendere soltanto servigi, di non vivere di volontà propria, di ballare al suono dell'altrui piffero; la loro missione è di eseguire soltanto il volere altrui. Per colmo, nessuna circostanza, nessun rivolgimento può arricchirli. Sono sempre poveri. Io ho notato che siffatte persone non si trovano solamente nel popolo, ma in tutti gli ambienti sociali, i ceti, i partiti, i giornali, i sodalizi. La stessa cosa accadeva in ogni camerata, in ogni reclusorio, e appena si costituiva un "majdàn", si presentava immediatamente uno di costoro a offrire i suoi servigi. E in generale nessun "majdàn" poteva fare a meno di un inserviente. Lo assumevano di solito tutti i giocatori insieme, per l'intera nottata, per un cinque copeche d'argento, e il suo principale ufficio era quello di passare tutta la notte a far la guardia. Per lo più egli stava a gelare per sei o sette ore al buio nell'ingresso, con trenta gradi sotto zero, tendendo l'orecchio a ogni rumore, a ogni suono, a ogni passo nel cortile. Il maggiore di piazza o i soldati di ronda comparivano a volte nel reclusorio a notte abbastanza inoltrata, entravano piano e sorprendevano i giocatori e quelli che lavoravano e le candele di troppo, che si potevano vedere già dal cortile. Quanto meno, allorché improvvisamente cominciava a stridere la serratura della porta che dall'ingresso dava in cortile, era già troppo tardi per nascondersi, spegnere le candele e stendersi sui tavolacci. Ma poiché in questi casi l'inserviente di guardia riceveva poi il fatto suo dal "majdàn", anche tali infortuni erano oltremodo rari.
Cinque copeche, certo, sono un compenso ridicolmente meschino, anche per il reclusorio; ma mi hanno sempre fatto impressione nel carcere la severità e l'inesorabilità dei conduttori d'opera, in questo e in tutti gli altri casi. "I soldi li hai presi, dunque servi!". Era questo un argomento che non ammetteva replica. Per il "gros" [mezza copeca] pagato il conduttore prendeva tutto quel che poteva prendere, prendeva, se possibile, anche di più, e credeva ancora di rendersi obbligato il locatore d'opera. Il gozzovigliatore, che buttava il denaro a destra e a sinistra senza contare, non mancava di defraudare il suo inserviente, e questo io notai in più di un reclusorio, in più di un "majdàn".
Ho già detto che nella camerata quasi tutti si erano applicati a qualche occupazione: all'infuori dei giocatori, non c'erano più di cinque uomini totalmente oziosi; essi si coricarono subito. Il mio posto sul tavolaccio veniva a essere proprio accanto alla porta.
Dall'altra parte del tavolaccio, a testa a testa con me, si trovava Akim Akimic'. Fin verso le dieci o le undici egli lavorò incollando una specie di lanternino cinese multicolore che gli era stato ordinato in città a un prezzo abbastanza buono. Queste lanterne egli le faceva con maestria e lavorava metodicamente, senza interrompersi; quando poi ebbe finito il lavoro, rassettò con cura, distese il suo pagliericcio, disse le preghiere a Dio e si sdraiò correttamente sul suo giaciglio. La correttezza e l'ordine egli li spingeva, a quanto sembrava, fino alla più meticolosa pedanteria: evidentemente doveva stimarsi un uomo di straordinaria intelligenza, come, in generale, tutte le persone ottuse e limitate. Non mi era piaciuto fin dal primo giorno, sebbene ricordi che in quel primo giorno ero stato molto incerto nel giudicarlo e soprattutto mi ero meravigliato che una persona simile, invece di riuscire nella vita, fosse venuta a finire nel reclusorio. In seguito più di una volta mi toccherà parlare di Akim Akimic' .
Ma ora descriverò in breve la composizione di tutta la nostra camerata. Io dovevo viverci per molti anni e tutti quelli erano i miei futuri conviventi e compagni. Si può capire che li osservassi con avida curiosità. A sinistra del mio posto si trovava sul tavolaccio un gruppo di montanari del Caucaso, mandati lì la maggior parte per rapine e per vari periodi di tempo. Essi erano:
due lesghini, un cecenzo e tre tartari del Daghestàn. Il cecenzo era un essere cupo e tetro; non parlava quasi con alcuno e guardava di continuo in giro con odio, di sotto in su e con un sorriso velenoso, malignamente beffardo. Uno dei lesghini era già un vecchio, dal naso lungo, sottile, gibboso, dall'aspetto di furfante matricolato. In cambio, l'altro, Nurra, mi fece sin dal primo giorno la più confortante, la più grata impressione. Era un uomo non ancora vecchio, di bassa statura, conformato come un Ercole, un biondo perfetto dagli occhi azzurrochiari, camuso, con un viso da finnico e con le gambe arcuate a causa del suo precedente continuo andare a cavallo. Tutto il suo corpo era stato coperto di cicatrici da baionette e pallottole. Nel Caucaso egli era uno di quelli sottomessi, ma andava continuamente alla chetichella verso i montanari ribelli e di là, insieme con loro, faceva incursioni contro i russi. In galera tutti gli volevano bene. Era sempre allegro, cortese con tutti, lavorava senza mormorare, tranquillo e sereno, benché spesso considerasse con disgusto la sozzura e la sporcizia della vita dei detenuti e si sdegnasse fino al furore per ogni ruberia, furfanteria, ubriacatura e, in genere, per tutto ciò che era disonesto, ma senza attaccar liti e voltandosi soltanto in là con indignazione.
Personalmente, in tutto il tempo dei suoi lavori forzati, non rubò mai nulla e non commise una sola azione cattiva. Era pio in modo straordinario. Recitava le preghiere con sacro zelo, osservava come un fanatico i digiuni che precedevano le feste maomettane e passava intere notti a pregare. Tutti lo amavano e avevano fiducia nella sua onestà. "Nurra è un leone", dicevano i detenuti; e così gli era rimasto il nomignolo di leone. Era perfettamente convinto che, alla fine del periodo di lavori forzati inflittogli, lo avrebbero fatto tornare a casa nel Caucaso, e non viveva che di questa speranza. Mi pare che sarebbe morto, se l'avesse perduta.
Fin dal mio primo giorno di reclusorio, l'avevo notato in modo particolare. Non si poteva non notare il suo viso buono, simpatico in mezzo ai visi cattivi, torvi e beffardi degli altri forzati.
Nella prima mezz'ora dal mio arrivo nel carcere egli, passandomi accanto, mi aveva battuto sulla spalla ridendo con fare bonario, mentre mi guardava negli occhi. Io sulle prime non avevo potuto capire che cosa ciò significasse. Egli parlava malissimo il russo.
Poco dopo mi si avvicinò di nuovo e, sorridendo, tornò a battermi amichevolmente sulla spalla. Poi ancora e ancora, e la cosa continuò per tre giorni. Questo voleva dire, da parte sua, come indovinai e seppi dopo, che aveva compassione di me, che sentiva quanto mi fosse penoso far conoscenza col reclusorio e voleva mostrarmi la sua amicizia, farmi coraggio e assicurarmi della sua protezione. Buono e ingenuo Nurra!
Di tartari del Daghestàn ce n'erano tre ed erano tutti fratelli carnali. Due di essi erano già anziani, ma il terzo, Aléj, non aveva più di ventidue anni e, all'aspetto, era ancora più giovane.
Il suo posto sul tavolaccio era accanto al mio. Il suo bel viso aperto, intelligente e, al tempo stesso, bonariamente ingenuo, fin dal primo sguardo inclinò verso di lui il mio cuore, e io fui tanto lieto che il destino mi avesse mandato lui, e non qualcun altro, come vicino. Tutta l'anima sua si esprimeva nel suo viso bello, anzi, si può dire, bellissimo. Il suo sorriso era così fiducioso, così fanciullescamente semplice, i grandi occhi neri erano così dolci, così carezzevoli, che io provavo sempre, nel guardarlo, un particolare piacere, perfino un sollievo nell'angoscia e nella tristezza. Parlo senza esagerazione. In patria un suo fratello maggiore (di fratelli maggiori ne aveva cinque; gli altri due erano finiti in non so quale officina) gli aveva un giorno ordinato di prendere la sciabola circassa e montare a cavallo, per andare insieme con loro a una certa spedizione. Il rispetto verso i maggiori nelle famiglie dei montanari è così grande che il ragazzo non soltanto non osò, ma nemmeno pensò a domandare dove si avviassero. E gli altri non stimarono neppure necessario dirglielo. Andavano tutti a fare una rapina, a far la posta sulla strada a un ricco mercante armeno e svaligiarlo. E così accadde: essi uccisero l'intera scorta, ammazzarono l'armeno e lo depredarono di tutta la mercanzia: ma il fatto venne scoperto: furono presi tutti e sei, processati, dimostrati colpevoli, condannati e spediti in Siberia, ai lavori forzati. Tutta la grazia che il tribunale fece ad Aléj fu quella di ridurgli la durata della pena; egli fu deportato per quattro anni. I fratelli lo amavano molto e di un certo amore piuttosto paterno che fraterno. Egli era loro di conforto nella deportazione ed essi, abitualmente cupi e tetri, sorridevano sempre guardandolo, e quando si mettevano a discorrere con lui (e con lui discorrevano pochissimo, come se lo considerassero tuttora come un bambino, col quale non era il caso di parlar di cose serie), i loro visi arcigni si spianavano, e io indovinavo che parlavano con lui di cose facete, quasi puerili; per lo meno, si scambiavano sempre degli sguardi e sorridevano con bonomia nell'ascoltare le sue risposte. Lui poi non osava quasi attaccar discorso con loro:
a tal punto giungeva la sua reverenza. E' difficile immaginarsi come questo ragazzo, durante tutto il tempo dei lavori forzati, avesse saputo serbare in sé una tale dolcezza di cuore, nutrire in sé una tale severa onestà, una tale cordialità e simpatia, non irrozzire, non depravarsi. Era del resto, nonostante tutta la sua apparente dolcezza, una natura forte e armoniosa. Io lo conobbi bene in seguito. Era pudico come una fanciulla pura, e un'azione abietta, cinica, sconcia, oppure ingiusta, violenta, commessa da qualcuno nel reclusorio, accendeva una fiamma di sdegno nei suoi bellissimi occhi, che si facevano in conseguenza ancora più belli.
Ma egli sfuggiva i litigi e gli alterchi, benché non fosse in generale di quelli che si lascerebbero offendere impunemente, e sapesse farsi rispettare. Ma litigi non ne aveva con alcuno: tutti gli volevano bene e tutti erano verso di lui affettuosi. Dapprima era stato con me soltanto cortese. A poco a poco io cominciai a discorrere con lui; in alcuni mesi egli imparò a parlare il russo ottimamente, cosa a cui i loro fratelli non giunsero in tutto il tempo dei loro lavori forzati. Egli mi parve un ragazzo di straordinaria intelligenza, straordinariamente modesto e delicato, e perfino già molto giudizioso. In generale, lo dirò fin da ora:
io considero Aléj come un essere tutt'altro che comune e rammento l'incontro con lui come uno dei migliori incontri della mia vita.
Ci sono dei caratteri tanto belli per natura, a tal segno dotati da Dio, che anche il solo pensiero che possano un giorno o l'altro mutarsi in peggio ci sembra impossibile. Per loro siete sempre tranquilli. E io adesso sono tranquillo per Aléj. Ma dov'è ora?
Una volta, già parecchio tempo dopo il mio arrivo nel reclusorio, giacevo sul tavolaccio e pensavo a qualcosa di penosissimo. Aléj, sempre operoso e laborioso, quella volta non si occupava di nulla, benché fosse ancora presto per dormire. Ma essi avevano in quei giorni una delle loro feste musulmane e non lavoravano. Egli stava disteso con una mano sotto il capo e pensava anche lui a qualche cosa. A un tratto mi domandò:
- Ebbene, ora soffri molto ?
Io l'osservai con curiosità, e mi parve strana questa improvvisa, diretta domanda da parte di Aléj, sempre delicato, sempre circospetto, sempre sagace di cuore; ma, datogli uno sguardo più attento, scorsi sul suo viso tanta angoscia, tanta pena, provocata dai ricordi, che subito giudicai che egli stesso doveva soffrire molto, e proprio in quel momento. Gli esternai la mia supposizione. Egli sospirò e sorrise tristemente. A me piaceva il suo sorriso, sempre tenero e cordiale. Inoltre, sorridendo, egli metteva in mostra due file di denti perlacei, la cui bellezza la più bella donna del mondo gli avrebbe potuto invidiare.
- Tu, Aléj, ora di sicuro pensavi a come nel vostro Daghestàn si celebra questa festa. Di sicuro laggiù si sta bene!
- Sì, - rispose, e i suoi occhi rifulsero. - Ma come fai a sapere che pensavo a questo?
- E come non lo saprei? Ebbene, là si sta meglio che qui?
- Oh, perché dici questo...
- Quali fiori ci devono essere ora da voi, quale paradiso ! ...
- Oh, non parlare, è meglio. - Era fortemente agitato.
- Ascolta, Aléj, tu avevi una sorella?
- Ce l'avevo, ma a te che importa?
- Dev'essere una bellezza, se somiglia a te.
- Ma che a me! E' una tale bellezza che in tutto il Daghestàn non ce n'è una meglio. Ah, che bellezza è mia sorella! tu non ne hai mai visto una simile! Anche mia madre era bellissima.
- E ti amava tua madre?
- Ah! Che dici! Di sicuro ora è morta di dolore per me. Io ero il suo figlio prediletto. Mi amava più della sorella, più di tutti...
Stanotte è venuta a me in sogno e ha pianto su di me.
Egli tacque, e quella sera non disse più nemmeno una parola. Ma da quel giorno cercò ogni volta di parlare con me, sebbene, per un rispetto che, per non so qual motivo, sentiva verso di me, non si mettesse mai a parlare per primo. In cambio, era molto lieto, quando mi rivolgevo a lui. Io lo interrogavo sul Caucaso, sulla sua vita di prima. I fratelli non gli impedivano di discorrere con me, anzi ciò era loro gradito. Anch'essi, vedendo che volevo sempre più bene ad Aléj, diventarono con me molto più gentili.
Aléj mi aiutava nel lavoro, faceva per me tutto ciò che poteva, nelle camerate, e si vedeva che era per lui un gran piacere sollevarmi non fosse che un tantino e compiacermi, e in questo sforzo per compiacermi non c'era il minimo servilismo o la minima ricerca di un qualche vantaggio, ma un caldo, amichevole sentimento verso di me, che egli più non nascondeva. Tra l'altro, aveva molte attitudini meccaniche; aveva imparato a cucire egregiamente la biancheria, a rappezzare gli stivali, e di poi imparò, per quanto poté, l'arte del falegname. I fratelli lo lodavano ed erano orgogliosi di lui.
- Ascolta, Aléj, - gli dissi un giorno, - perché non impareresti a leggere e scrivere in russo? Sai come questo potrà esserti utile qui in Siberia, in seguito?
- Ne ho molta voglia. Ma da chi imparare?
- Quanti qui hanno un po' d'istruzione! Ma vuoi che ti insegni io?
- Ah, insegnami, per favore! - e già si era sollevato sul tavolaccio e giungeva le mani in atto di preghiera guardandomi.
Ci mettemmo all'opera fin dalla sera seguente. Io avevo una traduzione russa del Nuovo Testamento, libro non proibito nel reclusorio. Senza abbecedario, soltanto con questo libro, Aléj in poche settimane imparò a leggere magnificamente. Dopo circa tre mesi, già capiva benissimo la lingua letteraria. Studiava con ardore, con passione.
Un giorno avevamo letto insieme tutto il sermone della montagna.
Io notai che alcuni passi del sermone egli li aveva pronunciati, si sarebbe detto, con un sentimento speciale.
Gli domandai se gli piaceva ciò che aveva letto.
Egli mi gettò un rapido sguardo e il rossore gli spuntò sul viso.
- Ah, sì! - rispose, - sì, Gesù era un santo profeta, Gesù diceva le parole di Dio. Com'è bello!
- E che cosa ti piace più di tutto?
- Dove egli dice: perdona, ama, non offendere, ama anche i nemici.
Ah, come parla bene!
Si voltò verso i fratelli, che ascoltavano la nostra conversazione, e cominciò a dir loro qualche cosa con foga. Essi parlarono a lungo e seriamente tra loro accennando col capo affermativamente. Poi con un sorriso grave e benevolo, tutto musulmano (che tanto mi piace, e mi piace precisamente la gravità di quel sorriso), si rivolsero a me e confermarono che Gesù era un profeta di Dio e faceva grandi miracoli; che aveva fatto un uccello di argilla, ci aveva soffiato su, quello aveva preso il volo... e che questo era scritto nei loro libri. Mentre dicevano ciò, erano pienamente persuasi di farmi cosa molto gradita esaltando Gesù, e Aléj era tutto felice che i suoi fratelli vi si fossero indotti e avessero voluto darmi tale soddisfazione.
Il nostro corso di scrittura riuscì pure in modo straordinario.
Aléj si era procurato della carta (che non mi permise di comprare a mie spese), penne e inchiostro, e in un paio di mesi imparò a scrivere splendidamente.
Questo fece addirittura stupire i suoi fratelli. L'orgoglio e la contentezza loro non avevano confini. Essi non sapevano come ringraziarmi. Nei lavori, se ci accadeva di lavorare insieme, andavano a gara nell'aiutarmi e consideravano ciò come una fortuna per loro. Non parlo poi di Aléj. Egli amava me forse quanto i fratelli. Non dimenticherò mai come uscì dal reclusorio. Mi condusse dietro la baracca e là mi si buttò al collo e si mise a piangere. Mai prima mi aveva baciato, né aveva pianto.
- Tu hai fatto tanto, hai fatto tanto per me, - disse, - che mio padre e mia madre non avrebbero fatto altrettanto: tu hai fatto di me un uomo. Dio ti ricompenserà, e io non ti dimenticherò mai...
Dove sarà, dove sarà ora il mio buono, caro, caro Aléj?
Oltre i circassi, c'era ancora nelle nostre camerate tutto un mucchio di polacchi che costituiva una famiglia del tutto a sé, quasi senza comunicazione con gli altri detenuti. Ho già detto che essi, per il loro esclusivismo, per il loro odio verso i forzati russi, erano a loro volta odiati da tutti. Erano nature tormentate, malate; ce n'erano sei. Alcuni di loro erano gente istruita; io ne parlerò a parte e minutamente in seguito. Da loro talvolta, negli ultimi anni della mia vita di reclusorio, mi procurai qualche libro. Il primo che lessi mi fece una forte, strana, speciale impressione. Di queste impressioni dirò un giorno o l'altro a parte. Per me esse erano troppo curiose e sono convinto che a molte persone riuscirebbero affatto incomprensibili. Non si può giudicare di certe cose, senza averle provate. Dirò questo solo: che le privazioni morali sono più penose di tutti i tormenti fisici. L'uomo del popolo che va in galera viene a trovarsi nella sua società, anzi in una forse ancora più evoluta. Egli, certo, ha perduto molto: la patria, la famiglia, tutto, ma il suo ambiente rimane lo stesso. L'uomo istruito, che va incontro, secondo le leggi, a una medesima pena con l'uomo del popolo, spesso perde senza confronto più di lui.
Egli deve soffocare in sé tutte le sue esigenze, tutte le sue abitudini; deve passare in un ambiente per lui insoddisfacente, abituarsi a respirare un'aria diversa... E' un pesce tratto dall'acqua sulla sabbia... E spesso il castigo, secondo la legge, uguale per tutti diventa per lui dieci volte più tormentoso.
Questa è verità... anche se si trattasse soltanto delle abitudini materiali che bisogna sacrificare.
Ma i polacchi costituivano tutto un gruppo particolare. Erano sei ed erano insieme. Fra tutti i forzati della nostra camerata, essi volevano bene solo a un ebreo e, forse, unicamente perché li divertiva. Al nostro ebreuccio del resto volevano bene anche gli altri detenuti, sebbene assolutamente tutti, senza eccezione, lo canzonassero. Egli era unico da noi, e io anche ora non posso ricordarmene senza ridere. Ogni volta che lo guardavo, mi veniva sempre in mente l'ebreuccio Jankel, del "Taràs Bulba", che, svestitosi per andare a passare la notte con la sua ebreuccia in una specie di armadio, subito si era fatto oltre ogni dire simile a un pulcino... Issàj Fomic', il nostro ebreuccio, rassomigliava, come una goccia d'acqua a un'altra, a un pulcino spennacchiato.
Era un uomo non più giovane, intorno ai cinquant'anni, piccolo di statura e di poca forza, astutello e, al tempo stesso, proprio sciocco. Era insolente e arrogante e, insieme, oltremodo pauroso.
Era tutto coperto di certe rughettine, e la sua fronte e le sue guance portavano i marchi applicatigli sul luogo del supplizio. Io non riuscivo in nessun modo a capire come avesse potuto reggere a sessanta sferzate. Era venuto lì per un'accusa di omicidio. Teneva ben nascosta una ricetta che i suoi ebreucci gli avevano procurato da un dottore, subito dopo il supplizio. Secondo questa ricetta, era possibile fabbricare un unguento mercé il quale i suoi marchi, in un paio di settimane, sarebbero potuti scomparire. Far uso di questo unguento nel reclusorio non osava e attendeva lo scadere dei suoi dodici anni di lavori forzati, dopo di che, andando al confino, intendeva valersi senza fallo della ricetta. "Se no, sarà impossibile sposarsi", mi disse un giorno, "e io voglio assolutamente sposarmi". Io e lui eravamo grandi amici. Egli era sempre in un'eccellente disposizione di spirito. In galera per lui era facile vivere; di professione gioielliere, era sovraccarico di lavoro che gli veniva dalla città, dove non c'erano gioiellieri, e in tal modo si era liberato dei lavori pesanti. Si intende che in pari tempo era usuraio e riforniva di denaro, prestando a interesse e contro pegno, tutti i forzati. Egli era arrivato prima di me e uno dei polacchi mi descrisse minutamente il suo arrivo.
Era una storia spassosissima, che io racconterò poi; di Issàj Fomìc' parlerò ancora più di una volta.
Il resto della gente, nella nostra camerata, si componeva di quattro vecchi credenti, anziani e versati nelle sacre scritture, fra i quali c'era anche il vecchio dei sobborghi di Starodùb; di due o tre piccolo-russi, uomini tetri; di un forzato assai giovane, dal nasino sottile, sui ventitré anni, che aveva già ammazzato otto persone; di un gruppo di falsi monetari, uno dei quali era il buffone di tutta la nostra baracca; e infine di alcuni cupi e arcigni individui, rasi e sfigurati, taciturni e invidiosi, che guardavano con odio di sotto in su intorno a sé, e avevano intenzione di guardare, accigliarsi, tacere e covare odio così ancora per lunghi anni: per l'intero periodo dei loro lavori forzati. Tutto ciò non fece che balenarmi davanti in quella prima, sconsolata sera della mia vita - e mi balenò davanti in mezzo al fumo e alla fuliggine, in mezzo alle parolacce e a un indicibile cinismo, in un'aria mefitica, al suono delle catene fra imprecazioni e sghignazzi impudenti. Io mi coricai sul nudo tavolaccio, dopo aver messo sotto la testa il mio vestito (non avevo ancora guanciale), e mi coprii col "tulùp" [9], ma per lungo tempo non potei addormentarmi, sebbene fossi tutto sfinito e rotto per tutte le mostruose e inattese impressioni di quella prima giornata. Ma la mia nuova vita incominciava appena. Molte cose ancora mi attendevano in avvenire a cui non avevo pensato mai, che nemmeno presagivo...
Tre giorni dopo il mio arrivo al reclusorio, mi fu ordinato di andare al lavoro. Mi è ben presente nella memoria questo primo giorno di lavoro, anche se in esso nulla mi accadde di molto insolito, tenuto conto di tutto ciò che d'insolito già c'era nella mia situazione. Ma questa era anch'essa una delle prime impressioni, e io continuavo ancora a osservare ogni cosa avidamente. Tutti quei tre primi giorni li avevo trascorsi nelle sensazioni più penose. "Ecco la fine del mio pellegrinaggio: sono nel reclusorio!", mi ripetevo ogni momento, "ecco il mio rifugio per molti, lunghi anni, il mio cantuccio, nel quale entro con uno stato d'animo così diffidente, così doloroso. Ma chi sa? Forse, quando, tra molti anni, mi toccherà lasciarlo, avrò a rimpiangerlo!", soggiungevo, non senza una punta di quella gioia maligna che arriva talvolta fino al bisogno di invelenire apposta la propria ferita, come per il desiderio di compiacersi del proprio dolore, come se nella coscienza di tutta la grandezza di una sventura ci fosse, in realtà, un godimento. L'idea di rimpiangere col tempo quel cantuccio riempiva me stesso di orrore:
io anche allora già presentivo fino a quale mostruoso grado l'uomo sia capace di adattamento. Ma questo era ancora da venire, e intanto ora intorno a me tutto era ostile e terribile... magari non tutto, ma, naturalmente, così mi pareva. Quella selvaggia curiosità con cui mi squadravano i miei nuovi compagni, i forzati, la loro accentuata ruvidezza col novizio di origine nobile, comparso a un tratto nella loro corporazione ruvidezza che qualche volta giungeva fino all'odio - tutto ciò mi aveva accasciato a tal segno che io stesso desideravo andare al più presto al lavoro, pur di conoscere e sperimentare al più presto tutta la mia sventura di colpo, per cominciare a vivere come tutti loro, per entrare al più presto nella stessa carreggiata con tutti gli altri. S'intende che allora non notavo e non sospettavo molte cose che erano proprio sotto al mio naso: in mezzo a quelle ostili non indovinavo ancora quelle consolanti. Del resto alcuni visi affabili, gentili, da me incontrati perfino in quei tre giorni, mi avevano, per il momento, fortemente rinfrancato. Più gentile e affabile di tutti era con me Akim Akimic'. Fra i visi torvi e pieni d'odio degli altri forzati non potevo non notarne anche alcuni buoni e gioviali. "Dappertutto ci sono uomini cattivi, ma fra i cattivi ci sono anche i buoni", mi affrettavo a pensare per consolarmi. "Chi sa? Questi uomini forse non sono a tal segno peggiori dei RIMANENTI, di quelli che sono RIMASTI di là, fuori del reclusorio". Pensavo questo e io stesso crollavo il capo in risposta al mio pensiero, e intanto - Dio mio! - se avessi solo saputo allora fino a che punto anche questo pensiero era giusto!
Ecco, per esempio, c'era lì un uomo che io non arrivai a conoscere pienamente se non dopo lunga serie di anni, e intanto egli fu con me e costantemente accanto a me quasi per tutto il tempo dei miei lavori forzati. Era il detenuto Suscilov. Appena mi sono messo ora a parlare dei forzati che erano NON PEGGIO degli altri, subito mi sono involontariamente ricordato di lui. Egli mi faceva dei servigi. Avevo anche un altro servitore. Akim Akimic' fin dall'inizio, fin dai primi giorni, mi aveva raccomandato uno dei detenuti - Ossip - dicendo che, per trenta copeche al mese, costui mi avrebbe cucinato ogni giorno un cibo a parte, se tanto mi era ostico quello governativo e se avevo i mezzi di provvedervi per mio conto. Ossip era uno dei quattro cuochi designati elettivamente dai detenuti alle nostre due cucine, benché del resto essi rimanessero affatto liberi di accettare o non accettare tale elezione e, accettatala, potessero, magari fin dal giorno dopo, rinunciarci. I cuochi non andavano più al lavoro e tutto il loro ufficio consisteva nel cuocere il pane e nel preparare la minestra di cavoli. Da noi non li chiamavano cuochi, ma sguattere (al femminile), non per disprezzo del resto, tanto più che per la cucina si sceglievano persone giudiziose e possibilmente oneste, ma così, per benevola celia, del che i nostri cuochi non si offendevano punto. Ossip lo eleggevano quasi sempre, e per parecchi anni, quasi di seguito, egli fu continuamente "sguattera", vi rinunciava a volte solo per un po' di tempo, quando l'angoscia lo travagliava proprio molto, e in pari tempo anche la voglia di portar dentro acquavite. Era un uomo di rara onestà e mitezza, pur essendo venuto lì per contrabbando. Era quello stesso contrabbandiere, quel giovane alto, robusto, di cui ho già fatto cenno; pavido di tutto, specialmente delle verghe, pacifico, docile, gentile con tutti, che non aveva mai litigato con alcuno, ma che non poteva non portar dentro acquavite, nonostante tutta la sua paura, per la passione del contrabbando.
Insieme con gli altri cuochi, commerciava anche in acquavite, sebbene, certo, non nelle proporzioni in cui commerciava, per esempio, Gasin, perché gli mancava l'audacia di arrischiare grosso. Con questo Ossip io andai sempre molto d'accordo. Per quanto poi riguarda i mezzi di avere un cibo proprio, ce ne volevano pochissimi. Io non sbaglierò dicendo che al mese mi andavano nel vitto sette rubli d'argento in tutto, s'intende oltre il pane, che era governativo, e qualche volta la minestra di cavoli, se ero proprio molto affamato, nonostante la mia avversione per essa, che del resto scomparve totalmente in seguito. Di solito compravo un pezzo di manzo, una libbra al giorno. E d'inverno la carne di manzo costava un "gros". Per la carne andava al mercato qualcuno degli invalidi, dei quali da noi ce n'era uno in ciascuna camerata, per vigilare l'ordine, e che da sé, spontaneamente, si erano assunto l'obbligo di andare ogni giorno al mercato a far compre per i detenuti, e per questo non accettavano quasi alcun compenso, salvo qualche bazzecola. Essi facevano questo per la propria tranquillità, altrimenti sarebbe stato loro impossibile rimanere a lungo nel reclusorio. In tal modo portavano dentro tabacco, tè in pani, carne di manzo, panini a ciambella eccetera, salvo forse la sola acquavite. Di acquavite non venivano richiesti, sebbene a volte se ne offrisse loro. Ossip mi cucinò per alcuni anni di fila sempre lo stesso, identico pezzo di manzo arrostito. Come poi fosse arrostito, è un'altra questione, ma non di questo si trattava. E' degno di nota che con Ossip durante alcuni anni quasi non dissi due parole. Molte volte incominciavo a discorrere con lui, ma egli era, in certo qual modo, incapace di sostenere la conversazione: soleva sorridere o rispondere sì o no, e basta. Faceva perfino specie guardare questo Ercole che pareva avesse sette anni.
Ma, oltre Ossip, fra coloro che mi aiutavano c'era anche Suscilov.
Io non l'avevo invitato né cercato. Mi aveva, non so come, trovato da sé e si era messo ai miei servizi; non ricordo nemmeno quando, né come ciò fosse avvenuto. Egli si mise a lavare per me. Dietro le baracche era stata costruita, appositamente, una grande fossa- lavatoio. Sopra questa fossa appunto, nei mastelli governativi, si lavava la biancheria dei detenuti. Oltre a ciò, Suscilov stesso s'inventava migliaia di svariate incombenze per compiacermi:
approntava la mia teiera, correva a fare una quantità di commissioni, andava in cerca di qualunque cosa per me, portava la mia casacca a riparare, mi lucidava gli stivali un quattro volte al mese; tutto ciò faceva con zelo, con aria indaffarata, come se gravassero su di lui Dio sa quali obblighi, insomma aveva interamente legato la sua sorte alla mia e preso i miei affari a suo conto. Egli non diceva mai, per esempio: "Voi avete tante camicie, la vostra casacca è strappata" eccetera, ma sempre: "Noi abbiamo ora tante camicie, la nostra casacca è strappata". Egli teneva addirittura i suoi occhi nei miei e pareva che avesse trovato in questo la principale missione della sua vita. Mestiere o, come dicono i detenuti, "ministiere", non ne aveva alcuno e mi sembra che solo da me ricevesse un po' di denaro. Io gli pagavo quanto potevo, cioè qualche "gros", e lui, senza replicare, restava sempre soddisfatto. Egli non poteva non servire qualcuno e pareva che avesse scelto me specialmente perché ero più socievole di altri e più onesto nel regolare i conti. Era di quelli che non potevano mai arricchire e mettersi a posto, e che da noi si incaricavano di far la guardia ai "majdàn" passando intere ore nell'ingresso al gelo, tendendo l'orecchio a ogni passo nel cortile, per il caso che giungesse il maggiore di piazza, e per questo prendevano cinque copeche d'argento per poco meno di tutta la notte e, in caso di distrazione, perdevano tutto e rispondevano con la propria schiena. Già ne ho parlato. La caratteristica di questi uomini è quella di annullare la loro personalità sempre, dappertutto e quasi dinanzi a tutti, e, nelle faccende comuni, di rappresentare una parte neppure secondaria, ma di terz'ordine.
Essi sono così per natura. Suscilov era un giovane miserando, affatto passivo e avvilito, anzi inebetito, sebbene da noi nessuno lo picchiasse, ma fosse così per nascita. Non so perché, mi faceva sempre pena. Non potevo nemmeno gettargli uno sguardo senza provare questo sentimento, e perché mi facesse pena, io stesso non saprei dire. Anche con lui non potevo conversare; egli pure non sapeva discorrere, si vedeva che ciò gli costava gran fatica, e si animava solo allorquando, per troncare la conversazione, gli davi qualcosa da fare, lo pregavi di andare, di correre in qualche luogo. Io mi convinsi perfino, in ultimo, che con ciò gli procuravo un piacere. Egli non era né alto né basso di statura, né bello né brutto, né sciocco né intelligente, né giovane né vecchio, un pochino butterato, alquanto biondo. Non si poteva mai dire di lui nulla di ben definito. Una cosa sola: come a me sembra, e per quanto potevo indovinare, egli apparteneva alla stessa compagnia di Sirotkin, e vi apparteneva unicamente per il suo inebetimento e la sua passività. Di lui i detenuti a volte sogghignavano, soprattutto perché SI ERA SCAMBIATO PER VIA, nel venire con lo scaglione in Siberia, e si era scambiato per una camicia rossa e un rublo d'argento. Ed ecco, era per questo prezzo irrisorio, per il quale egli si era venduto, che i detenuti lo deridevano. Scambiarsi significa scambiare il nome, e di conseguenza anche la sorte, con qualcun altro. Per quanto sembri stravagante quest'uso, esso è reale, e ai miei tempi ancora sussisteva fra i detenuti avviati in Siberia, consacrato dalla tradizione e regolato da certe norme. Dapprima in nessun modo avevo potuto crederci, benché infine abbia dovuto arrendermi all'evidenza.
Ecco in che modo ciò avviene. Si avvia, per esempio, in Siberia uno scaglione di detenuti. Viaggia lì ogni sorta di gente: diretta e ai lavori forzati, e a uno stabilimento, e al confino; tutti viaggiano insieme. Per via, in qualche luogo, mettiamo nella provincia di Perm, qualcuno dei deportati desidera scambiarsi con un altro. Per esempio, un tal Michailov, omicida o condannato per un altro delitto capitale, stima che non sia di sua convenienza andare per molti anni ai lavori forzati. Supponiamo, è un giovane furbo, navigato, che sa il fatto suo; ed ecco, egli adocchia qualcuno di questo stesso scaglione, un sempliciotto inebetito, passivo il più possibile, a cui sia stata inflitta una pena relativamente lieve: l'invio a uno stabilimento per pochi anni, o al confino, o anche ai lavori forzati, ma per un periodo più breve del suo. Infine trova Suscilov. Suscilov è un ex-servo di casa ed è stato mandato semplicemente al confino. Egli ha già percorso millecinquecento verste, s'intende, senza una copeca - perché Suscilov non può mai avere nemmeno una copeca - avanza sfinito, stanco, senz'altri viveri che quelli del governo, senza mai un buon boccone, non fosse che di sfuggita, col solo vestiario governativo, rendendo servigi a tutti per qualche misero soldarello. Michailov attacca discorso con Suscilov, si affiata, fa persino amicizia con lui e finalmente, a una qualche tappa, gli fa bere dell'acquavite. In ultimo gli fa la proposta: non vorrebbe scambiarsi? Io, dice, sono Michailov, ecco, così e così, vado ai lavori forzati, ma non sono lavori forzati, è una certa sezione speciale. Sono lavori forzati sì, ma speciali, quindi ci si sta meglio. Di una sezione speciale, al tempo della sua esistenza, perfino tra i superiori non tutti sapevano, nemmeno, per esempio, a Pietroburgo. Era quello un cantuccio così separato e a sé, in uno dei tanti angoli della Siberia, e così poco popolato (ai miei tempi c'erano lì una settantina di persone), che era difficile anche scovarlo. Ho incontrato poi degli uomini che erano in servizio e conoscevano la Siberia, e che soltanto da me, per la prima volta, sentivano parlare dell'esistenza di una sezione speciale. Nella "Raccolta delle Leggi" non si leggono al riguardo che cinque o sei righe: "Presso il tal reclusorio è creata una sezione speciale, per i delinquenti più pericolosi, fino all'istituzione in Siberia dei lavori forzati più pesanti".
Perfino gli stessi detenuti di questa sezione non sapevano che cosa fosse: era a perpetuità o a termine? Un termine non era fissato, era detto: "Fino all'istituzione dei lavori forzati più pesanti", e basta; dunque "galera a vita". Non fa meraviglia che né Suscilov né alcuno dello scaglione sapesse questo, senza eccettuarne lo stesso deportato Michailov che forse appena aveva un'idea della sezione speciale giudicando dal proprio delitto, particolarmente grave, e per il quale aveva ricevuto tre o quattromila colpi. Per conseguenza non lo mandavano certo in un bel posto. Suscilov invece andava al confino: che c'era di meglio?
"Non vorresti scambiarti?", Suscilov è brillo, è un'anima semplice, è pieno di riconoscenza per Michailov che lo ha trattato bene, e perciò non si risolve a dir di no. Inoltre ha già inteso dire nello scaglione che scambiarsi è possibile, che altri si scambiano, e quindi di straordinario e di inaudito lì non c'è nulla. Si accordano. Il disonesto Michailov, approfittando della non comune semplicità di Suscilov, compra da lui il suo nome per una camicia rossa e un rublo d'argento, che subito gli consegna in presenza di testimoni. Il giorno dopo Suscilov non è più ubriaco, ma lo fanno bere di nuovo, e poi è un guaio dire di no: il rublo d'argento intascato è già stato bevuto, la camicia rossa lo è pure un po' dopo. Se non vuoi, ridammi il denaro. E dove Suscilov può prendere tutto un rublo d'argento? E se non lo restituisce, la comunità lo obbliga a restituire: a queste cose nella comunità si bada rigorosamente. Per di più, se hai fatto una promessa, devi mantenerla, anche su questo la comunità insiste. Altrimenti lo sbranano. Lo caricano di botte magari, o addirittura lo ammazzano, per lo meno gli fanno paura.
Infatti, se la comunità anche una sola volta lasciasse correre in una simile faccenda, l'usanza dello scambio dei nomi sarebbe finita. Se si può non mantenere la promessa e violare il patto concluso, quando già si è preso il denaro, chi poi vorrà ancora eseguirlo? Insomma qui c'è un interesse della comunità, un interesse generale e perciò anche lo scaglione in queste faccende è assai rigoroso. Infine Suscilov vede che non può più cavarsela con le preghiere e si induce ad acconsentire definitivamente.
Tutto lo scaglione viene informato; be', se è necessario, si fanno ancora dei regali a chi occorre e gli si dà da bere. Per quelli, s'intende, è indifferente: Michailov e Suscilov se ne andranno al diavolo, ma l'acquavite è stata bevuta, il trattamento c'è stato; quindi, anche da parte loro, acqua in bocca. Alla prima tappa si fa, per esempio, un appello: si arriva a Michailov: "Michailov!".
Suscilov risponde: "Presente!". "Suscilov!". Michailov grida:
"Presente!". E si va avanti. Nessuno parla più della cosa. A Tobòlsk si smistano i deportati. "Michailov" lo avviano al confino, e "Suscilov", sotto doppia scorta, alla sezione speciale.
In seguito più nessuna protesta è possibile; e come infatti fornire una prova? Per quanti anni si trascinerà questa faccenda?
Che cosa ci sarà ancora in favor suo? Infine, dove sono i testimoni? Negherebbero, anche se ci fossero. E il risultato ultimo è che Suscilov per un rublo d'argento e una camicia rossa è finito alla sezione speciale.
I detenuti canzonavano Suscilov non perché si era scambiato (benché per quelli che scambiano un lavoro più pesante con uno più leggero, in generale, si nutra disprezzo, come per tutti gli allocchi che si sono fatti mettere nel sacco), ma perché aveva ricevuto soltanto una camicia rossa e un rublo d'argento: compenso troppo irrisorio. Di solito ci si scambia per forti somme di denaro, sempre relativamente parlando. Si prendono perfino alcune decine di rubli. Ma Suscilov era così passivo, così privo di personalità e insignificante agli occhi di tutti che anche ridere di lui pareva non si dovesse.
Da lungo tempo io vivevo con Suscilov, già da alcuni anni. A poco a poco egli mi si era affezionato in modo straordinario; io non potevo non accorgermene, sicché anch'io mi ero molto abituato a lui. Ma un giorno - non posso mai perdonarmelo - egli non eseguì qualche cosa secondo la mia preghiera, pur avendo poco prima ricevuto da me il denaro, e io ebbi la crudeltà di dirgli:
- Ecco, Suscilov, il denaro voi lo prendete, ma la commissione non la fate.
Suscilov stette zitto, corse a fare la mia commissione, ma improvvisamente si fece triste. Passarono due giorni. Io pensavo:
"Non è possibile che sia così per le mie parole". Sapevo che un detenuto, Antòn Vassiliev, esigeva da lui con insistenza il pagamento di non so quale minuscolo debito. Di certo non aveva denaro e temeva di chiedermene. Il terzo giorno gli dico: - Suscilov, voi, mi pare, volevate chiedermi del denaro per Antòn Vassiliev? Eccovi. - Ero allora seduto sul tavolaccio; Suscilov stava in piedi davanti a me. Pareva molto stupito che io stesso gli avessi offerto del denaro, che io stesso mi fossi ricordato della sua difficile condizione, tanto più che negli ultimi tempi, a parer suo, aveva già preso troppo da me, cosicché non osava nemmeno sperare che gliene dessi ancora. Egli guardò il denaro, poi me, a un tratto si voltò e uscì. Tutto questo mi riempì di meraviglia. Lo seguii e lo trovai dietro le baracche. Stava presso la palizzata del reclusorio, con la faccia verso lo steccato, premendovi contro la testa e appoggiandovisi con una mano. - Suscilov, che avete?gli domandai. Egli non mi guardava e io, con sommo stupore, notai che era sul punto di piangere: - Voi, Aleksàndr Petrovic'... credete... - incominciò con voce rotta e cercando di guardare in disparte, - che io a voi... per il denaro... e io... io... eeeh! - Qui si girò nuovamente verso la palizzata, tanto che ci picchiò perfino su con la fronte, e come si mise a singhiozzare!... Per la prima volta vedevo nel reclusorio un uomo che piangeva. Lo consolai a stento, e sebbene da quel giorno con più zelo ancora, se ciò è possibile, avesse preso a servirmi e a "badare a me", mi accorsi però da certi quasi inafferrabili segni che il suo cuore non poteva perdonarmi il mio rimprovero. E intanto gli altri ridevano di lui, lo punzecchiavano a ogni occasione propizia e a volte lo ingiuriavano forte, eppure egli viveva con loro in accordo e in amicizia e non si offendeva mai. Si, è spesso molto difficile decifrare un uomo, perfino dopo lunghi anni di conoscenza.
Ecco perché a prima vista la galera non aveva potuto presentarsi a me in quel vero aspetto in cui mi si presentò in seguito. Ecco perché ho detto che, anche se guardavo tutto con un'attenzione così avida, così intensa, tuttavia non potevo discernere molte cose che mi stavano proprio sotto il naso. Naturalmente mi colpivano da principio le manifestazioni più grosse, più appariscenti, ma anche quelle forse erano da me accolte falsamente e mi lasciavano nell'anima soltanto un'impressione penosa, sconsolatamente triste. A ciò contribuiva moltissimo il mio incontro con A-v, detenuto anche lui, giunto al reclusorio poco prima di me, che mi aveva fatto un'impressione particolarmente angosciosa nei primi giorni del mio arrivo ai lavori forzati. Del resto, già prima di giungere al carcere, avevo saputo che là mi sarei incontrato con A-v. Egli mi avvelenò quel primo penoso periodo e accrebbe le mie torture morali. Non posso tacere di lui.
Era quello il più ripugnante esempio di quanto possa avvilirsi e incanagliarsi un uomo e del grado fino a cui può uccidere in se stesso ogni senso morale, senza fatica e senza pentimento. A-v era un giovane di origine nobile, di cui ho già in parte accennato dicendo che riportava al nostro maggiore di piazza tutto ciò che si faceva nel reclusorio ed era in amicizia col suo attendente Fedka. Ecco la sua breve storia: senza aver finito gli studi in nessun posto e dopo avere a Mosca litigato coi parenti, spaventatisi della sua depravata condotta, era giunto a Pietroburgo e, per far denaro, si era indotto a una ignobile delazione, cioè si era indotto a vendere il sangue di dieci persone per potere immediatamente soddisfare la sua inestinguibile sete dei più grossolani e depravati piaceri, per i quali, tentato da Pietroburgo, dalle sue confetterie e dalle sue "Mesciànskije" [10], aveva concepito un tal debole da arrischiarsi, pur non essendo uno sciocco, a un'azione insensata e assurda. Lo smascherarono ben presto; nella sua denuncia aveva coinvolto degli innocenti, altri li aveva ingannati, e per questo lo deportarono in Siberia, nel nostro reclusorio, per dieci anni. Era ancora giovanissimo, la vita per lui cominciava appena. Parrebbe che un così terribile mutamento della sua sorte avrebbe dovuto impressionarlo, provocare nella sua indole una qualche resistenza, una qualche crisi. Ma egli accettò la sua nuova sorte senza il minimo turbamento, perfino senza la minima repulsione, non vi si ribellò neppure moralmente, non si sgomentò di nulla, salvo forse della necessità di lavorare e di dire addio alle confetterie e alle tre "Mesciànskije". Gli parve anzi che il nome di forzato gli avesse soltanto dato mano libera per ancora maggiori viltà e bassezze.
"Sei un forzato, e un forzato sii; puoi dunque, se sei un forzato, commettere bassezze, senza vergognartene". Questa era, letteralmente, la sua opinione. Io mi ricordo di questo essere abietto come di un fenomeno. Ho trascorso alcuni anni fra assassini, pervertiti e malfattori matricolati, ma lo dico positivamente, non ho ancora mai incontrato in vita mia una caduta morale così completa, una depravazione così perentoria e tanta ignobile bassezza come in A-v. Da noi c'era un parricida, un ex- nobile, già ne ho fatto cenno, ma da molti tratti e fatti mi sono convinto che anche quello era incomparabilmente più degno e più umano di A-v. Ai miei occhi, durante tutto il tempo della mia vita di recluso, A-v divenne e fu poi sempre come un pezzo di carne munito di denti e di stomaco, e di una insaziabile sete dei più grossolani, dei più bestiali godimenti fisici; per provare il più piccolo e capriccioso di tali godimenti egli era capace di uccidere, di sgozzare con la maggior freddezza d'animo, insomma di fare qualunque cosa, purché potesse restare nascosta. Io non esagero per nulla: ho conosciuto bene A-v. Egli era un saggio di ciò a cui può arrivare il solo lato fisico dell'uomo, non frenato internamente da alcuna norma, da alcuna legalità. E quanto era per me disgustoso guardare il suo eterno sorriso canzonatorio! Quello era un mostro, un Quasimodo morale. Aggiungete a ciò che era scaltro e intelligente, bello, perfino un po' istruito, e aveva delle attitudini. No, meglio l'incendio, meglio la peste e la fame che un tal uomo nella società! Io ho già detto che nel reclusorio tutti si erano così incanagliati che spionaggio e delazioni vi fiorivano e i detenuti non se la pigliavano affatto per questo. Al contrario, con A-v tutti erano molto amici e si comportavano con lui in guisa senza confronto più amichevole che con noi. I favori che gli usava il nostro maggiore ubriaco gli conferivano importanza e peso ai loro occhi. Tra l'altro egli aveva assicurato al maggiore di saper dipingere ritratti (ai detenuti affermava di essere tenente della guardia), e quello aveva chiesto che lo mandassero a lavorare da lui, in casa, s'intende, perché dipingesse il suo ritratto. Lì appunto egli si era affiatato con l'intendente Fedka, che aveva uno straordinario influsso sul suo padrone, e quindi su tutti e su tutto nel reclusorio. A-v faceva la spia contro di noi a richiesta dello stesso maggiore, e costui, quando, brillo, lo schiaffeggiava, gli dava della spia e del delatore. Accadeva, e molto spesso, che subito dopo le botte il maggiore si mettesse a sedere e ordinasse ad A-v di continuare il ritratto. Il nostro maggiore, pare, credeva veramente che A-v fosse un mirabile artista, poco meno di un Briullov, del quale aveva udito parlare, ma tuttavia si stimava in diritto di pestarlo sulle guance, "perché ora", sembrava dire "anche se tu sei l'artista che sei, sei però un forzato, e anche se tu fossi un super-Briullov, io sarei pur sempre il tuo superiore e per conseguenza farei di te quello che voglio". Tra l'altro egli obbligava A-v a cavargli gli stivali e a portargli fuori della camera svariati vasi, e tuttavia per lungo tempo non poté rinunciare all'idea che A-v fosse un grande artista. Il ritratto si trascinò all'infinito, quasi per un anno. Finalmente il maggiore indovinò che lo si gabbava e, convintosi pienamente che il ritratto non giungeva alla fine, ma, al contrario, gli rassomigliava sempre meno ogni giorno, andò in collera, diede un sacco di legnate all'artista e lo spedì per castigo nel reclusorio, ai lavori pesanti. Ad A-v ciò rincresceva visibilmente, e gli era duro rinunciare alle giornate oziose, ai bocconcini inviatigli dalla mensa del maggiore, all'amico Fedka e a tutti i piaceri che i due si procacciavano nella cucina del maggiore. Per lo meno, il maggiore, con l'allontanamento di A-v, smise di perseguitare M., un detenuto che A-v calunniava continuamente presso di lui, ed ecco per che cosa: M., al momento dell'arrivo di A-v nel carcere, era solo. Egli si angustiava molto; non aveva nulla di comune con gli altri detenuti, che guardava con orrore e disgusto, non notava in essi, e si lasciava sfuggire, tutto ciò che avrebbe potuto agire su di lui in senso conciliante e non si affiatava con loro. Quelli lo ripagavano dello stesso odio. In generale, la condizione degli uomini simili a M. nel reclusorio è orribile. La ragione per cui A-v era finito lì era ignota a M. Anzi A-v, avendo indovinato con chi aveva da fare, gli assicurò subito di essere stato deportato per cosa del tutto opposta a una delazione, quasi la stessa cosa per cui era stato deportato anche M. M. si rallegrò immensamente di aver trovato un compagno, un amico. Andò da lui e lo confortò nei primi giorni di lavori forzati; supponendo che dovesse soffrire molto, gli diede i suoi ultimi soldi, lo sfamò, divise con lui le cose di prima necessità. Ma A-v lo prese subito in uggia, appunto perché l'altro era un carattere nobile, perché considerava con tanto orrore qualsiasi bassezza, appunto perché non somigliava per niente a lui, e tutto ciò che M., nelle precedenti conversazioni, gli aveva confidato sul reclusorio e sul maggiore, tutto ciò A-v si affrettò a riportarlo alla prima occasione al maggiore stesso.
Questi prese terribilmente in odio M. e si mise a perseguitarlo, e se non fosse stato l'influsso del comandante, lo avrebbe ridotto a far qualche guaio. A-v, lui, non soltanto non si turbò, quando poi M. seppe della sua bassezza, ma anzi provò gusto a incontrarsi con lui e a guardarlo sogghignando. Questo evidentemente gli faceva piacere. Più volte mi accennò alla cosa lo stesso M. Questa ignobile creatura fuggì poi con un detenuto e con un soldato di scorta, ma di ciò dirò più innanzi. Sul principio egli si era strofinato molto anche a me, credendo che io non avessi udito nulla della sua storia. Lo ripeto, egli mi avvelenò i primi giorni di lavori forzati aumentando ancora la mia angoscia. Io ebbi orrore di quella terribile ignobiltà e abiezione in cui mi avevano piombato, in mezzo alla quale ero venuto a trovarmi. Pensai che li tutto fosse altrettanto ignobile e abietto. Ma m'ingannavo: io giudicavo tutti da A-v.
In quei tre giorni gironzolai desolato per il reclusorio, stetti sdraiato sul mio tavolaccio, diedi a fare a un detenuto fidato, indicatomi da Akim Akimic', delle camice con la tela governativa che mi era stata consegnata, a pagamento, s'intende (a tanti "gros" per camicia); mi procacciai, per l'insistente consiglio di Akim Akimic', un pagliericcio pieghevole (di feltro, rivestito di tela), oltremodo sottile, come una frittella, e un guanciale imbottito di lana, terribilmente duro per me che non c'ero avvezzo. Akim Akimic' si diede molto da fare per procurarmi tutte queste cose e vi partecipò personalmente, con le proprie mani mi fabbricò una coperta con lembi di vecchio panno governativo, ricavato da calzoni e casacche logore che io avevo comprato da altri detenuti.
Le cose governative per le quali scadeva il termine fissato restavano proprietà del detenuto; esse venivano subito vendute lì nel reclusorio e, per usata che fosse la cosa, aveva tuttavia probabilità di spaccio per un qualsiasi prezzo. Di tutto ciò sul principio mi meravigliavo. In generale, fu quello il momento del mio primo incontro col popolo. Io stesso ero diventato a un tratto un uomo del popolo, un forzato al pari di loro. Le loro abitudini, idee, opinioni, usanze parevano divenute anche mie, almeno pro forma, legalmente, sebbene io, in fondo, non le condividessi. Ero meravigliato e turbato, come se prima non avessi mai avuto alcun sospetto di ciò e non avessi sentito parlare di nulla, benché qualcosa sapessi e avessi udito. Ma la realtà produce tutt'altra impressione che il sapere e il sentir dire. Avrei prima mai potuto sospettare, per esempio, che simili cose, che panni smessi così vecchi potessero pure essere considerati come cose utili? Ed ecco che con quei vecchi panni smessi mi ero fatto fare una coperta.
Era difficile anche immaginarsi di che sorta fosse il panno destinato per il vestiario dei detenuti. All'aspetto, somigliava proprio a un panno spesso, soldatesco, ma, portato appena un tantino, si trasformava in una specie di stamigna e si lacerava in modo impressionante. Del resto i vestiti di panno si davano per la durata di un anno, ma anche con questo termine era difficile cavarsela. Il detenuto lavora, porta sulla persona dei pesi; il vestito si logora e si lacera presto. I "tulupi" invece si davano per tre anni e di solito servivano per tutto questo tempo e da vestito, e da coperta, e da giaciglio. Ma i "tulupi" sono robusti, benché non fosse una rarità vedere addosso a qualcuno, alla fine del terzo anno, cioè della durata prescritta, un "tulùp" rattoppato con semplice tela. Ciò nonostante, anche molto frusti alla scadenza del termine loro assegnato, si vendevano per una quarantina di copeche d'argento. Taluni meglio conservati, si vendevano per sei e perfino sette "grivne" d'argento, e in galera queste erano somme cospicue.
Il denaro poi - di questo ho già parlato - aveva nel reclusorio una straordinaria importanza e potenza. Si può dire sicuramente che il detenuto che possedeva in galera solo un po' di denaro soffriva dieci volte meno di chi non ne aveva affatto, sebbene quest'ultimo fosse provveduto egli pure di tutta la roba governativa e il denaro, si sarebbe detto, non potesse servirgli a nulla, come ragionavano i nostri superiori. Ripeto ancora una volta che, se i detenuti fossero privati di ogni possibilità di aver denaro proprio, essi o impazzirebbero o creperebbero come mosche (pur essendo provveduti di tutto), o si abbandonerebbero a inauditi misfatti: gli uni per la noia, gli altri per essere al più presto in qualche modo giustiziati e soppressi, o così, per "cambiar sorte" (espressione tecnica) in una qualche maniera. Se poi il detenuto, procuratosi quasi con sudore di sangue qualche soldo suo o indottosi, per procacciarselo, a straordinarie astuzie, spesso combinate con ladrerie e furfanterie, spende al tempo stesso il denaro in modo così irragionevole, con una così puerile insensatezza, questo non dimostra affatto che egli non l'apprezzi, anche se così sembra a prima vista. Di denaro il detenuto è avido sino alla frenesia, sino all'oscuramento dell'intelletto, e se realmente egli lo butta come nulla, quando gozzoviglia, lo butta per ciò che stima ancora superiore di un grado al denaro. Ma che cosa è superiore al denaro per il detenuto? La libertà, o anche solo un qualche sogno di libertà. E i detenuti sono grandi sognatori. Di questo dirò qualche cosa in seguito, ma, a proposito, si crederà che io ho visto dei deportati per un periodo ventennale che dicevano a me, assai tranquillamente, delle frasi, per esempio, come questa: "Ecco, aspetta, se Dio vorrà, terminerò il mio tempo, e allora..."? Tutto il significato della parola "detenuto" designa un uomo senza un proprio volere e, spendendo il denaro, egli agisce già secondo il voler suo. Nonostante tutti i marchi, i ferri ai piedi e gli odiosi pali del reclusorio, che gli sbarrano la vista del creato e lo imprigionano come una belva in gabbia, egli può procurarsi acquavite, cioè un piacere paurosamente proibito, bere un po' di liquore di fragole, perfino a volte (benché non sempre) corrompere i suoi superiori immediati, gli invalidi e anche il sottufficiale, che faranno finta di non vedere che egli viola la legge e la disciplina; magari, per sovrammercato, farà il bravo dinanzi a loro, e al detenuto piace moltissimo fare il bravo, cioè darsi delle arie davanti ai compagni e persuadere anche se stesso, non fosse che per un momento, che egli possiede una libertà e un potere incomparabilmente più grandi che non paia, insomma che egli può far baldoria, dare in escandescenze, offendere qualcuno a morte e provargli che può fare tutto questo, che tutto questo è "in mano nostra", cioè persuadere se stesso di ciò a cui un poveraccio non può nemmeno pensare. A proposito: ecco perché forse, nei detenuti, anche quando non sono ubriachi, si nota una generale tendenza alle bravate, alle vanterie, a una comica e ingenuissima esaltazione, sia pure illusoria, della propria personalità. Infine, in tutto questo far baldoria c'è un suo rischio, dunque tutto questo ha almeno una parvenza di libertà. E che cosa non daresti per la libertà? Quale milionario, se gli si stringesse la gola nel nodo scorsoio, non darebbe tutti i suoi milioni per una sola boccata d'aria?
A volte i capi si meravigliano che un qualche detenuto se ne sia vissuto per più anni in modo così pacifico, esemplare, da esser fatto persino capo-gruppo per la sua lodevole condotta, e poi a un tratto, proprio di punto in bianco - come se un demonio fosse entrato in lui - si sia sbrigliato e abbia fatto un mucchio di stravizi e di violenze, e qualche volta si sia arrischiato a commettere addirittura un delitto: a mancare apertamente di rispetto all'autorità superiore, o a uccidere qualcuno, o a violentare eccetera. Lo guardano e si meravigliano. E intanto, forse, tutta la causa dell'improvvisa esplosione di quell'uomo, dal quale meno di ogni altra cosa si poteva attendere ciò, è un'ansiosa, convulsa manifestazione della sua personalità, un'istintiva angoscia a proprio riguardo, un desiderio di affermare se stesso, la propria avvilita personalità, che tutt'a un tratto si è manifestato e che arriva fino alla cattiveria, al furore, all'oscuramento della ragione, all'attacco di nervi, allo spasimo. Così, forse, un sepolto vivo che si è svegliato nella bara picchia contro il coperchio e si sforza di rimuoverlo, anche se la ragione, s'intende, potrebbe convincerlo che tutti i suoi sforzi rimarranno vani. Ma di questo appunto si tratta, che qui non c'entra più la ragione: qui c'è uno spasimo. Teniamo ancora conto che quasi ogni arbitraria manifestazione della personalità del detenuto è riguardata come un delitto; e in tal caso per lui, naturalmente, è lo stesso che la manifestazione sia grande o piccola. Si fa baldoria - e si faccia baldoria, ci si arrischia - e ci si arrischia pure a tutto, magari a un delitto. Il fatto è che basta incominciare: poi l'individuo diventa come ebbro e non riesci più a trattenerlo! E perciò a ogni modo sarebbe meglio non farlo arrivare fino a tal punto. Sarebbe più sicuro per tutti. Sì; ma come far ciò?
Al mio ingresso nel reclusorio avevo un po' di denaro; proprio alla mano ne tenevo poco, nel timore che mi venisse tolto, ma, per ogni evenienza, alcuni rubli erano stati nascosti, cioè incollati entro la rilegatura del Vangelo, che si poteva introdurre nel carcere. Questo libro, col denaro incollato dentro, me l'avevano donato ancora a Tobòlsk quelli che già soffrivano nell'esilio contando il tempo ormai a decenni e che in ogni disgraziato già da un pezzo si erano abituati a vedere un fratello. Ci sono in Siberia, quasi in continuità, alcune persone che sembrano proporsi come missione della loro vita di assistere fraternamente i "disgraziati", di condividerne le sofferenze e di aver per loro, come se si trattasse di propri figli, una compassione assolutamente disinteressata e santa. Non posso poi non ricordare brevemente un incontro. Nella città in cui si trovava il nostro reclusorio viveva una signora, Nastassia Ivànovna; una vedova.
S'intende che nessuno di noi, durante la permanenza nel carcere, poteva far conoscenza con lei personalmente. Pareva che come missione della sua vita avesse scelto l'aiuto ai deportati, ma soprattutto si dava pensiero di noi. Sia che ci fosse stata nella sua famiglia una qualche disgrazia del genere, sia che qualcuna delle persone particolarmente care e vicine al suo cuore avesse sofferto per un delitto consimile, fatto sta che essa aveva l'aria di considerare come una speciale felicità il fare per noi tutto quello che poteva. Molto, certamente, non poteva fare; era poverissima. Ma noi, stando nel carcere, sentivamo che là, fuori del carcere, avevamo un amico devotissimo. Tra l'altro, essa spesso ci comunicava notizie, di cui avevamo un gran bisogno.
Uscito dal reclusorio e avviandomi a un'altra città, io riuscii a visitarla e a fare la sua personale conoscenza. Abitava nel sobborgo, presso un suo stretto parente. Non era né vecchia né giovane, né bella né brutta; non si poteva nemmeno capire se fosse intelligente, se fosse istruita. Si notava soltanto in lei, a ogni pié sospinto, un'infinita bontà, un insuperabile desiderio di compiacere, di agevolare, di fare per noi in ogni modo qualcosa di gradito. Tutto ciò addirittura si leggeva nei suoi sguardi silenziosi e buoni. Io trascorsi da lei, insieme con uno dei miei compagni di reclusorio, quasi tutta una sera. Lei ci guardava negli occhi, rideva quando noi ridevamo, si affrettava ad assentire, qualunque cosa avessimo detto; si affannava per offrirci qualche cosa, tutto ciò che poteva. Ci furono serviti il tè, degli antipasti, non so che dolci, e se avesse posseduto delle migliaia di rubli, se ne sarebbe rallegrata, mi pare, soltanto perché avrebbe potuto trattarci meglio e alleviare i nostri compagni rimasti nel reclusorio. Accomiatandoci, diede un portasigarette a ciascuno di noi per ricordo. Questi portasigarette li aveva fatti lei stessa per noi con cartone (e Dio sa com'erano stati fatti), ci aveva incollato su una carta colorata, proprio come quella con cui si rilegano le aritmetiche per le scuole infantili (e forse nell'incollatura se n'era andata in realtà qualche aritmetica). Tutt'intorno poi i due portasigarette erano stati guarniti con un sottile orlino di carta dorata, per la quale forse essa era andata in giro per le botteghe. - Ecco, voi fumate sigarette, perciò forse vi farà piacere, - disse, come scusandosi timidamente con noi per il suo regalo... Dicono taluni (io l'ho udito e letto) che il supremo amor del prossimo è al tempo stesso anche supremo egoismo. Ma dove sia qui l'egoismo, non lo capirò mai.
Sebbene, al mio ingresso nel carcere, non avessi affatto molti quattrini, tuttavia non potevo allora pigliarmela sul serio con quei forzati che, quasi fin dalle prime ore della mia vita di recluso, ingannatomi già una volta, venivano molto ingenuamente per la seconda, per la terza e finanche per la quinta volta a chiedermi un prestito. Ma una cosa confesso francamente: mi stizziva molto che tutta quella gente, con la sua ingenua furberia, dovesse proprio, come a me pareva, credermi un sempliciotto, uno stupidello, e ridere di me, appunto perché davo loro del denaro per la quinta volta. A quelli doveva certamente sembrare che io fossi vittima dei loro inganni e delle loro astuzie; se io, invece, avessi detto di no e li avessi cacciati via, sono sicuro che avrebbero preso a rispettarmi senza confronto di più. Ma, per quanto mi stizzissi, dire di no tuttavia non potevo. E mi stizzivo perché in quei primi giorni pensavo seriamente e assiduamente a come e in quali rapporti dovessi vivere con loro. Io capivo e sentivo che tutto quell'ambiente era per me assolutamente nuovo, che mi trovavo in una perfetta tenebra e che nella tenebra era impossibile vivere tanti anni. Bisognava prepararcisi. Naturalmente conclusi che, prima di tutto, bisognava comportarsi con rettitudine, come il senso intimo e la coscienza comandavano. Ma io sapevo pure che questo era soltanto un aforisma e che mi stava pur sempre dinanzi la più inattesa delle esperienze.
E perciò, nonostante tutte le minuziose cure del mio assestamento nella camerata di cui ho già accennato, e nelle quali mi ingolfava soprattutto Akim Akimic', nonostante che esse mi distraessero anche un poco, una terribile, divorante angoscia mi tormentava sempre di più. "La casa morta!", dicevo a me stesso osservando a volte, nel crepuscolo, dalla scaletta della nostra camerata, i detenuti che, già rientrati dal lavoro, girellavano pigramente per il cortile del reclusorio, dalle baracche alle cucine e viceversa.
Li osservavo e dai visi e movimenti loro cercavo di capire che gente fosse quella e quali fossero i loro caratteri. Essi gironzolavano dinanzi a me con le fronti aggrottate, oppure anche troppo allegri (questi due aspetti sono quelli che maggiormente s'incontrano e sono quasi una caratteristica dei lavori forzati), s'ingiuriavano o semplicemente discorrevano, o infine passeggiavano solitari, come assorti, silenziosi, con passo agile, taluni con un viso stanco e apatico, altri (perfino lì! ) con un'aria di arrogante superiorità, coi berretti sulle ventitré, coi "tulupi" gettati sulle spalle, con uno sguardo insolente, astuto e un sogghigno beffardo.
"Tutto questo è il mio ambiente, il mio mondo odierno", pensavo, "col quale, che io voglia o non voglia, devo vivere". Mi provavo a interrogare, a informarmi sul loro conto da Akim Akimic', col quale mi piaceva molto bere il tè, per non esser solo. Sia detto di passata, il tè, in quel primo tempo, era quasi il mio unico cibo. Il tè Akim Akimic' non lo ricusava mai ed egli stesso preparava il nostro buffo, piccolo samovar di latta, fatto alla buona, che M. mi aveva dato in uso. Akim Akimic' vuotava di solito un unico bicchiere (egli aveva anche dei bicchieri), lo vuotava in silenzio e compostamente, restituendomelo ringraziava e subito si accingeva a terminare la mia coperta. Ma quel che a me occorreva sapere non poteva dirmelo, e non capiva nemmeno a che scopo io mi interessassi in modo così speciale del carattere dei forzati che ci attorniavano e che ci erano più vicini, e mi ascoltava anzi con un certo sorrisetto furbo che ricordo assai bene. "No, si vede che devo io stesso indagare, e non far domande", pensai.
Al quarto giorno, come già quella volta che ero andato a riferrarmi, di buon mattino i detenuti si schierarono in due file sullo spiazzo davanti al corpo di guardia, presso il portone del reclusorio. Dinanzi, a faccia a faccia con loro, e dietro si allinearono i soldati, coi fucili carichi e le baionette inastate.
Un soldato ha il diritto di sparare sul detenuto, se a questo salta in mente di sfuggirgli; ma in pari tempo risponde anche del suo atto, se non l'ha compiuto in caso di estrema necessità; la stessa cosa vale pure nel caso di un'aperta rivolta dei forzati.
Ma a chi mai verrebbe l'idea di fuggire palesemente? Comparvero l'ufficiale del genio, l'assistente e anche i sottufficiali e soldati del genio sorveglianti ai lavori che si eseguivano. Fecero l'appello; una parte dei detenuti, che andavano ai laboratori di sartoria, si avviavano per primi; la direzione del genio non aveva nemmeno da fare con essi; lavoravano propriamente per il reclusorio e lo vestivano. Poi altri si avviarono alle officine, poi altri ancora ai comuni lavori pesanti. Fra una ventina di detenuti mi incamminai anch'io. Dietro la fortezza, sul fiume gelato, c'erano due barconi governativi che, per la loro inservibilità, bisognava demolire, perché almeno il vecchio legname non andasse perduto per nulla. Del resto tutto quel vecchio materiale pare che valesse pochissimo, quasi niente. La legna si vendeva in città a prezzo irrisorio e di boschi lì intorno ce n'era un gran numero. Si mandavano là i detenuti quasi soltanto perché non se ne stessero con le mani in mano, il che i detenuti medesimi capivano benissimo. A siffatto lavoro si applicavano sempre fiaccamente e con apatia, e quasi sempre era tutt'altra cosa quando il lavoro di per sé era serio, di pregio, e specialmente quando potevano ottenere che lo si assegnasse loro a corpo. Allora qualcosa pareva animarli, e sebbene non ne avessero affatto alcun utile, nondimeno, io stesso lo vedevo, si sfinivano per terminarlo al più presto e nel miglior modo; perfino il loro amor proprio sembrava ci fosse interessato. Ma il presente lavoro, che si faceva pro forma più che per necessità, era difficile farselo assegnare a corpo e toccava lavorare fino al rullo di tamburo che batteva il segnale del ritorno a casa alle undici di mattina. La giornata era tiepida e nebbiosa: la neve per poco non si scioglieva. Tutto il nostro gruppo si avviò dietro la fortezza sulla riva del fiume facendo lievemente tintinnare le catene che, pur nascoste sotto il vestito, tuttavia mandavano un sottile e brusco suono metallico a ogni passo. Due o tre uomini si staccarono per andare a prendere i necessari strumenti nel deposito. Io camminavo con tutti gli altri e mi ero perfino come rianimato: avevo voglia di vedere e sapere al più presto che lavoro fosse quello. Che cos'è questo lavoro forzato? E come lavorerò io stesso per la prima volta in vita mia?
Ricordo tutto fino al minimo particolare. Per la strada ci venne incontro un certo borghese con la barbetta che si fermò e mise una mano in tasca. Dal nostro gruppo si staccò immediatamente un detenuto che si levò il berretto, prese l'elemosina - cinque copeche - e tornò lesto verso i suoi. Il borghese si segnò e proseguì per la sua strada. Queste cinque copeche le mangiammo quel mattino stesso in panini, dopo averli divisi in parti uguali fra tutta la nostra squadra.
Di tutto questo gruppo di detenuti gli uni erano abitualmente tetri e taciturni, altri indifferenti e fiacchi, altri ancora chiacchieravano pigramente fra loro. Uno era oltremodo lieto e allegro non so di che, cantava e quasi quasi ballava per via facendo tintinnare a ogni salto i ferri dei piedi. Era quello stesso detenuto basso e tarchiato che, nella mia prima mattina di reclusorio aveva litigato con un altro presso l'acqua, durante le abluzioni, perché l'altro aveva osato insensatamente affermare di essere l'uccello "kagàn". Questo giovane in preda all'allegria si chiamava Skuratov. Infine egli intonò una certa indiavolata canzone, della quale rammento il ritornello:
"Senza interrogarmi, mi hanno ammogliato.
Al mulino io ero andato".
Mancava soltanto la balalaica.
Il suo umore insolitamente allegro suscitò subito, s'intende, in taluni della nostra squadra l'indignazione, anzi fu preso quasi quasi per un affronto.
- S'è messo a berciare! - disse con rimprovero un detenuto, che la cosa del resto non riguardava affatto.
- Il lupo aveva una canzone, e anche quella ha imitato, il tulese!
- osservò un altro, di quelli cupi, con accento ucraino.
- Io sì, mettiamo, sono di Tula, - replicò immediatamente Skuratov, - ma voi nella vostra Poltava vi siete ingozzati di gnocchetti.
- Ciancia pure! Tu stesso che mangiavi? Tiravi su la minestra di cavoli con la scarpa.
- E ora pare che il diavolo lo ingrassi, - soggiunse un terzo.
- Io davvero, fratelli, sono un uomo raffinato, - rispose con un lieve sospiro Skuratov, come se si pentisse della sua raffinatezza, e rivolgendosi a tutti in generale e a nessuno in particolare, - fin da piccolo sono stato "allivato", - cioè, allevato: Skuratov a bella posta storpiava le parole, - a prugne secche e a panini, e i miei cari fratelli anche ora hanno a Mosca una loro bottega e commerciano in vento, sono ricchi mercanti.
- E tu in che cosa commerciavi?
- Anche noi, per vari nostri meriti, abbiamo fatto carriera. Ecco, fu allora, fratelli, che io ricevetti i primi duecento . . .
- Rubli, possibile? - mise bocca uno, curioso, sussultando perfino nel sentir parlare di una simile somma.
- No, caro uomo, non rubli, ma colpi di bastone. Eh, Lukà, Lukà!
- Per qualcuno sono Lukà, ma per te sono Lukà Kuzmic', - rispose di mala voglia un piccolo, esile detenuto, dal nasino aguzzo.
- Be', Lukà Kuzmìc', che il diavolo ti porti, se è così!
- Per qualcuno sono Lukà Kuzmìc', ma per te sono zietto.
- Be', che il diavolo porti te e lo zietto, non mette conto di parlarne! Ma io volevo dire una bella cosetta. Be', ecco, fratelli, come accadde che a Mosca non rimasi a lungo; là mi dettero infine quindici colpi di "knut", poi mi spedirono via.
Ecco, io...
- Ma per che cosa ti spedirono? - interruppe uno che seguiva attentamente il racconto.
- E non andare in quarantena, e non berti i cavicchi, e non suonar la ciaramella; cosicché a Mosca non riuscii, fratelli, ad arricchire sul serio. Eppure avevo tanta, tanta voglia di diventare ricco. Ne avevo proprio tanta voglia che non so nemmeno come dire.
Molti scoppiarono a ridere. Skuratov era evidentemente di quei bontemponi o, meglio, buffoni volontari che parevano essersi fatto un dovere di tenere allegri i loro compagni e, s'intende, non ricevevano in cambio un bel nulla, se non ingiurie. Egli apparteneva a uno speciale e notevole tipo del quale forse dovrò ancora parlare.
- Ma anche adesso ti si può far la pelle pigliandoti per uno zibellino, - osservò Lukà Kuzmìc'. - To', solo il vestito varrà un centinaio di rubli.
Skuratov aveva indosso il più decrepito, il più logoro e meschino "tulùp", sul quale da tutte le parti spuntavano le toppe. Egli lo squadrò con aria abbastanza indifferente, ma con attenzione, dall'alto in basso .
- La testa in compenso vale parecchio, fratelli, la testa!
rispose. - Quando dissi addio a Mosca, mi consolai pensando che la testa sarebbe venuta insieme con me. Addio, Mosca, grazie per il bagno, per l'aria libera, mi avevano strigliato ben bene! Ma il mio "tulùp", caro uomo, non hai nessun bisogno di guardarlo...
- Dovrei forse guardare la tua testa?
- Ma anche la testa in lui non è sua, gli è stata regalata, s'intromise di nuovo Lukà. - Gliel'hanno data per amor di Cristo a Tiumen, quando ci passò con lo scaglione.
- Ma tu, Skuratov, avevi forse un mestiere?
- Che mestiere! Faceva da guida ai ciechi, conduceva in giro i merlotti e sgraffignava loro i bezzi, - osservò uno dei detenuti tetri, - ecco tutto il suo mestiere.
- Io, effettivamente, m'ero provato a fare stivali, - rispose Skuratov, senza badare affatto alla mordace osservazione. - Ne feci un paio in tutto.
- E che, te li comprarono?
- Sì, capitò un tale che, si vede, non aveva timor di Dio, né rispetto per padre e madre, e Dio lo punì: li comprò.
Intorno a Skuratov tutti si sbellicarono dalle risa.
- E poi lavorai ancora una volta, già qui, - continuò Skuratov con uno straordinario sangue freddo, - a Stiepàn Fiadorovic' Pomortsev, il tenente, rimontai gli stivali.
- Ebbene, ne restò contento?
- No, fratelli, scontento. Non finiva più d'insultarmi, poi mi prese ancora a ginocchiate di dietro. Era andato su tutte le furie. Eh, mi ha deluso la mia vita, mi ha deluso, la galeotta!
"Aspettato un momentino, Il marito di Akulina va in cortile..." Improvvisamente scrosciò di nuovo a ridere e si mise a pestare coi piedi saltellando.
- To', che uomo disadatto! - borbotto il ciuffetto che camminava accanto a me sbirciandolo con rabbioso disprezzo.
- Un uomo inutile! - osservò un altro con tono serio e definitivo.
Io proprio non capivo perché se la pigliassero con Skuratov, e in generale perché tutti i gioviali, come già avevo potuto notare in quei primi giorni, paressero circondati di un certo disprezzo. La collera del ciuffetto e degli altri io l'attribuivo a motivi personali. Ma lì non c'erano motivi personali, bensì la collera perché Skuratov non aveva ritegno, non aveva quell'aria severa e ostentata di dignità da cui erano contagiati tutti i forzati sino alla pedanteria, insomma perché egli era, secondo la loro stessa espressione, un uomo "inutile". Nondimeno non si arrabbiavano con tutti i gioviali, né li trattavano tutti come Skuratov e altri suoi simili. Questo, secondo che ci si lasciava trattare: un uomo bonario e semplice era subito esposto alle umiliazioni. La cosa mi fece perfino impressione. Ma c'erano anche di quei gioviali che sapevano e amavano mostrare i denti e non la perdonavano a nessuno: quelli erano costretti a rispettarli. Pure lì, in quello stesso gruppo, c'era uno di tali individui mordaci, in fondo un uomo giudizioso e simpaticissimo, ma che sotto questo aspetto io conobbi solo in seguito, un giovane aitante e alto, con un grosso porro sulla guancia e un'espressione comicissima in viso, abbastanza bello e intelligente del resto. Lo chiamavano "il pioniere", perché aveva prestato servizio nei pionieri; ora si trovava nella sezione speciale. Di lui dovrò ancora parlare.
D'altra parte, non tutti i "seri" erano così espansivi come il ciuffetto che si indignava dell'altrui giovialità. Tra i forzati ce n'erano alcuni che miravano a primeggiare, a brillare per cognizioni, per inventiva, per carattere, per intelligenza. Molti di costoro effettivamente erano persone intelligenti e di carattere, ed effettivamente raggiungevano ciò a cui miravano, cioè il primato e un notevole influsso morale sui loro compagni.
Tra loro queste teste fini erano spesso grandi nemici, e ciascuno di loro aveva molti che l'odiavano. Essi guardavano gli altri detenuti con dignità e perfino con degnazione, non cominciavano liti non necessarie, dai superiori erano tenuti in buon concetto, nei lavori facevano quasi da dirigenti, e non uno di loro si sarebbe messo ad attaccar briga, ad esempio, per una canzone; a simili quisquilie non si abbassavano. Con me tutti costoro furono oltremodo cortesi, durante tutto il tempo dei miei lavori forzati, ma non molto loquaci; anche questo, mi pare, per dignità. Anche di loro dovrò discorrere più minutamente.
Giungemmo alla riva. In basso, sul fiume, stava nell'acqua, coperto di ghiaccio, il vecchio barcone che bisognava demolire.
Dall'altra parte del fiume azzurreggiava la steppa; la vista era tetra e deserta. Io mi aspettavo che tutti addirittura si precipitassero al lavoro, ma non ci pensavano neppure. Certuni sedettero qua e là sulle travi sparse lungo la riva; quasi tutti cavarono fuori dagli stivali delle borse piene di un tabacco locale che si vendeva al mercato in foglia a tre copeche per libbra e delle pipette corte di salcio, con piccole cannucce di legno fatte alla buona. Le pipe si accesero; i soldati di scorta si disposero in cordone intorno a noi e si misero con aria molto annoiata a farci la guardia.
- E chi ha avuto l'idea di demolire questo barcone? - disse uno come tra sé, senza rivolgersi del resto ad alcuno. - Volevano fare delle schiappe, eh?
- L'ha avuto qualcuno che non ha paura di noi, - osservò un altro.
- Ma dove vanno quei contadini? - domandò il primo, dopo un po' di silenzio, s'intende, senza aver ascoltato la risposta alla precedente domanda, indicando lontano una quantità di contadini che si trascinavano chi sa dove uno dietro l'altro sulla neve intatta. Tutti si volsero pigramente da quella parte e, non sapendo che fare, si misero a ridere di loro. Uno dei contadini, l'ultimo, camminava in un certo modo singolarmente buffo, a braccia larghe e con la testa penzolante da un lato, coperta da un lungo berretto campagnolo, a forma di frittella. Tutta la sua figura si profilava intera e netta sulla neve candida.
- To', il cugino Petrovic', come s'è camuffato! - osservò uno contraffacendo la pronuncia dei contadini. E' degno di nota che i detenuti in generale guardavano i contadini un po' dall'alto in basso , benché metà di essi fosse composta di contadini.
- L'ultimo, ragazzi, cammina come se seminasse dei ravanelli.
- Quello è un cacadubbi, ha molti quattrini, - osservò un terzo.
Tutti risero, ma, in certo qual modo, pigramente, come di malavoglia. Intanto si era avvicinata una venditrice di panini, una donnetta vivace e sveglia.
Da lei presero dei panini con le cinque copeche avute in elemosina e li divisero subito in parti uguali.
Il giovanotto che vendeva panini nel reclusorio ne comprò due decine e si mise a discutere con forza, per farsi dare tre panini di giunta, e non due, come gli spettavano secondo la solita regola. Ma la venditrice non acconsentiva.
- Be', e quello non me lo dai?
- Che vuoi ancora?
- Quello che nemmeno i topi mangerebbero.
- Ma che ti colga il malanno! - strillò la donnetta e si mise a ridere.
Infine comparve anche il sorvegliante ai lavori, un sottufficiale, con un bastoncino.
- Eh, voi, perché vi siete messi comodi? Si comincia!
- Ma assegnateci il compito, Ivàn Matvieic', - proferì uno dei "comandanti" alzandosi lentamente dal suo posto.
- Perché non avete domandato poco fa allo smistamento? Fare a pezzi il barcone, ecco il compito.
In qualche modo finalmente si levarono su e scesero verso il fiume trascinando a mala pena le gambe. Nella massa subito comparvero i "dirigenti", almeno a parole. Apparve che il barcone non si doveva spaccare a casaccio, ma bisognava possibilmente salvare le travi e, in particolare, le costole trasversali, fissate per tutta la loro lunghezza al fondo del barcone con cavicchi di legno: un lavoro lungo e noioso.
- Ecco, bisognerebbe, per prima cosa, strappar via questa trave.
Su, all'opera, ragazzi! - osservò uno che non era affatto un "dirigente", né un "comandante", ma semplicemente un uomo di fatica, un giovane taciturno e calmo, che fin allora era stato zitto, e, chinatosi, abbrancò con le mani una grossa trave aspettando degli aiutanti. Ma nessuno lo aiutò.
- Sì, levala via, se puoi! Anche tu non la leverai, e se venisse il nonno tuo, l'orso, anche lui non la leverebbe! - borbottò qualcuno fra i denti.
- Così dunque, fratelli, come si comincia? Io, già, non so nemmeno... - disse, sconcertato, lo zelante, lasciando la trave e sollevandosi.
- Non si arriverà mai alla fine di questo lavoro... perché ti sei fatto avanti?
- Sbaglierebbe il conto del mangime per tre galline, e qui per primo...
- Ma io, fratelli, non ho fatto niente, - si scusava quello, sconcertato, - io soltanto così...
- Ma che ho da mettervi sotto una campana di vetro, eh? O sotto sale per quest'inverno? - tornò a gridare il sorvegliante guardando perplesso quel gruppo di ventidue persone che non sapevano come porsi all'opera. - Cominciate! Più presto!
- Più che far presto non si può, Ivàn Matvieic'.
- Ma tu intanto non fai niente, ehi! Saveliev! Chiacchierone di un Petrovic'! Dico a te: che stai lì con gli occhi fuori della testa!... Cominciate!
- Ma che posso fare io solo?
- Su, dateci il compito, Ivàn Matvieic'.
- L'ho detto: non c'è compito. Fate a pezzi il barcone e andate a casa. Si cominci!
Ci si misero infine, ma fiaccamente, di malavoglia, in modo maldestro. Faceva perfino stizza guardare quella robusta schiera di vigorosi lavoratori che parevano proprio ignari di come porsi all'opera. Appena si accinsero a levar via la prima costola, la più piccola, si vide che essa si rompeva, "si rompeva da sé" come fu riferito per giustificazione al sorvegliante; di conseguenza così non si poteva lavorare, ma bisognava mettercisi in qualche altro modo. Seguì una lunga discussione tra noi sul come mettercisi altrimenti, sul da farsi. Naturalmente a poco a poco si arrivò alle ingiurie, e la cosa minacciava di andare anche oltre... Il sorvegliante tornò a gridare e agitò il bastoncino, ma la costola si ruppe di nuovo. Risultò infine che le scuri erano poche e che bisognava ancora portar li un certo altro strumento.
Subito si distaccarono due giovani, sotto scorta, perché andassero a prendere lo strumento in fortezza, e nell'attesa tutti i rimanenti sedettero tranquillissimamente sul barcone, cavarono fuori le loro pipette e si rimisero a fumare.
Il sorvegliante alla fine sputò.
- Be', a voi il lavoro non farà venire i calli! Ah, che gente, che gente! - brontolò irritato, poi scosse la mano e se ne andò in fortezza agitando il bastoncino.
Di lì a un'ora venne l'assistente. Ascoltati tranquillamente i detenuti, dichiarò che dava per compito di levar via ancora quattro costole, ma in modo che non si rompessero più, bensì restassero intere, e inoltre prescrisse di smontare una parte considerevole del barcone, col patto che poi si sarebbe potuto andare a casa. Il compito era grande, ma, santo cielo, come ci si misero! Dove era andata a finire la pigrizia, dove l'incertezza?
Le scuri presero a picchiare, i cavicchi di legno a girare e venire via. Gli altri insinuavano di sotto dei grossi paletti e, premendoci su con venti mani, con prontezza e maestria strappavano via le costole, che, con mia meraviglia, si staccavano ora affatto intere e senza guasti. Il lavoro ferveva. Tutti parevano essersi fatti a un tratto notevolmente più accorti. Né parole superflue, né improperi, ognuno sapeva che dire, che fare, dove mettersi, che cosa consigliare. Mezz'ora giusta prima del rullo di tamburo il compito assegnato era finito, e i detenuti andarono a casa stanchi, ma pienamente soddisfatti, sebbene avessero guadagnato forse una mezz'ora in tutto sul tempo indicato. Ma per quanto riguardava me, io avevo osservato un particolare: dovunque mi cacciassi per aiutarli durante il lavoro, non ero mai al mio posto, ero sempre d'impaccio e dappertutto mi spingevano via quasi con ingiurie.
Uno qualunque degli ultimi straccioni, che era egli stesso il più scadente dei lavoratori e non osava fiatare davanti agli altri forzati, più lesti di lui e più giudiziosi, anche quello si stimava in diritto di sgridarmi, se mi fermavo accanto a lui, col pretesto che lo impacciavo. Infine uno dei più svelti mi aveva detto addirittura brutalmente: - Dove vi cacciate? andate via!
Perché ficcarsi dove nessuno vi chiama?
- S'è messo nel sacco! - aveva rincalzato subito un altro.
- Ma tu prendi piuttosto la cassetta delle elemosine, - mi aveva detto un terzo, - e va' ad accattare per costruire una chiesa o per mangiarteli tutti in tabacco, ma qui non hai niente da fare.
Mi era toccato starmene da parte, e starmene da parte, quando tutti lavorano, è cosa imbarazzante. Ma quando effettivamente era accaduto che io mi fossi allontanato e piantato in fondo al barcone, subito si erano messi a gridare: - Ecco che operai ci hanno dato; che se ne può fare? Non se ne può far nulla.
Tutto questo, s'intende, era detto a bella posta, perché la cosa divertiva tutti. Bisognava prendersi gioco dell'ex-nobiluzzo, e naturalmente essi erano lieti dell'occasione.
Si può ora comprendere assai bene perché, come ho già detto, il mio primo problema, entrando nel reclusorio, fosse stato: come comportarmi, che atteggiamento assumere di fronte a questi uomini?
Io presentivo che spesso avrei avuto con essi degli urti, come ora sul lavoro. Ma, nonostante qualsiasi urto, decisi di non mutare il mio piano di azione, già da me in parte ben ponderato a quel tempo; sapevo che era giusto. Precisamente: avevo stabilito che bisognava comportarsi nel modo più semplice e indipendente possibile, non manifestare affatto una particolare premura di avvicinarsi a loro, ma anche non respingerli, se essi stessi avessero desiderato un avvicinamento. Non temere affatto le loro minacce e il loro odio e, possibilmente, far le viste di non accorgermene. Non affiatarmi per nulla con essi su certi determinati punti e non indulgere a certe loro abitudini e usanze, insomma non ricercare io stesso il loro pieno cameratismo. Avevo indovinato fin dal primo sguardo che essi sarebbero stati i primi a disprezzarmi per questo. Secondo le loro idee pera (e io lo appresi con certezza in seguito), io avrei pur sempre dovuto, di fronte a loro, rispettare e far valere anche la mia origine nobiliare, cioè coccolarmi, fare smancerie, disdegnarli, sbuffare a ogni passo, far lo scansafatiche. Tale appunto era il concetto che essi avevano di un nobile. Naturalmente per questo mi avrebbero insolentito, ma nondimeno in cuor loro mi avrebbero rispettato. Una parte siffatta non era per me, io non ero mai stato un nobile come essi intendevano; ma in cambio diedi parola a me stesso di non svilire mai dinanzi a loro con alcuna concessione né la mia istruzione né il mio modo di pensare. Se io, per compiacerli, mi fossi messo a strofinarmi a loro, a dar loro ragione, a prendere familiarità con essi e ad assimilarmi varie loro qualità per guadagnarne la benevolenza, avrebbero subito supposto che ciò facessi per paura e vigliaccheria, e mi avrebbero trattato con disprezzo. A-v non era da prendere ad esempio: egli andava dal maggiore ed essi lo temevano. D'altro lato, non volevo nemmeno chiudermi in una fredda e inaccessibile cortesia, come facevano i polacchi. Vedevo ora benissimo che mi disprezzavano perché volevo lavorare come loro, non mi coccolavo e non tenevo con essi un contegno affettato; e pur sapendo di sicuro che poi sarebbero stati costretti a modificare la loro opinione sul conto mio, tuttavia il pensiero che ora parevano in diritto di disprezzarmi pensando che io, sul lavoro, cercassi di ingraziarmeli, questo pensiero mi amareggiava enormemente.
Quando la sera, dopo la fine del lavoro pomeridiano, tornai al reclusorio, stanco e sfinito, una terribile angoscia si impossessa di me. "Quante migliaia ancora di simili giornate mi stanno dinanzi", pensavo, "tutte uguali, tutte identiche!". In silenzio, già al crepuscolo, vagavo solo dietro le baracche, lungo la palizzata, e a un tratto scorsi il nostro Pallino che mi correva direttamente incontro. Pallino era il nostro cane del reclusorio, così come ci sono i cani di compagnia, di batteria e di squadrone.
Viveva nel carcere da tempo immemorabile, non apparteneva ad alcuno, considerava tutti come padroni e si nutriva dei rifiuti della cucina. Era un cane abbastanza grosso, nero con macchie bianche, da cortile, non vecchissimo, dagli occhi intelligenti e dalla coda fioccosa. Nessuno mai l'accarezzava, nessuno gli rivolgeva la minima attenzione. Fin dal primo giorno io lo avevo accarezzato e gli avevo dato da mangiare del pane nelle mie mani.
Quando lo lisciavo, stava quieto, mi guardava affettuosamente e, in segno di gioia, dimenava piano piano la coda. Ora, non avendomi veduto da molto tempo - me, che per primo nel corso di più anni avevo avuto l'idea di fargli delle carezze - era corso, mi aveva cercato in mezzo a tutti e, scovatomi dietro le baracche, mi si era lanciato incontro con un guaito. Io non so più che cosa mi fosse accaduto, ma mi diedi a baciarlo, gli cinsi la testa con le braccia; esso mi gettò sulle spalle le zampe anteriori e cominciò a leccarmi il viso. "Ecco dunque un amico che mi manda il destino!" pensai, e ogni qual volta poi, in quel primo penoso e tetro periodo tornavo dal lavoro, prima di tutto, senza entrare in nessun posto, mi affrettavo ad andare dietro le baracche, con Pallino che saltava dinanzi a me e guaiva dalla gioia, gli afferravo la testa e lo baciavo, lo baciavo, e un certo sentimento dolce, e al tempo stesso anche tormentosamente amaro, mi attanagliava il cuore. E ricordo che mi era perfino gradito pensare, quasi vantandomi di fronte a me stesso della mia sofferenza, che, ecco, in tutto il mondo mi era rimasto ora un solo essere che mi amava, che mi era affezionato, il mio amico, il mio unico amico: il mio fedele cane Pallino.
Ma il tempo passava, e io a poco a poco cominciai ad abituarmi al luogo. Le manifestazioni quotidiane della mia nuova vita mi turbavano sempre meno ogni giorno. I fatti, l’ambiente, gli uomini, tutto pareva divenuto familiare ai miei occhi. Rassegnarmi a questa vita era impossibile, ma di riconoscere il fatto compiuto era tempo da un pezzo. Tutti i dubbi che ancora mi erano rimasti li celai dentro di me più profondamente che potei. Non bighellonavo più per il reclusorio, come smarrito, e non lasciavo trapelare la mia angoscia. Gli sguardi selvaggiamente curiosi dei forzati non si posavano più su di me così spesso, non mi seguivano più con una sfrontatezza così ostentata. Anch'io si vede, ero divenuto loro familiare, del che ero assai lieto. Già andavo in giro per il carcere come se fossi stato a casa mia, conoscevo il mio posto sul tavolaccio e mi ero evidentemente abituato perfino a cose alle quali pensavo di non potermi mai abituare in tutta la vita. Ogni settimana, regolarmente, andavo a farmi radere metà del capo. Ogni sabato, nelle ore di riposo, ci chiamavano per questo, a turno, dal reclusorio nel corpo di guardia (chi non si faceva radere ne rispondeva personalmente), e là i barbieri dei battaglioni ci insaponavano la testa con acqua fredda e spietatamente ce la raschiavano con rasoi senza filo, tanto che ora un brivido mi corre per la pelle al ricordo di quella tortura.
Del resto si trovò prontamente il rimedio: Akim Akimic' mi indica un detenuto, della categoria militare, che per una copeca radeva col proprio rasoio chi ne aveva piacere, e di ciò faceva commercio. Molti dei forzati andavano da lui, per evitare i barbieri governativi, e tuttavia non erano gente troppo delicata.
Il nostro detenuto-barbiere lo chiamavano "il maggiore", il perché non lo so, e nemmeno posso dire in che cosa potesse ricordare il maggiore. Ora, mentre scrivo, mi si ripresenta questo "maggiore", un giovanotto alto, magro e taciturno, abbastanza sciocco, eternamente immerso nella sua occupazione e immancabilmente con la coramella in mano, su cui ripassava giorno e notte il suo rasoio consumato fino al "non plus ultra", perdendosi tutto, così pareva, in tale occupazione da lui riguardata evidentemente come la missione dell'intera sua vita. Infatti egli era oltremodo contento quando il rasoio lavorava bene e qualcuno veniva a farsi radere:
la sua acqua saponata era calda, la sua mano leggera, il suo tocco vellutato. Egli visibilmente gioiva e s'inorgogliva dell'arte sua e accettava con noncuranza la copeca guadagnata, come se in realtà l'importante stesse nell'arte e non nella copeca. Ad A-v toccò il fatto suo dal nostro maggiore di piazza, quando, facendogli la spia contro i forzati, gli nominò una volta il nostro barbiere del reclusorio e imprudentemente lo chiamò "il maggiore". Il nostro maggiore diventò furioso e si offese all'estremo. "Ma sai tu mascalzone, che cos'è un maggiore?", gridava con la bava alla bocca facendosi giustizia a modo suo contro A-v, "capisci tu che cos'è un maggiore? Ed ecco che un mascalzone di forzato qualunque osa chiamarlo maggiore, in faccia mia, in mia presenza!..".
Soltanto A-v poteva intendersela con un tal uomo!
Fin dal primo giorno della mia vita di reclusorio avevo cominciato a sognare la libertà. Il calcolo di quando sarebbero finiti i miei anni di galera, sotto mille aspetti e con mille riferimenti diversi, era divenuto la mia occupazione preferita. Io non potevo nemmeno pensare ad altro e sono convinto che così si comporti ogni persona privata per un certo tempo della libertà. Non so se i forzati pensassero come me, se facessero gli stessi conti, ma la stupefacente leggerezza delle loro speranze mi aveva colpito fin dal primo istante. La speranza del recluso, privato della libertà, è di un genere affatto diverso da quella dell'uomo che vive davvero. L'uomo libero naturalmente spera (per esempio, in un mutamento della sorte, nella riuscita di una qualche sua impresa), ma egli vive, egli opera: una vera vita lo trascina pienamente col suo vortice. Non così è per il recluso. Qui, mettiamo, c'è pure una vita, di reclusorio, di galera; ma, chiunque sia il forzato e per qualunque periodo di tempo sia stato deportato, egli, istintivamente, non può proprio vedere nel suo destino qualcosa di positivo, di definitivo, una parte della sua vita reale. Ogni forzato sente che non è a casa sua, ma è come ospitato. Venti anni li considera come se fossero due ed è perfettamente convinto che anche a cinquant'anni, alla sua uscita dal carcere, egli sarà così gagliardo come ora, a trentacinque. "Avremo ancora tempo da vivere!", pensa, e scaccia ostinatamente da sé tutti i dubbi e gli altri pensieri molesti. Perfino i deportati non a termine della sezione speciale, anche quelli, a volte, facevano conto che, da un momento all'altro, arrivasse improvvisamente una decisione da Pitier [11]: "Trasferire a Nercìnsk, nelle miniere, e fissare un termine". A meraviglia dunque: in primo luogo, per andare a Nercìnsk ci vogliono quasi sei mesi, e andare con lo scaglione quanto è meglio del reclusorio! Poi scontare la pena a Nercìnsk e allora... E così fa i suoi conti più di un uomo canuto!
A Tobòlsk avevo visto degli uomini incatenati al muro. Un uomo è alla catena, lunga poco più di due metri; lì c'è la sua branda.
L'hanno incatenato per qualche azione inconsuetamente terribile, commessa già in Siberia. Stanno così per cinque anni, anche per dieci. Per lo più sono banditi. Uno solo io vidi fra loro che pareva essere stato un signore: aveva un tempo prestato servizio non so dove. Parlava con molta flemma, bisbigliando; aveva un sorrisetto dolciastro. Ci mostrava la sua catena, mostrava come bisogna coricarsi sulla branda per essere più comodi. Quello, sì, doveva essere stato, nel suo genere, un pezzo grosso! Tutti in generale tengono un contegno tranquillo e sembrano contenti, e intanto ciascuno ha una voglia estrema di finire al più presto il suo tempo! A che scopo? si direbbe. Ma ecco a che scopo: egli uscirà allora dalla sua cella soffocante, ammuffita, dalla volta bassa di mattoni, e passeggerà per il cortile del reclusorio e...
e basta. Fuori del carcere non lo lasceranno mai andare. Egli stesso sa che i liberati dalla catena saranno poi tenuti in perpetuo nel reclusorio, fino alla loro morte, e coi ferri ai piedi. Egli sa questo, eppure ha una voglia matta di finire al più presto il suo periodo di catena. Ma, senza questo desiderio, potrebbe egli rimanere per cinque o sei anni alla catena, senza morire o impazzire? Chi mai ci potrebbe stare?
Io sentivo che il lavoro poteva salvarmi, irrobustire la mia salute, il mio corpo. La continua inquietudine morale, l'irritazione nervosa, l'aria viziata della camerata avrebbero potuto rovinarmi del tutto. "Starò più spesso all'aria, stancandomi ogni giorno e abituandomi a portar pesi, e per lo meno mi salverò", pensavo, "mi rinforzerò, uscirò sano, gagliardo, forte, giovane". E non mi ingannavo: il lavoro e il moto mi erano utilissimi. Io guardavo con orrore come uno dei miei compagni (un ex-nobile) si andava spegnendo nel reclusorio, al pari di una candela. Egli vi era entrato insieme con me, ancor giovane, bello, gagliardo, e ne uscì semi-distrutto, canuto, invalido nelle gambe, con l'asma. "No", pensavo guardandolo: "io voglio vivere e vivrò".
In cambio, sul principio, mi toccava il fatto mio dai forzati per il mio amore al lavoro e per lungo tempo essi mi ferirono col disprezzo e con gli scherni. Ma io non guardavo nessuno e me ne andavo arditamente in qualunque luogo, magari, per esempio, a calcinare e pestare l'alabastro: uno dei primi lavori da me appresi. Quello era un lavoro leggero. I superiori del genio erano pronti ad alleggerire possibilmente il lavoro dei nobili, il che del resto non era punto indulgenza, ma soltanto giustizia. Sarebbe strano pretendere da un uomo della metà più debole di forze e che non ha mai lavorato quello stesso compito che si assegna per regolamento a un vero lavoratore. Ma questo "favoreggiamento" non sempre avveniva, anzi pareva che avvenisse come di soppiatto; su questo la sorveglianza degli altri era severa. Abbastanza spesso accadeva di dover fare un lavoro pesante, e allora, si intende, i nobili sopportavano un peso doppio di quello degli altri lavoratori. A trattare l'alabastro si designavano solitamente tre o quattro uomini, vecchi o deboli di forze, compresi anche noi nel numero, s'intende; ma inoltre si comandava a quel lavoro un vero operaio, pratico della cosa. Di solito ci andava, e già da più anni di seguito, sempre lo stesso, Almasov, un uomo burbero, bruno di carnagione e magro, già anziano, insocievole e schizzinoso.
Egli ci disprezzava profondamente. Del resto era assai poco ciarliero, al punto che scansava perfino la fatica di brontolare contro di noi. La rimessa in cui calcinavamo e pestavamo l'alabastro era anch'essa sulla deserta e ripida sponda del fiume.
D'inverno, specialmente in una giornata cupa, era uggioso guardare il fiume e l'opposta, lontana riva. Un che di angoscioso, che straziava il cuore, era in quel selvaggio e deserto panorama. Ma quasi quasi era ancora più penoso, quando sullo sconfinato lenzuolo di neve splendeva luminoso il sole; avrei proprio voluto volare via chi sa dove in quella steppa, che cominciava sull'altra sponda e si stendeva verso il sud, come un'ininterrotta tovaglia, per millecinquecento verste. Almasov di solito si metteva al lavoro in silenzio e con fare burbero; noi eravamo come vergognosi di non poterlo aiutare in modo efficace, ed egli apposta si sbrigava da sé, apposta non ci chiedeva alcun aiuto, quasi per farci sentire tutta la nostra colpa verso di lui e perché avessimo rimorso della nostra inutilità. E tutta la faccenda consisteva nel tenere accesa la stufa per calcinare l'alabastro gettatovi dentro, che noi solevamo portargli. Il giorno seguente poi, quando l'alabastro era già del tutto calcinato, aveva inizio la sua estrazione dalla stufa. Ciascuno di noi prendeva un pesante mazzapicchio, si riempiva di alabastro una speciale cassetta e si metteva a frantumarlo. Era un lavoro simpaticissimo. Il fragile alabastro si riduceva rapidamente in una polvere bianca brillante, così agevolmente, così bene si sminuzzava. Noi brandivamo i pesanti martelli e facevamo un tale frastuono che noi stessi ci si pigliava gusto. E finalmente eravamo stanchi, e al tempo stesso ci sentivamo leggeri; le guance si arrossavano, il sangue circolava più rapido. A questo punto poi anche Almasov cominciava a guardarci con degnazione, come si guardano i bimbi di pochi anni, con degnazione fumava la sua pipetta, e tuttavia non poteva non brontolare, quando gli accadeva di parlare. Del resto era così con tutti e, in fondo, mi pare, era un brav'uomo. Un altro lavoro a cui venivo mandato era, nel laboratorio, quello di far girare la ruota del tornio. La ruota era grande, pesante. Occorrevano non pochi sforzi per farla girare, specialmente quando il tornitore (uno degli operai del genio) torniva qualcosa come un balaustro di scala o il piede di una grossa tavola, per la mobilia governativa di qualche funzionario, per il che ci voleva poco meno di una trave. Una persona sola in tal caso non aveva la forza di far girare la ruota e di solito se ne mandavano due: me e un altro dei nobili, B. Così questo lavoro durante alcuni anni fu riservato a noi, se appena accadeva di dover tornire qualche cosa. B. era un uomo debole, mingherlino, ancora giovane, malato di petto. Era giunto al reclusorio circa un anno prima di me, insieme con due altri suoi compagni: un vecchio che nella sua vita di recluso pregava sempre Dio giorno e notte (per il che i detenuti lo rispettavano molto) e che morì mentre c'ero io; e un altro, un uomo ancora giovanissimo, fresco, colorito in viso, forte e ardito, che nel corso del viaggio aveva sempre portato B., quando era stanco dopo la mezza tappa, cosa protrattasi per settecento verste di seguito. Bisognava vedere la loro mutua amicizia. B. era una persona con ottima istruzione e di carattere nobile, generoso, ma guastato e irritato dalla malattia. Della ruota ci occupavamo insieme, anzi questo ci distraeva tutti e due. Per me questo lavoro era un eccellente esercizio fisico.
Mi piaceva pure in modo particolare spalare la neve. Questo accadeva di solito dopo la tormenta, e tutt'altro che di rado nell'inverno. Dopo ventiquattro ore di tormenta, più di una casa ne era coperta fino a metà delle finestre e più d'una quasi sepolta del tutto. Allora, quando già la tormenta andava cessando e compariva il sole, ci mandavano fuori in grandi frotte, e a volte anche quanti eravamo nel reclusorio, a rimuovere i cumuli di neve dalle costruzioni governative. A ciascuno si dava una pala e a tutti insieme un compito, tale a volte che c'era da meravigliarsi di come si potesse venirne a capo e tutti concordi si mettevano all'opera. La neve soffice appena posatasi e lievemente gelata di sopra, veniva presa destramente con la pala a enormi blocchi e sparpagliata all'intorno, mentre essa, ancora nell'aria, si trasformava in un brillante polverio. La pala si affondava addirittura nella massa bianca, luccicante al sole. I detenuti quasi sempre eseguivano questo lavoro gaiamente. L'aria fresca invernale e il movimento li riscaldavano. Tutti si facevano più allegri: echeggiavano sghignazzi, grida, facezie.
Incominciavano a fare a palle di neve, non senza che di lì a un minuto, s'intende, i benpensanti e quelli che il riso e l'allegria indignavano si mettessero a gridare, e di solito il divertimento generale finiva con ingiurie.
A poco a poco presi a estendere anche il cerchio delle mie conoscenze. Io del resto non pensavo a farne; ero tuttora inquieto, cupo e diffidente. Le mie conoscenze si iniziarono da sé. Fra i primi si mise a visitarmi il detenuto Petròv. Dico visitare e di proposito insisto su questa parola. Petròv viveva nella sezione speciale e nella camerata più distante da me. Legami tra noi evidentemente non ce ne potevano essere; anche di comune tra noi non c'era assolutamente nulla né poteva esserci. E intanto, in quei primi tempi, pareva che Petròv si stimasse in obbligo di passare quasi ogni giorno da me, in camerata, o di fermarmi nelle ore di riposo, quando solevo camminare dietro le baracche il più lontano possibile da tutti gli sguardi. Sul principio la cosa mi riuscì sgradita. Ma egli seppe, non so come, fare in modo che ben presto le sue visite cominciarono a distrarmi, nonostante che fosse quello un uomo tutt'altro che particolarmente comunicativo e ciarliero. Quanto all'aspetto, era di bassa statura, di forte costituzione, agile, mobile, con un viso abbastanza simpatico, pallido, dai larghi zigomi, dallo sguardo ardito, con denti bianchi, fitti e minuti e un eterno pizzico di tabacco tritato dietro il labbro inferiore. Mettersi quel tabacco sul labbro era un'usanza di molti reclusi. Egli pareva più giovane della sua età. Aveva una quarantina d'anni, ma all'aspetto trenta appena. Con me parlava sempre senza la minima soggezione, si comportava in sommo grado da pari a pari, cioè in modo straordinariamente corretto e delicato. Se si accorgeva, per esempio, che io cercavo la solitudine, dopo aver parlato con me un paio di minuti, subito mi lasciava e ogni volta mi ringraziava per l'attenzione, il che, s'intende, non faceva mai con nessuno del reclusorio. E' curioso che tali rapporti siano continuati tra noi non soltanto nei primi giorni, ma anche nel corso di alcuni anni filati e non siano quasi mai divenuti più stretti, sebbene egli mi fosse realmente devoto. Anche ora non posso giudicare che cosa precisamente egli volesse da me, perché venisse da me ogni giorno.
Benché in seguito gli sia accaduto di rubacchiarmi qualche cosa, egli rubava in certo qual modo impensatamente; denaro non me ne chiedeva quasi mai, di conseguenza non veniva punto per aver denaro o per un qualche interesse.
Così pure, non so perché, mi è sempre parso che egli, in certa qual maniera, non vivesse affatto insieme con me nel reclusorio, ma in qualche luogo distante, in un'altra casa, in città, e visitasse il carcere solo di passaggio, per apprendere le novità, venirmi a trovare, vedere come vivessimo noi tutti. Egli aveva sempre fretta di andare non so dove, come se in qualche posto avesse lasciato qualcuno e là fosse atteso, come se in qualche posto avesse qualcosa da finire. E intanto aveva l'aria di non affannarsi troppo. Anche il suo sguardo era un po' strano: fisso, con una sfumatura di arditezza e di una cert'aria canzonatoria, ma pareva che guardasse in lontananza, di là dall'oggetto, come se, dietro l'oggetto che gli stava dinanzi al naso, cercasse di osservarne un qualche altro, un po' più lontano. Questo gli conferiva un aspetto distratto. Io di proposito a volte stavo a guardare: dove sarebbe andato Petròv, dopo avermi lasciato? Dove mai lo si attendeva a quel modo? Ma, lasciatomi, egli si dirigeva frettoloso da qualche parte, in una camerata o in cucina, là si metteva a sedere accanto a qualcuno dei conversanti, ascoltava con attenzione, talora anche partecipava egli stesso alla conversazione, perfino con gran calore, ma poi tutt'a un tratto tagliava corto e restava zitto. Ma che parlasse o stesse seduto in silenzio, si vedeva tuttavia che era lì soltanto così, di passata, e che in qualche posto aveva da fare e lo si attendeva. Il più strano di tutto è che lavoro non ne aveva mai, di nessun genere:
egli viveva in perfetto ozio (salvo, naturalmente, i lavori governativi). Non conosceva mestiere alcuno, e anche denaro non ne aveva quasi mai. Ma anche per il denaro egli poco si crucciava. E di che cosa parlava con me? La sua conversazione era di solito altrettanto strana quanto lui stesso. Se vedeva, per esempio, che io camminavo solo da qualche parte, dietro il carcere, svoltava a un tratto bruscamente nella mia direzione. Camminava sempre in fretta e svoltava sempre bruscamente. Veniva al passo e aveva l'aria di avvicinarsi di corsa.
- Buongiorno.
- Buongiorno.
- Non vi disturbo?
- No.
- Ecco, volevo farvi una domanda a proposito di Napoleone. E' parente, non è vero, di quello che fu qui nel 1812? - Petròv veniva dai cantonisti e sapeva leggere e scrivere.
- Si, è parente.
- E che razza di presidente dicono che sia?
Egli faceva le sue domande sempre in fretta, a sbalzi, come se avesse bisogno di sapere qualche cosa al più presto possibile.
Come se assumesse informazioni su una faccenda di grande importanza che non ammetteva dilazione.
Io gli spiegai che razza di presidente fosse, e soggiunsi che forse presto sarebbe stato anche imperatore.
- Come mai?
Gli spiegai per quanto potevo anche questo. Petròv ascoltava con attenzione comprendendo perfettamente ogni cosa, e connettendo con rapidità, e inclinando perfino l'orecchio dalla mia parte.
- Ehm! Ma ecco che cosa volevo domandarvi, Aleksàndr Petrovic': è vero, come dicono, che ci sono delle scimmie le cui mani arrivano ai calcagni e grandi come il più alto degli uomini?
- Sì, ci sono.
- E come sono?
Io gli spiegai come sapevo anche questo.
- E dove vivono?
- Nei paesi caldi. Nell'isola di Sumatra ce ne sono.
- Dov'è, in America? E' vero, come dicono, che là gli uomini camminano con la testa all'in giù?
- Non con la testa all'in giù. La vostra domanda si riferisce agli antipodi. - Gli spiegai che cos'era l'America e, nei limiti del possibile, che cos'erano gli antipodi. Egli mi ascoltava con tanta attenzione come se fosse corso da me apposta, soltanto per gli antipodi.
- A-ah! Ma ecco, l'anno scorso io avevo letto della contessa Lavallière, Arefiev aveva portato un libro da parte dell'aiutante.
E così è vero questo o è soltanto così, una cosa inventata? E' un libro di Dumas.
- S'intende, è cosa inventata.
- Be', addio. Vi ringrazio.
E Petròv spariva, e, in fondo, noi non discorrevamo quasi mai altrimenti che a questo modo.
Io m'informai sul suo conto. M., avendo saputo di questa conoscenza, mi mise perfino in guardia. Mi disse che molti dei forzati gli avevano ispirato orrore, specialmente da principio, nei primi giorni di reclusorio, ma non uno di essi, nemmeno Gasin, gli aveva fatto tanta impressione come questo Petròv.
- E' il più risoluto, il più impavido di tutti i forzati, diceva M. - E' capace di tutto; non si arresterebbe davanti a nulla, se gli venisse un capriccio. Scannerebbe anche voi, se ciò gli saltasse in mente; così, vi scannerebbe semplicemente, senza fare una smorfia e senza rimorsi. Credo perfino che non abbia del tutto la testa a posto.
Questo giudizio m'interessò fortemente. Ma M. non sapeva spiegarmi perché così gli paresse. E, fatto strano: io fui poi per parecchi anni di fila in rapporti con Petròv e quasi ogni giorno parlavo con lui; egli mi fu in tutto quel tempo sinceramente affezionato (benché io non sappia proprio per che cosa), e in tutti quegli anni, sebbene egli vivesse nel reclusorio giudiziosamente e non avesse mai fatto proprio nulla di orrendo, tuttavia ogni volta, guardandolo e conversando con lui, mi convincevo sempre più che M.
aveva ragione e che Petròv era forse il più risoluto, il più impavido degli uomini, un uomo che non conosceva il minimo ritegno. Perché così mi paresse, anch'io non so darmene conto.
Osserverò del resto che questo Petròv era quello stesso che aveva voluto uccidere il maggiore di piazza, quando lo avevano chiamato per infliggergli il castigo e il maggiore "si era salvato per miracolo", come dicevano i detenuti, andando via proprio un momento prima della punizione. Un'altra volta, ancora prima dei lavori forzati, era accaduto che il colonnello lo avesse percosso durante l'istruzione. Probabilmente già in passato era stato picchiato numerose volte; ma in quel caso non aveva voluto sopportare e aveva accoltellato il suo colonnello apertamente, in pieno giorno, davanti alle truppe schierate. Per altro io non conosco tutta la sua storia nei particolari; egli non me la raccontò mai. Naturalmente quelli erano soltanto scatti, nei quali la sua indole si rivelava all'improvviso tutta quanta, di colpo.
Ma tuttavia essi erano in lui abbastanza rari. Egli era effettivamente assennato, anzi pacifico. Si celavano in lui delle passioni, e anche forti, infocate; ma i loro carboni ardenti erano costantemente cosparsi di cenere e bruciavano piano piano. In lui non notai mai nemmeno l'ombra della millanteria o della vanità, come, per esempio, in altri. Egli litigava di rado, in cambio non era in particolare amicizia con alcuno, salvo forse il solo Sirotkin, e anche soltanto quando di costui aveva bisogno. Una volta però lo vidi adirarsi sul serio. Non gli avevano dato qualcosa, non so che oggetto, lo avevano defraudato. Litigava con lui un detenuto atletico, di alta statura, maligno, attaccabrighe, schernitore e tutt'altro che pauroso, Vassili Antonov della categoria civile. Essi avevano già gridato a lungo e io pensavo che la cosa sarebbe finita tutt'al più con un po' di semplici scapaccioni, perché Petròv, per quanto assai di rado, qualche volta attaccava lite e ingiuriava come l'ultimo dei forzati. Ma quella volta accadde altrimenti: Petròv a un tratto impallidì, le sue labbra presero a tremare e si fecero livide; incominciò a respirare a fatica. Egli si levò dal suo posto e lentamente, molto lentamente, coi passi silenziosi dei suoi piedi scalzi (d'estate gli piaceva molto andare scalzo), si avvicinò ad Antonov. A un tratto, nell'intera camerata piena di rumori e di grida, tutti insieme fecero silenzio; si sarebbe udito volare una mosca. Tutti attendevano ciò che sarebbe seguito. Antonov gli balzò incontro; il suo viso era sfigurato... Io non ressi più e uscii dalla camerata. Supponevo che non avrei ancora avuto il tempo di scendere la scaletta che mi sarebbe giunto il grido di un uomo sgozzato. Ma la cosa terminò in nulla anche questa volta; Antonov, prima che Petròv arrivasse fino a lui gli buttò in silenzio e in fretta l'oggetto conteso. (Si trattava del più misero straccio, di non so che fasce da piedi). S'intende che di lì a un paio di minuti Antonov gli disse tuttavia qualche po' di parolacce, a scarico di coscienza e per salvare le apparenze, per far vedere che non si era poi presa tanta paura. Ma alle ingiurie Petròv non fece alcuna attenzione, non rispose nemmeno: la faccenda non stava nelle ingiurie e si era conclusa a suo vantaggio; egli era rimasto molto soddisfatto e si era preso lo straccio. Dopo un quarto d'ora già andava a zonzo come prima per il reclusorio, con l'aria di chi non ha proprio nulla da fare e come cercando di sentire se da qualche parte non si avviassero dei discorsi un po' curiosi, per ficcarci il suo naso e ascoltare. Pareva che tutto lo interessasse, eppure accadeva, non so come, che per lo più rimanesse indifferente a tutto e vagabondasse per il carcere soltanto così, da sfaccendato, buttandosi di qua e di là. Lo si poteva paragonare anche a un operaio, a un robusto operaio, che sul lavoro fa prodigi, ma al quale per il momento non si dà lavoro e che in attesa se ne sta in riposo e gioca coi bambini. Un'altra cosa io non capisco, perché vivesse nel reclusorio, perché non fuggisse. Egli non avrebbe esitato a fuggire, purché lo avesse fortemente voluto. Sugli uomini come Petròv la ragione impera solo fino a quando essi non vogliono qualche cosa. A questo punto poi non ci sono più su tutta la terra ostacoli al loro desiderio. E io sono sicuro che avrebbe saputo evadere abilmente, gabbando tutti, e avrebbe potuto starsene per una settimana senza pane in qualche sito, nella foresta o in mezzo ai canneti di un fiume. Ma evidentemente egli non si era ancora intoppato in questo pensiero e non aveva ancora desiderato ciò con pienezza. Un grande raziocinio, un particolare buon senso non l'avevo mai notato in lui. Questi uomini vengono al mondo con una sola idea che per tutta la vita li spinge incoscientemente in qua e in là; e così sono sballottati tutta la vita, finché non si siano trovati qualcosa da fare in piena conformità al loro desiderio; allora la testa non serve loro più a nulla. Io mi meravigliavo qualche volta che un uomo simile, che aveva accoltellato il suo superiore, perché picchiato, si stendesse da noi così passivamente sotto le verghe. E a volte lo fustigavano, quando veniva sorpreso con l'acquavite. Come tutti i forzati senza mestiere, egli si metteva di tanto in tanto a portar dentro acquavite. Ma lui anche sotto le verghe si stendeva come se lo facesse di sua propria volontà, cioè come se fosse consapevole che c'era un motivo; in caso contrario, non si sarebbe messo giù per nulla al mondo, a costo di farsi ammazzare. Io mi meravigliavo di lui anche quando, nonostante la sua visibile devozione per me, mi derubava. Era un impulso che lo assaliva, in certo modo, a periodi. Fu lui a rubarmi la Bibbia, che io gli avevo dato solo da portare da un posto a un altro. La distanza era di pochi passi, ma egli fece in tempo a trovare per via un compratore e gliela vendette, e subito dopo si bevve anche i soldi. Certamente gli era venuta una gran voglia di bere, e poiché gliene era venuta una gran voglia, essa doveva venire appagata. Ecco che un tipo simile può assassinare un uomo per un quarto di rublo, per comprarsi con questo quarto di rublo una mezzetta di acquavite, anche se in un altro momento lo lascerebbe passare con centomila rubli. La sera egli stesso mi confessò il furto, ma senza il minimo turbamento o pentimento, con assoluta indifferenza, come se si trattasse del più comune dei casi. Io mi provai a sgridarlo ben bene, tanto più che mi rincresceva per la mia Bibbia. Egli mi ascoltava senza irritarsi, perfino con molta calma; era d'accordo che la Bibbia era un libro utilissimo, rimpiangeva sinceramente che non ce l'avessi più, ma non rimpianse affatto di avermela rubata; egli mi guardava con un'aria così sicura di sé che io smisi subito di sgridarlo. La mia sgridata poi la sopportava probabilmente per aver riflettuto che non si poteva fare a meno di insolentirlo per un'azione simile, come a dire: si sfoghi pure, si diverta pure a ingiuriarmi; ma che, in sostanza, tutto ciò era una sciocchezza, una tale sciocchezza che una persona seria si sarebbe vergognata anche di parlarne. A me pare che mi considerasse in generale come una specie di bambino, quasi quasi di lattante, che non capiva le cose più semplici del mondo.
Se, per esempio, io stesso mi mettevo a discorrere con lui di altre cose che non fossero le scienze e i libri, egli, è vero, mi rispondeva, ma come se facesse questo soltanto per cortesia, limitandosi alle risposte più laconiche. Spesso mi domandavo: che importa a lui di queste faccende libresche sulle quali di solito m'interroga? Accadeva che, nel corso di tali conversazioni, io, facendo finta di niente, gli gettassi una occhiata in tralice per vedere se non rideva di me. Ma no; di solito ascoltava seriamente, attentamente, benché del resto non troppo, e quest'ultima circostanza a volte m'indispettiva. Mi rivolgeva le sue domande in modo esatto, preciso, ma pareva che non si meravigliasse molto delle informazioni da me ricevute e anzi le accogliesse distrattamente. Mi pareva ancora che, a mio riguardo, egli avesse concluso, senza rompersi troppo la testa, che con me non si poteva parlare come con gli altri uomini, che, all'infuori dei discorsi sui libri, non avrei capito nulla, anzi non ero in grado di capire nulla, cosicché non era nemmeno il caso di incomodarmi.
Io sono sicuro che mi voleva perfino bene, e questo mi faceva stupire. Se mi considerasse come un uomo immaturo, incompleto, se sentisse per me quel genere speciale di commiserazione che ogni essere forte istintivamente sente per un altro più debole, prendendomi per tale... io non lo so. E sebbene tutto ciò non gli impedisse di derubarmi, sono convinto che, anche derubandomi, mi compativa. "Eh!", pensava forse, mentre affondava la mano nella mia roba, "che razza d'uomo è mai questo, che non può difendere nemmeno le cose proprie!". Ma per questo appunto pareva volermi bene. Egli stesso mi disse una volta, in certo qual modo all'impensata, che io ero proprio "un uomo dal cuore troppo buono", e: - Siete così semplice, così semplice, - disse, - che si è presi perfino da pietà. Ma voi, Aleksàndr Petrovic', non pigliatela come un'offesa, - soggiunse dopo un momento, - io, già, l'ho detto così di tutto cuore.
A siffatti uomini accade a volte nella vita di manifestarsi e segnalarsi a un tratto, in modo brusco e appariscente, nei momenti di qualche violenta azione collettiva o di un rivolgimento, e in tal guisa vengono a trovarsi di colpo nella pienezza della loro attività. Essi non sono gli uomini delle parole e non possono essere i promotori e i condottieri di un'impresa; ma ne sono i principali esecutori e sono i primi a cominciare. Incominciano con semplicità, senza gettare troppe grida, ma in cambio sono i primi a scavalcare l'ostacolo principale, senza rifletterci su, senza paura, o a marciare direttamente contro le baionette, e tutti gli altri si precipitano dietro di loro e li seguono ciecamente, li seguono fino all'estrema muraglia, dove di solito lasciano anche la loro testa. Io non credo che Petròv possa finir bene; egli finirà tutto di colpo in un qualche momento e, se non si è perduto fino ad oggi, ciò vuol dire che non è ancora venuta la sua ora.
Del resto, chi sa? Può anche darsi che viva fino ad avere i capelli bianchi e che muoia tranquillissimamente di vecchiaia, vagabondando senza scopo di qua e di là. Ma a me sembra che M.
avesse ragione dicendo che era quello l'uomo più risoluto di tutto il penitenziario.
Degli uomini risoluti non è facile dire: ai lavori forzati, come dappertutto, ce n'erano pochini. Il tale, all'aspetto, era magari un uomo spaventoso; se tu consideravi ciò che di lui si raccontava, te ne scostavi perfino. Un certo sentimento inconsapevole mi induceva sul principio finanche a girar largo intorno a queste persone. Poi ebbi a modificare in molti punti le mie idee anche sul conto dei più terribili assassini. Taluno non aveva ucciso, ma era più spaventoso di un altro venuto lì per sei omicidi. Di certi delitti poi era difficile farsi anche l'idea più elementare: a tal segno c'era nella loro consumazione molto di strano. Io dico questo appunto perché nel nostro popolino certi assassinii hanno origine dalle cause più stupefacenti. Esiste, per esempio, anzi molto spesso, questo tipo di omicida: il tal uomo fa vita quieta e pacifica. Il suo destino è amaro, e lui sopporta.
Mettiamo che sia un contadino, un servo di casa, un piccolo borghese, un soldato. Tutt'a un tratto egli ha avuto uno scatto:
non ha potuto più reggere e ha accoltellato il suo nemico e angariatore. E qui appunto incomincia lo strano: per un po' di tempo quest'uomo trascende improvvisamente ogni misura. Prima ha assassinato l'angariatore, il nemico; questo, per quanto criminoso, è comprensibile: qui c'era un motivo; ma poi non accoltella più i nemici, accoltella il primo che incontra, che gli viene tra i piedi, accoltella per sollazzo, per una parola ingiuriosa, per uno sguardo, per far numero pari, o semplicemente dice: "Via dalla mia strada, non venirmi sotto, io tiro dritto!".
Come se costui diventasse ubriaco, come se avesse il delirio della febbre. Come se, avendo una volta varcato il limite a lui vietato, cominciasse ormai a compiacersi che non c'è più per lui nulla di sacro; come se fosse trascinato a scavalcare di colpo ogni legalità e autorità e a deliziarsi della più sfrenata e illimitata libertà, a godere nel sentirsi mancare il cuore per lo sgomento che non può non provare di fronte a se stesso. Egli sa inoltre che lo attende un terribile supplizio. Tutto ciò forse è simile alla sensazione che prova un uomo, quando, dall'alto di una torre, si sente attirato verso l'abisso che ha sotto i piedi, tanto che alla fine sarebbe egli stesso felice di buttarsi a capofitto: giù alla svelta, e sia un affare chiuso! E tutto questo accade perfino agli uomini finora più pacifici e meschini. Taluno di essi, in questa ebbrezza si dà perfino delle arie. Quanto più depresso era in passato, tanto più fortemente è tratto ora a pavoneggiarsi, a incutere paura. Egli si bea di questa paura, si compiace perfino del ribrezzo che suscita negli altri. Ostenta una specie di TEMERITA', e un simile "temerario" a volte attende egli stesso il castigo con impazienza, attende che DECIDANO la sua sorte, perché a lui stesso riesce infine gravoso il far mostra di tale ostentata TEMERITA'. E' curioso che per lo più tutto questo stato d'animo, tutta questa ostentazione dura esattamente fino al patibolo e poi è come troncata di netto: quasi si trattasse in realtà di un termine formale, si direbbe, fissato in precedenza da apposite norme. Allora l'individuo tutt'a un tratto si ammansisce, si fa piccino, diventa una specie di straccio. Sul patibolo piagnucola, chiede perdono al popolo. Arriva al reclusorio, lo guardi: è così bavoso, così moccioso, e anche così accasciato che ti meravigli perfino di lui: "Possibile che sia quello stesso che ha assassinato cinque o sei persone?".
Certo, taluni anche nel reclusorio non si ammansiscono rapidamente. In loro persiste ancora una certa baldanza, una certa vanteria, come a dire: "Ecco, io non sono mica quello che voi credete: io sono qui perché 'ho sei anime sulla coscienza'". Ma finisce con l'ammansirsi anche lui. Qualche volta cerca solo di svagarsi ricordando il suo intrepido slancio, la sua baldoria, unica nella sua vita, quando era stato "temerario", e gli piace assai poter trovare un sempliciotto davanti al quale, con decorosa gravità, darsi delle arie e vantarsi raccontandogli le proprie gesta, senza lasciar vedere del resto che è lui stesso a volergliele raccontare. Come a dire: "Ecco che uomo ero io!".
E con quali raffinatezze si osserva questa cautela tutta fatta di amor proprio, quanto pigramente noncurante è a volte un simile racconto! Quale studiata fatuità traspare nel tono e in ciascuna parola del narratore! E dove ha imparato questa gente?
Una volta in quei primi giorni, in una lunga serata, mentre giacevo ozioso e angosciato sul tavolaccio, ascoltai una di tali conversazioni e, per la mia inesperienza, presi il narratore per non so che immane, tremendo malfattore, per un carattere inauditamente ferreo, mentre a quello stesso tempo per poco non mi burlavo di Petròv. Tema del racconto era come lui, Lukà Kuzmic', non per altro che per il suo puro piacere, avesse MESSO A TERRA un maggiore. Questo Lukà Kuzmìc' era quello stesso piccolo, esile, giovane detenuto della nostra baracca, dal nasino puntuto, quel ciuffetto di cui mi pare di aver già fatto cenno. Egli era in realtà un russo, nato però nel mezzogiorno e, mi pare, un servo di casa. C'era in lui effettivamente qualcosa di acuto, d'insolente:
"L'uccelletto è piccino, ma l'unghietta è aguzza". I detenuti però istintivamente ti decifrano un uomo. Lo rispettavano pochissimo o, come si dice ai lavori forzati "gli portavano pochissimo rispetto". Aveva un enorme amor proprio. Quella sera stava seduto sul tavolaccio e cuciva una camicia. Cucire di bianco era il suo mestiere. Accanto a lui sedeva un ragazzo di campagna ottuso e corto di mente, ma buono e affettuoso, alto e robusto, suo vicino di tavolaccio, il detenuto Kobilin. Lukà, data la vicinanza, spesso litigava con lui e in generale lo trattava dall'alto in basso , in modo beffardo e dispotico, cosa di cui Kobilin, per la sua bonomia, in parte nemmeno si accorgeva. Egli stava facendo a maglia una calza di lana e ascoltava Lukà con indifferenza. Costui raccontava con voce abbastanza forte e chiara. Voleva che tutti lo ascoltassero, pur cercando invece di far finta di raccontare al solo Kobilin.
- Mi avevano trasferito, fratello, dal nostro posto, - egli prese a dire agucchiando, - a K-v, per vagabondaggio cioè.
- E questo quando, da molto tempo? - domandò Kobilin.
- Ecco, quando saranno maturi i piselli, si entrerà nel secondo anno. Be', come arrivammo a K-v, mi schiaffarono per un po' di tempo in quella prigione. Guardo: ci sono con me una dozzina di persone, tutti ciuffetti, alti, robusti, forti come tori. Ma così quieti! ll cibo è cattivo e il loro maggiore li fa girare come "ancomoda" a sua grazia (Lukà apposta aveva storpiato questa parola). Ci sto un giorno, due giorni; vedo che è gente paurosa.
Come mai dico, le fate buone a un simile imbecille?
- Ma vacci un po' tu a discorrere con lui! - e ridono perfino di me. Io sto zitto. E c'era lì un ciuffetto ridicolissimo, fratelli, - soggiunse a un tratto lasciando Kobilin e rivolgendosi a tutti in generale. - Raccontava come l'avevano condannato in tribunale, e come lui discorreva coi giudici, e intanto piangeva a dirotto:
diceva che a casa gli erano rimasti i bambini, la moglie. Un uomo così grande e grosso, dai capelli grigi. "Io", dice, "gli dico:
no. E lui, figlio del diavolo, scrive, scrive sempre. Be', dico tra me, che tu possa crepare affogato! E lui scrive sempre, scrive sempre; oh, quanto scrisse!... E' lì che fui rovinato!". Da' un po' qui il filo, Vassia; quello del reclusorio è marcio.
- E' preso al mercato, - rispose Vassia porgendo il filo.
- Il nostro per sarti è meglio. L'altro giorno hanno mandato un invalido e lui lo prende da qualche lercia donnetta! - continuò Lukà infilando l'ago contro luce.
- Dalla comare, si vede.
- Si vede, dalla comare.
- Ebbene, e il maggiore? - domandò Kobilin, che era stato del tutto dimenticato.
Non ci voleva altro per Lukà. Egli però non continuò subito il suo racconto, anzi parve non degnare nemmeno della sua attenzione Kobilin. Tirò tranquillamente il filo, tranquillamente e pigramente ritrasse i piedi sotto di sé, e infine così prese a dire:
- Io svegliai finalmente i miei ciuffetti e pretendemmo che venisse il maggiore. E io fin dal mattino avevo chiesto al mio vicino il mariolo [12], l'avevo preso e nascosto, s'intende, per ogni caso. Il maggiore va in bestia. Viene da noi. - Be', dico,- non abbiate paura, ciuffetti! - Ma a loro l'anima era già andata nei calcagni, tremano addirittura. Arriva di corsa il maggiore, ubriaco. - Chi c'è qui? Come mai qui! Io sono zar e dio!
- Appena ebbe detto: "Io sono zar e dio!", mi avvicinai, seguitò Lukà, - il coltello lo avevo nella manica.
- No, dico, alta nobiltà, - e intanto a poco a poco mi faccio sempre più vicino, - no, questo poi com'è possibile, dico, alta nobiltà, che voi siate qui da noi e zar e dio?
- Ah, allora sei tu, allora sei tu, - si mise a gridare il maggiore, - il caporione!
- No, - dico (e intanto gli sono sempre più vicino), - no, dico, alta nobiltà, come forse è noto e cognito anche a voi, Iddio nostro, onnipotente e onnipresente, è unico, dico. E anche il nostro zar è uno solo, messo da Dio medesimo sopra a tutti noi.
Lui, alta nobiltà, è il monarca! E voi, dico, alta nobiltà, siete ancora soltanto maggiore, il nostro capo, alta nobiltà, per grazia dello zar, dico, e per i vostri meriti.
- Come, come, come, come! - E si mise a schiamazzare in tal modo che non poteva più parlare, soffocava. Ne fui molto meravigliato.
- Ecco com'è! - dico; e di colpo mi getto su di lui, e gli pianto tutto il coltello proprio nel ventre. Fu l'affare di un momento.
Stramazzò e scalciò solo un poco coi piedi. Io buttai il coltello.
- Guardate, ciuffetti, - dico, - ora tiratelo su!
Ma qui devo fare una digressione. Purtroppo, siffatte espressioni:
"Io sono zar e dio" e molte altre simili a questa erano non poco in uso, una volta, fra molti dei nostri comandanti. Bisogna d'altra parte riconoscere che di tali comandanti ne rimangono ormai pochi, e forse sono anche scomparsi del tutto. Noterò pure che specialmente facevano sfoggio, e amavano fare sfoggio, di tali espressioni per lo più i comandanti venuti essi stessi dai gradi inferiori. Il grado di ufficiale pare che sconvolga loro tutte le viscere, e insieme anche la testa. Dopo avere a lungo stronfiato tirando la carretta e percorso tutti i gradini della sottomissione, essi si vedono improvvisamente ufficiali, comandanti, gentiluomini, e per la mancanza di abitudine e per l'ebbrezza del primo momento hanno un esagerato concetto della propria potenza e importanza; ben s'intende, solo di fronte ai gradi inferiori a loro subordinati. Davanti a quelli più alti invece continuano, come prima, in un servilismo ormai del tutto inutile, anzi antipatico a molti superiori. Certi leccapiedi si affrettano anzi, con un particolare intenerimento, a dichiarare ai propri comandanti superiori che loro, pur essendo ufficiali, vengono dai bassi gradi e "sanno sempre stare al proprio posto".
Ma di fronte ai gradi inferiori essi sono diventati padroni poco meno che assoluti. Certo, è ben difficile che di costoro oggi ce ne siano, e ben difficilmente se ne troverà uno che si metta a gridare: "Io sono zar e dio". Ma, ciò nonostante, io osserverò pur sempre che nulla irrita tanto i detenuti, e in generale tutti i subordinati, quanto siffatte espressioni dei superiori. Questa sfacciata esaltazione di sé, questa esagerata opinione della propria impunità genera l'odio nel più docile degli uomini e lo fa proprio andare fuori dei gangheri. Per fortuna, tutta questa faccenda appartiene quasi al passato, e anche nei vecchi tempi era severamente repressa dai superiori. Io ne conosco parecchi esempi.
In genere poi irrita le persone di grado inferiore qualsiasi atto di sdegnosa noncuranza, qualsiasi aria schizzinosa nel trattare con loro. Certuni pensano, per esempio, che, se si nutre bene, si mantiene bene il detenuto, se tutto si fa in conformità della legge, non c'è più altro da fare. Anche questo è un errore. Ogni uomo, chiunque egli sia e per quanto avvilito, purtuttavia, anche se istintivamente, anche se inconsapevolmente, pretende che si rispetti la sua dignità umana. Il detenuto medesimo sa di essere un detenuto, un reietto, e conosce il suo posto di fronte ai superiori; ma con nessun marchio, con nessuna catena potrai fargli dimenticare che è un uomo. E poiché egli è in realtà un uomo, di conseguenza bisogna anche trattarlo umanamente. Dio mio! Un trattamento UMANO può umanizzare perfino qualcuno su cui l'immagine di Dio si è da gran tempo offuscata. Appunto questi "disgraziati" sono da trattare nel modo più umano. E' questa la salvezza e la gioia loro. Io ho incontrato di tali buoni, generosi comandanti. Io ho visto l'effetto che essi producevano su questa gente avvilita. Poche parole amorevoli, e i detenuti quasi risuscitavano moralmente. Ne gioivano come bambini e come bambini cominciavano ad amare. Noterò ancora una stranezza: agli stessi detenuti non garba che i superiori li trattino in modo troppo familiare e UN PO' TROPPO bonario. Essi vogliono rispettare il capo, ma in tal caso cessano, in certo qual modo, di rispettarlo.
Al detenuto piace, per esempio, che il suo superiore abbia delle decorazioni, che sia un uomo prestante, nelle grazie di qualche alta autorità, che sia severo e grave e giusto e sappia mantenere la propria dignità. Una persona così i detenuti l'amano di più: sa conservare Ia propria dignità e non li offende, dunque tutto va bene, tutto è a modo.
- Allora dev'essere per questo che ti hanno rosolato? - osservò tranquillamente Kobilin.
- Ehm! Proprio rosolato, fratello, è vero che mi hanno rosolato.
Aléj, dammi qua le forbici! E che, fratelli, oggi non c'è "majdàn"?
- Poco fa si sono bevuto tutto, - disse Vassia. - Se non si fossero bevuto tutto, magari ci sarebbe stato.
- Se! Per un se anche a Mosca danno cento rubli, - osservò Lukà.
- E a te, Lukà, quanto dettero in tutto e per tutto? - riattaccò discorso Kobilin.
- Me ne dettero, amico caro, centocinque. E vi dirò questo, fratelli: per poco non mi ammazzarono, - riprese Lukà lasciando di nuovo Kobilin. - Ecco come mi toccarono queste centocinque: mi condussero in gran parata. E io prima di allora non avevo mai assaggiato le fruste. Di gente se ne precipitò là un mondo, tutta la città accorse: avrebbero castigato un brigante, un assassino cioè. Ma come è mai stupida quella gente, tanto che non so nemmeno io come dire! Timoska [13] mi spogliò, mi stese giù, poi gridò: - Tieniti fermo, ora ti scotto! - Io aspetto: che accadrà? Come me ne ebbe appiccicata una, volevo già gridare, feci per aprir la bocca, ma la forza di gridare non ce l'avevo più. La voce mi si era fermata in gola cioè. Quando mi appiccicarono la seconda, mi credi o no?, non sentii più contare due. E quando mi riebbi, sentii contare diciassette. E così, fratello, mi levarono poi per un quattro volte dal cavalletto, con mezz'ora di riposo per volta; mi spruzzavano d'acqua. Io guardo tutti con gli occhi fuori della testa e penso: "Qui morirò".
- E non sei morto? - domandò ingenuamente Kobilin.
Lukà lo misurò con uno sguardo in sommo grado sprezzante; echeggiò uno sghignazzo.
- Proprio uno scemo!
- Coi tangheri è un brutto affare, - osservò Lukà come pentendosi di aver potuto attaccar discorso con un uomo simile.
- Un uomo senza cervello, - rincalzò Vassia.
Lukà, pur avendo ammazzato sei persone, nel reclusorio non era mai temuto da alcuno, benché forse desiderasse sinceramente passare per un uomo terribile...
Giunse la festa del Natale di Cristo. I detenuti l'avevano attesa con una certa solennità e, guardandoli, anch'io mi ero messo ad attendere qualcosa di straordinario. Un quattro giorni prima della festa ci condussero al bagno. Durante il mio soggiorno, specialmente nei primi anni, i detenuti di rado venivano condotti al bagno. Tutti si rallegrarono e cominciarono a prepararsi. Era stato stabilito di andarci nel pomeriggio e in quei pomeriggi non si lavorava. Più di tutti si rallegrava e si affaccendava nella nostra camerata Issàj Fomìc' Bumstejn, un forzato ebreo, del quale ho già accennato nel quarto capitolo del mio racconto. A lui piaceva fare il bagno a vapore fino all'intontimento, fino a perdere i sensi, e ogni qual volta mi accade ora, riandando i vecchi ricordi, di rammentarmi anche il bagno del reclusorio (il quale merita che io non me ne dimentichi), subito emerge dinanzi a me, nel primo piano del quadro, la faccia del beatissimo e indimenticabile Issàj Fomìc', mio compagno di lavori forzati e con me convivente nella camerata. O Signore, che uomo esilarante e buffo era quello! Già ho detto qualche parola della sua figurina:
sui cinquant'anni, mingherlino, grinzoso, coi più orribili marchi sulle guance e sulla fronte, magro, debole di forze, con un corpo bianco da pulcino. Nell'espressione del suo viso traspariva una costante, incrollabile soddisfazione di sé, anzi beatitudine.
Pareva che non rimpiangesse affatto di esser finito in galera.
Poiché era gioielliere, e in città non c'erano gioiellieri, eseguiva continuamente per i signori e per le autorità cittadine null'altro che lavori di oreficeria. Qualcosa glieli pagavano pur sempre. Egli non era in bisogno, anzi viveva riccamente, ma metteva da parte il denaro e lo prestava a interesse, su pegno, a tutti i forzati. Egli aveva un suo samovàr, un buon materasso, delle tazze, tutto un servizio da tavola. Gli ebrei della città non cessavano di avere relazioni con lui e di proteggerlo. Il sabato andava sotto scorta al suo oratorio in città (il che è consentito dalle leggi) e viveva beatamente, attendendo però con impazienza di avere scontato i suoi dodici anni per "ammogliarsi".
C'era in lui il più comico miscuglio di ingenuità, di stupidità, di furberia, di audacia, di bonomia, di timidezza, di vanteria e di sfacciataggine. A me riusciva molto strano che i forzati non ridessero punto di lui e tutt'al più lo canzonassero un poco per divertirsi. Issàj Fomìc' evidentemente serviva a tutti di svago e spasso continuo. "Da noi è unico, non toccate Issàj Fomìc'", dicevano i detenuti, e Issàj Fomìc', benché capisse di che si trattava, era visibilmente orgoglioso della propria importanza, il che molto sollazzava i detenuti. Egli era giunto ai lavori forzati nel modo più burlesco (ancora prima di me, ma me l'avevano raccontato). Tutt'a un tratto, un giorno, verso sera, nelle ore di riposo, si era propagata nel reclusorio la voce che avevano condotto un ebreuccio e lo stavano radendo nel corpo di guardia, e che sarebbe venuto subito. Di ebrei non ce n'era allora ai lavori forzati neppure uno. I detenuti lo attendevano con impazienza e lo circondarono immediatamente, appena varcò il portone. Il sottufficiale del reclusorio lo accompagnò in una camerata per civili e gli indicò il suo posto sul tavolaccio. Issàj Fomìc' aveva tra le mani il suo sacco con la roba governativa che gli era stata consegnata e con la sua propria. Egli posò il sacco, si arrampicò sul tavolaccio e si mise a sedere, con le gambe piegate sotto di sé, senza osar levare gli occhi su alcuno. Intorno a lui risuonavano risate e facezie di reclusorio che pigliavano di mira la sua origine ebraica. A un tratto si aprì un varco attraverso la folla un giovane detenuto portando in mano i suoi più vecchi, sudici e laceri calzoni estivi, con le polpacciere governative per giunta. Egli sedette accanto a Issàj Fomìc' e gli batté sulla spalla.
- Be', amico caro, sono già sei anni che ti aspetto qui. Ecco, guarda, quanto mi dai?
E spiegò dinanzi a lui i cenci che aveva portato.
Issàj Fomìc', che, entrando nel carcere, si era intimidito a tal punto da non osare nemmeno alzare gli occhi su quella moltitudine di facce beffarde, sfigurate e spaventose che lo avevano strettamente attorniato, e per questa timidezza non era ancora riuscito a dire parola, appena visto il pegno, si riscosse di colpo e incominciò vivacemente a palpare con le dita gli stracci.
Li guardò perfino contro luce. Tutti aspettavano quel che avrebbe detto.
- Ebbene, un rublo d'argento non me lo daresti? Eppure lo varrebbero! - continuò il pignorante strizzando l'occhio a Issàj Fomìc'.
- Dare un rublo d'argento non si può, ma sette copeche si può.
E queste furono le prime parole pronunciate da Issàj Fomìc' nel reclusorio. Tutti si sbellicarono addirittura dalle risa.
- Sette! Be', dammene pure sette: sei fortunato! Bada però, conserva bene il pegno; me ne risponderai con la tua testa.
- Con tre copeche d'interesse, saranno dieci copeche, - proseguì l'ebreuccio a scatti e con voce tremante, affondando la mano in tasca per prendere il denaro e gettando occhiate timorose ai detenuti. Aveva una tremarella straordinaria, eppure voleva concludere l'affare.
- Per un anno, o che, le tre copeche d'interesse?
- No, non per un anno, ma per un mese.
- Sei ben tirato, giudeo. E come si deve chiamarti?
- Issàj Fomìc'.
- Be', Issàj Fomìc', tu qui da noi andrai lontano! Addio.
Issàj Fomìc' esaminò ancora una volta il pegno, lo ripiegò e lo ficcò con gran cura nel suo sacco, fra le persistenti sghignazzate dei detenuti.
Realmente pareva che tutti gli volessero addirittura bene e nessuno l'offendeva, sebbene quasi tutti gli fossero debitori.
Egli era poi mite come una gallina e, vedendo l'universale buona disposizione a suo riguardo, alzava perfino la cresta, ma con una comicità così bonaria che glielo si perdonava subito. Lukà, che in vita sua aveva conosciuto molti ebreucci, spesso lo stuzzicava, e niente affatto per malanimo, ma così, per divertimento, come ci si diverte con un cagnolino, con un pappagallo, con le bestiole ammaestrate eccetera. Issàj Fomìc', che sapeva questo assai bene, non si offendeva per niente e se la cavava con le celie in modo abilissimo.
- Ehi, giudeo, te le suono!
- Tu mi colpirai una volta e io colpirò te dieci volte, rispondeva bravamente Issàj Fomìc'.
- Rognoso maledetto!
- Sia pure, rognoso.
- Giudeo rognoso !
- Sia pur così. Rognoso sì, ma ricco; ci ho i bezzi.
- Hai venduto Cristo.
- E sia pure.
- Bene, Issàj Fomic', bravo! Non toccatelo, da noi è unico!
gridavano sghignazzando i detenuti.
- Ehi, giudeo, ti buscherai un po' di "knut" e andrai in Siberia.
- Ci sono già in Siberia.
- Ti spediranno ancora più lontano.
- E là il signor Dio c'è?
- Per esserci, c'è.
- Be', e sia; purché ci sia il signor Dio, e i bezzi, poi si sta bene dappertutto.
- Bravo Issàj Fomìc', si vede che è bravo! - gridano intorno, e Issàj Fomìc', pur vedendo che di lui si ride, s'imbaldanzisce; le lodi generali gli recano un visibile piacere ed egli incomincia a cantare per tutta la camerata, con esile voce di soprano: "lia- lia-lia-lia-lia!" un certo futile e buffo motivo, l'unica canzone, senza parole, che egli abbia cantato durante tutta la sua vita di galera. In seguito, fatta più stretta conoscenza con me, egli mi assicurava con giuramento che era questa la stessa canzone e lo stesso motivo che cantavano tutti i seicentomila ebrei, piccoli e grandi, attraversando il Mar Rosso e che a ogni ebreo era prescritto di cantare questo motivo nei momenti di trionfo e di vittoria sui nemici.
La vigilia di ogni sabato. il venerdì sera, venivano apposta dalle altre camerate nella nostra per vedere come Issàj Fomìc' avrebbe celebrato la sua festa. Issàj Fomìc' era a tal segno ingenuamente presuntuoso e vanitoso che anche quella generale curiosità gli faceva piacere. Con pedantesca e ostentata gravità egli copriva con una tovaglia, in un cantuccio, il suo minuscolo tavolino, apriva il libro, accendeva due candelette e, borbottando certe parole misteriose, cominciava a vestire la sua "risa" (o "riza", come egli pronunciava). Era questa una mantelletta variopinta di un tessuto di lana, che egli custodiva gelosamente nella sua cassetta. Su entrambe le braccia si legava dei correggioli e sulla testa, proprio in fronte, si fissava con una legatura una specie di scatoletta di legno, sicché pareva che dalla fronte di Issàj Fomìc' spuntasse come un buffo corno. Poi cominciava la preghiera.
Egli la recitava cantilenando, gridando, sputando, volgendosi intorno e facendo bizzarri e buffi gesti. Naturalmente tutto ciò era prescritto dal rituale della preghiera e non aveva nulla di ridicolo o di strano, ma ridicolo era che Issàj Fomic', come a bella posta, posasse davanti a noi e facesse sfoggio dei suoi riti. A un tratto egli si copre la testa con le mani e si mette a leggere singhiozzando. I singhiozzi si rafforzano ed egli, spossato e quasi urlando, inclina sul libro la sua testa coronata dall'arca; ma di colpo, in mezzo ai violenti singhiozzi, incomincia a ridere forte e a recitare facendo cantilena con una certa voce intenerita e solenne, come affievolita da un eccesso di felicità. "To', ha le smanie!", solevano dire i detenuti. Io domandai una volta a Issàj Fomic': che cosa significano questi singhiozzi e poi tutt'a un tratto questi solenni passaggi a un tono di felicità e di beatitudine? A Issàj Fomìc' piacevano enormemente queste mie domande. Egli mi spiegò lì per lì che il pianto e i singhiozzi esprimevano il pensiero della perdita di Gerusalemme e che la legge prescriveva, a questo pensiero, di singhiozzare e di battersi il petto il più forte possibile. Ma che, nel momento dei più violenti singhiozzi, lui, Issàj Fomic', DOVEVA A UN TRATTO, come impensatamente, ricordarsi (questo A UN TRATTO era anch'esso prescritto dalla legge) che esisteva una profezia circa il ritorno degli ebrei a Gerusalemme. A questo punto egli doveva immediatamente esplodere in gioia, canti e risate e recitare le preghiere in tal modo da esprimere già con la voce la maggior felicità possibile e col viso la maggior possibile solennità e nobiltà. Questo A UN TRATTO e l'assoluta obbligatorietà di questo passaggio piacevano straordinariamente a Issàj Fomic': egli ci vedeva un certo speciale, ingegnosissimo artificio e con aria presuntuosa mi spiegava questa sagace prescrizione della legge. Una volta, proprio nel più vivo della preghiera, entrò nella camerata il maggiore di piazza, accompagnato dall'ufficiale di guardia e da soldati di scorta.
Tutti i detenuti s'irrigidirono sull'attenti vicino ai loro tavolacci, il solo Issàj Fomìc' si mise a gridare ancor di più e a fare ancora più smorfie. Egli sapeva che la preghiera era consentita e non si poteva interromperla, e, gridando dinanzi al maggiore, s'intende, non arrischiava nulla. Ma per lui era un piacere straordinario pavoneggiarsi davanti al maggiore e posare di fronte a noi. Il maggiore gli si avvicinò a un passo di distanza: Issàj Fomìc' voltò le spalle al suo tavolino e cominciò a recitare proprio in faccia al maggiore, cantilenando e agitando le mani, la sua solenne profezia. Poiché gli era prescritto di esprimere sul proprio viso, in quel momento, anche la massima felicità e nobiltà, egli così fece immediatamente, dopo aver socchiuso gli occhi in un certo modo speciale, ridendo e facendo cenni di capo verso il maggiore. Il maggiore si meravigliò; ma alla fine sbuffò dalle risa, gli diede lì per lì, sulla faccia, dell'imbecille e si allontanò, mentre Issàj Fomic' gridava ancora più forte. Dopo un'ora, quando egli già cenava, gli domandai: - E se il maggiore di piazza, nella sua stupidità, si fosse adirato contro di voi?
- Quale maggiore di piazza?
- Come quale? Forse che non l'avete visto?
- No.
- Eppure stava a un metro da voi, proprio davanti alla vostra faccia.
Ma Issàj Fomic' cominciò ad assicurarmi nel modo più serio che non aveva visto assolutamente alcun maggiore e che in quei momenti, durante quelle preghiere, egli cadeva in una specie di estasi, cosicché non vedeva e non udiva più nulla di ciò che avveniva intorno a lui.
Come vedo ora distintamente Issàj Fomìc', mentre va girellando il sabato, senza lavoro, per tutto il reclusorio cercando, con ogni suo sforzo, di non fare nulla, come è prescritto per il sabato secondo la legge! Quali inverosimili aneddoti mi raccontava ogni volta che tornava dal suo oratorio! quali incredibili notizie e voci di Pietroburgo mi recava assicurando che le aveva ricevute dai suoi ebreucci e che questi le avevano di prima mano!
Ma io ho già parlato anche troppo di Issàj Fomìc'.
In tutta la città c'erano solo due bagni pubblici. Il primo, tenuto da un ebreo, era a cabine, al prezzo di cinquanta copeche per cabina, e attrezzato per le persone di alto bordo. L'altro bagno invece era soprattutto per il popolino, decrepito, sudicio, angusto, ed ecco, è in quest'altro bagno che furono condotti i nostri reclusi. Era una giornata di gelo e di sole; i detenuti si rallegravano anche solo di poter uscire dalla fortezza e dare un'occhiata alla città. Per la strada gli scherzi e le risa non ebbero tregua. Ci accompagnava un intero plotone di soldati coi fucili carichi, fra le meraviglie dell'intera città. Nel bagno ci divisero subito in due squadre: la seconda aspettava nell'anticamera fredda, mentre la prima squadra si lavava, il che era indispensabile per la ristrettezza del luogo. Ma, ciò nonostante, il bagno era angusto al punto che era difficile immaginarsi come potesse trovarci posto anche solo una metà dei nostri. Ma Petròv non si staccava da me; egli stesso, senza invito da parte mia, accorse ad aiutarmi e si offrì perfino di lavarmi.
Insieme con Petròv si fece avanti per servirmi anche Bakluscin, un detenuto della sezione speciale, che da noi chiamavano "pioniere" e di cui ho già fatto cenno come del più gioviale e simpatico dei detenuti, quale era in realtà. Ci eravamo già conosciuti un pochino. Petròv mi aiutò perfino a svestirmi, perché io, per mancanza di abitudine, ci mettevo molto tempo e nell'anticamera del bagno faceva freddo, poco meno che fuori. A proposito: per il detenuto è molto difficile spogliarsi, se non ha ancora imparato bene come si fa. In primo luogo, bisogna saper slacciare rapidamente i reggicatene. Questi reggicatene si fanno di cuoio, della lunghezza di circa venti centimetri, e si portano sopra la biancheria, direttamente sotto l'anello di ferro che cinge la gamba. Un paio di reggicatene non costa meno di sei "grivne" d'argento, e tuttavia il detenuto se li procura, a proprie spese, s'intende, perché senza di essi è impossibile camminare. L'anello della catena non cinge strettamente la gamba e tra l'anello e la gamba può passare un dito; in tal modo il ferro batte contro la gamba, la sfrega e in un solo giorno il detenuto senza reggicatene avrebbe il tempo di farsi delle piaghe. Ma togliere i reggicatene non è ancora difficile. E' più difficile imparare a levarsi con abilità la biancheria di sotto le catene. E' tutto un trucco da prestigiatore. Sfilatasi, poniamo, la braca sinistra delle mutande, bisogna innanzi tutto farla passare tra la gamba e l'anello della catena; poi, liberata la gamba, far tornare indietro questa braca attraverso lo stesso anello; poi ciò che già si è tolto dalla gamba sinistra infilarlo attraverso l'anello della gamba destra, e infine tutto ciò che si è fatto passare per l'anello di destra farlo tornare indietro verso di sé. La stessa storia si ripete nell'indossare la nuova biancheria. Per un novellino è perfino difficile intuire come ciò si faccia; per primo c'insegnò tutto questo, a Tobòlsk, il detenuto Kareniev, un ex-capo di briganti, che aveva passato cinque anni alla catena. Ma i detenuti ci sono avvezzi e se la sbrigano senza la minima difficoltà. Io diedi a Petròv alcune copeche perché si provvedesse di sapone e di uno strofinaccio; ai detenuti si distribuiva, è vero, anche il sapone governativo, un pezzetto a testa, grande come una doppia copeca e spesso come una di quelle fettine di formaggio che si servono la sera per antipasto alle persone di "medio ceto". Il sapone si vendeva anche lì, nell'anticamera del bagno, insieme con lo "sbiten" [14], i panini a ciambella e l'acqua calda. A ciascun detenuto era assegnato, per un accordo col padrone del bagno, un solo secchio di acqua calda; chi poi voleva lavarsi un po' meglio riceveva per un "gros" un altro secchio, che gli si consegnava già nel bagno, attraverso un apposito finestrino, dall'anticamera. Spogliatomi, Petròv mi condusse addirittura per mano, essendosi accorto che mi era molto difficile camminare coi ferri ai piedi. - Tirateli in su, sui polpacci, - diceva intanto sorreggendomi, come un aio, - e qui fate attenzione, qui c'è la soglia. - Io avevo perfino un po' di vergogna: avrei voluto assicurare a Petròv che sapevo andare avanti da me; ma lui non ci avrebbe creduto. Egli mi trattava proprio come un minorenne inesperto che ognuno ha il dovere di aiutare. Petròv non era affatto un servitore, soprattutto non era un servitore; se io l'avessi offeso, avrebbe saputo come comportarsi con me. Denaro per i suoi servigi non gliene avevo promesso per nulla, né lui ne aveva chiesto. Che cosa dunque lo muoveva ad aver tanta cura di me?
Quando aprimmo la porta che metteva nel bagno, pensai che fossimo entrati nell'inferno. Immaginatevi una stanza lunga una dozzina di passi e larga altrettanto, in cui erano stipate forse cento persone in una volta o, certamente, almeno ottanta, perché i detenuti erano stati divisi in due sole squadre e in tutto eravamo due centinaia di uomini venuti al bagno. Un vapore che velava la vista, fuliggine, sporcizia e una ressa tale che non c'era posto per mettere il piede. Io mi spaventai e volevo tornare indietro, ma Petròv mi rinfrancò subito. Bene o male, con grandissime difficoltà, ci aprimmo un passaggio fino alle panche fra le teste degli uomini seduti sul pavimento, pregandoli di curvarsi, affinché potessimo passare. Ma sulle panche i posti erano tutti occupati. Petròv mi disse che bisognava comprare il posto e subito entrò in trattative con un detenuto che si era collocato presso il finestrino. Per una copeca quello cedette il suo posto, immediatamente ricevette da Petròv la moneta che questi teneva stretta in pugno, dopo averla previdentemente portata con sé nel bagno, e subito si tuffò sotto la panca, proprio sotto il mio posto, dove era buio, sporco e dove si era accumulata dappertutto una melma appiccicaticcia per quasi mezzo dito di spessore. Ma anche i posti sotto le panche erano tutti occupati: anche lì brulicava di gente. Su tutto il pavimento non c'era un posticino largo un palmo dove non sedessero dei detenuti curvi buttandosi addosso l'acqua dei propri secchi. Altri erano ritti in mezzo a quelli e, tenendo in mano i loro secchi, si lavavano stando in piedi; l'acqua sporca ne colava giù direttamente sulle teste rase di coloro che erano seduti per terra. Su un palco e su tutti gli sporti che vi conducevano stavano a sedere, rannicchiati e curvi, degli uomini che si lavavano. Ma si lavavano poco. Le persone del popolo fanno poco uso, nel lavarsi, di acqua calda e di sapone; esse si percuotono soltanto furiosamente con gli scopetti e poi si versano addosso l'acqua fredda, ed ecco tutto il loro bagno. Sul palco una cinquantina di scopetti si alzavano e si abbassavano a un tempo; tutti si tempestavano di colpi fino allo stordimento. Il vapore veniva immesso a ogni istante. Quello non era più soltanto calore: quello era l'inferno. Tutti berciavano e schiamazzavano, al suono di cento catene trascinate sul pavimento... Taluni, desiderando passare, s'intricavano nelle catene altrui e urtavano le teste di quelli seduti più in basso, cadevano bestemmiando e si tiravano dietro gli urtati. Il sudiciume scorreva da ogni parte.
Tutti erano come ebbri, come sovreccitati; echeggiavano strilli e grida. Presso il finestrino, nell'anticamera del bagno, di dove si porgeva l'acqua, la gente s'ingiuriava, si accalcava, era tutta una mischia. L'acqua calda ricevuta si spandeva sulle teste degli uomini seduti sul pavimento, prima che il detenuto arrivasse con essa al proprio posto. Di tanto in tanto gettava un'occhiata dalla finestra o dalla porta socchiusa la faccia barbuta di un soldato col fucile in mano che spiava se non si commettessero disordini.
Le teste rapate e i corpi dei detenuti, arrossati dal vapore, sembravano più mostruosi. Sulla schiena riscaldata dal vapore riappaiono di solito nitidamente le cicatrici dei colpi di frusta e di bastone ricevuti in passato, cosicché tutti quei dorsi parevano ora nuovamente coperti di piaghe. Spaventose cicatrici!
Un brivido mi passò per la pelle, mentre le guardavo. Quando si immette il vapore, questo si stende come una nube densa e ardente per tutto il bagno; tutti si mettono a schiamazzare, a gridare.
Dalla nuvola di vapore spuntano schiene segnate di colpi, teste rase, braccia e gambe piegate, e per colmo Issàj Fomìc' schiamazza a squarciagola sul palco più alto. Egli si flagella fino a perdere i sensi, ma pare che nessun calore possa appagarlo; per una copeca noleggia un bagnino, ma costui alla fine non regge più, butta via lo scopetto e corre a inondarsi d'acqua fredda. Issàj Fomìc' non si scoraggia e ne noleggia un secondo, un terzo; egli si risolve ormai, per un caso simile, a non badare a spese e cambia fino a cinque bagnini.
- Bravo Issàj Fomìc', con che forza si fa scopettare! - gli gridano dal basso i detenuti. Issàj Fomìc' sente di essere in quel momento superiore a tutti e di aver battuto tutti; egli trionfa e con voce acuta da pazzo si mette a urlare la sua aria: "lia-lia- lia-lia-lia", coprendo ogni altra voce. A me venne da pensare che, se noi tutti ci fossimo un giorno trovati insieme all'inferno, questo sarebbe stato molto simile a quel luogo. Non potei trattenermi dal comunicare tale supposizione a Petròv; egli guardò soltanto in giro e rimase zitto.
Io volevo già acquistare anche per lui un posto accanto a me; ma egli sedette ai miei piedi e dichiarò che era comodissimo.
Bakluscin intanto comprava l'acqua per noi e ce la portava man mano che occorreva. Petròv disse che mi avrebbe lavato dalla testa ai piedi, per modo che "sarete del tutto pulito", disse, e m'invitò insistentemente a far uso dello scopetto. Io non mi ci arrischiai. Petròv mi passò il sapone su tutto il corpo.
- E ora vi laverò i PIEDINI, - soggiunse a conclusione. Io volevo già rispondere che potevo lavarmeli da me, ma non lo contraddissi più e mi abbandonai totalmente in sua balìa. Nel diminutivo "piedini" non c'era stata la minima nota servile; puramente e semplicemente Petròv non aveva potuto chiamare piedi i miei piedi probabilmente perché gli altri, i veri uomini, avevano dei piedi e io invece avevo ancora solo dei piedini.
Lavatomi, egli, con le stesse cerimonie, cioè sostenendomi e dandomi avvertimenti a ogni passo, come se io fossi stato di porcellana, mi condusse fino all'anticamera e mi aiutò a indossare la biancheria, e solo dopo essersi del tutto sbrigato con me, corse indietro nel bagno a flagellarsi con lo scopetto.
Quando fummo giunti a casa, io l'invitai a bere un bicchiere di tè. Il tè non lo rifiutò, lo bevve e ringraziò. Mi venne l'idea di slacciare la borsa e di offrirgli una mezzetta di acquavite. La mezzetta si trovò nella nostra stessa camerata. Petròv ne fu visibilmente soddisfatto, bevve, raschiò in gola e, dopo aver osservato che io l'avevo veramente rianimato, si avviò in fretta verso la cucina, come se là, senza di lui, non si potesse in alcun modo risolvere una certa questione. Al suo posto venne da me un altro interlocutore, Bakluscin (il "pioniere"), che io già al bagno avevo pure invitato da me per il tè.
Io non conosco un carattere più simpatico di Bakluscin. A dir vero, egli non dava pace agli altri, anzi litigava spesso e non gli piaceva che s'ingerissero nei fatti suoi, - insomma, sapeva farsi rispettare. Ma non litigava a lungo e da noi, a quanto pareva, tutti gli volevano bene. Dovunque entrasse, tutti lo accoglievano con piacere. Lo conoscevano perfino in città come l'uomo più festevole del mondo e come uno che non perdeva mai l'allegria. Era un giovanotto alto, di circa trentacinque anni, dal viso ardito e bonario, abbastanza bello, con un porro. Questo viso egli lo storceva a volte in modo così spassoso, contraffacendo tutti quanti, che i presenti non potevano non scoppiare a ridere. Era anche lui un burlone, ma non aveva indulgenza per i nostri schizzinosi nemici delle risate, tanto che nessuno più lo sgridava perché era "un uomo vuoto e inutile". Era pieno di fuoco e di vita. Aveva fatto conoscenza con me fin dai primi giorni e mi aveva dichiarato che veniva dai cantonisti, poi aveva prestato servizio nei pionieri ed era stato anche preso in considerazione e benvoluto da alcuni alti personaggi, del che, per una vecchia abitudine, molto si gloriava. Aveva subito cominciato a farmi domande su Pietroburgo. Leggeva perfino dei libriccini.
Venuto da me per il tè, dapprima fece ridere tutta la camerata raccontando come il tenente Sc. avesse al mattino fatto una partaccia al nostro maggiore di piazza e, messosi a sedere accanto a me, mi annunciò con aria soddisfatta che, a quanto pareva, ci sarebbe stato uno spettacolo. Nel reclusorio durante le feste si combinava un teatrino. Si erano rivelati degli attori e a poco a poco si allestivano le decorazioni. Talune persone della città promettevano di dare dei vestiti per le parti degli attori, anche per quelle femminili; si sperava perfino di procurare, per mezzo di un attendente, una divisa di ufficiale con le cordelline.
Purché al maggiore di piazza non fosse venuto in testa di vietare la cosa, come l'anno passato! Ma l'anno passato, a Natale, il maggiore non era di buon umore: aveva perduto denaro al gioco, inoltre nel reclusorio erano state commesse delle mancanze e lui, per rabbia aveva vietato tutto; ora forse non avrebbe voluto mettere inciampi. Insomma Bakluscin era in grande eccitazione. Si vedeva che era uno dei principali promotori dello spettacolo, e io allora mi ripromisi di assistere senza fallo a quella rappresentazione. La bonaria gioia di Bakluscin per la buona riuscita del teatrino mi era piaciuta. Una parola dopo l'altra, anche noi ci mettemmo a discorrere. Tra l'altro, egli mi disse che non aveva sempre prestato servizio a Pietroburgo, che là aveva commesso un fallo e lo avevano mandato a R., come sottufficiale del resto, in un battaglione di guarnigione.
- Ed ecco, è poi di là che mi hanno spedito qui, - osservò Bakluscin.
- E per che cosa? - gli domandai.
- Per che cosa? Che credereste, Aleksàndr Petrovic', perché?
Perché mi ero innamorato!
- Via, per questo non si manda ancora la gente qui dentro, obiettai ridendo.
- La verità, - soggiunse Bakluscin, - la verità è che io, nel corso di quella faccenda, ammazzai con una pistolettata un tedesco del posto. Ma mette conto di deportare qualcuno per un tedesco?
Giudicate voi stesso!
- Come fu, però? Raccontate, è una cosa curiosa.
- E' una storia comicissima, Aleksàndr Petrovic'.
- Allora tanto meglio. Raccontate.
- Ho da raccontare? Be', ascoltate dunque...
Io ascoltai la storia magari non del tutto comica, ma in cambio abbastanza strana di un omicidio...
- Ecco come andarono le cose, - incominciò Bakluscin. - Quando dunque mi mandarono a R., vidi che era una bella e grande città, ma che c'erano molti tedeschi. Be', io, s'intende, ero ancora un giovane, tenuto in buon conto dai superiori, me ne andavo in giro col cappello sulle ventitré, insomma ammazzavo il tempo. Facevo l'occhiolino alle tedesche. E mi andò a genio una tedeschina, Luisa. Lei e sua zia erano tutt'e due lavandaie e non lavavano che biancheria finissima. La zia era vecchia, tanto capricciosa, e vivevano agiatamente. Io da principio davo delle capatine sotto le loro finestre, poi feci con loro una vera amicizia. Luisa parlava bene anche il russo, ma solo così, come se tartagliasse... ed era tanto carina che io non avevo ancora mai incontrato l'uguale.
Cominciai a dirle questo e quello, ma lei a me: "No, questo non si può, Sascia, perché io voglio serbare tutta la mia purezza, per esserti degna moglie", e mi accarezza, e ride sonoramente... ed era così linda, io come lei non ne avevo mai viste. Lei stessa m'invitò a sposarla. Be', come non sposarla, pensate un po'! Ecco che mi preparo ad andare con la mia richiesta dal colonnello... A un tratto osservo che Luisa una volta non viene all'appuntamento, non ci venne una seconda volta, non ci venne una terza... Io le mando una lettera; ma la lettera rimane senza risposta. "Che è mai questo?", penso. Se m'ingannasse, giocherebbe di astuzia, risponderebbe alla lettera e verrebbe all'appuntamento. Lei invece non aveva nemmeno saputo mentire; così aveva semplicemente troncato i rapporti. "Qui c'entra la zia", penso. Dalla zia non osavo andare; benché lei sapesse, noi tuttavia facevamo le cose un po' copertamente, con prudenza. Io vado intorno come frenetico, le scrivo un'ultima lettera e le dico: se non verrai, andrò io stesso dalla zia. Si spaventò e venne. Piange; dice che un tedesco, Schultz, loro lontano parente, orologiaio, ricco e già anziano, ha manifestato il desiderio di sposarla: - Per far felice me, - dice, - e lui stesso non restare scapolo in vecchiaia. E poi, - dice, - mi amava già prima e da lungo tempo nutriva questa intenzione, ma taceva sempre e si preparava. E così ecco, Sascia, - mi dice, - lui è ricco e questa per me è la fortuna; è mai possibile che tu voglia privarmi della mia felicità? - La guardo: piange, mi abbraccia... Eh, penso, dice pure delle cose assennate! Be', che senso c'è a sposare un soldato, anche se sono sottufficiale? Be', - dico, - Luisa, addio, che il Signore ti assista; non è il caso che io ti privi della tua felicità. Ma com'è, è bello?. No,- dice, - è già anziano, con un lungo naso... - e lei stessa scoppia a ridere. La lasciai: ebbene, penso, non era destino! La mattina dopo passo davanti alla bottega di lui, il nome della via lei me l'aveva detto. Guardo attraverso il vetro: c'è lì, seduto, un tedesco che lavora a un orologio, sui quarantacinque anni, con un naso arcuato, gli occhi a fior di testa, in giubba e col colletto diritto, alto così, dall'aria così grave. Io sputai; volevo già lì per lì fracassargli il vetro... ma no, penso! Non è il caso di molestarlo, facci una croce su! Arrivai in caserma al crepuscolo, mi coricai sulla branda, ed ecco, mi credete, Aleksàndr Petrovic', mi misi a piangere...
- Be', passa così un giorno, un secondo, un terzo. Con Luisa non m'incontro. E intanto avevo sentito da una comare (era una vecchia, anche lei lavandaia, dalla quale Luisa andava qualche volta) che il tedesco sapeva del nostro amore e perciò aveva deciso di chiedere la sua mano al più presto. Se no, avrebbe aspettato ancora un paio d'anni. Pareva che si fosse fatto giurare da Luisa che non mi avrebbe più veduto e che per intanto le tenesse ancora tutt'e due, e la zia e Luisa, sulla corda; forse avrebbe ancora cambiato idea e tuttora non aveva deciso del tutto.
Lei mi disse pure che per domani l'altro, una domenica, le aveva invitate tutt'e due di mattina a prendere il caffè e che ci sarebbe stato anche un parente, un vecchio, che prima era stato mercante e adesso era povero, poverissimo, e impiegato non so dove, in un sotterraneo, come sorvegliante. Come seppi che la domenica forse avrebbero deciso ogni cosa, mi prese tanta rabbia che non ero più padrone di me. E tutto quel giorno e tutto il seguente non feci altro che pensare a questo. Credo che l'avrei divorato, quel tedesco.
La domenica mattina non sapevo ancora che cosa fare, ma, appena finita la messa, balzai su, infilai il cappotto e me ne andai dal tedesco. Pensavo di sorprenderli tutti. E perché andassi dal tedesco e che cosa volessi dire là, io stesso non so. Ma per ogni caso mi cacciai in tasca una pistola. Avevo una certa pistolaccia malandata, con un cane di vecchio modello; con essa sparavo già da ragazzo. Ma ora non si poteva nemmeno più sparare. Tuttavia la caricai con una pallottola; vorranno mettermi fuori, penso, mi diranno delle male parole, e io tirerò fuori la pistola e li spaventerò tutti. Arrivo. Nel laboratorio non c'è nessuno, sono tutti nella stanza di dietro. All'infuori di loro non un'anima, nessuna persona di servizio. Di servitù aveva in tutto una tedesca, che gli faceva anche da cuoca. Attraversai la bottega; vedo che la porta che mette laggiù è chiusa, ed è una vecchia porta, col gancetto. Il cuore mi batte, mi fermo, ascolto: parlano tedesco. Appena la spingo col piede a tutta forza, la porta si spalanca. Guardo: la tavola è imbandita. Sulla tavola c'è una grossa caffettiera e il caffè bolle su una macchinetta a spirito.
Ci sono li dei biscotti; su un altro vassoio una caraffa di vodca, aringhe e salame, e un'altra bottiglia di non so che vino. Luisa e la zia, tutt'e due agghindate, sono sedute su un divano. Di fronte a loro, su una sedia, il tedesco, il fidanzato, ben pettinato, in giubba e con un colletto che gli sporge in avanti. E da un lato, su una sedia, un altro tedesco, già vecchio, grasso, dai capelli grigi, che sta zitto. Appena entrai, Luisa impallidì tutta. La zia fece un sobbalzo e tornò a sedere, e il tedesco aggrottò la fronte. Era adirato; si alzò e mi venne incontro:
- Voi, - dice, - che cosa volete?
Io stavo per confondermi, ma mi prese forte la rabbia.
- Che cosa voglio! - dico. - Tu accogli bene l'ospite, offrigli la vodca. Sono venuto da te in visita.
Il tedesco riflette e dice: - Sedete.
Io sedetti. - Dammi dunque della vodca, - dico.
- Ecco, - dice, - la vodca; bevete, prego.
- Ma tu, - dico, - dammi della buona vodca. - Ormai la mia rabbia era proprio forte.
- Questa è buona vodca.
Mi sentii offeso perché mi teneva in così poco conto. E soprattutto perché Luisa guardava. Bevvi e poi dissi:
- Ma tu perché mi tratti così ruvidamente, tedesco? Fa' amicizia con me. Io sono venuto da te come amico.
- Io non posso essere vostro amico, - dice; - voi siete un semplice soldato.
Be', a questo punto andai sulle furie.
- Ah, tu spaventapasseri, - dico, - salumiere che sei! Ma sai tu che, da questo momento, posso fare di te tutto quello che voglio?
Ecco, vuoi che ti ammazzi con la mia pistola?
Tirai fuori la pistola, mi posi davanti a lui e gli puntai la canna proprio alla testa, a bruciapelo. Quelle stanno a sedere più morte che vive, hanno paura di fiatare; quanto al vecchio, quello trema come una foglia, sta zitto ed è pallido come un cencio.
Il tedesco rimase stupito, nondimeno si riebbe.
- Io non vi temo, - dice, - e vi prego, come galantuomo, di smettere subito il vostro scherzo, ma non vi temo affatto.
- Oh, conti frottole, - dico, - hai paura! - E che più? Non osa muovere la testa sotto la pistola, e se ne sta così.
- No, - dice, - voi non oserete in nessuna maniera far questo.
- E perché, - dico, - non oserò?
- Perché, - dice, - questo vi è severamente proibito e per questo sareste severamente castigato.
Lo sa il diavolo che imbecille fosse quel tedesco! Se egli stesso non mi avesse aizzato, sarebbe ancora in vita; tutto si sarebbe ridotto a una baruffa.
- E così, secondo te, - dico, - non oserò?
- N-no!
- Non oserò?
- Non oserete assolutamente farmi questo...
- Be', allora eccoti, salame! - Come l'ebbi colpito, lui rotolò sulla sedia. Quelle si misero a gridare.
Io mi caccio la pistola in tasca e alzo i tacchi, e quando stavo per entrare in fortezza, presso il portone, gettai la pistola nell'ortica.
Arrivato a casa, mi stendo sulla branda e penso: ecco, ora mi piglieranno. Passa un'ora, ne passa un'altra: non vengono a prendermi. E già verso il crepuscolo fui assalito dall'angoscia e uscii: volevo assolutamente vedere Luisa. Passai davanti all'orologiaio. Guardo: là c'era gente e la polizia. Io vado dalla comare: chiama fuori Luisa! Aspetto un momentino e vedo che Luisa accorre, mi si getta al collo e piange: - Ho colpa io di tutto, - dice, - che ho ascoltato la zia. - Mi disse pure che la zia, subito dopo il fatto di poco prima, era giunta a casa e dalla gran paura aveva cominciato a star male: - Anche a me, dice, - ha proibito di parlare; ha paura; facciano quel che vogliono. Noi, - dice Luisa, - poco fa nessuno ci ha viste. Lui aveva mandato via anche la serva, perché la temeva. Quella gli sarebbe saltata agli occhi, se avesse saputo che voleva prender moglie. Anche di lavoranti in casa non ce n'erano, aveva allontanato tutti. Egli stesso aveva fatto il caffè, egli stesso aveva preparato gli antipasti. E il parente, quello già prima era stato zitto in tutta la sua vita, non aveva mai detto nulla, e ora, appena accaduto il fatto, aveva preso il cappello e se n'era andato per primo. E certamente tacerà anche lui, - disse Luisa. - E così fu. Per due settimane nessuno mi arrestò e contro di me non sorse alcun sospetto. E in quelle due settimane, potete crederlo o no, Aleksàndr Petrovic', io conobbi tutta la mia felicità. Ogni giorno m'incontravo con Luisa. E mi si era tanto, tanto affezionata!
Piange: - Io, - dice, - ti seguirò dovunque ti manderanno; abbandonerò tutto per te! - Io già pensavo di togliermi subito la vita: tanta pietà lei mi aveva fatto allora. Be', dopo due settimane mi presero. Il vecchio e la zia si erano messi d'accordo e mi avevano denunciato...
- Ma un momento! - io interruppi Bakluscin, - per questo avrebbero potuto mandarvi soltanto per una diecina d'anni al più, be', per dodici, il massimo della pena, nella categoria civile; invece voi siete nella sezione speciale. Com'è possibile questo?
- Be', questa è già un'altra faccenda, - disse Bakluscin. Quando mi condussero alla commissione giudicatrice, il capitano m'insultò davanti al tribunale con parolacce. Io non potei sopportare e gli dissi: - Tu che hai da insultare? Non vedi forse, mascalzone, che sei seduto davanti allo specchio di giustizia? - Be', qui le cose andarono diversamente; cominciò un nuovo processo e mi condannarono per tutto insieme; quattromila vergate e poi qui nella sezione speciale. E come castigarono me, castigarono anche il capitano: me con la strada verde, e lui privandolo del grado e mandandolo nel Caucaso come soldato. Arrivederci, Aleksàndr Petrovic'. Venite dunque da noi alla rappresentazione.
Finalmente giunsero anche le feste. Già alla vigilia i detenuti quasi non andarono fuori a lavorare. Andarono ai laboratori di sartoria, alle officine; gli altri si trovarono solo allo smistamento e, pur essendo stati destinati qua e là, quasi tutti, uno per volta o a gruppi tornarono subito nel reclusorio e dopo desinare nessuno più ne uscì. E anche la mattina la maggior parte erano andati fuori soltanto per faccende loro e non per cose del governo: taluni a darsi da fare per portar dentro acquavite e ordinarne di nuova; altri a vedere i compari e le comari di conoscenza, o a riscuotere per la festa i piccoli crediti per i lavori da essi eseguiti in precedenza; Bakluscin e i partecipanti allo spettacolo per fare il giro di certi conoscenti, in prevalenza servi di ufficiali, e procurarsi i travestimenti necessari. Taluni giravano con aria pensierosa e affaccendata unicamente perché anche altri erano pensierosi e affaccendati, e benché certuni per esempio, non avessero denaro da ricevere da nessuna parte, tuttavia anch'essi avevano un aspetto come se da qualcuno dovessero riceverne; insomma pareva che tutti si aspettassero per il giorno seguente un qualche mutamento, qualcosa di straordinario. Verso sera gli invalidi che andavano al mercato per le commissioni dei detenuti tornarono portando con sé molta roba da mangiare d'ogni genere: carne di manzo, porcellini, perfino oche. Molti detenuti, anche i più modesti ed economi che durante tutto l'anno avevano raggranellato le loro copeche, si stimavano in dovere di slacciare la borsa per una simile giornata e di celebrare degnamente la rottura del digiuno. La giornata di domani era un'autentica inalienabile festa del detenuto, riconosciutagli formalmente dalla legge. ln quel giorno il detenuto non poteva essere mandato al lavoro, e di simili giorni nell'anno ce n'erano tre in tutto.
E infine chi sa quanti ricordi dovevano svegliarsi nelle anime di quei reietti nell'imminenza di un tal giorno! Le giornate di festa solenne s'imprimono nettamente, sin dall'infanzia, nella memoria delle persone del popolo. Sono giorni di riposo dai loro duri lavori, giorni di adunanze familiari. Nel reclusorio, poi, essi dovevano venir ricordati con pena, con angoscia. Il rispetto per la giornata solenne si trasformava nei detenuti perfino in una specie di formalismo, pochi facevano baldoria; tutti erano seri e come intenti a qualche occupazione, sebbene molti non avessero proprio quasi nulla da fare. Ma anche i bisboccioni oziosi si sforzavano di conservare una certa gravità... Le risate parevano proibite. Lo stato d'animo generale era arrivato a una specie di meticolosità e di irritabile intolleranza, e chi turbava il tono generale, fosse pure inavvertitamente, veniva subito messo a posto con grida e ingiurie, e contro di lui ci si adirava come se avesse mancato di rispetto alla festa medesima. Questo stato d'animo dei detenuti era degno di nota e perfino commovente. Oltre questa innata reverenza per il gran giorno, il detenuto provava inconsapevolmente la sensazione che, con siffatta osservanza della festa, egli veniva a essere come in contatto con tutto il mondo, che, per conseguenza, non era del tutto un uomo ripudiato e perduto, un brandello tagliato via, che nel reclusorio come fra gli uomini quel giorno era uguale. Essi lo sentivano, e questo si poteva vedere e capire.
Akim Akimic' si preparava anche lui intensamente per la festa.
Egli non aveva ricordi familiari, perché era cresciuto orfano in casa altrui e quasi fin dai quindici anni aveva cominciato a prestare un duro servizio; nella sua vita non c'erano state nemmeno gioie particolari, perché aveva trascorso tutta la sua vita in modo regolare, uniforme, temendo sempre di sgarrare non fosse che di un capello dai doveri a lui assegnati. Non era nemmeno particolarmente religioso, perché la correttezza pareva avere in lui assorbito tutte le sue altre doti e qualità umane, tutte le passioni e i desideri, buoni e cattivi. In conseguenza di tutto ciò, egli si apprestava a salutare la solenne giornata senza affannarsi, senza agitarsi, senza essere turbato da angosciosi e del tutto inutili ricordi, ma con una quieta e metodica correttezza che egli possedeva nella misura esattamente necessaria per il compimento del dovere e di un rito una volta per sempre insegnatogli. E poi in generale non gli piaceva riflettere molto.
Il significato di un fatto pareva non sfiorare mai la sua mente, ma egli osservava le norme una volta indicategli con religioso scrupolo. Se il giorno dopo gli avessero ordinato di fare esattamente l'opposto, l'avrebbe fatto con la stessa docilità e meticolosità della vigilia. Una volta, una sola volta nella vita si era provato ad agire di sua testa, ed era finito in galera. La lezione non era andata perduta per lui. E sebbene non gli fosse riservato dalla sorte di poter capire un giorno quale precisamente fosse stata la sua colpa, aveva però tratto dalla sua avventura una regola salutare: non ragionare mai e in nessuna circostanza, perché il ragionare "non era fatto per la sua testa", come si esprimevano tra loro i detenuti. Ciecamente ligio alla forma, egli considerava con un certo qual pregiudiziale rispetto perfino il suo porcellino natalizio, che aveva imbottito di "kascia" [15] e fatto arrostire (di propria mano, perché sapeva anche arrostire), come se quello non fosse un ordinario porcellino che in ogni momento si sarebbe potuto comprare e cuocere arrosto, ma un porcellino tutto speciale, natalizio. Forse fin dall'infanzia si era abituato a vedere sulla tavola in quel giorno un porcellino, e ne aveva dedotto che questo fosse indispensabile per tale giornata, e io sono sicuro che, se anche solo una volta non avesse in quell'occasione mangiato il porcellino, gli sarebbe rimasto per tutta la vita un rimorso di coscienza per il non compiuto dovere.
Prima della festa aveva sempre portato la sua vecchia casacca e i suoi vecchi calzoni, decorosamente rattoppati, sì, ma ormai del tutto frusti. Si vide ora che la nuova muta, consegnatagli fin da quattro mesi avanti, l'aveva custodita gelosamente nel suo bauletto e non l'aveva mai toccata, nel pensiero, che gli sorrideva in cuor suo, di inaugurarla solennemente per la festività. E così egli fece.
Fin dalla sera tirò fuori la sua muta nuova, la spiega, la esaminò, la spolverò, ci soffiò sopra e, fatto tutto questo, se la misurò preventivamente. Vide che la muta gli andava a pennello, era tutta decorosa e si abbottonava strettamente fino in cima, e il colletto, come se fosse di cartone, teneva ben alto il mento; alla vita si era formato addirittura qualcosa di simile al garbo di un'uniforme, e Akim Akimic' sorrise perfino dal piacere e non senza baldanza si rigirò davanti a un suo minuscolo specchietto, intorno al quale, di sua mano e già da molto tempo, aveva incollato in un momento libero un orlino dorato. Solo un gangheretto del collo della casacca gli era parso che non fosse al suo posto. Fatta tale considerazione, Akim Akimic' decise di spostare il gangheretto; lo spostò, misurò nuovamente la casacca e vide che ormai tutto andava bene. Allora ripiegò ogni cosa come prima e con l'animo tranquillo ripose la muta nel bauletto fino al giorno dopo. La sua testa era rasa in maniera soddisfacente; ma, guardatosi con attenzione nello specchietto, egli notò che la testa non pareva del tutto liscia: ne spuntavano dei peli appena visibili, ed egli andò subito dal "maggiore" per farsi radere in modo perfettamente corretto e regolamentare. E sebbene nessuno dovesse il giorno dopo passare l'ispezione ad Akim Akimic', egli si fece radere unicamente per la tranquillità della propria coscienza, per compiere, in vista di una simile giornata, tutti i suoi doveri. La reverenza di fronte a un bottone, a una controspallina, a un occhiello si era stampata incancellabilmente nel suo spirito sin dall'infanzia come un incontestabile dovere e nel suo cuore come un'immagine del supremo grado di bellezza che un uomo perbene può raggiungere. Sbrigata ogni cosa, egli, quale detenuto anziano della camerata, ordinò che si portasse del fieno e osservò con cura come lo si sparpagliava sul pavimento. La stessa cosa avveniva anche nelle altre camerate. Non so perché, ma per il Natale sempre si spargeva nella nostra camerata del fieno.
Poi, terminate tutte le sue fatiche, Akim Akimic' pregò Dio, si stese sulla sua cuccetta e subito si addormentò del sonno placido di un bimbo, per svegliarsi il mattino dopo il più possibile di buon'ora. Proprio così fecero del resto anche gli altri detenuti.
In tutte le camerate si coricarono molto prima del solito. I consueti lavori serali furono disertati; del "majdàn" nemmeno si fece parola. Tutti attendevano il mattino seguente.
Infine spuntò. Per tempo, ancora prima dell'alba, appena fu suonata la sveglia, si aprirono le baracche e il sottufficiale di guardia entrato per contare i detenuti augurò a tutti buona festa.
Gli risposero con lo stesso augurio, e gli risposero in modo gentile e affabile. Dopo aver detto una preghiera alla svelta, Akim Akimic' e molti altri che avevano le loro oche e i loro porcellini in cucina andarono in fretta a vedere che cosa se ne facesse, come li arrostissero, dove fosse la tal cosa, e così via.
Nell'oscurità, si poteva vedere dai piccoli finestrini della nostra camerata, incrostati di neve e di ghiaccio, che in entrambe le cucine e in tutte le sei stufe fiammeggiava un fuoco vivo, acceso ancora prima dell'alba. Per il cortile, al buio, già passavano di corsa i detenuti nelle loro pellicce corte, infilate nelle maniche o gettate sulle spalle; tutti si precipitavano in cucina. Ma alcuni, pochissimi del resto, avevano già avuto il tempo di passare dai cantinieri. Erano questi i più impazienti. In generale tutti tenevano un contegno decoroso, quieto e inconsuetamente grave. Non si udivano né le solite ingiurie, né i soliti litigi. Tutti capivano che era un gran giorno e una festa solenne. Ce n'erano di quelli che entravano nelle altre camerate per fare gli auguri a qualcuno dei loro. Si manifestava qualcosa che somigliava all'amicizia. Osserverò di passata che tra i detenuti l'amicizia non si notava quasi affatto, non dico già quella collettiva - questo a più forte ragione, - ma nemmeno quella individuale, nel senso che un qualche detenuto facesse amicizia con un altro. Da noi una cosa simile mancava quasi del tutto, e questo è un tratto degno di nota: così non succede in libertà. Da noi in generale tutti erano, nel trattarsi a vicenda, con pochissime eccezioni, duri e asciutti, e questo era una specie di tono ufficiale, assunto e stabilito una volta per tutte. Uscii anch'io dalla baracca; incominciava ad albeggiare appena appena, le stelle si oscuravano; un tenue vapore gelido saliva verso l'alto. Dai tubi delle stufe della cucina si levavano colonne di fumo. Alcuni dei detenuti che incontravo mi auguravano per primi, di buona grazia e affabilmente, buona festa. Io ringraziavo e rispondevo allo stesso modo. Fra loro ce n'erano anche di quelli che fino allora, in tutto quel mese, non mi avevano mai detto una parola.
Proprio davanti alla cucina mi raggiunse un detenuto della camerata militare, col "tulùp" gettato sulle spalle. Già dal mezzo del cortile mi aveva ravvisato e mi gridava: "Aleksàndr Petrovic'!
Aleksàndr Petrovic'!". Egli correva in cucina e aveva fretta. Io mi fermai e lo attesi. Era un giovanotto dal viso rotondo, con un'espressione di placidità negli occhi, assai poco ciarliero con tutti, e che con me non aveva ancora detto una parola, né mi aveva rivolto finora, fin dal mio ingresso nel reclusorio, alcuna attenzione; io non sapevo nemmeno come si chiamasse. Egli corse verso di me ansando e mi si piantò proprio dinanzi guardandomi con un certo sorriso insulso, ma al tempo stesso beato.
- Che volete? - gli domandai non senza meraviglia, vedendo che stava davanti a me sorridente e mi guardava con tanto d'occhi, ma non cominciava il discorso.
- Ma come, è festa... - egli mormorò e poi, accortosi da sé che non c'era più altro di cui parlare, mi lasciò e si avviò frettoloso verso la cucina.
Noterò a questo proposito che anche dopo non ci siamo mai più fermati insieme e quasi non ci siamo più detto una parola fino alla mia uscita dal reclusorio.
In cucina, intorno alle stufe che ardevano forte, c'era un tramestio febbrile, una vera ressa. Ognuno attendeva alla propria roba; le "sguattere" si accingevano a preparare il vitto governativo, perché quel giorno il desinare veniva anticipato.
Nessuno del resto incominciava ancora a mangiare, benché certuni ne avessero voglia, e si osservavano le convenienze di fronte agli altri. Si aspettava il sacerdote e soltanto dopo si faceva conto di rompere il digiuno. Intanto non si era ancora fatto giorno del tutto, quando già presero a risuonare di là dal portone del reclusorio le grida di chiamata del caporale: "I cuochi!". Queste grida echeggiavano quasi a ogni momento e durarono poco meno di due ore. Si chiamavano i cuochi perché andassero dalla cucina a ricevere le offerte recate al carcere da tutte le parti della città. Esse venivano recate in quantità straordinaria sotto forma di pani a ciambella, di pagnotte, pasticcini tondi, tortelli, polpette, frittelle e altri cibi cotti al forno. Io credo che in tutta la città non ci fosse una sola massaia delle case di mercanti e di piccoli borghesi che non avesse mandato il suo pane per far gli auguri, in occasione della grande festività, ai "disgraziati" e ai reclusi. C'erano delle offerte ricche: pani al burro di purissima farina, inviati in gran quantità. C'erano anche delle offerte molto povere: un qualche singolo panino a ciambella da un "gros" e un paio di polpette nere, appena appena spalmate di panna acida: questo era già il dono di un povero a un altro povero, inviato con gli ultimi soldi. Tutto veniva accolto con pari gratitudine, senza distinzione di doni e di donatori. I detenuti che ricevevano la roba si toglievano i berretti, salutavano, auguravano buona festa e portavano le offerte in cucina. Quando già si erano formate intere montagne di pane donato, si fecero venire gli anziani dalle varie camerate ed essi divisero tutto in parti uguali, secondo le camerate. Non c'erano né discussioni né male parole; la cosa veniva fatta onestamente, in modo uguale per tutti. Quello che toccò alla nostra camerata fu suddiviso già da noi; facevano le parti Akim Akimic' e un altro detenuto; le facevano con le proprie mani e con le proprie mani distribuivano a ciascuno il suo. Non ci fu la minima obiezione né la minima manifestazione d'invidia da parte di chicchessia; tutti rimasero soddisfatti; non era possibile nemmeno un sospetto che qualche offerta si potesse occultare o non distribuire in modo uniforme. Fatte le sue faccende in cucina, Akim Akimic' si accinse alla propria vestizione, si vestì con ogni decoro e solennità, non lasciando da agganciare nemmeno un gangheretto, e, vestitosi, passò subito alla preghiera vera e propria. Pregò abbastanza a lungo. Già molti detenuti, in massima parte anziani, stavano facendo la stessa cosa. Della gioventù molti non pregavano:
tutt'al più, anche in una così grande festa, qualcuno si faceva il segno di croce alzandosi in piedi. Dopo aver finito, Akim Akimic' si avvicinò a me e mi augurò buona festa con una certa solennità.
Io subito lo invitai a prendere il tè e lui invitò me a mangiare il suo porcellino. Dopo un poco venne di corsa a farmi gli auguri anche Petròv. Pareva che già avesse bevuto e, sebbene fosse accorso ansante, non disse molte parole ma stette solo un poco dinanzi a me con aria di attesa e ben presto mi lasciò andando in cucina. Intanto nella camerata militare si preparavano a ricevere il sacerdote. Questa camerata non era assestata come le altre: in essa i tavolacci correvano lungo le pareti e non in mezzo alla stanza, come in tutte le altre, cosicché era quella l'unica camerata del reclusorio che non fosse ingombra nel mezzo.
Probabilmente era stata assestata in tal modo appunto perché, all'occorrenza, vi si potessero riunire i detenuti. Al centro della stanza fu messo un tavolino, lo si coprì con un asciugatoio pulito, vi si pose sopra l'immagine e si accese un lumino. Infine arrivò il sacerdote con la croce e l'acqua santa. Dopo aver pregato e cantato dinanzi all'immagine, egli si mise di fronte ai detenuti e tutti, con sincera venerazione, presero ad avvicinarsi per baciare Ia croce. Poi il sacerdote fece il giro di tutte le camerate spruzzandole con l'acqua santa. In cucina egli lodò il nostro pane del reclusorio, rinomato in città per il suo gusto, e i detenuti vollero subito inviargli due pani freschi, appena sfornati; per tale invio fu immediatamente utilizzato un invalido.
La croce fu accompagnata all'uscita con la stessa venerazione con cui era stata accolta, e quasi subito dopo giunsero il maggiore di piazza e il comandante. Da noi il comandante era benvoluto e anche stimato. Egli fece il giro di tutte le camerate in compagnia del maggiore di piazza, augurò buona festa a tutti, entrò in cucina e assaggiò la minestra di cavoli del reclusorio. Essa era riuscita eccellente, essendovi stata destinata per un simile giorno quasi una libbra di carne di manzo per ciascun detenuto. Inoltre si era allestita una "kascia" di miglio, e il burro era stato assegnato a volontà. Accompagnato all'uscita il comandante, il maggiore di piazza ordinò che il pranzo cominciasse. I detenuti cercavano di non capitargli sotto gli occhi. Da noi non gli si voleva bene, non piaceva il suo sguardo corrucciato di sotto gli occhiali, con cui anche ora osservava a destra e a sinistra se non ci fosse qualche irregolarità, se non gli venisse a tiro qualche colpevole. Si cominciò a pranzare. Il porcellino di Akim Akimic' era arrostito superbamente. Ed ecco, non posso spiegare come ciò fosse accaduto:
subito dopo la partenza del maggiore di piazza, forse un cinque minuti più tardi, una quantità straordinaria di gente apparve essere ubriaca, sebbene ancora cinque minuti prima tutti fossero quasi affatto normali. Comparvero molte facce infocate e raggianti, comparvero le balalaiche. Il polaccuzzo dal violino già andava dietro a un bisboccione, che lo aveva impegnato per tutto il giorno, strimpellandogli allegri motivi di danza. Le conversazioni si facevano più ebbre e più rumorose. Ma si finì di pranzare senza grandi disordini. Tutti erano sazi. Molti dei vecchi e degli uomini posati andarono subito a dormire, cosa che fece anche Akim Akimic', stimando, a quanto pare, che il giorno di una grande festa, dopo il pranzo, fosse assolutamente necessario fare una dormita. Il vecchietto che proveniva dai vecchi credenti di Starodùb, dopo aver sonnecchiato un poco, si arrampicò sulla stufa, aprì il suo libro e pregò fino a notte tarda, quasi senza interruzione. Gli era penoso vedere quella "onta", come chiamava la baldoria generale dei detenuti. Tutti i circassi si erano messi a sedere sugli scalini della soglia e guardavano con curiosità, unita a un certo disgusto, la gente ubriaca. Mi venne incontro Nurra: - "Jamàn, jamàn!" [male, male!] - egli mi disse scuotendo il capo con pia indignazione, uh, "jamàn"! Allah andrà in collera.
- Issàj Fomìc', caparbio e altezzoso, accese nel suo cantuccio una candeletta e si mise a lavorare mostrando visibilmente che non teneva in nessun conto la festa. Qua e là negli angoli incominciarono i "majdàn". Degli invalidi non si aveva timore e, per il caso che fosse venuto il sottufficiale, che già cercava dal canto suo di non notare nulla, si erano messe delle sentinelle.
L'ufficiale di guardia fece capolino nel reclusorio, in tutto quel giorno, forse tre volte. Ma gli ubriachi si nascondevano, i "majdàn" si levavano al suo apparire, e poi egli stesso pareva deliberato a non badare ai piccoli disordini. E un uomo ubriaco si considerava quel giorno come un piccolo disordine. A poco a poco la gente si abbandonava all'allegria. Cominciavano anche i litigi.
I non ebbri rimanevano tuttavia la gran maggioranza e c'era quindi chi poteva sorvegliare gli ubriachi. In compenso i gozzoviglianti bevevano a dismisura. Gasin trionfava. Egli passeggiava con aria presuntuosa vicino al proprio posto sul tavolaccio, sotto il quale aveva trasferito l'acquavite, conservata fino a quel momento in qualche punto dietro le baracche, in luogo nascosto, e sorrideva scaltramente guardando gli avventori che venivano da lui. Dal canto suo, aveva la mente fresca e non aveva bevuto nemmeno una goccia. Era sua intenzione di far baldoria alla fine della festa, dopo avere spillato tutti i quattrini dalle tasche dei detenuti.
Per le camerate echeggiavano canzoni. Ma l'ubriachezza stava già diventando fumosa ebrietà e dalle canzoni alle lacrime ci mancava ormai poco. Molti andavano su e giù con le proprie balalaiche, col "tulùp" gettato sulle spalle, e con aria baldanzosa ne scorrevano le corde. Nella sezione speciale si era formato persino un coro, di otto persone. Esse cantavano a meraviglia, accompagnate da balalaiche e da chitarre. Di canzoni schiettamente popolari se ne intonavano poche. Ne ricordo una sola, cantata con bravura:
"Io, giovinetta, ieri fui alla festa".
E qui udii una nuova variante, che prima non avevo mai conosciuto, di questa canzone. Alla fine di essa si aggiungevano alcuni versi:
"Io, giovinetta, in casa ho rassettato, i cucchiai ho lavato, la minestra di cavoli ho condito, gli stipiti ho ripulito, i pasticcini ho fatto cuocere".
Si cantavano per lo più canzoni dette da noi carcerarie, tutte note del resto. Una di esse: "Una volta..." era umoristica e descriveva come un uomo prima si dava all'allegria e viveva da signore in libertà, e ora è finito al reclusorio. Si descrive come prima egli condiva "il biancomangiare con lo sciampagna", ora invece:
"Mi dan cavoli con acqua e, mangiando, la testa mi scoppia".
Era in voga anche quest'altra troppo nota:
"Prima vissi io, ragazzo, in allegria e un mio capitale allora avevo; ma questo capital poi lo perdevo e ora son finito in prigionia..." e così di seguito. Solo che da noi non pronunciavano "capitale" ma "copitale", facendolo derivare dalla parola "kopìt" [accumulare]; se ne cantavano anche di quelle tristi. Una era proprio dei forzati e anch'essa, mi pare, già nota:
"Già la luce in ciel risplende, s'ode il rullo del tamburo, or l'anziano apre la porta, lo scrivano fa chiamata.
Dietro i muri non si vede quale vita qui facciamo; ma con noi c'è il Creatore, neppur qui ci perderemo", e così via.
Un'altra, composta probabilmente da qualche deportato con parole sdolcinate e abbastanza sgrammaticate, si cantava ancora più tristemente, con una magnifica melodia però. Ne rammento ora alcuni versi:
"Non vedrà il mio sguardo il paese nel quale venni al mondo; condannato son senza colpa per sempre a soffrir.
Sopra il tetto il gufo ora stride, ne echeggiano i boschi, si rattrista il cuore e si strugge:
mai più andrò là".
Questa canzone veniva da noi cantata sovente, ma non in coro, bensì a una voce sola. Qualcuno, nelle ore di riposo, soleva uscire fuori sugli scalini della camerata e là seduto, si faceva pensieroso, appoggiava una guancia alla mano e la intonava con voce alta di falsetto. Tu l'ascoltavi e pareva che ti lacerasse l'anima. Da noi c'erano delle voci discrete.
Intanto cominciava già il crepuscolo. La malinconia, l'angoscia e i fumi delle sbornie facevano grevemente capolino in mezzo all'ubriachezza e alla baldoria. Uno che un'ora prima rideva, ora già singhiozzava in qualche angolo, dopo aver bevuto oltre misura.
Altri avevano già avuto il tempo di picchiarsi un paio di volte.
Altri ancora, pallidi, reggendosi a stento sulle gambe girellavano per le camerate attaccando liti. Quelli poi che non avevano il vino cattivo invano cercavano gli amici dinanzi ai quali vuotare la loro anima e piangere il loro dolore di ubriachi. Tutta quella povera gente voleva darsi all'allegria, passare giocondamente la grande festa, e, Signore Iddio!, quanto penoso e triste era quel giorno quasi per tutti! Ognuno lo trascorreva come se fosse stato deluso in qualche sua speranza. Petròv fece ancora un paio di scappate da me. Aveva bevuto pochissimo in tutto il giorno ed era quasi affatto snebbiato. Ma fin proprio all'ultima ora egli si attese qualcosa che doveva senza fallo accadere, qualcosa di straordinario, di festivo, di arciallegro. Benché non ne parlasse, si vedeva ciò dai suoi occhi. Egli vagava da una camerata all'altra senza posa. Ma nulla di speciale accadeva né gli si faceva incontro, se non ubriachezza, ebbre e insensate contumelie e teste annebbiate dai fumi della sbornia. Anche Sirotkin errava, nella sua camicia rossa nuova, per tutte le camerate, grazioso, ben lavato, e anche lui con aria quieta e ingenua, come se si aspettasse chi sa che. A poco a poco nelle baracche l'ambiente diventava insopportabile e disgustoso. Naturalmente c'era lì anche molto di buffo, ma io sentivo, in certo qual modo, pena e pietà per tutti e in mezzo a loro ero a disagio e soffocavo. Ecco là due detenuti che discutono quale di essi debba offrire qualcosa all'altro. Si vede che discutono già da un pezzo e che prima avevano perfino litigato. Uno in particolare ha un qualche vecchio rancore contro l'altro. Egli si lagna e, rigirando a stento la lingua, si sforza per dimostrare che l'altro ha agito con lui ingiustamente: non so che mezza pelliccia è stata venduta, non so che denaro è stato sottratto, l'anno scorso a carnevale. C'è inoltre qualche altra cosa... L'accusatore è un giovane alto e muscoloso, non sciocco, pacifico, ma, quando è ubriaco, è portato a fare amicizia e a effondere le sue pene. Egli ingiuria e affaccia delle pretese, ma come se avesse il desiderio di far poi una pace ancora più solida col suo rivale. L'altro è robusto, atticciato, di bassa statura, con un viso tondo, è scaltro e intrigante. Ha bevuto forse più del suo compagno, ma è solo leggermente ubriaco. Ha del carattere e passa per ricco, ma, per qualche motivo, ha ora interesse a non irritare il suo espansivo amico e lo conduce verso il cantiniere; l'amico afferma che egli ha il dovere e l'obbligo di offrirgli qualcosa, "sempre che tu sia un galantuomo".
Il cantiniere, con un certo rispetto per il richiedente e con una sfumatura di disprezzo per l'espansivo suo amico, perché costui non beve a proprie spese, ma è invitato, prende una ciotola e la riempie di acquavite.
- No, Stiopka, questo tu lo devi fare, - dice l'amico espansivo, vedendo che ha la meglio, - perché questo è il tuo dovere.
- Ma io non voglio mica farmi venire i calli sulla lingua per te!
- risponde Stiopka.
- No, Stiopka, ora non parli bene, - ribatte il primo ricevendo dal cantiniere la ciotola, - perché tu mi devi dei soldi; non hai coscienza e anche gli occhi non sono i tuoi, li hai presi a nolo!
Sei un farabutto, Stiopka, eccoti: una sola parola, farabutto!
- Be', che hai da frignare, l'acquavite te l'ho versata! Ti fanno onore e te l'offrono, bevi dunque! - grida il cantiniere all'amico espansivo, - non posso mica stare qui fino a domani per te!
- Ma io berrò, perché gridi? Buona festa, Stiepàn Dorofeic'! egli si rivolse cortesemente e con un lieve inchino, tenendo in mano la ciotola, a Stiopka, a cui solo mezzo minuto prima dava del farabutto. - Vivi sano cent'anni, e quello che già hai vissuto non entri in conto! - Bevve, fece un raschio e si asciugò. - Prima, fratelli, di acquavite ne mandavo giù molta, osservò con seria gravità, come rivolgendosi a tutti e a nessuno in particolare, - ma ora, si sa, vado invecchiando. Ti ringrazio, Stiepàn Dorofeic'.
- Non c'è di che.
- Cosi ti parlo ancora sempre, Stiopka, di quella cosa, e, oltre che tu fai con me la figura di un gran farabutto, io ti dirò...
- Ma io ecco che cosa dirò a te, grinta ubriaca che sei! - lo interruppe Stiopka, perduta la pazienza. - Ascolta e pesa ogni mia parola: ecco il mondo a metà tra di noi; metà a te e metà a me.
Vattene e non venirmi più tra i piedi. Mi hai seccato!
- Allora i soldi non me li darai?
- Ma che soldi vuoi ancora, ubriaco che sei!
- Eh, all'altro mondo verrai tu stesso per darmeli, ma io non li prenderò. I nostri soldi sono guadagnati col lavoro, col sudore e coi calli. Con le mie cinque copeche te la vedrai male all'altro mondo.
- Be', vattene al diavolo!
- Ma che be'! Non mi hai mica attaccato a un carro!
- Vattene, vattene!
- Farabutto!
- Galeotto!
E ricominciarono le male parole, ancora peggio che prima del trattamento.
Ecco due amici seduti sul tavolaccio in disparte: uno è alto, robusto, cicciuto, un vero macellaio; la sua faccia è rossa. Per poco non piange, perché è molto commosso. L'altro è mingherlino, esile, magro, con un lungo naso, dal quale pare che goccioli qualche cosa, e con piccoli occhietti porcini rivolti al suolo.
Questo è un politicone e un uomo istruito: un tempo fu scrivano e tratta il suo amico alquanto dall'alto in basso , il che molto dispiace, nell'intimo, all'altro. Hanno bevuto insieme tutto il giorno.
- Mi ha pizzicato! - grida l'amico cicciuto scuotendo fortemente la testa dello scrivano col braccio sinistro, con cui l'ha abbracciato. "Pizzicato" significa: colpito. L'amico cicciuto, che viene egli stesso dai sottufficiali, invidia in segreto il suo macilento amico, e perciò tutti e due fanno sfoggio, l'uno di fronte all'altro, di linguaggio ricercato.
- E io ti dico che anche tu non sei nel giusto... - incomincia dogmaticamente lo scrivano, ostinandosi a non alzare su di lui i suoi occhi e guardando con aria d'importanza a terra.
- Mi ha pizzicato, senti! - lo interrompe l'altro, stiracchiando ancora di più il suo caro amico. - Tu sei ora il solo che mi sia rimasto al mondo, mi senti? Perciò lo dico a te solo: mi ha pizzicato!
- E io torno a dirti: una così meschina giustificazione, caro amico, fa soltanto vergogna alla tua testa! - obietta con una vocina sottile e cortese lo scrivano, - riconosci piuttosto, caro amico, che tutto questo è effetto dell'ubriachezza a causa della tua inconsistenza...
L'amico cicciuto si scosta un poco all'indietro, guarda ottusamente coi suoi occhi da ubriaco il presuntuoso scrivanuccio e a un tratto, nel modo più improvviso, colpisce a tutta forza col suo enorme pugno la piccola faccia dello scrivano. E con ciò termina l'amicizia per l'intera giornata. Il caro amico piomba svenuto sotto il tavolaccio...
Ecco che entra nella nostra camerata un mio conoscente della sezione speciale, un giovane infinitamente bonario e gioviale, non sciocco, inoffensivo, canzonatore e dall'aspetto oltremodo semplicione. E' quello stesso che, nel mio primo giorno di reclusorio, in cucina durante il desinare, cercava dove ci fosse un ricco contadino assicurando che egli aveva "dell'amor proprio", e che aveva bevuto il tè con me. E' sulla quarantina, con un labbro straordinariamente grosso e un gran naso carnoso, disseminato di foruncoli. Nelle sue mani c'è una balalaica, della quale scorre con noncuranza le corde. Lo segue, come un caudatario, un detenuto piccino piccino, dalla testa grossa che io finora conoscevo assai poco. Nessuno del resto gli rivolgeva alcuna attenzione. Egli era un certo tipo strano, diffidente, sempre taciturno e serio; andava a lavorare nella sartoria e cercava evidentemente di far vita appartata e di non legarsi con alcuno. Ora invece, ubriaco, si era appiccicato come un'ombra a Varlamov. Lo seguiva, agitato all'estremo, facendo gesti con le mani, battendo col pugno sulla parete e sul tavolaccio, anzi per poco non piangeva. Varlamov pareva non badare affatto a lui, come se non lo avesse nemmeno al suo fianco. Va notato che prima questi due uomini non si trovavano quasi mai insieme; non c'era tra loro, e per le occupazioni e per il carattere, nulla di comune. Erano anche di diverse categorie e vivevano in camerate diverse. Il piccolo detenuto si chiamava Bulkin.
Varlamov, vedutomi, sorrise. Io ero seduto sul mio tavolaccio, accanto alla stufa. Egli mi si piantò di fronte un po' discosto, rifletté un momento, barcollò, poi avvicinatosi a me con passo incerto, s'inclinò con una certa qual bravura su un fianco con tutto il busto e, toccando leggermente le corde dello strumento e picchiando in terra appena appena con uno stivale, cantò recitando:
"Col suo viso bianco e bello, col suo canto di fringuello, la mia bimba è cara assai; nel suo serico vestito, elegante e ben guarnito, bella è come mai".
Questa canzone parve far andare Bulkin fuori di sé: egli agitò le mani e, rivolgendosi a tutti, si mise a gridare:
- Tutte bugie, fratelli, tutte bugie! Non dice una sola parola che sia vera, tutte bugie!
- Al vecchietto Aleksàndr Petrovic'! - disse Varlamov guardandomi negli occhi con un riso furbesco, e per poco non si buttò a baciarmi. Era brillo. L'espressione: "al vecchietto tal dei tali...", cioè al tal dei tali i miei rispetti, è usata dal popolino in tutta la Siberia, anche se si riferisca a un giovane di vent'anni. La parola "vecchietto" denota qualcosa di onorifico, anzi di reverenziale, di lusinghiero.
- Ebbene, Varlamov, come ve la passate?
- Così, da un giorno all'altro. Chi della festa è lieto, di buon mattino è ubriaco; su via, scusatemi! - Varlamov parlava facendo un po' di cantilena.
- E sempre dice bugie, sempre torna a dire bugie! - gridò Bulkin picchiando con la mano sul tavolaccio in una specie di disperazione. Ma l'altro pareva si fosse dato parola di non rivolgergli la minima attenzione, e in questo c'era una straordinaria comicità, perché Bulkin si era appiccicato a Varlamov del tutto di punto in bianco fin dal mattino, appunto perché Varlamov "diceva sempre bugie", come a lui, chi sa perché, era parso. E gli andava dietro come un'ombra attaccandosi a ogni sua parola, torcendosi le mani, puntando i gomiti quasi fino a sangue contro le pareti e i tavolacci, e soffriva visibilmente, convinto com'era che Varlamov "dicesse sempre bugie"! Se in testa avesse avuto dei capelli, mi pare che se li sarebbe strappati dall'afflizione. Come se si fosse assunto l'obbligo di rispondere degli atti di Varlamov, come se tutti i difetti di Varlamov gravassero sulla sua coscienza. Ma il bello stava appunto in ciò, che l'altro non lo guardava nemmeno.
- Sempre dice bugie, sempre bugie, sempre bugie! Non una parola sua che abbia un'aria di verità! - gridava Bulkin.
- E a te che importa? - rispondevano ridendo i detenuti.
- Io vi dirò, Aleksàndr Petrovic', che una volta ero molto bello e le ragazze mi amavano assai... - cominciò a dire di punto in bianco Varlamov.
- Bugie! Altre bugie! - lo interrompe Bulkin con una specie di strillo. I detenuti sghignazzano.
- E io davanti a loro faccio il galletto: porto una camicia rossa, dei braconi di felpa; me ne sto disteso, come un qualche conte Butilkin, voglio dire che sono ubriaco come uno svedese, insomma, che volete!
- Dice bugie! - riafferma risolutamente Bulkin.
- E a quel tempo io avevo, lasciatami dal babbo, una casa in muratura di due piani. Be', in due anni demolii i due piani, mi rimase soltanto il portone senza i pilastri. E che, i denari sono come i colombi: a volo arrivano e a volo tornano via!
- Bugie! - ripete ancora più risolutamente Bulkin.
- Ecco dunque che un giorno inviai di qua ai miei parenti una lacrimuccia: chi sa che non mi mandassero un po' di quattrini!
Perché dicevano che io ero andato contro la volontà dei miei genitori. Avevo mancato loro di rispetto! Ecco ormai sette anni che l'ho inviata.
- E nessuna risposta? - domandai mettendomi a ridere.
- Ma no, - rispose scoppiando improvvisamente a ridere anche lui e avvicinando sempre di più il suo naso alla mia faccia. - Ma io, Aleksàndr Petrovic', qui ho un'amante...
- Voi? Un'amante?
- Onufriev l'altro giorno mi dice: - La mia sarà butterata, brutta, ma in cambio ha tanti vestiti; la tua invece è bella, ma povera, va accattando.
- Forse che è vero?
- In verità, è povera! - egli rispose e si abbandonò tutto a un riso silenzioso; nella camerata sghignazzarono. Realmente tutti sapevano che egli aveva fatto relazione con una certa mendicante e in sei mesi le aveva dato in tutto dieci copeche.
- Be', allora? - domandai, desiderando infine liberarmi di lui.
Egli tacque un poco, poi mi guardò teneramente e pronunciò con dolcezza:
- E allora non vorreste in questa occasione pagarmi una mezzetta?
Io, Aleksàndr Petrovic', oggi non ho bevuto che tè, soggiunse intenerito, prendendo il denaro; - e tanto mi sono sborniato di questo tè, che mi ha fatto venire l'asma e mi balla nella pancia come in una bottiglia...
Intanto mentre prendeva il denaro, lo sconcerto morale di Bulkin pareva essere giunto agli estremi limiti. Egli gesticolava come un disperato e per poco non piangeva.
- Uomini di Dio! - gridava rivolgendosi, frenetico, a tutta la camerata, - guardatelo! Dice sempre bugie! Qualunque cosa dica, sono sempre, sempre, sempre bugie!
- Ma a te che importa? - gli gridano i detenuti meravigliandosi del suo furore, - uomo senza giudizio che sei!
- Non gli lascerò dir bugie! - grida Bulkin, con gli occhi scintillanti, picchiando a tutta forza col pugno sul tavolaccio,- non voglio che dica bugie!
Tutti sghignazzano. Varlamov prende il denaro, mi fa un inchino e, facendo lazzi, si affretta a uscire dalla camerata, diretto, s'intende, dal cantiniere. E qui pare che per la prima volta si accorga di Bulkin.
- Be', andiamo! - gli dice fermandosi sulla soglia, come se avesse proprio bisogno di lui. - Manico di scopa! - soggiunge facendo passare avanti a sé, con disprezzo, l'amareggiato Bulkin e tornando a strimpellare la balalaica.
Ma perché descrivere questa fumosa caligine! Finalmente termina l'asfissiante giornata. I detenuti si addormentano pesantemente sui tavolacci. Nel sonno parlano e delirano ancora più delle altre notti. Qua e là qualcuno è ancora seduto intorno ai "majdàn". La festa da tanto tempo attesa è passata. Domani ricominciano i giorni feriali, si torna al lavoro...
Il terzo giorno delle feste, di sera, ci fu nel nostro teatro la prima rappresentazione. I grattacapi per organizzarla erano stati probabilmente moltissimi, ma gli attori avevano preso tutto su di sé, tanto che noi, tutti gli altri, non sapevamo nemmeno a che punto fossero le cose, che cosa precisamente si facesse. Non sapevamo bene neppure che cosa si sarebbe rappresentato. In tutti quei tre giorni gli attori, andando al lavoro, avevano cercato di procurarsi il maggior numero possibile di travestimenti.
Bakluscin, incontrandomi, schioccava soltanto le dita dal piacere.
A quanto sembra, anche il maggiore di piazza era di umore discreto. Del resto ci era assolutamente ignoto se egli sapesse o no del teatro. Se sapeva, lo aveva permesso formalmente o aveva deciso di non dire nulla lasciando libero corso a quella fantasia dei detenuti e insistendo soltanto, s'intende, perché tutto avvenisse col maggior ordine possibile? Io credo che del teatro sapesse, e non potesse non sapere; ma ingerirsi non aveva voluto comprendendo che forse sarebbe stato peggio se l'avesse proibito:
i detenuti avrebbero cominciato a fare il chiasso, a ubriacarsi, sicché era molto meglio se si occupavano di qualche cosa. Io del resto suppongo da parte del maggiore di piazza tale ragionamento, unicamente perché esso è il più naturale, il più giusto e assennato. Si può anzi dire che, se i detenuti non avessero avuto, nel periodo delle feste, il teatro o qualche altra occupazione del genere, avrebbero dovuto escogitarlo i superiori stessi. Ma poiché il nostro maggiore di piazza si distingueva per un modo di pensare del tutto opposto a quello della restante umanità, è molto facile che io mi carichi la coscienza di un grosso peccato supponendo che sapesse del teatro e lo avesse permesso. Un uomo come il maggiore di piazza aveva sempre bisogno di deprimere qualcuno, di togliere qualche cosa, di privare qualcuno di un diritto, insomma di far ordine dappertutto. Sotto questo aspetto egli era noto in tutta la città. Che importava a lui che appunto da queste restrizioni potessero nascere nel reclusorio delle turbolenze? Per le turbolenze ci sono i castighi (così ragionano le persone come il nostro maggiore di piazza), e con quei furfanti di detenuti la severità e la costante, letterale applicazione della legge sono tutto quello che ci vuole! Questi mediocri esecutori della legge non capiscono proprio, e non sono in grado di capire, che la sola letterale applicazione di essa, senza comprensione del suo significato, del suo spirito, conduce direttamente ai disordini, e non ha mai condotto a null'altro. "Nelle leggi è detto, che ci vuole di più?", essi dicono, e sinceramente si meravigliano che da loro si esiga ancora, in aggiunta alle leggi, retto giudizio e mente snebbiata. Quest'ultima specialmente sembra a molti di loro un lusso superfluo e rivoltante, una costrizione, un'intolleranza.
Ma comunque fosse, il sottufficiale anziano non aveva contrariato i detenuti, e a questi non occorreva altro. Io dirò positivamente che il teatro e la generale gratitudine perché era stato consentito furono cagione che durante le feste non sia avvenuto nel reclusorio nemmeno un disordine serio: né una lite pericolosa, né un furto. Io stesso fui testimone di come i compagni cercavano di calmare taluni bisboccioni o litiganti unicamente adducendo che sarebbe stato vietato il teatro. Il sottufficiale si era fatto dare la parola che tutto sarebbe passato tranquillamente e che si sarebbero comportati bene. Avevano acconsentito con gioia e mantenuto religiosamente la promessa; li lusingava anche molto che si credesse alla loro parola. Bisogna dire del resto che permettere lo spettacolo non costava ai superiori proprio nulla, nessun sacrificio. Non veniva preventivamente recinto un apposito spazio: il teatro si poteva allestire o smontare tutto forse in un quarto d'ora. Durava un'ora e mezzo e, se all'improvviso fosse venuto l'ordine superiore di troncare la rappresentazione, la cosa si sarebbe sbrigata in un batter d'occhio. I travestimenti erano stati nascosti nelle cassette dei detenuti. Ma prima di dire come fosse allestito lo spettacolo e quali precisamente fossero i vestiti degli attori, dirò del cartellone teatrale, cioè che cosa propriamente si facesse conto di rappresentare.
Un vero cartellone non c'era. Ne comparve però uno alla seconda e terza rappresentazione, scritto da Bakluscin per i signori ufficiali e, in genere, per gli spettatori di riguardo, che avevano degnato il nostro teatro, fin dal primo spettacolo, della loro visita. Più precisamente: dei signori ci veniva di solito l'ufficiale di guardia e un giorno vi diede una capatina l'ispettore del servizio di guardia in persona. Una volta ci venne pure un ufficiale del genio; appunto per il caso che si avessero di questi visitatori era stato compilato un piccolo manifesto. Si supponeva che la fama del teatro del reclusorio avrebbe avuto larga eco in fortezza e perfino in città, tanto più che in città non c'era un teatro. Si sentiva dire che se n'era formato uno di dilettanti per una sola rappresentazione, e basta. I detenuti si rallegravano come bambini della minima riuscita, anzi ne andavano orgogliosi. "Chi sa", essi pensavano e dicevano nel proprio cuore e tra loro, "magari lo sapranno anche le autorità superiori, e verranno a vedere; vedranno allora che detenuti ci sono qui.
Questo non è un semplice spettacolo per soldati con fantocci qualunque, con barche che galleggiano, con orsi e capri ambulanti.
Qui ci sono degli attori, dei veri attori, che rappresentano commedie per signori; un teatro simile non c'è nemmeno in città.
Dal generale Abrosimov ci fu una volta, dicono, una rappresentazione e ce ne saranno ancora; può darsi però che incontrino solo per i costumi; in quanto al dialogo, chi sa ancora che non la cedano alle nostre! La cosa arriverà fino al governatore, magari, e di quali scherzi non è capace il diavolo? - egli vorrà forse venire in persona a vedere. In città non c'è un teatro". Insomma la fantasia dei detenuti, specialmente dopo la prima riuscita, era giunta, durante le feste, ai più alti vertici, quasi quasi a sperare delle ricompense o una riduzione dei lavori forzati, sebbene in pari tempo essi stessi si mettessero quasi subito a ridere arcibonariamente alle proprie spalle. In una parola, erano bambini, veri bambini, nonostante che taluni di quei bambini avessero quarant'anni. Ma benché non ci fosse un cartellone, io già conoscevo, a grandi linee, il programma dello spettacolo. Il primo lavoro era: "Filatka e Miroska rivali".
Bakluscin fin da una settimana prima della rappresentazione si gloriava con me che la parte di Filatka, che egli si era assunto, sarebbe stata rappresentata in un modo quale anche al teatro di San Pietroburgo non si era mai visto. Egli andava in giro per le camerate, si vantava senza misericordia e senza vergogna, e insieme anche con perfetta bonomia, e a volte, improvvisamente, tirava fuori qualche parola "in modo TIATRALE", qualcosa cioè della sua parte, - e tutti sghignazzavano fosse o non fosse buffo ciò che egli aveva detto. Del resto bisogna riconoscere che anche in questo caso i detenuti sapevano tenersi su e conservare la dignità: si entusiasmavano delle uscite di Bakluscin e delle chiacchiere circa il futuro spettacolo o soltanto i più giovani e imberbi, ancora privi di ritegno, o soltanto i detenuti più ragguardevoli, la cui autorità era già incrollabilmente stabilita, cosicché non avevano più da temere di esprimere direttamente le proprie impressioni, qualunque esse fossero, anche se della natura più ingenua (cioè, secondo le idee del reclusorio, più sconvenienti). Gli altri invece ascoltavano voci e chiacchiere in silenzio, senza criticare, è vero, senza contraddire, ma facendo ogni sforzo per considerare con indifferenza, e in parte perfino dall'alto in basso le chiacchiere intorno al teatro. Solo già negli ultimi tempi, quasi il giorno stesso della rappresentazione, tutti cominciarono a interessarsi: che sarà? E i nostri? E il maggiore di piazza? L'esito sarà buono come il penultimo anno? e così via. Bakluscin mi assicurava che tutti gli attori erano stati assortiti magnificamente, ciascuno "per il suo posto". Che ci sarebbe stato anche un sipario. Che la parte della fidanzata di Filatka l'avrebbe fatta Sirotkin. - E vedrete voi stesso com'è, vestito da donna! - diceva strizzando gli occhi e schioccando la lingua. La proprietaria benefica avrebbe avuto un vestito col falpalà e una pellegrina, e l'ombrellino in mano, e il benefico proprietario sarebbe uscito fuori in giubba da ufficiale con le cordelline, e con un bastoncino. Poi seguiva un secondo lavoro, drammatico: "Kedrìl il mangione". Il titolo mi aveva molto interessato; ma, per quanto m'informassi su questo lavoro, non avevo potuto sapere nulla in precedenza. Avevo saputo soltanto che era stato tratto non da un libro, ma "da una copia"; che la commedia se l'erano procurata da un certo sottufficiale a riposo, nel sobborgo, che certamente aveva un tempo preso parte alla sua recitazione su qualche scena per soldati. Da noi, nelle più remote città e provincie, ci sono realmente di questi lavori teatrali che si direbbero ignoti a tutti, che non sono mai stati stampati in nessun luogo, ma che sono spuntati da sé chi sa di dove e costituiscono una indispensabile dotazione di qualsiasi teatro popolare in una certa zona della Russia. A proposito: ho detto "teatro popolare". Sarebbe molto, molto bello se qualcuno dei nostri ricercatori si dedicasse a nuove indagini, più accurate di quelle fatte finora, sul teatro popolare, che c'è, che esiste e anzi, forse, non è del tutto insignificante. Io non voglio credere che tutto quello che poi vidi da noi, nel nostro teatro del reclusorio, fosse stato inventato dai nostri stessi detenuti. Qui sono indispensabili una continuità di tradizione, dei metodi e dei concetti che, una volta fissatisi, passano da una generazione all'altra e sono tramandati a memoria. Bisogna cercare queste commedie tra i soldati, tra gli operai di fabbrica, nelle città manifatturiere, e perfino in certe poco note, povere cittadine, tra i piccoli borghesi. Esse si sono conservate anche nei villaggi e nei capoluoghi provinciali fra i servi domestici delle grandi case di possidenti. Io credo anzi che molte vecchie commedie si siano diffuse in copie manoscritte attraverso la Russia unicamente grazie ai servi dei possidenti. I vecchi proprietari e i signori moscoviti di una volta avevano propri teatri, costituiti da artisti di condizione servile. Ed ecco, fu appunto in questi teatri che ebbe inizio la nostra arte drammatica popolare, i cui segni sono indubitabili. Per quanto poi riguarda "Kedrìl il mangione", nulla avevo potuto saperne preventivamente, per quanto lo desiderassi, salvo che sulla scena sarebbero comparsi i cattivi spiriti e avrebbero portato Kedrìl all'inferno. Ma che cosa significava Kedrìl? E infine, perché Kedrìl, e non Kirìll? e l'azione si svolgeva in Russia o all'estero? Questo non avevo potuto saperlo in nessuna maniera. Come conclusione, era detto che si sarebbe rappresentata una "pantomima musicale". Certo, tutto ciò era molto curioso. Gli attori erano una quindicina: tutta gente brava e in gamba. Essi ruminavano tra sé, provavano qualche volta dietro le baracche, facevano misteri, si nascondevano.
Insomma volevano farci stupire tutti con qualcosa di straordinario e d'inatteso.
Nei giorni feriali il reclusorio si chiudeva presto, appena calava la notte. Per la festa natalizia veniva fatta un'eccezione: non lo si chiudeva fino alla ritirata serale. Questa agevolazione era concessa più specialmente per il teatro. Durante le feste, di solito ogni giorno, verso sera, dal reclusorio si mandava qualcuno all'ufficiale di guardia con un'umilissima preghiera: "Permettere lo spettacolo e lasciare aperto il reclusorio il più a lungo possibile", soggiungendo che anche il giorno prima c'era stato spettacolo e si era chiuso il reclusorio a tarda ora, e non c'era stato alcun disordine. L'ufficiale di guardia ragionava così:
"Disordini effettivamente ieri non ce ne sono stati; e poiché danno loro stessi la parola che non ce ne saranno neppure oggi, vuol dire che si sorveglieranno da sé, e questa è la miglior garanzia. Inoltre, se non si permettesse la rappresentazione, allora magari (chi li conosce? è gente di galera!) farebbero apposta qualche porcheria per dispetto e metterebbero di mezzo gli ufficiali di guardia". Infine anche questo: star di guardia è una noia, e lì c'è spettacolo, e non semplicemente di soldati, ma di detenuti, e i detenuti sono gente curiosa: sarà divertente assistere. E di assistere un ufficiale di guardia ha sempre il diritto.
Viene l'ispezione: "Dov'è l'ufficiale di guardia?". "E' andato nel reclusorio a contare i detenuti, a chiudere le camerate": è una risposta adeguata e un'adeguata giustificazione. In tal modo gli ufficiali di guardia, durante tutte le feste, permettevano ogni sera il teatro e non chiudevano le camerate fin proprio alla ritirata serale. I detenuti sapevano già in precedenza che da parte degli ufficiali di guardia non ci sarebbero stati inciampi ed erano tranquilli.
Dopo le sei venne a cercarmi Petròv e noi ci avviammo insieme allo spettacolo. Dalla nostra baracca vi si incamminarono quasi tutti, tranne il vecchio credente di Cernigov e i polacchi. I polacchi soltanto all'ultimissima rappresentazione, il 4 gennaio, si indussero a venire al teatro, e anche allora dopo molte assicurazioni che ci si stava bene, che ci si divertiva e non c'era pericolo. La schizzinosità dei polacchi non indisponeva per nulla i forzati ed essi, il 4 gennaio, furono accolti molto gentilmente. Li fecero anzi passare nei migliori posti. In quanto ai circassi e specialmente a Issàj Fomìc', per loro il nostro teatro era un vero godimento. Issàj Fomìc' dava ogni volta tre copeche e l'ultima volta pose sul piatto dieci copeche, mentre la beatitudine era dipinta sulla sua faccia. Gli attori avevano divisato di raccogliere dai presenti quel che ciascuno avesse voluto dare, per le spese dello spettacolo e per il proprio RISTORAMENTO. Petròv assicurava che a me avrebbero lasciato occupare uno dei primi posti, per quanto pieno zeppo fosse il teatro, per il motivo che io, essendo più ricco di altri, probabilmente avrei dato di più, e inoltre ci avrei capito più di loro. E così accadde. Ma descriverò innanzi tutto la sala e la disposizione del teatro.
La nostra camerata militare, in cui era stato allestito il teatro, era lunga una quindicina di passi. Dal cortile si saliva sulla scaletta, dalla scaletta si passava nell'ingresso e dall'ingresso nella camerata. Questa lunga camerata, come ho già detto, era assestata in modo speciale: il tavolaccio vi correva lungo le pareti, di modo che il mezzo dello stanzone rimaneva libero. Una metà della stanza, la più vicina all'uscita dalla parte della scaletta, era stata riservata agli spettatori; l'altra metà invece, che comunicava con un'altra camerata, era destinata al palcoscenico. Prima di tutto mi fece stupire il sipario. Si stendeva per una diecina di passi attraverso tutta la camerata ed era di una tale magnificenza che c'era proprio da meravigliarsi.
Inoltre era stato dipinto con colori a olio: vi erano raffigurati alberi, capanni, stagni e stelle. Era fatto di tela, vecchia e nuova, quanta ciascuno ne aveva data e sacrificata, di vecchie fasce da piedi e camicie dei detenuti, in qualche modo cucite assieme in una sola e grande tenda; infine una parte di essa, per la quale la tela non era bastata, era di semplice carta, anch'essa mendicata, a singoli fogli, da vari uffici e cancellerie. I nostri decoratori poi, tra i quali si distingueva anche "Briullov"-A-v, avevano avuto cura di colorirla e dipingerla. L'effetto era meraviglioso. Una tale magnificenza rallegrava perfino i più tetri e più sofistici detenuti, i quali, appena si giunse alla rappresentazione, si rivelarono tutti, senza eccezione, altrettanto bambini quanto i più focosi e impazienti di loro.
Tutti erano molto soddisfatti, anzi soddisfatti con una nota di vanteria. L'illuminazione era formata da parecchie candele di sego, tagliate in pezzi. Davanti al sipario stavano due panche prese in cucina e, davanti alle panche, tre o quattro sedie che si erano trovate nella stanza dei sottufficiali. Le sedie erano destinate alle persone di grado più elevato, della categoria ufficiali. Le panche invece erano per i sottufficiali, gli scrivani del genio, gli assistenti e altra gente, anche con funzioni di comando, ma senza il grado di ufficiale, per il caso che avessero dato una capatina nel reclusorio. E così accadde: i visitatori estranei non mancarono da noi durante tutte le feste; una sera ne venivano di più, un'altra di meno, e all'ultima rappresentazione non un posto rimase libero sulle panche. E infine, già dietro le panche, si collocavano i detenuti, in piedi, per rispetto verso i visitatori, senza berretti, in casacche o pellicce corte, nonostante l'aria calda e soffocante della camerata. Certamente, lo spazio riservato ai detenuti era troppo poco. Ma, oltre il fatto che l'uno stava letteralmente addosso all'altro, soprattutto nelle file posteriori, erano stati occupati anche i tavolacci e le quinte, e infine si erano trovati degli amatori che andavano costantemente dietro la scena, nell'altra camerata, e di là, di dietro l'ultima quinta, spiavano la rappresentazione. La ressa nella prima metà della baracca era inverosimile ed eguagliava forse la ressa e la calca che avevo visto poco tempo prima nel bagno. La porta verso l'ingresso era aperta; nell'ingresso, dove c'erano venti gradi sotto zero, si affollava pure la gente. Noi, me e Petròv, ci fecero subito passare avanti, quasi fino alle panche, da dove si poteva vedere molto meglio che dalle file di dietro. In me vedevano un po' il critico, il conoscitore, che aveva frequentato ben altri teatri; avevano visto che Bakluscin, in tutto quel tempo, si era consigliato con me e mi aveva trattato con deferenza; a me quindi si faceva ora onore e posto. I detenuti, mettiamo, erano gente in sommo grado vanitosa e leggera, ma tutto ciò era ostentazione. I detenuti potevano ridere di me vedendo che ero per essi, sul lavoro, un cattivo aiutante. Almasov poteva guardarci con disprezzo, noi nobili, inorgogliendosi di fronte a noi della sua perizia nel calcinare l'alabastro. Ma alle loro vessazioni e derisioni verso di noi si mescolava anche altro; noi un tempo eravamo stati nobili; noi appartenevamo allo stesso ceto dei loro ex-signori, di cui non potevano serbare un buon ricordo. Ma ora, in teatro, essi si erano fatti da parte dinanzi a me.
Riconoscevano che in queste cose io potevo giudicare meglio di loro, che avevo veduto e sapevo più di loro. I meno ben disposti verso di me (io lo so) desideravano che lodassi il loro teatro e, senza punto abbassarsi, mi avevano fatto passare nel posto migliore. Io sto adesso richiamando alla memoria la mia impressione di allora. Mi era parso allora - me ne ricordo che nel loro giusto giudizio su se stessi non ci fosse umiliazione alcuna, bensì il sentimento della propria dignità. Il supremo e più netto tratto caratteristico del nostro popolo è il sentimento e la sete di giustizia. Quel brutto vezzo da galletto di voler essere in tutti i posti e A QUALUNQUE COSTO davanti agli altri - che la persona lo meriti o no - questo nel popolo non c'è. Basta appena togliere via l'incrostazione superficiale e badare al nòcciolo con un po' più di attenzione, un po' più da vicino, senza preconcetti, e più d'uno scoprirà nel popolo tali cose di cui nemmeno aveva sentore. Non molto possono insegnare al popolo i nostri sapienti.
Dirò anzi positivamente che, al contrario, essi stessi devono ancora imparare da lui.
Petròv mi aveva detto ingenuamente, quando ancora stavamo per andare allo spettacolo, che mi avrebbero fatto passare avanti anche perché io avrei pagato di più. Un prezzo fissato non c'era:
ognuno dava quel che poteva e voleva. Quasi tutti posero sul piatto qualcosa, non fosse che un "gros", quando si andò in giro a raccogliere. Ma se mi avevano fatto passare avanti in parte anche per il denaro, nella supposizione che io avrei dato più degli altri, in tal caso quanto sentimento della propria dignità c'era anche in questo! "Tu sei più ricco di me e passa avanti, e sebbene noi qui siamo tutti uguali, tu darai di più: per conseguenza uno spettatore come te è più gradito agli attori, ed eccoti anche il primo posto, perché noi tutti siamo qui non per denaro, ma per un senso di rispetto, e quindi dobbiamo classificarci da noi stessi".
Quanto vero nobile orgoglio in ciò! Questo non è rispetto per il denaro, ma rispetto di se medesimi. In genere poi per il denaro, per la ricchezza, nel reclusorio non si aveva un particolare rispetto, specialmente ove si considerino tutti i detenuti senza distinzione, in massa, come comunità. Io non ne ricordo nemmeno uno che si abbassasse seriamente per denaro, quando pure si dovessero prendere uno per uno. C'erano gli accattoni che mendicavano anche da me. Ma in questo accattonaggio c'era più monelleria, più bricconeria che uno scopo diretto; c'era piuttosto dell'umorismo, dell'ingenuità. Non so se mi esprimo in modo comprensibile. Ma ho dimenticato il teatro. Al fatto!
Prima che si alzasse il sipario, tutta la camerata presentava uno strano e animato quadro. In primo luogo, la folla degli spettatori, pigiata, premuta, rinserrata da tutte le parti, che con l'impazienza e la beatitudine sul viso attendeva l'inizio della rappresentazione. Nelle ultime file, degli uomini ammonticchiati l'uno sull'altro. Molti di loro avevano portato dei ciocchi dalla cucina: fissato in qualche modo contro la parete un grosso ciocco, l'individuo ci saliva sopra coi piedi, si appoggiava con tutt'e due le mani sulle spalle di chi gli stava dinanzi e, senza cambiare posizione, rimaneva ritto così per un paio d'ore, soddisfattissimo di sé e del suo posto. Altri si piantavano sulla stufa, sullo sporto inferiore di essa, restavano in piedi allo stesso modo per tutto il tempo, appoggiandosi su quelli davanti. Tutto questo nelle ultime file, presso la parete.
Di fianco, sopra i musicanti, stava pure una folla compatta, che era salita sui tavolacci. Qui c'erano dei buoni posti. Cinque uomini si erano issati sulla stufa stessa e, giacendovi sopra, guardavano in giù! E quanto erano beati! Sui parapetti delle finestre lungo l'altra parete brulicavano pure interi sciami di gente arrivata in ritardo o che non aveva trovato un buon posto.
Tutti tenevano un contegno tranquillo e posato. Ognuno voleva presentarsi ai signori e ai visitatori nel suo aspetto migliore.
Tutti i visi esprimevano l'attesa più ingenua. Tutti i visi erano rossi e bagnati di sudore, per il caldo e l'afa. Quale strano riflesso di gioia infantile, di simpatico, schietto piacere brillava su quelle fronti e quelle guance solcate, marchiate, in quegli sguardi di gente finora cupa e tetra, in quegli sguardi scintillanti a volte di un terribile fuoco! Tutti erano senza berretti e tutte le teste mi si presentavano rase dal lato destro.
Ma ecco che sulla scena si sente un trambusto, un tramestio.
Subito si alzerà il sipario. Ecco che l'orchestra ha preso a suonare. Questa orchestra merita un cenno. Di fianco, sul tavolaccio, si erano disposti gli otto musicanti: due violini (uno era nel reclusorio, l'altro se l'erano fatto prestare in fortezza, mentre l'artista lo si era trovato in casa nostra), tre balalaiche, tutte di fabbricazione personale, due chitarre e un tamburello, in luogo di contrabbasso. I violini guaivano e stridevano soltanto, le chitarre erano miserabili, in compenso le balalaiche erano inaudite. L'agilità con cui le dita scorrevano sulle corde eguagliava proprio il più abile dei giochi di prestigio. Non si suonavano se non motivi di danza. Nei punti più movimentati i suonatori battevano con le nocche delle dita sulla cassa della balalaica; il tono, il gusto, l'esecuzione, la maniera di trattare gli strumenti, il carattere della modulazione, tutto ciò era personale, originale, al modo dei detenuti. Uno dei chitarristi conosceva pure magnificamente il suo strumento. Era quello stesso ex-nobile che aveva ucciso suo padre. In quanto al tamburello, faceva semplicemente prodigi: ora girava sul dito indice, ora veniva sfregato col pollice; ora si udivano fitti, sonori e monotoni colpi, ora, tutt'a un tratto, questo suono forte e distinto pareva sparpagliarsi in una quantità innumerevole di piccoli suoni tintinnanti e fruscianti. Infine comparvero ancora due fisarmoniche. Parola d'onore, io fino a quel momento non avevo avuto un'idea di quel che si possa fare con semplici, popolareschi strumenti; l'armonia dei suoni, l'esecuzione, e soprattutto lo spirito, il modo con cui era intesa la vera essenza del motivo erano addirittura mirabili. Io per la prima volta compresi allora a perfezione che cosa appunto ci sia di infinitamente sbrigliato e ardito nelle sbrigliate e ardite canzoni russe da ballo. Infine si alzò il sipario. Tutti fecero un movimento, tutti passarono da un piede sull'altro, quelli di dietro si levarono in punta di piedi; qualcuno cadde dal suo ciocco; tutti, dal primo all'ultimo, aprirono la bocca e puntarono gli sguardi, e prese a regnare un assoluto silenzio... La rappresentazione incominciò.
Al mio fianco stava in piedi Aléj, nel gruppo dei suoi fratelli e di tutti gli altri circassi. Essi si erano appassionatamente affezionati al teatro e ci andarono poi ogni sera. Tutti i musulmani, tartari eccetera, come più di una volta avevo notato, sono sempre amatori appassionati di ogni sorta di spettacoli.
Accanto a loro si era rannicchiato anche Issàj Fomìc', che pareva, con l'alzata del sipario, essersi fatto tutt'orecchi e tutt'occhi e tutta ingenua, avida attesa di prodigi e di godimenti. Mi avrebbe persino fatto pena, se fosse rimasto deluso nella sua aspettativa. Il grazioso volto di Aléj era raggiante di una così bella gioia infantile che, lo confesso, mi divertivo immensamente a guardarlo e mi ricordo che, a ogni comica e felice battuta di un attore, quando echeggiava una risata generale, involontariamente, subito mi voltavo verso Aléj a guardare il suo viso. Egli non mi vedeva: aveva il capo a ben altro! Molto vicino a me, dal lato sinistro, stava in piedi un detenuto anziano, sempre accigliato, sempre scontento e brontolone. Anch'egli aveva notato Aléj e io lo vidi girarsi più volte con un mezzo sorriso a guardarlo: tanto era carino! "Aléj Semionic" lo chiamava, non so perché. Si cominciò con "Filatka e Miroska". Filatka (Bakluscin) era realmente magnifico. Egli rappresentò la sua parte con meravigliosa evidenza. Si vedeva che penetrava col pensiero in ogni sua frase, in ogni sua mossa. A ogni parola anche futile, a ogni gesto sapeva dare un senso e un significato del tutto corrispondente al carattere della sua parte. Aggiungete a questi sforzi, a questo studio, una mirabile, non finta allegria, semplicità, mancanza di artificio, e voi stessi, se aveste veduto Bakluscin, sareste senza fallo stati d'accordo che quello era un vero attore nato, di grandi capacità. "Filatka" io l'avevo veduto più di una volta nei teatri di Mosca e di Pietroburgo e dico positivamente che i due attori delle capitali che facevano la parte di Filatka recitavano entrambi peggio di Bakluscin. In confronto con lui erano villici, e non autentici contadini. Anche troppo essi volevano impersonare il contadino. Bakluscin per giunta era eccitato dall'emulazione:
era noto a tutti che nella seconda commedia la parte di Kedrìl l'avrebbe fatta il detenuto Potsiéikin, un attore che tutti, chi sa perché, stimavano più geniale, migliore di Bakluscin, e Bakluscin ne soffriva come un bambino. Quante volte era venuto da me in quegli ultimi giorni a sfogarsi! Due ore prima della rappresentazione aveva la febbre addosso. Quando nella folla si rideva forte e gli si gridava: "Molto bene, Bakluscin! Ah, che bravo!", tutto il suo viso raggiava di felicità e una vera ispirazione gli brillava negli occhi. La scena del bacio con Miroska, quando Filatka gli grida preventivamente: "Asciùgati!", e si asciuga egli stesso, riuscì esilarante. Tutti si torcevano addirittura dalle risa. Ma più di ogni altra cosa erano per me degni di nota gli spettatori; lì ormai tutti si manifestavano senza ritegno. Si abbandonavano alla loro gioia perdutamente. Le grida di plauso risonavano sempre più frequenti. Ecco che uno urta col gomito il compagno e gli comunica in fretta le sue impressioni, senza star a pensare e, magari, senza vedere chi gli stia accanto; un altro, davanti a una scena comica, si volta a un tratto, pieno di entusiasmo, verso la folla e dà una rapida occhiata a tutti, come per invitarli a ridere, fa un gesto con la mano e subito torna a voltarsi avidamente verso la scena. Un terzo schiocca semplicemente la lingua e le dita e non può restar fermo al suo posto, e poiché non può andare altrove, scalpiccia soltanto. Verso la fine della commedia il buon umore generale giunse al culmine. Io non esagero affatto. Immaginatevi il reclusorio, le catene, la prigionia, i lunghi tristi anni in prospettiva, una vita monotona come il gocciolare dell'acqua in una fosca giornata autunnale, - ed ecco che improvvisamente a tutti questi oppressi e a questi reclusi è stato concesso di sbrigliarsi per un'ora, di darsi all'allegria, di scordare il penoso loro sogno, di allestire addirittura un teatro, e per giunta che teatro! da riempire di orgoglio e di meraviglia l'intera città! - guarda un po' i nostri, sembrano dire, che detenuti! Naturalmente tutto li interessava, i travestimenti, per esempio. Era per loro enormemente curioso vedere un Vanka Otpieti, poniamo, o un Netsvietaiev, o un Bakluscin con tutt'altro vestito che quello in cui già da tanti anni li vedevano ogni giorno. "To', un detenuto, proprio un detenuto, e le catene gli tintinnano addosso, ed ecco che ora invece viene fuori in giubba, cappello tondo e mantello: come un cittadino! Si è messo i baffi, i capelli. Ecco che ha cavato di tasca un fazzolettino rosso, si fa aria, fa la parte del signore, come se fosse egli stesso un signore nato e sputato!". E tutti sono pieni di entusiasmo. Il "benefico proprietario" comparve in divisa di aiutante, piuttosto vecchiotta, è vero, con le spalline, e il berretto con una piccola coccarda, e produsse un effetto straordinario. Per questa parte c'erano stati due aspiranti e - lo credereste? avevano tremendamente litigato tra loro, come bimbetti, per decidere a chi toccasse rappresentarla: tutti e due volevano mostrarsi in divisa di ufficiale con le cordelline! Li avevano poi separati gli altri attori e a maggioranza di voti avevano deciso di affidare la parte a Netsvietaiev, non perché fosse più bello dell'altro e in tal modo maggiormente rassomigliasse a un signore, ma perché Netsvietaiev aveva assicurato a tutti che sarebbe venuto in scena con un bastoncino e l'avrebbe agitato in aria e con esso avrebbe tracciato ghirigori per terra come un vero signore e come il primo degli elegantoni, cosa che Vanka Otpieti non poteva nemmeno immaginarsi, perché di veri signori non ne aveva mai veduti. E infatti Netsvietaiev, quando comparve con la sua signora dinanzi al pubblico, non faceva altro che disegnare rapidamente e fugacemente per terra con un sottile bastoncino di canna, che si era procurato chi sa dove, probabilmente scorgendo in ciò i segni della suprema signorilità, dell'eleganza e della moda più spinta.
E' verosimile che un tempo, ancora nell'infanzia, quando era un monelluccio scalzo, figlio di servi, gli fosse accaduto di vedere un signore ben vestito col bastoncino e di essere incantato dalla sua abilità nel farlo roteare, ed ecco che quella impressione gli era rimasta per sempre e indelebilmente nell'anima, tanto che ora, all'età di trent'anni, gli era tornato alla memoria ogni particolare, perché l'illusione e il rapimento dell'intero reclusorio fossero pieni. Netsvietaiev era così immerso nella sua occupazione che non guardava più alcuno né da alcuna parte, parlava perfino senza alzare gli occhi e non faceva altro che seguire il bastoncino e il suo puntale. La "benefica proprietaria" era anche lei, nel suo genere, oltremodo notevole: si era presentata in un vecchio, logoro vestito di mussola, che aveva l'aspetto di un vero cencio, con braccia e collo scoperti, con un viso spaventosamente carico di bianchetto e rossetto, con una cuffietta da notte di calicò, annodata sotto il mento, con l'ombrellino in una mano e il ventaglio di carta dipinta nell'altra, col quale si faceva aria di continuo. Una salva di risate accolse la signora; e la signora stessa non seppe reggere e più volte si mise a ridere forte. Faceva la parte della padrona il detenuto Ivanov. Sirotkin, truccato da ragazza, era graziosissimo.
Anche le strofette delle canzoni andarono d'incanto. Insomma la commedia terminò fra la più completa e universale soddisfazione.
Critiche non ce ne furono, né potevano essercene.
Fu suonato ancora una volta il preludio: "Veranda, veranda mia", e il sipario si alzò nuovamente. Incominciava "Kedrìl". Kedrìl è qualche cosa del genere di Don Giovanni; per lo meno, padrone e servo sono alla fine portati all'inferno dai diavoli. Si dava l'intero atto, ma quello, evidentemente, era un frammento; il principio e la fine erano andati perduti. Non c'era nesso né senso alcuno. L'azione si svolge in Russia, chi sa dove, in una locanda.
L'oste introduce in una camera il signore, che è in cappotto, con un cappello tondo ammaccato. Lo segue il suo servitore Kedrìl con una valigia e una gallina avvolta in carta azzurra. Kedrìl ha indosso una pelliccia corta e un berretto da domestico. Ed è lui il mangione. Ne fa la parte il detenuto Potsiéikin, il rivale di Bakluscin; rappresenta invece il padrone quello stesso Ivanov che nella prima commedia ha fatto la "benefica proprietaria". L'oste, Netsvietaiev, avverte che la camera è infestata dai diavoli e se ne va. Il signore, cupo e impensierito, borbotta tra sé che lo sapeva da molto tempo e ordina a Kedrìl di tirar fuori la roba e di preparare la cena. Kedrìl è pauroso e mangione. Avendo udito dei diavoli, impallidisce e trema come una foglia. Scapperebbe via, ma ha paura del padrone. Inoltre ha voglia di mangiare. E' sensuale, sciocco, furbo a modo suo, vile, inganna il padrone a ogni passo e in pari tempo lo teme. E' un notevole tipo di servitore in cui affiorano, come confusi e lontani, i tratti di Leporello, e in realtà è molto devoto al padrone. Potsiéikin ha grandi capacità ed è, a mio avviso, un attore ancor migliore di Bakluscin. Io, ben s'intende, incontratomi il giorno dopo con Bakluscin, non gli espressi pienamente la mia opinione: lo avrei troppo amareggiato. Il detenuto che faceva il padrone recitava anche benino. Buttava fuori tremende sciocchezze che non stavano né in cielo né in terra, ma la recitazione era corretta, vivace, il gestire adeguato. Mentre Kedrìl si affaccenda intorno alla valigia, il padrone cammina meditabondo per la scena e annuncia a voce alta che quella sera segna la fine delle sue peregrinazioni.
Kedrìl tende l'orecchio curiosamente, fa delle smorfie, parla "à part" e a ogni parola fa ridere gli spettatori. Non gli rincresce per il padrone ma ha udito parlare dei diavoli; ha voglia di sapere di che si tratti, ed ecco che attacca discorso e fa domande. Il padrone finalmente gli spiega che una volta, in un suo guaio, si era rivolto per aiuto all'inferno, e i diavoli lo avevano aiutato e tratto d'impiccio; ma oggi scade il termine e può darsi che oggi stesso essi vengano, secondo il patto, a prendere la sua anima. Kedrìl incomincia ad avere la tremarella.
Ma il padrone non si perde d'animo e gli ordina di allestire la cena. Sentendo parlare di cena, Kedrìl si rianima, cava fuori la gallina, cava fuori il vino e, facendo finta di niente, sbocconcella la gallina e l'assaggia. Il pubblico ride forte. Ecco che la porta scricchiola, il vento sbatte le imposte; Kedrìl trema e in fretta, quasi incoscientemente, caccia in bocca un enorme pezzo di gallina, che non può nemmeno inghiottire. Altre risate. - E' pronto? - grida il padrone passeggiando per la camera. - Subito, signore... ora vi... preparerò tutto, - dice Kedrìl, che poi si mette a tavola e incomincia tranquillissimamente a divorare la cena del padrone. Al pubblico piacciono visibilmente l'abilità e la scaltrezza del servo, e il fatto che il padrone viene gabbato. Bisogna riconoscere che anche Potsiéikin meritava veramente una lode. Le parole: "subito, signore, vi preparerò tutto", le aveva pronunciate ottimamente. Seduto a tavola, si è messo a mangiare con avidità e sussulta a ogni passo del padrone, nel timore che questi si accorga delle sue gherminelle; appena l'altro si volta, egli si nasconde sotto la tavola e trascina con sé la gallina. Finalmente ha saziato la sua prima fame; è ora di pensare al padrone. - Kedrìl, hai presto finito? grida costui. - Pronto! - risponde arditamente Kedrìl, accorgendosi che per il padrone non è rimasto quasi nulla. Sul piatto infatti non c'è che una zampa della gallina. Il padrone, scuro in viso e impensierito, senza notare niente, si mette a tavola, e Kedrìl, con un tovagliolo, si pianta dietro la sua sedia. Ogni parola, ogni gesto, ogni smorfia di Kedrìl, quando, volgendosi verso il pubblico, accenna al padrone sempliciotto, sono accolte dagli spettatori con incontenibili risate. Ma ecco, appena il padrone si accinge a mangiare, compaiono i diavoli. A questo punto non si può più capire nulla, e poi i diavoli compaiono in un certo modo che ha troppo poco di umano: in una piccola quinta laterale si apre una porta e appare qualcosa di bianco che, in luogo della testa, ha una lanterna con una candela; un altro fantasma ha pure una lanterna sulla testa e in mano tiene una falce. Perché le lanterne, perché la falce, perché i diavoli vestiti di bianco?
Nessuno se lo può spiegare. Del resto a ciò nessuno riflette. Così di certo deve essere. Il padrone abbastanza coraggiosamente si volge ai diavoli e grida loro che è pronto, che lo prendano pure.
Ma Kedrìl trema come una lepre: egli si caccia sotto la tavola; nonostante il suo spavento, però, non si dimentica di agguantare prima la bottiglia. I diavoli per un momento scompaiono; Kedrìl striscia fuori di sotto la tavola, ma, appena il padrone si rimette a mangiare la gallina, ecco che tre diavoli irrompono di nuovo nella camera, afferrano il padrone di dietro e lo portano nel regno delle tenebre. - Kedrìl! Salvami! - grida il padrone. Ma Kedrìl ha altro per la testa. Egli questa volta si è tirato sotto la tavola e la bottiglia, e il piatto, e perfino il pane. Ma ora eccolo solo, i diavoli non ci sono più, il padrone nemmeno. Kedrìl sguscia fuori, si guarda intorno e un sorriso gli illumina il volto. Egli strizza gli occhi furbescamente, siede al posto del signore e, facendo dei cenni al pubblico, dice sottovoce:
- Be', ora sono solo... senza padrone!...
Tutti sghignazzano per il fatto che è senza padrone; ma ecco che egli soggiunge a mezza voce, rivolgendosi confidenzialmente al pubblico e strizzando l'occhio sempre più allegramente:
- Il padrone l'hanno preso i diavoli!...
L'entusiasmo di tutti è senza limiti! Oltre al fatto che il padrone se lo sono preso i diavoli, questo è stato detto in tal modo, con aria così maliziosa, con una smorfia così beffarda di trionfo che, in realtà, è impossibile non applaudire. Ma la felicità di Kedrìl non dura a lungo. Egli si è appena impossessato della bottiglia e, riempitosi il bicchiere, si accinge a bere, quando tutt'a un tratto i diavoli ritornano, gli si avvicinano furtivi alle spalle in punta di piedi, e giù graffiate nei fianchi! Kedrìl grida a squarciagola; dalla paura non osa voltarsi. Difendersi anche non può: nelle mani ha la bottiglia e il bicchiere, da cui non ha la forza di separarsi. Spalancata la bocca dal terrore, egli sta per mezzo minuto con gli occhi sbarrati sul pubblico, con una tale esilarante espressione di vigliacco spavento, che se ne potrebbe proprio fare un quadro.
Finalmente lo prendono, lo portano via; egli ha con sé la bottiglia e guizza coi piedi e grida, grida. I suoi strilli echeggiano ancora dietro le quinte. Ma cala il sipario, e tutti sghignazzano, tutti sono in piedi per l'entusiasmo... L'orchestra attacca la "kamàrinskaia".
Comincia piano, che appena si sente, ma il motivo cresce, il tempo si accelera, risuonano colpetti dati con bravura alla cassa della balalaica. Questa è la "kamàrinskaia" in tutto il suo slancio, e davvero sarebbe bello se Glinka avesse potuto, per un caso, udirla nel nostro reclusorio. Ha principio una pantomima a suon di musica, e la "kamàrinskaia" non tace per tutta la durata della pantomima. Si presenta l'interno di un'isba. Sulla scena c'è un mugnaio con sua moglie. Il mugnaio in un angolo ripara dei finimenti, in un altro angolo la moglie fila del lino. Fa la parte della moglie Sirotkin, del mugnaio Netsvietaiev.
Noterò che le nostre decorazioni sono assai povere. Sia in questo, sia nel precedente lavoro, e negli altri, voi dovete piuttosto colmare le lacune con la vostra propria immaginazione che vedere coi vostri occhi. In luogo di parete di fondo, è steso non so che tappeto o una coperta da cavallo; di fianco c'è un miserabile paravento. Il lato sinistro poi non è mascherato da nulla, cosicché si vede il tavolaccio. Ma gli spettatori non sono esigenti e accettano di colmare con l'immaginazione le lacune della realtà, tanto più che i detenuti ne sono molto capaci. - Si è detto giardino, e fa' conto che sia un giardino, la stanza è una stanza e l'isba è un'isba: tanto non è il caso di far molte cerimonie. - Sirotkin vestito da giovane donnetta è molto carino.
Fra gli spettatori si odono alcuni complimenti a mezza voce. Il mugnaio termina il lavoro, prende il berretto, prende lo scudiscio, si avvicina alla moglie e le spiega a gesti che deve andare via, ma che, se lei in sua assenza riceverà qualcuno, allora... e indica lo scudiscio. La moglie ascolta facendo cenni col capo. Quella frusta probabilmente le è ben nota: la donnetta fa le corna al marito. Questi se ne va. Appena è fuori dell'uscio, la moglie lo minaccia alle spalle col pugno. Ma ecco che si bussa; l'uscio si apre e ricompare il vicino, mugnaio anche lui, un contadino in caffettano e con la barba. Nelle mani ha un regalo, un fazzoletto rosso, La donnetta ride; ma appena il vicino fa per abbracciarla, ecco un altro picchio all'uscio. Dove cacciarsi? Lei lo nasconde alla svelta sotto la tavola, e torna al fuso. Compare un altro spasimante; è uno scrivano, in divisa militare. Fino a questo punto la pantomima è stata irreprensibile, il gesto infallibilmente esatto. C'era perfino da meravigliarsene, guardando quegli attori improvvisati, e da pensare involontariamente: quante forze e quanto ingegno periscono da noi in Russia, a volte quasi per niente, in prigione e in balìa di un duro destino! Ma il detenuto che faceva la parte dello scrivano era stato un tempo, probabilmente, in un teatro provinciale o domestico e si era immaginato che i nostri attori, dal primo all'ultimo, non se ne intendessero e non camminassero come si deve camminare sulla scena. Ed ecco che egli incede come dicono che incedessero anticamente sui teatri gli eroi classici; fa un lungo passo e, prima ancora di avere spostato l'altra gamba, si ferma, rovescia all'indietro tutto il busto e la testa, guarda fieramente intorno e... fa un altro passo. Se una tale andatura era buffa negli eroi classici, in uno scrivano militare e in una scena comica è ancora più buffa. Ma il pubblico nostro credeva che probabilmente così si dovesse fare in quel caso e accettò i lunghi passi dello scrivano spilungone come si accettano i fatti compiuti, senza critiche speciali. Appena lo scrivano fu giunto nel mezzo della scena, si udì ancora un altro picchio: la padrona tornò a spaventarsi. Dove ficcare lo scrivano? Nel baule, visto che è aperto. Lo scrivano si caccia nel baule, che la donnetta chiude col coperchio. Questa volta si presenta un visitatore speciale, anche lui innamorato, ma in un genere a sé. E' un bramino, e per giunta vestito alla sua foggia. Echeggia fra gli spettatori una risata irresistibile. Fa il bramino il detenuto Koskin e lo fa ottimamente. Ha una figura da bramino. Egli spiega a gesti tutta l'intensità del suo amore. Leva le braccia al cielo, poi se le stringe al petto, al cuore; ma ha avuto appena il tempo di intenerirsi che risuona un forte colpo all'uscio. Dal colpo si sente che è il padrone. La moglie sbigottita è fuori di sé, il bramino si agita come un ossesso e la supplica di nasconderlo. Lei lo spinge in furia dietro un armadio, e poi, dimenticandosi di aprire, si slancia verso la sua rocca e fila, fila, senza udire i colpi di suo marito all'uscio, e dallo sgomento annaspa il filo che pure non ha in mano e fa girare il fuso che si è dimenticata di raccattare dal pavimento. Sirotkin rese molto bene e molto felicemente questo spavento. Ma il padrone sfonda l'uscio col piede e si accosta alla moglie con lo scudiscio. Egli ha notato tutto, avendo fatto la guardia, e le indica addirittura con le dita che ha nascosto tre uomini. Poi cerca costoro. Trova per primo il vicino e lo mette fuori della stanza a cazzotti. Lo scrivano, preso da paura, volendo fuggire, ha sollevato con la testa il coperchio e con ciò si è tradito da sé. Il padrone lo frusta con lo staffile, e questa volta lo scrivano innamorato fa dei salti niente affatto classici. Rimane il bramino; il padrone lo cerca a lungo, infine lo trova nell'angolo dietro l'armadio, gli fa dei gentili inchini e lo tira per la barba in mezzo alla scena. Il bramino tenta di difendersi, grida: "Maledetto, maledetto!" (uniche parole pronunciate nella pantomima), ma il marito non ascolta e si fa giustizia a modo suo. La moglie, vedendo che sta per giungere la sua volta, lascia il pennecchio e il fuso e corre via dalla stanza; il filatoio si rovescia, i detenuti scoppiano a ridere. Aléj, senza guardarmi, mi tira per una mano e grida: - Guarda! Il bramino, il bramino! - e intanto non può star fermo dalle risa. Cala il sipario. Incomincia un'altra scena.
Ma non è il caso di descrivere tutte le scene. Ce ne furono ancora due o tre. Erano tutte buffe e di un'allegria senza artificio. Se non le avevano ideate i detenuti stessi, per lo meno in ciascuna di esse avevano messo del proprio. Quasi ogni attore improvvisava di sua testa, tanto che nelle sere successive il medesimo attore rappresentava la medesima parte in modo alquanto diverso. L'ultima pantomima, di carattere fantastico, si concludeva con un balletto.
Si seppelliva un morto. Un bramino, con numerosi servi, fa sopra la tomba svariati scongiuri, ma nulla giova. Infine echeggia: "Il sole è al tramonto", il morto torna in vita e tutti incominciano a ballare dalla gioia. Il bramino danza insieme col morto e danza in modo tutto speciale, da bramino. E così ha termine lo spettacolo fino alla sera seguente. Tutti i nostri si separano allegri, contenti, lodando gli attori, ringraziando il sottufficiale.
Litigi non se ne sentono. Tutti sembrano inconsuetamente soddisfatti, persino felici, e si addormentano non come sempre, ma con lo spirito quasi tranquillo, e per che cosa poi, si direbbe? E intanto questa non è una fantasia della mia immaginazione. E' verità, è realtà. Appena è stato permesso a questa povera gente di vivere un poco a modo suo, di divertirsi da uomini, di passare anche solo un'ora di vita non da reclusi, ecco che l'uomo si trasforma moralmente, non fosse che per pochi minuti soltanto...
Ma ormai è notte tarda. Io ho un sussulto e casualmente mi sveglio: il vecchio continua ancora a pregare sulla stufa e pregherà lassù fino all'alba; Aléj dorme tranquillo accanto a me.
Io mi ricordo che, anche addormentandosi, egli rideva ancora, nel discorrere coi fratelli del teatro, e involontariamente mi perdo nella contemplazione del suo volto calmo, infantile. A poco a poco mi rammento ogni cosa, l'ultima giornata, le feste, tutto questo mese... sgomento, sollevo il capo e guardo in giro i miei compagni che dormono, alla luce tremolante di una candela governativa da sei per libbra. Guardo le loro povere facce, i loro poveri giacigli, tutta questa poveraglia e questa miseria, li osservo, e pare che io voglia sincerarmi che tutto ciò non è la continuazione di un sogno mostruoso, bensì un'effettiva realtà. Ma è realtà:
ecco che si sente qualcuno gemere; qualcuno ha tirato indietro pesantemente una mano e ha fatto tintinnare le catene. Un altro ha sobbalzato nel sonno e si è messo a parlare, e il nonnino sulla stufa prega per tutti i "cristiani ortodossi", e si ode il suo ritmico, sommesso, strascicato: "Signore Gesù Cristo, abbi pietà di noi!...".
"Io non sono mica qui per sempre, ma solo per qualche anno!", penso, e torno a chinare la testa sul guanciale.
PARTE SECONDA
Poco dopo le feste mi ammalai e andai alla nostra infermeria militare. Essa si trovava isolata, a mezza versta dalla fortezza.
Era un lungo edificio a un piano solo, dipinto di giallo.
D'estate, quando avvenivano i lavori di restauro, ci voleva per essa una straordinaria quantità di ocra. Nell'immenso cortile dell'infermeria avevano trovato posto i servizi, le case della direzione sanitaria e altre costruzioni attinenti. Nel corpo principale invece erano disposte solo corsie. Le corsie erano molte, ma quelle dei detenuti due sole, sempre affollatissime, specialmente d'estate, tanto che occorreva spesso accostare i letti. Le nostre corsie si riempivano di ogni sorta di "gente disgraziata". Ci andavano i nostri, ci andavano dei giudicabili militari di vario genere, tenuti in diversi corpi di guardia, condannati, non condannati e deportati a tappe; ci andavano anche dalla compagnia di disciplina: una strana istituzione, dove si spedivano i giovani soldati colpevoli di mancanze e poco fidati, per correggerne la condotta, e di dove, dopo un paio d'anni o più, essi uscivano di solito tali furfanti come di rado se ne incontrano. Da noi i detenuti che cadevano malati denunciavano il loro male, abitualmente al mattino, al sottufficiale. Venivano subito iscritti in un registro e con questo registro inviati sotto la scorta di un soldato al lazzaretto del battaglione. Là un dottore visitava preventivamente tutti i malati dei vari comandi militari distribuiti nella fortezza e mandava all'infermeria quelli che trovava realmente malati. Mi si annotò nel registro e dopo l'una, quando già tutti i nostri si erano avviati dal reclusorio al lavoro pomeridiano, io andai all'infermeria. Il detenuto malato di solito prendeva con sé quanto più poteva di denaro e di pane, perché per quel giorno all'infermeria non poteva aspettarsi alcuna razione, e inoltre la minuscola pipa con la borsa del tabacco, la pietra focaia e l'esca. Questi ultimi oggetti li nascondeva con cura negli stivali. Io entrai nel recinto dell'infermeria non senza una certa curiosità per questa nuova, e a me ancora ignota, variazione del nostro trantran carcerario.
La giornata era tiepida, nuvolosa e triste: una di quelle giornate in cui i luoghi come l'infermeria assumono un aspetto particolarmente indaffarato, uggioso e arcigno. Io e il soldato di scorta entrammo nella sala di visita, dove c'erano due vasche di rame e dove già attendevano due malati, di quelli sotto processo, anch'essi con la scorta. Entrò l'aiuto medico, che ci squadrò pigramente e con aria d'autorità e poi ancora più pigramente andò a riferire al medico di turno. Questi comparve ben presto; ci visitò, ci trattò molto affabilmente e ci consegnò le "cartelle di osservazione", in cui erano stati segnati i nostri nomi. Una più precisa annotazione della malattia, la prescrizione delle medicine, della dieta eccetera, erano riservate a quello degli ordinari che sovrintendeva alle corsie dei detenuti. Già prima avevo sentito che i detenuti non si stancavano di lodare i loro medici. "Non c'è bisogno di padre!", avevano risposto alle mie domande, quando mi avviavo all'infermeria. Intanto ci cambiammo.
Il vestito e la biancheria con cui eravamo venuti ci furono tolti e ci si fece indossare la biancheria dell'infermeria, e inoltre ci diedero delle calze lunghe, delle pantofole, delle berrette da notte e delle gabbanelle di panno spesso, di color bruno, foderate non so se di tela o di una specie di taffetà. In una parola, la gabbanella era sudicia all'estremo, ma io l'apprezzai pienamente solo sul posto. Poi ci condussero nelle corsie dei detenuti, che erano disposte in fondo a un lunghissimo corridoio alto e pulito.
La pulizia esteriore era dappertutto soddisfacentissima; tutto ciò che alla prima balzava agli occhi luccicava addirittura. Del resto poteva sembrarmi che fosse così dopo la vita nel nostro reclusorio. I due giudicabili andarono in una corsia a sinistra, io a destra. Presso la porta, chiusa con un chiavistello di ferro, stava una sentinella col fucile, accanto a lui il suo supplente.
Il sottufficiale più giovane (del picchetto dell'infermeria) ordinò di farmi passare e io mi trovai in una stanza lunga e stretta contro le cui due pareti longitudinali stavano i lettucci, in numero di forse ventidue, dei quali tre o quattro non ancora occupati. I letti erano di legno, dipinti di verde, anche troppo noti a tutti quanti nella nostra Russia: quei medesimi letti che, per non so quale predestinazione, non possono assolutamente essere immuni da cimici. Io presi posto in un angolo, dalla parte delle finestre.
Come ho già detto, qui c'erano anche i nostri detenuti del reclusorio. Alcuni di loro già mi conoscevano o, almeno, mi avevano visto in precedenza. Molti di più erano i giudicabili e quelli della compagnia di disciplina. Di malati gravi, che cioè non si alzassero dal letto, non ce n'erano tanti. Gli altri, malati leggeri o convalescenti, erano seduti sulle brande o camminavano avanti e indietro per la stanza, dove, tra le due file di letti, rimaneva ancora uno spazio sufficiente per passeggiarci.
Nella corsia c'era un odore oltremodo soffocante di ospedale.
L'aria era viziata da varie sgradevoli esalazioni e dall'odore delle medicine, nonostante che per quasi tutto il giorno fosse accesa, in un angolo, la stufa. Sulla mia branda era distesa una sopraccoperta a righe. Io la tolsi via. Sotto di essa trovai una coperta di panno, foderata di tela, e della biancheria pesante di più che dubbia pulitezza. Accanto alla branda stava un tavolino su cui c'erano un tazzone e una ciotola di stagno. Tutto ciò si copriva, per la bella figura, con un piccolo asciugamano che mi era stato consegnato. Nella parte inferiore del tavolino c'era un altro palchetto: là quelli che bevevano il tè tenevano la teiera, il bricco del "kvas" eccetera; ma che bevessero il tè anche fra i malati ce n'erano pochissimi. Le pipe poi e le borse del tabacco, che quasi tutti avevano, non esclusi nemmeno i tisici, si nascondevano sotto le brande. Il dottore e gli altri superiori non le ispezionavano quasi mai, e anche se sorprendevano qualcuno con la pipa, facevano finta di non accorgersene. Del resto anche i malati erano quasi sempre guardinghi e andavano a fumare vicino alla stufa. Forse soltanto di notte fumavano in letto; ma di notte nessuno girava per le corsie, salvo qualche volta l'ufficiale comandante il picchetto dell'infermeria.
Fino a quel giorno non ero mai stato ricoverato in un ospedale; perciò quanto mi circondava era per me assolutamente nuovo. Notai che suscitavo una certa curiosità. Di me avevano già sentito parlare e mi squadravano senza alcuna cerimonia, anzi con una certa sfumatura di superiorità, come nelle scuole si squadra il novellino o nei pubblici uffici il postulante. Alla mia destra giaceva uno scrivano sotto giudizio, figlio illegittimo di un capitano a riposo. Era processato come falso monetario ed era lì già da un anno, non malato affatto, a quanto pareva, ma assicurava ai dottori di avere un aneurisma. Ed egli ottenne lo scopo: i lavori forzati e la punizione corporale lo risparmiarono ed egli, ancora un anno di poi, fu trasferito a T-k, per esservi tenuto non so dove, addetto a un ospedale. Era un giovanotto robusto e tarchiato sui ventott'anni, un gran briccone, pratico delle leggi, niente affatto sciocco, oltremodo disinvolto e presuntuoso, pieno di un amor proprio morboso, che con la massima serietà voleva persuadere se stesso di essere l'uomo più onesto e più giusto del mondo, e perfino di non avere alcuna colpa, e che con questa persuasione rimase poi sempre. Per primo egli attaccò discorso con me, si mise a interrogarmi con curiosità e mi informò abbastanza minutamente del regolamento dell'infermeria. Prima di tutto, s'intende, mi dichiarò che era figlio di un capitano. Aveva una voglia straordinaria di passare per nobile o, almeno, "di buona famiglia". Subito dopo di lui mi si avvicinò un malato della compagnia di disciplina e cominciò ad assicurarmi che aveva conosciuto molti dei nobili deportati in precedenza designandoli con nome e patronimico. Era questo un soldato già grigio; sul viso gli stava scritto che s'inventava tutto questo. Si chiamava Cekunov. Evidentemente cercava di entrarmi in grazia, sospettandomi, credo, danaroso. Avendo notato che avevo un cartoccio di tè e di zucchero, subito mi offrì i suoi servigi:
procurarmi una teiera e farmi il tè. La teiera aveva promesso di mandarmela per il giorno dopo M-tski, dal reclusorio, con qualcuno dei detenuti che venivano all'infermeria a lavorare. Ma Cekunov sbrigò ogni cosa. Trovò una specie di pentolino, perfino una tazza, fece bollire l'acqua, preparò il tè, insomma mi servì con uno zelo straordinario, provocando subito con ciò da parte di uno dei malati alcune velenose canzonature a suo riguardo. Questo malato era un tisico che giaceva di fronte a me, di cognome Ustiantsev, un soldato sotto giudizio, quello stesso che, spaventatosi del castigo, aveva vuotato una mezzetta di acquavite, dopo averci messo in infusione molto tabacco, e con ciò si era buscato la tisi; di lui ho già fatto qualche cenno più sopra. Fino ad ora era rimasto coricato in silenzio, respirando a fatica, osservandomi fissamente con aria seria e seguendo con indignazione le mosse di Cekunov. La straordinaria, biliosa serietà conferiva alla sua indignazione una certa quale sfumatura particolarmente comica. Infine egli non resse più:
- To', il servo! S'è trovato un padrone! - proferì staccando le sillabe e con voce ansimante per la debolezza. Egli era già agli ultimi giorni della sua vita.
Cekunov si voltò verso di lui sdegnato:
- Chi è il servo? - pronunciò guardando sprezzantemente Ustiantsev.
- Sei tu il servo! - rispose l'altro con un tono di tanta sicurezza come se avesse pieno diritto di redarguire Cekunov, anzi gli fosse stato messo al fianco a tale scopo.
- Io servo?
- Proprio tu. Sentite, brava gente, non ci crede! Si meraviglia!
- Ma a te che importa! To', il signore è solo, è come senza mani.
Non è abituato a far senza aiuti, si sa. Perché non servirlo, diavolo di un grugno peloso che sei!
- Chi è un grugno peloso?
- Tu sei un grugno peloso.
- Io un grugno peloso!
- Proprio tu!
- E tu sei bello? Hai una faccia che sembra un uovo di cornacchia... se io sono un grugno peloso.
- Proprio un grugno peloso! Una volta che Dio ti ha colpito, dovresti startene lì a morire! No, vuol ficcare il suo naso! Su via, perché ficchi il tuo naso?
- Perché? Proprio no, piuttosto m'inchinerò a uno stivale, ma non a uno scarpone. Mio padre non ci s'inchinava e anche a me lo proibiva. Io... io...
Voleva già continuare, ma si mise a tossire terribilmente per alcuni minuti sputando sangue. Ben presto il sudore freddo dell'estenuazione spuntò sulla sua fronte stretta. La tosse glielo impediva, se no avrebbe parlato sempre; dai suoi occhi si vedeva che aveva voglia di ingiuriare ancora; ma, impotente, agitava soltanto la mano... Cosicché Cekunov alla fine si dimenticò di lui.
Io avevo sentito che la rabbia del tisico era diretta piuttosto contro di me che contro Cekunov. Per il desiderio di Cekunov di farmi dei servigi, e di procacciarsi con ciò una copeca, nessuno se la sarebbe presa con lui o lo avrebbe guardato con particolare disprezzo. Ognuno capiva che egli così faceva semplicemente per interesse. A questo proposito il popolino non è affatto così schizzinoso e sa distinguere con finezza di che si tratti. A Ustiantsev non ero andato a genio io personalmente, non gli era andato a genio il mio tè e che io, anche incatenato, mi comportassi come un signore, come se non potessi fare a meno di un servitore, pur non avendone chiamato né desiderato alcuno. In realtà, io ho sempre voluto far tutto da me, anzi ho sempre avuto il vivo desiderio di nemmeno avere l'aria d'essere uno scansafatiche, un delicatino, e di voler fare il signore. In questo consisteva perfino in parte il mio amor proprio, poiché la cosa è venuta in discorso. Ma ecco - e io non capisco proprio come sia sempre accaduto così - non ho mai potuto rinunciare a una quantità di persone compiacenti e servizievoli che da sé mi si appiccicavano e finivano con l'impossessarsi totalmente di me, tanto che esse erano poi veramente i miei padroni e io il loro servo; ma in apparenza ne veniva, in certo qual modo di per sé, che io ero un vero signore, facevo il signore e non potevo far senza servitori. Questo naturalmente mi seccava parecchio. Ma Ustiantsev era un tisico, una persona irritabile. Gli altri malati invece conservavano un aspetto indifferente, perfino con una sfumatura di alterigia. Mi ricordo che tutti si interessavano di una speciale circostanza: dai discorsi dei detenuti avevo appreso che quella sera stessa avrebbero condotto da noi un giudicabile che in quel momento si stava punendo con le verghe. I detenuti attendevano il novizio con una certa curiosità. Dicevano del resto che la punizione sarebbe stata leggera: solo cinquecento colpi in tutto.
A poco a poco io mi guardai intorno. Per quanto potei notare, c'erano lì soprattutto dei malati di scorbuto e di oftalmia:
malattie locali di quella regione. Di questi ce n'erano nella corsia parecchi. Fra gli altri, realmente malati, si trovavano dei ricoverati per febbri, varie specie di piaghe, mali di petto. Lì non era come nelle altre corsie, lì erano riunite in un mucchio tutte le malattie, perfino veneree. Ho detto "realmente" malati, perché ce n'erano anche parecchi venuti così, senza malattia alcuna, a "riposare". I dottori ammettevano costoro volentieri per compassione, specialmente quando c'erano molti letti liberi. La detenzione nei corpi di guardia e nel reclusorio pareva così dura, in confronto di quella all'infermeria, che molti detenuti venivano con piacere a mettersi in un letto, nonostante l'aria viziata e la chiusura a catenaccio della corsia. C'erano perfino di quelli a cui piaceva in modo speciale lo star coricati e, in generale, il trantran dell'infermeria; soprattutto, del resto, individui della compagnia di disciplina. Io osservavo con curiosità i miei nuovi compagni, ma ricordo che una particolare curiosità destò allora in me uno del nostro reclusorio, che già era moribondo, anche lui tisico e anche lui ai suoi ultimi giorni, che giaceva nel secondo letto dopo Ustiantsev e che quindi era pure quasi di fronte a me.
Si chiamava Michailov; ancora due settimane prima lo avevo veduto nel carcere. Era malato già da un pezzo e da un pezzo avrebbe dovuto andare a farsi curare; ma egli, con una sorta di caparbia e affatto inutile sopportazione, si dominava, si faceva forza e soltanto durante le feste era venuto all'infermeria, per morirci in tre settimane di una forma spaventosa di tisi: come arso dal fuoco. Mi fece ora impressione il suo viso terribilmente mutato, un viso che avevo notato tra i primi dopo il mio ingresso nel reclusorio; mi era allora come balzato agli occhi. Accanto a lui giaceva un soldato della compagnia di disciplina, un uomo già vecchio, un tremendo e ripugnante sudicione... Ma del resto non posso enumerare tutti i malati... Mi sono ricordato ora anche di questo vecchiotto unicamente perché egli pure mi aveva fatto allora una certa impressione e in un momento mi aveva dato un'idea abbastanza completa di talune particolarità della corsia dei detenuti. Questo vecchierello aveva allora, mi ricordo, un fortissimo raffreddore. Non faceva che starnutire e per una intera settimana poi starnutì anche nel sonno, come a salve, a cinque o sei starnuti per volta, soggiungendo ogni volta regolarmente: "O Signore, che castigo m'è toccato!". In quel momento era seduto sul letto e con avidità si riempiva il naso di tabacco che prendeva da un cartoccio, per poter starnutire con più forza e più regolarità.
Starnutiva in un fazzoletto di cotone, di sua proprietà, a quadretti, lavato cento volte e scolorito all'estremo, nel far che il suo piccolo naso pareva raggrinzirsi in modo speciale, formando minute, innumerevoli grinze, mentre si mettevano in mostra i frammenti dei vecchi denti anneriti, insieme con le rosse e bavose gengive. Finito di starnutire, subito svolgeva il fazzoletto, esaminava attentamente il muco che vi si era copiosamente raccolto e senz'altro se lo passava sulla scura gabbanella governativa, cosicché tutto il muco rimaneva su questa, e il fazzoletto restava appena umidiccio. Così egli fece per tutta una settimana. Questa meticolosa, avara cura del proprio fazzoletto a danno della gabbanella governativa non provocava alcuna protesta da parte dei malati, anche se a qualcuno di loro doveva poi toccare d'infilare quella stessa gabbanella. Ma il nostro popolino non è schizzinoso né schifiltoso, e ciò fino alla stranezza. Io invece mi sentii in quel momento addirittura sconvolto e cominciai subito involontariamente a esaminare con disgusto e curiosità la gabbanella che avevo poco prima indossato. A questo punto notai che essa già da un bel po' aveva destato la mia attenzione per il suo greve odore; già aveva avuto il tempo di riscaldarmisi addosso e mandava un puzzo sempre più forte di medicine, di impiastri e, come mi pareva, di non so qual putridume, il che non faceva meraviglia, dato che da tempo immemorabile non abbandonava le spalle dei malati. Forse la sua fodera di tela sul dorso era stata qualche volta lavata, ma di sicuro non lo so. In cambio questa fodera era presentemente imbevuta di ogni possibile sgradito umore, di fomente, di acqua scolata dai vescicanti incisi, e via dicendo. Inoltre nelle corsie dei detenuti ne comparivano molto spesso di quelli puniti con le verghe, col dorso tutto piagato; venivano curati con fomente, e perciò la gabbanella, indossata direttamente sulla camicia bagnata, non poteva assolutamente non deteriorarsi: a tal punto ogni cosa vi si depositava sopra. E durante tutto il tempo da me passato al reclusorio, in tutti quei vari anni, appena mi accadeva di andare all'infermeria (e ci andavo piuttosto spesso), indossavo ogni volta la gabbanella con timorosa diffidenza. In particolar modo poi non mi piacevano i pidocchi, grandi e notevolmente grassi, che a volte si incontravano in quelle gabbanelle. I detenuti li giustiziavano con voluttà, tanto che, quando sotto la spessa e sformata unghia del detenuto si udiva lo schiocco della bestia giustiziata, perfino dal viso del cacciatore si poteva giudicare del grado di piacere da lui provato. Erano molto odiate da noi anche le cimici e accadeva pure che a volte, in qualche lunga, noiosa serata invernale, tutta la camerata si levasse a sterminarle. Sebbene nella corsia, a parte l'odore greve, tutto fosse esteriormente pulito quanto era possibile, tuttavia di interna, per così dire, sottostante pulizia da noi non si faceva scialo. I malati c'erano avvezzi e stimavano perfino che così dovesse essere, e poi anche le norme in vigore non favorivano una particolare pulizia. Ma delle norme dirò poi...
Appena Cekunov mi ebbe pòrto il tè (fatto, sia detto di passata, con l'acqua della corsia, che si portava in una volta per tutte le ventiquattr'ore e si guastava, nell'aria della camerata, con una certa eccessiva rapidità), si aprì con un po' di rumore la porta e fu introdotto sotto doppia scorta il soldatino punito poc'anzi con le verghe. Era la prima volta che io vedevo qualcuno dopo il castigo. In seguito ne condussero spesso, taluni anche portandoli (troppo grave era stata la punizione), e ogni volta ciò procurava un grande svago ai malati. Da noi si accoglievano costoro, di solito, con un'espressione di particolare severità sui visi e perfino con una serietà un po' sforzata. L'accoglienza del resto dipendeva in parte anche dal grado d'importanza del delitto, e per conseguenza dalla misura del castigo. Un individuo gravemente fustigato e, per fama, un gran delinquente, godeva di maggior rispetto e di maggiore attenzione d'una qualche recluta che aveva disertato, come quella, per esempio, che ora avevano condotto. Ma nell'uno come nell'altro caso non si udivano né particolari espressioni di compatimento, né osservazioni particolarmente irritate di qualsiasi genere. In silenzio si aiutava il disgraziato e lo si assisteva, specialmente se non poteva fare senza aiuto. Gli infermieri stessi già sapevano di consegnare il fustigato a mani esperte e abili. L'aiuto consisteva di solito nel frequente e indispensabile cambio del lenzuolo o della camicia inzuppata di acqua fredda, in cui si avvolgeva la schiena straziata, specialmente se il punito stesso non era più in grado di far da sé, e inoltre nell'accorta estrazione dalle piaghe delle schegge spesso lasciate nella schiena dai bastoni che su di essa si erano rotti. Quest'ultima operazione suol essere molto sgradita al paziente. Ma in generale mi ha sempre riempito di meraviglia la straordinaria resistenza dei puniti al dolore. Io ne ho veduti tantissimi, a volte anche troppo fustigati, e quasi nessuno che gemesse! Solo il viso sembra mutarsi tutto, si sbianca; gli occhi ardono; lo sguardo è distratto, inquieto; le labbra tremano, tanto che il poveraccio apposta se le morde a volte coi denti quasi fino a sangue. Il soldatino che era entrato era un giovane di forse ventitré anni, di solida e muscolosa corporatura, bello di viso, alto, snello, di carnagione bruna. Il suo dorso però era stato passabilmente lardellato di colpi. Tutto il suo corpo fu denudato nella parte superiore fino alla cintola; sulle spalle gli fu gettato un lenzuolo bagnato, che lo faceva tremare in tutte le membra come per febbre, e per un'ora e mezzo egli camminò su e giù per la corsia. Io gettavo delle occhiate al suo viso: pareva che in quel momento non pensasse a nulla, guardava in modo strano e selvaggio, con uno sguardo sfuggente, a cui era visibilmente penoso soffermarsi su qualche cosa con attenzione. A me parve che avesse guardato fissamente il mio tè. Il tè era bollente; il vapore saliva dalla tazza, e il poveretto era intirizzito e tremava battendo i denti. Lo invitai a berne. Egli si voltò in silenzio e bruscamente, prese la tazza e bevve il tè stando in piedi, e senza zucchero, nel far che si affrettava molto e pareva facesse sforzi speciali per non guardarmi. Bevuto tutto, depose in silenzio la tazza, poi, senza nemmeno farmi un cenno col capo, si rimise a passeggiare avanti e indietro per la corsia. Ma egli aveva ben altra voglia che di parlare e far cenni! Per quanto poi riguarda i detenuti, essi tutti da principio sfuggirono, chi sa perché, qualsiasi conversazione col soldatino punito; anzi, dopo averlo dapprima aiutato, pareva che si sforzassero poi di non rivolgergli più alcuna attenzione, forse per il desiderio di lasciarlo in pace il più possibile e non seccarlo con maggiori domande e "interessamenti" di alcun genere, del che egli pareva pienamente soddisfatto.
Intanto imbruniva, e fu acceso il lumino. Apparve che alcuni dei detenuti, pochissimi del resto, avevano perfino dei candelieri propri. Infine, già dopo la visita serale del dottore, entrò il sottufficiale di guardia, che contò i malati, e la corsia fu chiusa a chiave, dopo che si era portato dentro il bigoncio notturno... Io appresi con meraviglia che questo bigoncio sarebbe rimasto lì tutta la notte, mentre una vera latrina si trovava lì vicino nel corridoio, a due passi appena dalla porta. Ma tale ormai era la regola invalsa. Di giorno si lasciava ancora uscire il detenuto dalla corsia, non più che per un minuto del resto: di notte invece per nessuna ragione. Le corsie dei detenuti non somigliavano a quelle ordinarie e il detenuto ammalato anche durante la malattia scontava la sua pena. Da chi in origine fosse stato introdotto un tale ordinamento non so; so soltanto che di ordine vero lì non ce n'era per niente e che mai tutta l'inutilità del formalismo si espresse maggiormente che in questo caso, per esempio. Tale regola non emanava, ben s'intende, dai dottori. Lo ripeto: i detenuti non si stancavano di lodare i loro medici, li tenevano in conto di padri, li rispettavano. Ognuno riceveva da loro un trattamento gentile, una buona parola; e il detenuto, ripudiato da tutti, apprezzava ciò, perché scorgeva la naturalezza e la sincerità di quella buona parola e di quelle gentilezze. Esse potevano anche non esserci; nessuno le avrebbe pretese dai medici, se avessero trattato altrimenti, cioè in modo più ruvido e meno umano: di conseguenza, essi erano buoni per un vero sentimento di umanità. E naturalmente capivano che, per il malato, chiunque egli fosse, un detenuto o no, era necessaria l'aria pura come per ogni altro malato, fosse pure della più umile condizione. I malati delle altre corsie, i convalescenti, per esempio, potevano liberamente passeggiare per i corridoi, fare maggior moto, respirare un'aria meno avvelenata di quella delle corsie, viziata e sempre inevitabilmente satura di mefitiche esalazioni. Ora è terribile e disgustoso immaginarsi fino a che punto doveva ammorbarsi da noi quell'aria, pure già abbastanza ammorbata, durante la notte, quando si portava dentro quel bigoncio, data l'alta temperatura della corsia e date certe malattie in cui è inevitabile l'andar di corpo. Se ho detto ora che il detenuto, anche malato, scontava la sua pena, non intendevo dire, naturalmente, e non intendo dire che una simile norma fosse stata istituita appunto e soltanto a scopo di punizione. Sarebbe questa, va da sé, un'insensata calunnia da parte mia. Non era più il caso di punire dei malati. Ma se è così, è ovvio che probabilmente una qualche rigorosa, dura necessità costringeva i superiori a un tale provvedimento, le cui conseguenze erano nocive. Quale dunque? Ma questo appunto è irritante, che in nessuna maniera si può spiegare, anche solo un tantino, la necessità di questo provvedimento, e inoltre di numerosi altri, a tal punto incomprensibili che non soltanto non si possono spiegare, ma nemmeno si può intuirne la spiegazione. Come spiegare questa inutile crudeltà? Dicendo, vedete un po', che il detenuto può capitare nell'infermeria dopo essersi a bella posta finto malato, e ingannare i dottori, uscire di notte per andare al cesso e, approfittando dell'oscurità, fuggire? Dimostrare seriamente tutta l'inconsistenza di un simile ragionamento è quasi impossibile.
Dove fuggire? Come fuggire? Con quali panni indosso fuggire? Di giorno li fanno uscire uno alla volta; così si potrebbe fare anche di notte. Alla porta sta la sentinella col fucile carico. La latrina è letteralmente a due passi dalla sentinella, ma, ciò nonostante, lo accompagnerebbe là il supplente e non gli leverebbe gli occhi di dosso per tutto quel tempo. Là non c'è che una finestra, con doppia intelaiatura all'uso invernale e con inferriata. Sotto la finestra poi, in cortile, proprio davanti alle finestre delle corsie dei detenuti, passeggia pure tutta la notte una sentinella. Per uscire dalla finestra, è necessario scardinarne la intelaiatura e l'inferriata. Chi mai lo permetterà?
Ma, supponiamo, il detenuto ammazza preliminarmente il supplente, in modo tale che questi non ha il tempo di fiatare e nessuno ode nulla. Ma, anche ammessa questa assurdità, bisogna pur sempre schiantare la finestra e l'inferriata. Notate che lì, accanto alla sentinella, dormono i guardiani della corsia e a dieci passi, presso un'altra corsia di detenuti, sta un'altra sentinella col fucile, e accanto a lui un altro supplente e altri guardiani. E dove correre d'inverno in calze e pantofole, con la gabbanella del malato e la berretta da notte? E se è così, se così poco è il pericolo (cioè, a dire il vero, proprio nessuno), a che scopo questo serio aggravio a danno di malati che sono forse alle ultime ore della loro vita, di malati per i quali l'aria pura è ancora più necessaria che per i sani? A che scopo? Io non ho mai potuto capire questo...
Ma una volta che si è domandato "a che scopo?", e la cosa è ormai venuta in discorso, non posso non ricordarmi ora anche di un altro dubbio che per tanti anni mi stette dinanzi come il più enigmatico dei fatti e al quale pure non ho mai potuto trovare una risposta.
E non posso non dire a questo riguardo almeno poche parole, prima di riprendere la mia descrizione. Parlo dei ferri ai piedi, da cui nessuna malattia dispensa il condannato ai lavori forzati. Perfino i tisici morivano in catene sotto i miei occhi. E nondimeno tutti ci si erano abituati, tutti consideravano ciò come qualcosa di definitivo e di ineluttabile. Anzi è ben difficile che mai qualcuno ci abbia riflettuto, quando perfino fra i dottori a nessuno mai era venuto in mente, in tutti quegli anni, di interessarsi almeno una volta presso i superiori, perché fossero tolti i ferri a un detenuto gravemente malato, specie se di tisi.
Mettiamo pure che i ferri non siano di per sé Dio sa quale carico.
Essi pesano di solito dalle otto alle dodici libbre. Portare dieci libbre per un uomo sano non è faticoso. Mi dicevano però che, per effetto dei ferri ai piedi, dopo alcuni anni le gambe incominciano come a risecchire. Non so se questo sia vero, benché per altro la cosa abbia una certa verosimiglianza. Un peso anche piccolo, anche solo di dieci libbre, attaccato in perpetuo alla gamba, aumenta pur sempre in modo anormale il peso dell'arto e dopo lungo tempo può esercitare una certa azione dannosa... Ma poniamo che per un sano ciò non sia nulla. E' così per un malato? Poniamo che anche per un malato ordinario non sia nulla. Ma sarà così, ripeto, per i malati gravi, sarà così, ripeto, per i tisici, ai quali, anche a parte ciò, già seccano le braccia e le gambe, tanto che ogni pagliuzza per loro diventa pesante? E in verità, se la direzione medica ottenesse un alleviamento anche solo per i tisici, già questo soltanto sarebbe un vero e grande beneficio. Qualcuno dirà, supponiamo, che il detenuto è un malfattore e indegno di benefici; ma si ha forse da raddoppiare il castigo a chi è già stato così colpito dal dito di Dio? E poi è impossibile credere che questo si faccia solo per castigo. Il tisico anche legalmente va immune dalla punizione corporale. Di conseguenza, dev'esserci qui racchiusa pur sempre una qualche arcana, importante norma a scopo di salutare precauzione. Ma quale? E' impossibile capirlo. Infatti non si può mica temere che il tisico fugga. A chi potrebbe venire in testa una cosa simile, specialmente ove si prenda in considerazione una certa fase della malattia? E fingersi tisico, ingannare i medici, per poi fuggire, non è possibile. La malattia non si presta; la si riconosce a prima vista. E poi, a proposito:
forse che si mettono a un uomo i ferri ai piedi solo perché non fugga o perché ciò gli impedisca di correre? Niente affatto. I ferri non sono altro che un ludibrio, una vergogna e un peso, fisico e morale. Così almeno si presuppone. Essi non potranno mai impedire ad alcuno di fuggire. Il più inesperto, il meno abile dei detenuti saprà ben presto, senza grande fatica, segarli o farne saltare la ribaditura con un sasso. I ferri ai piedi non preservano proprio da nulla; e se è così, se essi sono inflitti al condannato ai lavori forzati unicamente per punizione, torno a domandare: possibile che si punisca un moribondo?
Ed ecco che ora, mentre scrivo questo, mi si presenta vivamente alla memoria un moribondo, un tisico, quello stesso Michailov che era coricato quasi dirimpetto a me, non lontano da Ustiantsev, e che morì, mi ricordo, il quarto giorno dal mio arrivo in corsia.
Forse mi sono messo ora a parlare dei tisici rivivendo involontariamente le impressioni e i pensieri che allora mi vennero in mente a proposito di questa morte. Michailov del resto io lo conoscevo ben poco. Era un uomo ancora giovanissimo, non più che venticinquenne, alto, esile e di aspetto oltremodo grazioso.
Viveva nella sezione speciale ed era taciturno fino alla stranezza, sempre in preda a una certa quale silenziosa, calma malinconia. Nel reclusorio pareva che "risecchisse". Così almeno si esprimevano poi sul suo conto i detenuti, fra i quali aveva lasciato buon ricordo di sé. Rammento solo che aveva bellissimi occhi e non so davvero perché egli mi risovvenga così nitidamente.
Morì circa alle tre del pomeriggio in una giornata gelida e limpida. Ricordo che il sole penetrava coi suoi forti raggi obliqui dalle finestre della nostra corsia attraverso i vetri verdognoli leggermente gelati. Tutto un fascio di quei raggi si riversava sul disgraziato. Egli morì fuori di conoscenza e agonizzò penosamente e a lungo, per alcune ore di seguito. Fin dal mattino i suoi occhi avevano cominciato a non più riconoscere chi gli si avvicinava. Si voleva in qualche modo dargli sollievo vedendo che era gravissimo; respirava a stento, profondamente, col rantolo; il suo petto si sollevava molto, come se gli mancasse l'aria. Aveva respinto da sé la coperta, tutti gli indumenti e infine aveva cominciato a strapparsi la camicia. Era spaventoso vedere quel corpo lungo lungo, dalle gambe e braccia scarnite fino all'osso, dal ventre infossato, dal petto sollevato, con le costole che si disegnavano nettamente, come in uno scheletro.
Sull'intero suo corpo non era rimasto altro che una crocetta di legno con un amuleto e i ferri, attraverso i quali pareva che avrebbe ora potuto far passare la gamba risecchita. Mezz'ora prima della sua morte, da noi tutti parvero quietarsi e presero a discorrere quasi bisbigliando. Chi andava su e giù camminava senza far rumore. Tra loro facevano pochi discorsi, su cose estranee, lanciando solo a tratti delle occhiate al morente che rantolava sempre di più. Infine, con mano errante e malferma, egli si tastò l'amuleto sul petto e prese a strapparselo via, come se anche quello gli fosse di peso, gli desse fastidio, l'opprimesse. Gli tolsero anche l'amuleto. Dopo una decina di minuti morì. Bussarono alla porta per chiamare il soldato di guardia, lo informarono.
Entrò un custode che guardò con aria ottusa il cadavere e andò dall'aiuto medico. L'aiuto medico, un giovane e buon ragazzo, un po' troppo intento al proprio esteriore, che era del resto abbastanza felice, comparve subito; a passi rapidi, camminando con rumore per la corsia fattasi silenziosa, si avvicinò al defunto e con una cert'aria particolarmente disinvolta, che pareva escogitata per l'occasione, gli prese il polso, lo tastò, fece un gesto con la mano e uscì. Tosto andarono ad avvertire il picchetto di guardia: il delinquente era di quelli importanti, della sezione speciale; anche per riconoscerlo come morto erano necessarie particolari cerimonie. In attesa degli uomini di guardia, qualcuno dei detenuti espresse a bassa voce l'idea che non sarebbe stato male chiudere gli occhi al defunto. Un altro lo ascoltò attentamente, poi si avvicinò in silenzio al morto e gli chiuse gli occhi. Avendo scorto la croce, che era posata lì sul guanciale, la prese, la osservò e, senza parlare, la rimise al collo di Michailov; gliela rimise e si segnò. Intanto il viso del morto s'irrigidiva; un raggio di sole giocava su quel viso; la bocca era semiaperta; due file di bianchi denti giovanili luccicavano di sotto alle labbra esili, appiccicate alle gengive.
Finalmente entrò il sottufficiale di picchetto con daga e casco, dietro di lui erano due guardiani. Egli si avvicinava rallentando sempre più i passi, gettando occhiate perplesse ai detenuti ammutoliti che lo guardavano con aria severa da tutte le parti.
Arrivato a un passo dal morto, si arrestò come inchiodato, quasi intimidito. Il cadavere interamente denudato, risecchito, coi soli ferri indosso, gli aveva fatto senso, ed egli tutt'a un tratto si sfibbiò il soggolo, si tolse il casco, cosa che non occorreva affatto, e si fece un ampio segno di croce. Aveva una faccia severa, una testa grigia, da vecchio soldato. Mi ricordo che in quello stesso istante era lì in piedi Cekunov, anche lui un vecchio brizzolato. Per tutto quel tempo egli guardò in silenzio e fissamente il viso del sottufficiale, proprio a bruciapelo, osservando con una certa strana attenzione ogni suo gesto. Ma i loro occhi s'incontrarono e a Cekunov improvvisamente, chi sa perché, tremò il labbro inferiore. Egli lo storse in un certo modo strano, scoprì i denti e rapidamente, come facendo all'impensata un cenno col capo al sottufficiale in direzione del morto, disse:
- Aveva anche lui una madre! - e si allontanò.
Ricordo che queste parole parvero trafiggermi... E a che scopo egli le aveva pronunciate, e come gli erano venute in mente? Ma ecco che presero a sollevare il cadavere, lo sollevarono insieme con la branda; la paglia frusciò, i ferri risonarono fortemente, in mezzo al silenzio generale, battendo sul pavimento... Li tirarono su. Il corpo fu portato via. A un tratto tutti si misero a parlare ad alta voce. Si udì il sottufficiale, già nel corridoio, mandare qualcuno in cerca di un fabbro. Bisognava levare i ferri al morto.
Ma io mi sono scostato dall'argomento...
I dottori facevano il giro delle corsie al mattino; verso le undici comparivano da noi tutti insieme, accompagnando il dottore- capo, e prima di loro, un'ora e mezzo prima, visitava la corsia il nostro medico interno. A quel tempo era interno da noi un medico giovane, che sapeva il fatto suo, gentile, affabile, a cui i detenuti volevano molto bene e nel quale trovavano un solo difetto: "E' un po' troppo cheto". Infatti era poco loquace, pareva perfino che si confondesse davanti a noi, per poco non arrossiva, cambiava la razione quasi alla prima preghiera dei malati e sembrava anzi disposto a prescrivere anche le medicine a loro richiesta. Del resto era un giovane eccellente. Bisogna riconoscere che molti medici in Russia godono l'amore e la stima del popolo semplice, ed è questa, per quanto ho notato, pura verità. So che le mie parole sembreranno un paradosso specialmente ove si consideri l'universale diffidenza di tutto il popolino russo verso la medicina e verso i medicamenti stranieri. Infatti l'uomo del popolo si farà curare per più anni di seguito, soffrendo della più penosa malattia, dall'empirica o si curerà coi suoi rimedi casalinghi e popolari (che non bisogna affatto disprezzare), piuttosto di andare dal medico o di entrare in un ospedale. Ma, oltre all'esserci qui una circostanza sommamente importante, che non ha niente da fare con la medicina, e precisamente l'universale diffidenza del popolino verso tutto ciò che reca l'impronta del formalismo amministrativo, oltre a questo il popolo è impressionato e prevenuto contro i pubblici ospedali da varie paure e dicerie, non di rado assurde, ma a volte non prive di fondamento. Ma soprattutto lo spaventano la disciplina tedesca dell'ospedale, la gente estranea che gli sta intorno in tutto il corso della malattia, il rigore per quanto riguarda il vitto, i racconti circa l'esigente severità degli infermieri e dei medici, circa il sezionamento e lo sventramento dei cadaveri e così via. Per giunta, così ragiona il popolo, saranno dei signori a curarlo, perché i medici sono pur sempre signori. Ma, con una maggiore conoscenza dei medici (sia pure non senza eccezioni, ma per la massima parte), tutte queste paure si dissipano assai rapidamente, il che, secondo la mia opinione, va senz'altro a onore dei nostri dottori, soprattutto di quelli giovani. La maggior parte di loro sanno meritarsi la stima e perfino l'amore del popolino. Per lo meno, io scrivo di ciò che ho veduto e provato io stesso, più di una volta e in molti luoghi, e non ho motivo di credere che negli altri luoghi si procedesse troppo spesso altrimenti. Certo, in qualche cantuccio sperduto i medici prendono sbruffi, sfruttano fortemente i propri ospedali, quasi trascurano i malati e dimenticano perfino del tutto la medicina.
Tutto ciò esiste ancora, ma io parlo della maggioranza o, per meglio dire, di quello spirito, di quell'indirizzo che va ora, ai giorni nostri, traducendosi in atto nella medicina. Quegli altri poi, gli apostati della causa, i lupi in mezzo alla greggia, qualunque cosa portino a loro giustificazione, in qualunque modo si discolpino, per esempio, anche invocando l'ambiente, che ha guastato essi pure a sua volta, avranno sempre torto, specialmente se in pari tempo hanno perduto anche l'amor del prossimo. Ora, l'amor del prossimo, l'affabilità, la compassione fraterna per il malato gli sono a volte più necessarie di tutte le medicine.
Sarebbe tempo che smettessimo di lagnarci apaticamente dell'ambiente dicendo che ci ha guastati. Sarà vero, mettiamo, che esso guasta molte cose in noi, non tutto però, e spesso qualche furbo e navigato briccone molto abilmente copre e giustifica con l'influenza di questo ambiente non soltanto la propria debolezza, ma non di rado anche una vera bassezza, specialmente se sa parlare o scrivere bene. Del resto io mi sono di nuovo sviato dal tema; volevo dire soltanto che il popolo semplice è diffidente e ostile più verso l'amministrazione sanitaria che verso i medici. Dopo aver conosciuto come essi siano in realtà, abbandona rapidamente molte delle sue prevenzioni. In quanto al restante assetto dei nostri ospedali, esso non corrisponde finora in molte cose, allo spirito del popolo, è finora ostile coi suoi ordinamenti alle abitudini del nostro popolino e non è in grado di acquistarne la piena fiducia e il rispetto. Così mi pare, almeno, in base ad alcune mie personali impressioni.
Il nostro interno si fermava di solito davanti a ciascun malato, lo esaminava seriamente e con estrema attenzione, gli faceva domande, prescriveva le medicine e la dieta. A volte si accorgeva egli stesso che il malato non era affatto tale; ma, poiché il detenuto era venuto per riposarsi dal lavoro o starsene un po' di tempo su un materasso, anzi che su nude assi, e, dopo tutto, pur sempre in una stanza riscaldata, e non in un umido corpo di guardia dove si tengono stipati folti mucchi di pallidi e macilenti giudicabili (i giudicabili sono da noi quasi sempre, in tutta la Russia, pallidi e macilenti: segno che il loro trattamento e il loro stato psichico sono quasi sempre peggiori di quelli dei condannati), il nostro interno tranquillamente attribuiva loro una qualsiasi "febris catharalis" e li lasciava a letto a volte anche per una settimana. Di questa "febris catharalis" da noi tutti ridevano. Sapevano benissimo che era quella una formula invalsa da noi, per una specie di mutuo consenso tra dottore e malato, per indicare una finta malattia:
"coliche di riserva", come traducevano i detenuti stessi la "febris catharalis". A volte il malato abusava del buon cuore del medico e continuava a stare a letto fino a che non lo scacciavano con la forza. Allora bisognava vedere il nostro interno: egli pareva intimidito, come vergognoso di invitare francamente il malato a guarire e a chiedere di essere dimesso al più presto, benché avesse pieno diritto di dimetterlo puramente e semplicemente, senza discorso né fervorino alcuno, scrivendo sul foglio di osservazione: "sanat est". Dapprima gli accennava la cosa, poi aveva l'aria di pregarlo: "Non sarebbe ora? Ormai sei quasi ristabilito, la corsia è strapiena", eccetera, fino a che il malato stesso si vergognava e chiedeva da sé, finalmente, di esser mandato via. Il dottore anziano, pur essendo una persona umanitaria e onesta (i malati gli volevano pure un gran bene), era senza confronto più ruvido, più risoluto dell'interno, anzi all'occasione dava prova di rigida severità, e per questo da noi si aveva di lui come uno speciale rispetto. Egli compariva, accompagnato da tutti i medici dell'infermeria, dopo l'interno, e anche lui li visitava tutti uno per uno, soffermandosi specialmente sui malati gravi, sapeva sempre dir loro una parola buona, incoraggiante, spesso anche cordiale, e in generale faceva ottima impressione. Quelli che venivano con le "coliche di riserva" non li respingeva mai, non li rimandava indietro; ma, se il malato faceva il caparbio, lo dimetteva puramente e semplicemente: "Be', che vuoi, amico, sei stato a letto abbastanza, ti sei riposato, vattene, bisogna conoscere la discrezione". Facevano i caparbi di solito o gli scansafatiche, specialmente nel periodo estivo, di maggior lavoro, o degli imputati che si attendevano la punizione. Mi ricordo che con uno di costoro fu usata una particolare severità, anzi crudeltà, per indurlo a farsi dimettere. Era venuto con un'oftalmia: aveva gli occhi rossi, si lagnava di acuti, lancinanti dolori agli occhi.
Presero a curarlo con vescicanti, sanguisughe, spruzzature di un certo liquido caustico eccetera, ma la malattia nondimeno non passava, gli occhi non si detergevano. A poco a poco i dottori indovinarono che la malattia era simulata: l'infiammazione era costantemente leggera, non peggiorava, e nemmeno guariva, era stazionaria. Era un caso sospetto. Tutti i detenuti già sapevano da un pezzo che egli fingeva e ingannava il prossimo, sebbene non lo confessasse. Era un ragazzo giovane, bello perfino, ma che produceva su noi tutti una certa quale impressione sgradita:
soppiattone, diffidente, accigliato, non parlava con alcuno, guardava di sotto in su, faceva il misterioso con tutti, come se di tutti diffidasse. Ricordo che a certuni veniva perfino in mente che potesse farne qualcuna. Era soldato, aveva commesso un grosso furto, la sua colpa era stata provata e gli toccavano mille colpi di bastone e l'invio alle compagnie di detenuti. Per allontanare il momento del castigo, come ho già accennato in precedenza, l'imputato si risolve talvolta a terribili scatti: piglia a coltellate, alla vigilia della punizione, qualcuno dei superiori, o uno dei suoi compagni detenuti; lo processano così daccapo e il castigo viene differito ancora di un paio di mesi e il suo scopo è raggiunto. A lui non importa se tra due mesi lo puniranno due o tre volte più severamente; purché possa ora allontanare il minaccioso momento non fosse che di pochi giorni e poi sia quel che vuole: a tal punto è forte a volte la depressione di spirito che assale questi disgraziati. Da noi taluni già bisbigliavano tra loro che bisognava stare in guardia da lui: magari avrebbe scannato qualcuno di notte. Del resto parlavano soltanto così, ma non prendevano alcuna speciale precauzione, nemmeno quelli le cui brande si trovavano accanto alla sua. Vedevano bensì che egli di notte si fregava gli occhi con la calcina dell'intonaco e con qualche altra, cosa, perché al mattino fossero nuovamente rossi.
Infine il dottore capo minacciò di applicargli il setone. In una malattia d'occhi ostinata, che dura da lungo tempo, e quando già tutti i mezzi della medicina sono stati tentati per salvare la vista, i dottori si inducono a usare un mezzo energico e tormentoso: applicano al malato il setone, come a un cavallo. Ma il poveraccio anche a questo punto non acconsentì a guarire. Che caparbio carattere era mai il suo, o troppo pauroso! Il setone infatti era anch'esso un grave tormento, anche se meno dei bastoni! Si stringe con la mano la pelle del malato sul collo, di dietro, quanta se ne può afferrare, e in tutta la carne così afferrata si introduce un coltello producendo in tal modo una larga e lunga ferita su tutta la nuca, poi si fa passare per questa ferita una fettuccia di tela, abbastanza larga, quasi un dito; dopo di che ogni giorno, a ora fissa, si tira su e giù questa fettuccia entro la ferita, in modo, per dir così, da riaprirla daccapo, affinché questa continui a suppurare e non si rimargini. Il poveraccio tuttavia sopportò, soffrendo terribilmente, anche questa tortura per alcuni giorni, alla fine dei quali soltanto acconsentì a farsi mandar via. I suoi occhi risanarono del tutto in un solo giorno e, appena il suo collo si fu cicatrizzato, egli si avviò al corpo di guardia, per andare daccapo il giorno dopo a ricevere le mille bastonate.
Naturalmente il momento che precede il castigo è penoso, è penoso al punto che forse io faccio peccato chiamando questa paura pusillanimità e viltà. Dev'essere una cosa ben penosa, se ci si sottomette a un doppio, triplice castigo, purché essa non avvenga subito. Io ho accennato del resto anche a quelli che da sé chiedevano di venir dimessi al più presto, con la schiena non ancora guarita dopo la prima bastonatura, per ricevere il resto dei colpi e cessare definitivamente di esser sotto processo; e la detenzione in attesa di giudizio, nei corpi di guardia, è naturalmente per tutti senza confronto peggiore dei lavori forzati. Ma, oltre la differenza dei temperamenti, nella risolutezza e nell'intrepidità di taluni rappresenta una gran parte la radicata abitudine alle percosse e alle punizioni. Chi è stato battuto molte volte si fortifica nello spirito e nel dorso e alla fine considera il castigo con scetticismo, quasi come un piccolo inconveniente, e più non lo teme. Un nostro giovane detenuto della sezione speciale, un calmucco battezzato, Aleksàndr, o Aleksandra, come da noi lo chiamavano, uno strano ragazzo bricconcello, impavido e al tempo stesso molto bonario, mi raccontava come avesse ricevuto i suoi quattromila colpi, me lo raccontava ridendo e celiando; ma intanto giurava con la massima serietà che, se fin dall'infanzia, fin dalla sua prima e più tenera infanzia non fosse cresciuto sotto la frusta, riportandone delle cicatrici che, durante tutta la sua vita, letteralmente, in seno alla propria orda, non avevano mai abbandonato la sua schiena, per nulla al mondo egli avrebbe potuto sopportare quei quattromila colpi. Raccontandomi ciò, aveva l'aria di benedire quell'educazione a suon di frusta. - Mi hanno sempre battuto, Aleksàndr Petrovic', - mi diceva una volta, seduto sulla mia branda, verso sera, prima che si accendessero i lumi, - per ogni e qualunque motivo, a ragione o a torto, mi hanno battuto un quindici anni di seguito, proprio fin da quando incominciai a ricordare, più volte ogni giorno; non mi batteva solo chi non voleva battermi, cosicché io finii coll'abituarmici del tutto. - Come fosse capitato fra i soldati non so, del resto non ricordo, me l'aveva fors'anche raccontato, era stato un perpetuo disertore e vagabondo. Ricordo soltanto il suo racconto a proposito della tremenda paura venutagli, quando lo avevano condannato ai quattromila colpi per aver ucciso un superiore. - Io sapevo che mi avrebbero castigato severamente e che forse non mi avrebbero lasciato uscir vivo di sotto i bastoni, e benché fossi abituato alle fruste, tuttavia quattromila bastonate non sono uno scherzo!
E per giunta tutti i superiori erano sulle furie! Io sapevo, sapevo di sicuro che la cosa non sarebbe andata liscia, che non sarei uscito vivo, non mi avrebbero lasciato uscire vivo di sotto i bastoni. Dapprima provai a farmi battezzare, pensando che forse mi avrebbero perdonato, e sebbene i miei mi dicessero allora che non sarei riuscito a nulla, che non mi avrebbero perdonato, tuttavia pensavo: proverò lo stesso, avranno sempre più compassione di un battezzato. Mi battezzarono infatti e, nel santo battesimo, mi misero nome Aleksàndr; be', i bastoni tuttavia rimasero bastoni; me ne avessero condonato almeno uno; mi sentii perfino offeso. E io pensavo tra me: aspettate un momento, vi infinocchio tutti davvero. E che cosa credereste, Aleksàndr Petrovic'? Ii infinocchiai ! Io sapevo magnificamente fare il morto, cioè non proprio il morto, ma in modo da far credere che da un istante all'altro l'anima dovesse uscirmi di corpo. Mi condussero; me ne danno un migliaio: mi sento bruciare, grido; me ne danno un altro migliaio: be', ora è la mia fine, mi sento proprio impazzire; le gambe mi si piegano, stramazzo a terra: i miei occhi sono diventati quelli di un morto, ho la faccia livida, non respiro più, ho la schiuma alla bocca. S'avvicinò il medico:- Morirà subito, - dice. Mi portarono all'infermeria e mi riebbi immediatamente. Così mi condussero poi fuori ancora due volte, ed erano rabbiosi, erano molto rabbiosi contro di me, ma io li infinocchiai ancora due volte; ricevetti soltanto il terzo migliaio, poi feci il morto, e quando arrivò il quarto, ogni colpo era come una coltellata al cuore, ogni colpo valeva per tre, tanto battevano forte! Si accanirono contro di me. Proprio quel maledetto ultimo migliaio (che lo possano!...) valeva i tre primi insieme, e se non avessi fatto il morto prima della fine (rimanevano solo un duecento bastonate in tutto), mi avrebbero finito proprio allora; be', ma anch'io non mi lasciai far torto:
li infinocchiai di nuovo e di nuovo feci il morto; ci credettero ancora, e come non credere, quando ci credeva il medico ?
Cosicché, sebbene poi quegli ultimi duecento colpi me li dessero con tutta la loro rabbia, in tal modo che in un altro momento duemila sarebbero stati più leggeri, tuttavia, cuccu!, non mi finirono, e perché non mi finirono? Tutto perché fin da bambino ero cresciuto sotto la frusta. E per questo sono vivo ancora oggi.
Oh, quanto, quanto mi hanno battuto in vita mia! - egli soggiunse alla fine del racconto, come in una triste perplessità, come sforzandosi di ricordare e ricontare quante volte lo avessero battuto. - Ma no, - soggiunse rompendo il momentaneo silenzio, - le volte che fui battuto non si possono neppure contare; e poi a che contare! Un simile conto non finirebbe mai. - Egli mi gettò un'occhiata e scoppiò a ridere, ma così bonariamente che io stesso non potei, in risposta, non sorridergli. - Sapete, Aleksàndr Petrovic', io anche adesso, se la notte faccio un sogno, non manco di sognare che mi battono; non faccio mai altri sogni. - In realtà egli spesso gridava la notte, e gridava di solito a squarciagola, tanto che i detenuti lo svegliavano subito a urtoni: - Be', diavolo, che hai da gridare? - Era un uomo sano, di bassa statura, vivace e allegro, sui quarantacinque anni, viveva in armonia con tutti, e anche se gli piaceva molto rubare e spessissimo da noi veniva picchiato per questo, tuttavia chi da noi non era mai stato preso a rubare e chi da noi non era stato picchiato per questo?
Aggiungerò una cosa: io mi meravigliavo sempre della straordinaria bonomia, della mancanza di rancore con cui tutti quei fustigati parlavano di come li avessero battuti e di chi li aveva battuti.
Spesso non si sentiva neppure la minima sfumatura di rancore o di odio in simili racconti, che a me talvolta rivoltavano il cuore e lo facevano battere forte, con violenza. Loro invece solevano raccontare e ridere come bambini. Ecco, M-tski, per esempio, mi narrava del castigo da lui subito; egli non era nobile e aveva ricevuto cinquecento colpi. Io ne avevo saputo da altri e gli avevo domandato io stesso: - E' vero questo e come andò la cosa? - Egli mi rispose brevemente, come se parlasse con intimo dolore, come se cercasse di non fissarmi, e il suo viso arrossì; dopo mezzo minuto mi guardò e nei suoi occhi lampeggiò una fiammata di odio, mentre le labbra si erano messe a tremargli dallo sdegno. Io sentii che non aveva mai potuto dimenticare questa pagina del suo passato. Ma i nostri, quasi tutti (non giuro che non ci fossero eccezioni), consideravano la cosa in modo affatto diverso. Non è possibile, pensavo io a volte, che si stimassero del tutto in colpa e meritevoli del supplizio, specialmente quando avevano peccato non contro i loro uguali, ma contro i superiori. La maggior parte di loro non si attribuivano colpa alcuna. Ho già detto che rimorsi di coscienza non ebbi a notarne, nemmeno in quei casi in cui il delitto era stato commesso contro il proprio gruppo sociale. Dei delitti contro i superiori non c'è neppure da parlare. Mi pareva qualche volta che in quest'ultimo caso essi avessero un loro proprio concetto, per così dire, pratico, o, meglio, di fatto, della cosa. La si considerava come un destino, come un fatto ineluttabile, e non già riflettendoci su in qualche modo, ma così, incoscientemente, come si ha una fede qualunque. Il detenuto, per esempio, pur essendo sempre incline a sentirsi nel giusto in caso di delitti contro i superiori, tanto che perfino una questione al riguardo è per lui inconcepibile, tuttavia praticamente aveva coscienza che i superiori consideravano il suo delitto in tutt'altra maniera e che, quindi, egli doveva venir punito, e poi si era pari e patta. Qui c'è una mutua lotta. Il delinquente sa inoltre e non dubita di essere assolto dal tribunale del suo ambiente natio, del popolino al quale egli stesso appartiene e che mai, egli sa pure questo, lo condannerà interamente, ma, nella sua massima parte, lo assolverà del tutto, purché il fallo non sia stato commesso contro i suoi, contro i fratelli, contro il semplice popolo da cui proviene. La sua coscienza è tranquilla, e della propria coscienza egli è forte e non si turba moralmente, e questo è l'essenziale. E' come se sentisse che ha qualcosa a cui appoggiarsi, e perciò non odia, ma accetta ciò che gli è accaduto come un fatto inevitabile, che non è cominciato con lui, né con lui finirà, ma continuerà ancora per lunghissimo tempo in seno alla lotta una volta ingaggiata, passiva, ma tenace. Qualche soldato odia personalmente il turco, quando guerreggia con lui; ma il turco lo sciabola, lo ferisce, gli spara addosso. Non tutti i racconti però erano fatti con perfetto sangue freddo e con indifferenza. Del tenente Zerebiàtnikov, per esempio, raccontavano perfino con una certa sfumatura d'indignazione, non molto grande tuttavia. Questo tenente Zerebiàtnikov io l'avevo conosciuto fin dai primi giorni del mio ricovero all'ospedale, s'intende, dai racconti dei detenuti. Poi mi era capitato di vederlo anche in persona, quando era di guardia da noi. Era un uomo sui trent'anni, di alta statura, grosso e grasso, dalle guance colorite, adipose, dai denti bianchi e dal riso rimbombante, come quello di Nozdriav [16]. Gli si vedeva in viso che era l'uomo più spensierato del mondo. Gli piaceva appassionatamente fustigare e punire coi bastoni, quando accadeva che lo designassero come esecutore. Mi affretto ad aggiungere che il tenente Zerebiàtnikov io l'avevo considerato già allora come un mostro anche fra i suoi, e così lo consideravano gli stessi detenuti. C'erano stati, oltre a lui, nei vecchi tempi, s'intende, in quei non lontani vecchi tempi di cui "fresca è la tradizione, ma ci si crede a stento", degli altri esecutori a cui piaceva far l'opera loro con scrupolo e zelo. Ma per lo più questo avveniva ingenuamente e senza uno speciale fervore. Il tenente invece era qualcosa come un raffinatissimo gastronomo in materia punitiva. Egli amava, amava con passione, l'arte del punire e l'amava unicamente in quanto arte. Egli se ne deliziava e, come uno svanito patrizio, consumato dai piaceri, dei tempi dell'Impero romano, inventava varie raffinatezze, vari mezzi contro natura per rimescolare un poco e stuzzicare piacevolmente la sua anima sommersa dal grasso. Ecco che conducono fuori il detenuto per la punizione; Zerebiàtnikov è esecutore; un solo sguardo alla lunga fila di uomini schierati coi grossi bastoni già lo ha ispirato. Con aria soddisfatta di sé egli fa il giro delle file e raccomanda con insistenza che ognuno compia il suo dovere con scrupolo, coscienziosamente, E NON... Ma già i giovani soldati sapevano che cosa significasse questo "e non". Ma ecco che il detenuto è condotto lì, e se egli finora non conosceva Zerebiàtnikov, se non aveva ancora udito di lui vita e miracoli, ecco quale scherzetto, per esempio, costui gli combinava.
(S'intende che questo è solo uno d'un centinaio di scherzetti: il tenente era inesauribile nella sua inventiva). Ogni detenuto, nel momento in cui lo denudano e gli legano le mani ai calci dei fucili, coi quali poi i sottufficiali lo tirano, legato in tal modo, per tutta la "strada verde", ogni detenuto, seguendo l'uso generale, incomincia sempre in quel momento, con voce querula e piagnucolosa, a supplicare l'esecutore, perché lo punisca un po' blandamente e non aggravi il castigo con un'eccessiva severità:- Signoria, - grida il disgraziato, - fatemi la grazia, siate come un padre, fate sì che io possa pregare Dio in eterno per voi, non rovinatemi, siate misericordioso! - Zerebiàtnikov, che non aspettava altro, interrompe subito l'operazione e, anche lui con sentimento, si mette a discorrere col detenuto:
- Amico mio, - gli dice, - ma che posso io fare con te? Non sono io che ti punisco, è la legge!
- Signoria, tutto è nelle vostre mani, siate misericordioso!
- Ma tu credi che io non abbia pietà di te? Tu credi che per me sia un piacere stare a guardare come ti battono? Sono anch'io un uomo, sai! Sono un uomo o no, secondo te?
- Si sa, signoria, è cosa nota; voi siete i padri, noi siamo i figli. Siate per me un padre vero! - grida il detenuto cominciando già a sperare.
- Ma, amico mio, ragiona tu stesso; l'intelligenza per ragionare ce l'hai: so anch'io che, per umanità, devo considerare anche te, peccatore, con indulgenza e misericordia.
- Vossignoria s'è compiaciuta di dire la pura verità!
- Sì, con misericordia, qualunque peccato tu abbia commesso. Ma qui io non c'entro, è la legge! Rifletti un poco! Io servo Dio e la patria; mi prenderei sulla coscienza un grave peccato, se indebolissi la forza della legge, rifletti un po' a questo!
- Signoria!
- Be', che farci! Sia pur così, lo faccio per te! So che faccio peccato, ma sia pur così... Ti farò grazia per questa volta, ti punirò leggermente. Be', e se io con ciò stesso ti recassi del danno? Io, ecco, ora ti farò la grazia, ti punirò leggermente, e tu poi spererai che anche un'altra volta sia la stessa cosa e commetterai un altro delitto, e che sarà allora? Già, è sulla mia propria coscienza...
- Signoria! Agli amici e ai nemici lo dirò! Ecco, come davanti al trono del celeste Creatore...
- Allora sta bene, sta bene! Ma mi giuri che ti comporterai bene anche in avvenire?
- Che Iddio mi fulmini, che io nell'altro mondo...
- Non giurare, è peccato. Io credo anche alla tua parola; mi dai la parola?
- Signoria!!!
- Be', ascolta dunque, io ti faccio la grazia solo per le tue lacrime di orfano; tu sei orfano?
- Orfano, signoria, come un dito rimasto solo in una mano, né padre né madre...
- Be', allora per le tue lacrime di orfano; ma bada, per l'ultima volta... conducetelo, - soggiunge con voce così misericordiosa che il detenuto non sa più quali preghiere rivolgere a Dio per un simile benefattore. Ma ecco che la minacciosa processione si è messa in moto, l'hanno condotto; ha rullato il tamburo, si sono levati in aria i primi bastoni... Caccialo avanti! - grida con tutta la sua voce Zerebiàtnikov. Fagli bruciar la pelle! Dagliene, dagliene! Scottalo ben bene! Ancora, ancora! Più sode all'orfano, più sode al furfante! Mettilo giù, mettilo! - E i soldati menano botte con tutta la forza del braccio, gli occhi del poveretto mandano scintille, egli comincia a gridare, e Zerebiàtnikov gli corre dietro lungo lo schieramento e sghignazza, sghignazza, si scompiscia dalle risa, si tiene i fianchi con le mani, non può nemmeno più raddrizzarsi, tanto che alla fine ti fa persino pietà, il poverino! E lui è felice, e lui ride, e solo di tratto in tratto il suo riso sonoro, robusto, rimbombante s'interrompe, e si sente di nuovo: - Dagliene, dagliene! Fagli bruciar la pelle, al furfante, scottalo bene, l'orfano!...
Ma ecco quali altre varianti egli inventava: conducono fuori il detenuto per il castigo, anche costui comincia a supplicare.
Zerebiàtnikov questa volta non fa storie, non fa smorfie, ma si abbandona alle confidenze:
- Vedi, caro, - gli dice, - io ti castigherò come si deve, perché tu lo meriti. Ma ecco che cosa farò per te magari: non ti legherò ai calci dei fucili. Andrai avanti solo, ma in una nuova maniera.
Corri con quanta forza hai davanti a tutto il fronte. Anche se ogni bastone ti colpirà, la faccenda però durerà meno, che ne pensi? Vuoi provare?
Il detenuto lo ascolta perplesso, incredulo, e riflette: "E che", pensa tra sé, "può darsi che veramente sia meglio; correrò con tutte le mie forze, così la tortura durerà cinque volte meno, e forse non tutti i bastoni mi colpiranno".
- Bene, signoria, sono d'accordo.
- Be', sono d'accordo anch'io, corri! Badate bene, non state a sbadigliare! - grida ai soldati, sapendo del resto che nemmeno un bastone risparmierà la schiena colpevole: il soldato che sbaglia il colpo sa anche lui benissimo a che cosa va incontro. Il detenuto si mette a correre quanto più può per la "strada verde", ma, s'intende, non arriva di corsa nemmeno alla quindicesima fila:
i bastoni, come rulli di tamburo, come fulmini, tutti insieme, di colpo, piombano sulla sua schiena e il poveraccio cade al suolo con un urlo, come falciato, come abbattuto da una palla. - No, signoria, è meglio secondo la legge, - dice sollevandosi lentamente da terra, pallido e sbigottito, e Zerebiàtnikov, che già da prima ben conosceva tutto questo scherzo e come sarebbe finito, sghignazza, si sbellica dalle risa. Ma non si possono nemmeno riferire tutti i suoi divertimenti e tutto ciò che da noi raccontavano di lui.
In modo un po' diverso, con altro tono e spirito, si narrava da noi di un tenente Smekalov che occupava il posto di comandante nel nostro reclusorio ancora prima che fosse stato designato a tale ufficio il nostro maggiore di piazza. Sebbene i detenuti raccontassero di Zerebiàtnikov con una certa indifferenza, senza speciale malanimo, tuttavia non ammiravano le sue gesta, non lo lodavano, e si vedeva che lo aborrivano. Lo disprezzavano perfino con un'aria di superiorità. Ma del tenente Smekalov si ricordavano da noi con gioia e delizia. Il fatto è che quello non era punto un dilettante di bastonature; in lui mancava affatto l'elemento Zerebiàtnikov puro. Ma tuttavia egli non era per nulla alieno dal fustigare; il fatto è appunto questo, che anche le sue verghe venivano ricordate da noi con un certo qual dolce affetto, tanto quell'uomo sapeva andare a genio ai detenuti! E in che modo? Come si era guadagnato una tale popolarità? A dir vero, la nostra gente, come forse tutta la gente russa, era disposta a dimenticare lunghi tormenti per una sola parola affettuosa; parlo di questo come di un fatto, senza esaminarlo, per questa volta, né da un lato né dall'altro. Non era difficile andare a genio a quella gente e acquistarsi popolarità in mezzo a essa. Ma il tenente Smekalov si era acquistato una popolarità speciale, tanto che perfino di come egli fustigasse ci si ricordava poco meno che con tenerezza. "Non c'è bisogno di padre", solevano dire i detenuti e sospiravano perfino confrontando, in base ai ricordi, il loro ex- superiore provvisorio Smekalov con l'odierno maggiore di piazza:
"Un brav'uomo!". Egli era un uomo semplice, e perfino buono a modo suo. Ma accade a volte che fra i superiori ci sia un uomo non soltanto buono, ma anche generoso, ebbene? Nessuno lo ama e di qualcuno non fanno altro che ridere. Il fatto è che Smekalov sapeva, non so come, far sì che tutti da noi riconoscessero in lui UNO DEI LORO, e questa è una grande arte o, per essere più esatti, una capacità innata, alla quale quelli che la posseggono non pensano nemmeno. Cosa strana, ci sono fra costoro anche degli uomini affatto cattivi, che pure si acquistano a volte una grande popolarità. Non sono schizzinosi, non sono schifiltosi nei rapporti coi loro subordinati: ecco dove mi pare che stia la ragione! Non si vede in loro il signorotto scansafatiche, non si sente in loro l'anima del signore, ma c'è in essi un qualche particolare, innato odore di popolino, e, Dio mio, che fiuto ha il popolo per questo odore! Che cosa non darebbero per sentirlo! Sono pronti a scambiare il più misericordioso degli uomini perfino col più severo, se da questo emana quell'odor di canapa che loro è proprio. E che dire poi se quest'uomo che sa quell'odore è inoltre effettivamente di buon cuore, anche se a modo suo? In tal caso egli non ha più prezzo! Il tenente Smekalov, come già ho detto, puniva qualche volta anche dolorosamente, ma sapeva, non so come, fare in modo che non soltanto non gli serbavano rancore, ma, al contrario, anche allora, ai miei tempi, quando era già passato da un pezzo, si ricordavano ridendo e con delizia dei suoi SCHERZETTI durante la fustigazione. I suoi scherzi del resto erano pochi:
egli non aveva abbastanza fantasia artistica. A dire il vero, c'era in tutto e per tutto uno scherzo, un unico scherzo, col quale tirava avanti da noi quasi per l'intero anno; ma forse esso era carino appunto perché era l'unico. C'era in questo molta ingenuità. Conducono, per esempio, il detenuto colpevole. Smekalov in persona viene ad assistere alla punizione, viene sorridendo, celiando, e lì fa qualche domanda al punito, su cose estranee, sulle sue faccende personali, domestiche, carcerarie, e senza scopo alcuno, senza giocosità alcuna, ma semplicemente così:
perché vuole realmente informarsi di tali faccende. Si portano le verghe, e una sedia per Smekalov; egli vi siede, accende perfino la pipa. Aveva una pipa lunga tanto. Il detenuto incomincia a supplicare. - No, no, caro, stenditi giù, che ci vuoi fare?... - dice Smekalov; il detenuto sospira e si stende giù. - Su via, amico, sai tu i tali versetti a memoria? - Come non saperli, signoria, noi siamo battezzati, fin da piccoli li abbiamo imparati. - Be', allora recitali! - E già il detenuto sa che cosa recitare, e sa in precedenza che cosa accadrà durante tale recitazione, perché questo scherzo si è già ripetuto prima una trentina di volte con altri. E anche lo stesso Smekalov sa che il detenuto lo conosce; sa che perfino i soldati, i quali stanno con le verghe alzate sopra la vittima stesa al suolo, ne hanno pure udito parlare già da molto tempo, e tuttavia lo ripete daccapo, tanto gli è piaciuto una volta per tutte, appunto perché l'ha inventato lui, per amor proprio letterario. Il detenuto comincia a recitare, gli uomini aspettano con le verghe, e Smekalov si curva perfino un poco in avanti, alza una mano e smette di fumare la pipa, in attesa della nota parola. Dopo il primo dei noti versetti, il detenuto arriva infine alle parole "nel cielo". E' quel che ci vuole. - Alt! - ordina, tutto acceso, il tenente e in un batter d'occhio, con gesto ispirato, rivolgendosi all'uomo che ha alzato la verga, grida: - E tu lisciagli il pelo!
E si scompiscia dalle risa. I soldati che stanno intorno sorridono anch'essi: sorride il fustigatore, per poco non sorride perfino il fustigato, nonostante che la verga, al comando "lisciagli il pelo", già sibili in aria, per piombare dopo un attimo come un rasoio sul suo corpo colpevole. E Smekalov gioisce, gioisce appunto al pensiero di come l'abbia pensata così bella e abbia composto EGLI STESSO quell'"in cielo" e "lisciagli il pelo", in modo che ci scappa anche la rima. E Smekalov si allontana pienamente soddisfatto di sé, e anche il fustigato se ne va pure quasi contento di se stesso e di Smekalov, ed ecco che mezz'ora dopo già racconta in reclusorio come ora, per la trentesima prima volta, è stato rinnovato lo scherzetto già ripetuto prima trenta volte. "In una parola, un brav'uomo! Un burlone!".
I ricordi sul bonario tenente avevano talora perfino una tinta di manilovismo [17].
- Mi è capitato di passare lì, fratelli, - racconta qualche detenuto, e tutto il suo viso sorride a quel ricordo, - passo, e lui se ne sta seduto sotto la finestra in veste da camera e beve il tè, fuma la pipa. Mi tolgo il berretto.
- Dove vai, Aksenov?
- Al lavoro, Michaìl Vassilic', per prima cosa c'è da andare all'officina. - E lui ride tra sé... Proprio un brav'uomo! In una parola, un brav'uomo!
- E un altro così non lo si trova! - soggiunge qualcuno degli ascoltatori.
Mi sono messo ora a parlare di punizioni, come pure di vari esecutori di questi interessanti compiti, essenzialmente perché, trasferitomi all'infermeria, soltanto allora avevo acquistato un'idea chiara di tutte queste faccende. Finora le conoscevo per sentito dire. Nelle nostre due corsie venivano concentrati tutti i giudicabili puniti con la fustigazione provenienti da tutti i battaglioni, le sezioni di detenuti e gli altri comandi militari distribuiti nella nostra città e nella sua intera circoscrizione.
A quel tempo, quando io osservavo ancora così avidamente quanto avveniva intorno a me, tutte quelle norme per me così strane, tutte quelle persone punite, o che alla punizione si preparavano, mi facevano naturalmente la più forte delle impressioni. Io ero agitato, turbato e sgomento. Mi ricordo che pure allora io cominciai tutt'a un tratto e con impazienza a voler penetrare in tutti i particolari di quei nuovi fatti, ad ascoltare i discorsi e i racconti degli altri detenuti su quell'argomento ponendo loro io stesso dei quesiti, cercandone la soluzione. Desideravo tra l'altro conoscere assolutamente tutti i gradi delle condanne e delle esecuzioni, tutte le sfumature di queste esecuzioni, l'opinione su tutto ciò dei detenuti medesimi; cercavo di immaginarmi lo stato d'animo di quelli che andavano al supplizio.
Ho già detto che prima del castigo ben pochi erano coloro che conservavano il sangue freddo, non esclusi nemmeno quelli che già in precedenza erano stati molto e più di una volta battuti. In generale il condannato viene allora assalito da una paura acuta, ma puramente fisica, involontaria e invincibile, che soffoca tutto l'essere morale dell'individuo. Io anche dopo, in tutti quei vari anni di vita nel reclusorio, involontariamente osservavo i condannati che, avendo soggiornato all'infermeria dopo la prima metà della punizione ed essendo guariti delle piaghe sul dorso, ne venivano dimessi, per ricevere il giorno seguente l'altra metà dei colpi loro assegnati in base alla sentenza definitiva. Questo dimezzamento del castigo avviene sempre per decisione del medico presente alla punizione. Se il numero di colpi comminati per il delitto è grande, tanto che il detenuto non possa sopportarli tutti in una volta, gli si divide questo numero in due, perfino in tre parti, secondo quello che dirà il dottore durante la punizione stessa, se cioè possa il punito procedere oltre attraverso le file dei soldati o se ciò rappresenti un pericolo per la sua vita. Di solito cinquecento, mille e anche millecinquecento colpi si infliggono in una volta, ma se la condanna è a due o tremila colpi, l'esecuzione viene divisa in due e perfino in tre volte.
Coloro che, con la schiena guarita dopo la prima metà, uscivano dall'infermeria, per andare a ricevere la seconda metà, nel giorno in cui venivano dimessi e alla vigilia erano tetri, arcigni, taciturni. Si notava in loro una specie di inebetimento, una certa non naturale svagatezza. Un tale individuo non attacca discorso e per lo più sta zitto; la cosa più curiosa è che gli stessi detenuti non parlano mai con lui e cercano di non discorrere di ciò che lo attende. Non una parola superflua, né un tentativo di consolazione; cercano perfino, in generale, di fargli poca attenzione. Così naturalmente è meglio per l'imputato. Ci sono delle eccezioni, come, per esempio, quel Orlòv di cui ho già raccontato. Dopo la prima metà della punizione egli era indispettito solo perché sulla sua schiena le ferite tardavano a cicatrizzarsi e gli era impossibile farsi presto mandar via, per ricevere al più presto il rimanente dei colpi, andarsene con lo scaglione al luogo di confino assegnatogli e fuggire durante il viaggio. Ma costui era allettato da uno scopo e Dio sa quel che egli aveva in mente. Era una natura appassionata e piena di vitalità. Egli era molto soddisfatto e in uno stato di grande eccitazione, sebbene reprimesse i suoi sentimenti. Il fatto è che ancora avanti la prima metà della punizione, egli pensava che non lo avrebbero lasciato uscire vivo di sotto i bastoni e che gli toccava morire. Erano già arrivate fino a lui varie voci intorno ai provvedimenti dei superiori, fin da quando era detenuto sotto processo; già allora si era preparato alla morte. Ma, subita la prima metà del castigo, si era rinfrancato. Era venuto all'infermeria mezzo morto per i colpi; io non avevo ancora mai visto simili piaghe; ma egli era venuto con la gioia in cuore, con la speranza di restare in vita, pensando che le voci erano false, che ora l'avevano pur lasciato andare via vivo di sotto i bastoni, sicché ora, dopo essere stato a lungo sotto processo, già cominciava a sognare il viaggio, la fuga, la libertà, i campi e i boschi... Due giorni dopo essere stato dimesso dall'infermeria, egli morì in quella stessa infermeria, sulla sua branda di prima, non avendo potuto reggere alla seconda metà dei colpi. Ma di questo ho già accennato.
E nondimeno quei medesimi detenuti che passavano giorni e notti così penosi proprio alla vigilia del castigo, sopportavano poi il supplizio virilmente, compresi i più pusillanimi. Di rado ho udito dei gemiti perfino nel corso della prima notte dopo il loro arrivo, e spesso nemmeno da individui fustigati in modo straordinariamente grave; in generale il popolo sa sopportare il dolore. Riguardo al dolore io facevo molte domande. Volevo a volte sapere in modo preciso quanto grande esso fosse, a che cosa lo si potesse paragonare. Non so davvero perché volessi sapere questo.
Una cosa sola ricordo: che non era per oziosa curiosità. Lo ripeto, ero agitato e scosso. Ma a chiunque domandassi, non potevo ottenere una risposta per me soddisfacente. Brucia, come se ti scottassero col fuoco: ecco tutto ciò che potei sapere, e questa era la loro unica risposta. Brucia, e basta. Sempre in quei primi tempi, fatta più stretta conoscenza con M., interrogavo anche lui.
- E' doloroso, rispondeva, - e molto, e si ha la sensazione che bruci come il fuoco; come se la schiena arrostisse sul fuoco più vivo. Insomma, tutti testimoniavano in modo concorde. Rammento del resto che già allora avevo fatto una strana osservazione, la cui esattezza non garantisco; ma la concordanza dei giudizi degli stessi detenuti la conferma efficacemente: ed è che le verghe, se date in gran quantità, sono la punizione più grave fra quante ne sono in uso da noi. Questo parrebbe a prima vista assurdo e impossibile. Ma nondimeno con cinquecento e finanche con quattrocento colpi si può fustigare un uomo a morte, e con più di cinquecento quasi con certezza. Mille colpi di verga non li sopporterà, in una volta sola, nemmeno l'uomo di più robusta complessione. Invece cinquecento bastonate si possono sopportare senz'alcun pericolo per la vita. Mille bastonate le può ricevere, senza pericolo per la vita, anche un uomo di complessione non robusta. Perfino con duemila colpi di bastone non si può finire un uomo di media forza e di sana costituzione. Tutti i detenuti dicevano che le verghe erano peggio dei bastoni. - Le verghe sono più dolorose, - dicevano, - la sofferenza è maggiore. - Certo, le verghe sono più tormentose dei bastoni. Irritano più fortemente, più fortemente agiscono sui nervi, li eccitano oltre misura, li scuotono oltre ogni possibilità di resistenza. Io non so come sia ora, ma in un non lontano passato c'erano dei gentiluomini ai quali la possibilità di fustigare la loro vittima procurava qualcosa che richiama il marchese di Sade e la Brinvilliers. Io credo che in questa sensazione ci sia qualcosa che tramortisce il cuore a tali gentiluomini, dolcemente e dolorosamente insieme. Ci sono delle persone simili a tigri assetate di sangue. Chi ha provato una volta questo potere, questa illimitata signoria sul corpo, il sangue e lo spirito di un altro uomo come lui, fatto allo stesso modo, suo fratello secondo la legge di Cristo; chi ha provato il potere e la possibilità senza limiti di infliggere il supremo avvilimento a un altro essere che porta su di sé l'immagine di Dio, costui, senza volere, cessa in certo qual modo di essere padrone delle proprie sensazioni. La tirannia è un'abitudine; essa è capace di sviluppo, e si sviluppa fino a diventare malattia. Io sostengo che il migliore degli uomini può, in forza dell'abitudine, farsi ottuso e brutale fino al livello della bestia. Il sangue e il potere ubriacano: si sviluppano la durezza di cuore, la depravazione; all'intelligenza e al sentimento si fanno accessibili e infine riescono dolci le manifestazioni più anormali. L'uomo e il cittadino periscono nel tiranno per sempre, e il ritorno alla dignità umana, al pentimento, la rigenerazione diviene ormai quasi impossibile per lui. Inoltre l'esempio, la possibilità di siffatta licenza agisce anche su tutta la società contagiandola: un simile potere è tentatore. La società che guarda con indifferenza un tale fenomeno è già infetta essa stessa nelle sue fondamenta. Insomma il diritto della punizione corporale concesso a un uomo su di un altro è una delle piaghe della società, è uno dei più forti mezzi per distruggere in essa ogni germe, ogni tentativo di civile libertà, ed è premessa sicura del suo immancabile e ineluttabile sfacelo.
Nella società il carnefice è aborrito, ma il carnefice-gentiluomo è ben lontano dall'esserlo. Solo di recente è stata espressa l'opinione contraria, ma è stata espressa ancora soltanto nei libri, astrattamente. Perfino coloro che così si esprimono non sono ancora riusciti tutti a spegnere in sé questo bisogno di arbitrio. Perfino ogni fabbricante, ogni imprenditore deve senza fallo trovare un certo quale irritante piacere nel fatto che il suo operaio dipende a volte interamente, con tutta la sua famiglia, soltanto da lui. E' così di sicuro; non tanto presto una generazione si libera di ciò che ereditariamente si è deposto in lei: non tanto presto l'uomo rinuncia a ciò che gli è entrato nel sangue, che gli è stato trasmesso, per dir così, col latte materno. Rivolgimenti così repentini non ne avvengono. Avere coscienza della colpa e del peccato di nascita è ancora poco, pochissimo; bisogna disavvezzarsene del tutto. E questo non si fa così in fretta.
Mi ero messo a parlare del carnefice. Le qualità del carnefice si trovano in germe quasi in ogni uomo contemporaneo. Ma le qualità ferine dell'uomo non si sviluppano in tutti ugualmente. Se in qualcuno esse sopraffanno nel loro sviluppo tutte le altre sue qualità, un tale uomo naturalmente diventa orrendo e mostruoso.
Carnefici ce ne sono di due specie: gli uni sono volontari, gli altri, coatti, obbligati. Il carnefice volontario, s'intende, è sotto tutti gli aspetti più basso di quello coatto, che pure il popolo tanto aborrisce, fino all'orrore, fino allo schifo, fino a un'inconscia, quasi mistica paura. Ma da che proviene questa superstiziosa paura di un carnefice e una tale indifferenza e quasi approvazione per un altro? Se ne hanno degli esempi strani all'estremo: io ho conosciuto degli uomini anche buoni, anche onesti, anche stimati in società, che nondimeno non potevano, per esempio, sopportare a sangue freddo che il punito non gridasse sotto le verghe, non supplicasse e non chiedesse mercé. Così è d'obbligo: ciò è considerato come voluto dalle convenienze, e indispensabile, e una volta che la vittima non voleva gridare, l'esecutore, che io conoscevo e che per altri rispetti poteva essere stimato un uomo magari anche buono, si offese in quel caso addirittura personalmente. Egli voleva già, sul principio, punire leggermente, ma, non avendo udito i soliti "vossignoria, padre caro, fate la grazia, fate sì che io possa pregare in eterno Dio per voi" eccetera, diventò furioso e diede una cinquantina di vergate in più, desiderando ottenere e le grida e le preghiere, e le ottenne. - Non è possibile, altrimenti è una villania, - mi rispondeva molto seriamente. Per quanto poi riguarda il vero carnefice, quello coatto, obbligato, la cosa è nota: è un detenuto la cui sorte è stata decisa, condannato alla deportazione ma lasciato a fare il carnefice; che dapprima è stato a scuola da un altro carnefice e, dopo avere imparato da lui, è rimasto per sempre nel reclusorio, dove è anche tenuto a parte, in una stanza a sé, e ha perfino una sua propria economia, ma si trova quasi sempre sotto scorta. Naturalmente un uomo vivo non è una macchina; il carnefice, pur battendo per dovere, a volte piomba egli pure in frenesia; ma, sebbene non batta senza provarne piacere, in compenso non sente quasi mai un odio personale contro la sua vittima. La destrezza nel colpire, il possesso della propria scienza, il desiderio di mettersi in mostra dinanzi ai compagni e dinanzi al pubblico stuzzicano il suo amor proprio. Egli si dà da fare per amore dell'arte. Inoltre sa bene di essere ripudiato da tutti, sa che una paura superstiziosa lo accoglie e lo accompagna dappertutto, e non si può garantire che questo non abbia su di lui un influsso, non accresca il suo furore, le sue inclinazioni bestiali. Perfino i bambini sanno che egli "ha rinunciato a padre e madre". Cosa strana, quanti carnefici mi è occorso di vedere erano tutti gente evoluta, dotati di giudizio, d'intelligenza e di non comune amor proprio, perfino di orgoglio. Se in essi questo orgoglio si sia sviluppato in contrasto con l'universale disprezzo che si ha di loro, se sia stato rafforzato dalla consapevolezza del terrore che essi ispirano alla propria vittima e dal sentimento del dominio loro su di lei, io non so. Forse perfino la stessa pompa e teatralità dell'apparato col quale si presentano davanti al pubblico sul patibolo contribuisce a sviluppare in essi una certa superbia. Ricordo che mi accadde una volta, per un certo tempo, di incontrare sovente e di osservare da vicino un carnefice. Era un uomo di media statura, muscoloso, magro, sulla quarantina, dal viso abbastanza simpatico e intelligente e dalla testa ricciuta. Era sempre oltremodo grave e calmo; esteriormente si comportava da gentiluomo, rispondeva sempre in modo sobrio, assennato e anche affabile, ma con una certa qual superba affabilità, come se si inorgoglisse di qualche cosa di fronte a me. Gli ufficiali di guardia spesso si mettevano a discorrere con lui in mia presenza, perfino, dico davvero, con una cert'aria di rispetto verso di lui. Egli ne era consapevole e davanti ai superiori a bella posta raddoppiava la sua cortesia, l'asciuttezza dei modi e il senso della propria dignità. Quanto più affabilmente il superiore gli parlava, tanto più sostenuto pareva egli stesso e, sebbene non uscisse affatto dai limiti della più raffinata cortesia, io sono sicuro che in quel momento si stimava immensamente più in alto del superiore che con lui conversava. Ciò gli stava scritto sul viso. Accadeva che a volte, in una caldissima giornata estiva, lo mandassero sotto scorta, con una lunga e sottile pertica, a fare strage di cani cittadini. In questa città c'era una quantità straordinaria di cani che non appartenevano assolutamente ad alcuno e che si riproducevano con non comune rapidità. Nelle giornate canicolari diventavano pericolosi e a sterminarli, per ordine dell'autorità, si mandava il carnefice. Ma anche questo umiliante ufficio, evidentemente, non lo umiliava per nulla. Bisognava vedere con che dignità andava in giro per le vie cittadine, in compagnia dello stanco soldato di scorta, spaventando già col solo suo aspetto le donne e i bambini che incontrava, e con che aria tranquilla e perfino dall'alto in basso guardava tutti quelli in cui s'imbatteva. Del resto i carnefici fanno buona vita. Hanno denaro, mangiano molto bene, bevono acquavite. Il denaro se lo procacciano con gli sbruffi. Un imputato della categoria civile, a cui tocca il castigo in base a sentenza, farà sempre preventivamente qualche regalo al carnefice, fosse pure coi suoi ultimi soldi. Ma da taluni imputati, dai ricchi, se lo fanno dare essi stessi indicando loro la somma in conformità dei probabili mezzi di fortuna del detenuto, si fanno dare anche trenta rubli a testa, e qualche volta perfino di più.
Coi ricchissimi anzi contrattano fortemente. Punire in modo troppo blando il carnefice naturalmente non può; egli ne risponde con la propria schiena. Ma in cambio, per un certo sbruffo, egli promette alla vittima che non la percuoterà troppo dolorosamente. Quasi sempre la sua proposta viene accettata; nel caso contrario, egli punisce in modo veramente barbaro, e ciò è in sua piena balìa.
Accade che egli imponga una somma ragguardevole anche a un imputato poverissimo: i parenti vanno, mercanteggiano, si inchinano, e guai se non lo accontentano! In tali casi molto gli giova il terrore superstizioso che ispira. Quali prodigi non si raccontano a proposito dei carnefici! Del resto i detenuti stessi mi assicuravano che il carnefice può uccidere con un sol colpo.
Ma, innanzi tutto, quando mai si è fatta tale esperienza? Può darsi però. Se ne parlava in modo troppo affermativo. Il carnefice stesso mi garantiva di poter far questo. Si diceva pure che egli potesse colpire a tutta forza la schiena del colpevole, ma in modo tale che dopo il colpo non spuntasse neanche il più piccolo sfregio e il delinquente non avvertisse il minimo dolore. Intorno a tutti questi giochetti e a queste raffinatezze però si conoscono già troppi racconti. Ma anche se il carnefice prende lo sbruffo per punire leggermente, tuttavia il primo colpo viene sempre menato da lui con tutto lo slancio del braccio e a tutta forza.
Questo è perfino diventato tra loro una usanza. I colpi seguenti egli li attenua, specie se è stato preventivamente pagato. Ma il primo colpo, lo abbiano o no pagato, è suo. Non so davvero perché da loro così si faccia. Forse per abituare subito la vittima ai successivi colpi, calcolando che, dopo un colpo molto forte, quelli leggeri non parranno più tanto tormentosi, oppure c'è lì semplicemente il desiderio di fare un po' il bravo di fronte alla vittima, di incuterle terrore, sgomentarla di primo tratto, affinché capisca con chi ha da fare, di farsi vedere, in una parola. In ogni caso il carnefice, prima che si inizi il castigo, si sente in uno stato d'animo eccitato, sente la propria forza, è consapevole di essere un dominatore; in quel momento egli è un attore; il pubblico lo ammira e ha orrore di lui, e naturalmente non senza delizia egli grida alla sua vittima, avanti al primo colpo: "Tienti bene, ti scotto!": consuete e fatali parole in questo caso. E' difficile immaginarsi fino a che punto sia possibile deformare la natura umana.
In quei primi tempi, all'infermeria, io ascoltavo tutti questi racconti dei detenuti. Stare a letto era per noi tremendamente noioso. Tutti i giorni erano così simili l'uno all'altro! La mattina ci svagava ancora la visita dei dottori e, subito dopo, il desinare. S'intende che il pasto, in tanta uniformità, rappresentava una notevole distrazione. Le razioni erano diverse, distribuite secondo le malattie dei ricoverati. Taluni ricevevano solo una zuppa, con un po' di semolino; altri soltanto una polentina; altri ancora solo una "kascia" di fior di farina, che aveva moltissimi amatori. I detenuti, per il lungo stare a letto, si facevano delicati e amavano le ghiottonerie. Ai convalescenti e ai quasi risanati si dava un pezzo di carne di manzo bollita, di "toro", come da noi si diceva. La razione migliore di tutte era quella degli scorbutici: lesso con cipolle, con rafano e altro, a volte anche una mezzetta di acquavite. Il pane era, parimenti secondo le malattie, nero o semibianco, egregiamente cotto. Questo formalismo e queste sottigliezze nell'assegnazione delle razioni facevano soltanto ridere i malati. Del resto in certe malattie l'individuo da sé si asteneva dal mangiare. Invece i malati che si sentivano appetito mangiavano quel che volevano. Certuni scambiavano le razioni, per modo che quella adatta per una malattia passava a chi ne aveva una tutta diversa. Altri, che erano a dieta debole, compravano il lesso e la razione degli scorbutici, bevevano il "kvas", la birra dell'infermeria, comprandolo da quelli a cui era assegnato. C'era perfino chi consumava due razioni. Tali razioni si vendevano e rivendevano per denaro. Quella di lesso aveva un prezzo abbastanza alto, costava cinque copeche in assegnati. Se nella nostra corsia non c'era da chi poterla comprare si mandava il guardiano nell'altra corsia di detenuti, se no in quelle dei soldati, le corsie "libere", come si diceva da noi. Sempre si trovava chi volesse venderla. Costoro restavano col solo pane, in cambio facevano dei soldi. La povertà naturalmente era generale, ma quelli che avevano un po' di quattrini mandavano perfino al mercato a comprare panini a ciambella, e anche ghiottonerie eccetera. I nostri guardiani eseguivano tali incarichi del tutto disinteressatamente. Dopo il desinare venivano le ore più noiose: chi dormiva, non sapendo che fare, chi chiacchierava, chi litigava, chi narrava qualcosa ad alta voce. Se non venivano condotti nuovi malati, la noia era ancora più grande. L'arrivo di un novellino produceva sempre una certa impressione, specialmente se nessuno ancora lo conosceva. Lo si squadrava, si cercava di sapere il che e il come, di dove venisse e per quali fatti. In questo caso ci si interessava in particolar modo dei deportati a tappe; questi avevano sempre qualcosa da raccontare, non dei loro affari intimi però; su questo, se l'individuo stesso non si metteva a parlare, non lo si interrogava mai, si domandava soltanto: "Da dove siete venuti? con chi? com'è la strada? dove andrete?" e così via. Taluni, udendo lì raccontare qualcosa di nuovo, ricordavano, come di passata, alcunché delle proprie vicende: a proposito di trasferimenti, scaglioni, esecutori, a proposito dei superiori degli scaglioni. I puniti con la fustigazione comparivano anche in queste ore, verso sera. Essi facevano sempre grande impressione, come del resto già si è accennato; ma non tutti i giorni ne conducevano, e il giorno in cui non ne arrivavano, regnava da noi una specie di fiacchezza, come se tutte quelle persone fossero venute tremendamente a noia l'una all'altra, e cominciavano anche dei litigi. Da noi ci si rallegrava perfino dei pazzi che si portavano lì in osservazione.
Lo stratagemma di fingersi pazzo per sfuggire al castigo era qualche volta usato dagli imputati. Ma una parte di loro venivano presto scoperti o, per meglio dire, si risolvevano essi stessi a mutar politica, e il detenuto, dopo aver fatto delle stravaganze per due o tre giorni, a un tratto, di punto in bianco, tornava assennato, si calmava e cominciava, torvo, a chiedere di venir dimesso. Né i detenuti ne i dottori rimproveravano costui, né lo svergognavano ricordandogli le sue recenti gherminelle; in silenzio lo si dimetteva, in silenzio lo si accompagnava fuori, e di lì a due o tre giorni egli ricompariva da noi, dopo la punizione. Tali casi però erano, in genere, rari. Ma i veri pazzi, portati lì in osservazione, costituivano un vero castigo di Dio per tutta la corsia. Certi pazzi allegri, vivaci, che gridavano, ballavano e cantavano, erano accolti sul principio dai detenuti poco meno che con entusiasmo. "Questo, sì, è uno spasso!", solevano dire guardando qualche contorsionista condotto allora allora. Ma per me era terribilmente sgradito e penoso vedere questi disgraziati. Io non ho mai potuto guardare i pazzi freddamente.
Del resto le continue contorsioni e gli scatti irrequieti del pazzo portato lì e accolto con grandi risate ben presto da noi venivano a noia proprio a tutti e in un paio di giorni facevano scappare la pazienza a tutti quanti. Uno di essi fu tenuto da noi un tre settimane, e c'era semplicemente da fuggire dalla corsia.
Come a farlo apposta, condussero in quel tempo un altro pazzo.
Costui mi fece un'impressione particolare. Questo accadde già nel terzo anno dei miei lavori forzati. Nel primo anno o, per meglio dire, nei primi mesi della mia vita di reclusorio, in primavera, io ero andato con una squadra a lavorare, a due verste di là, nella fabbrica di mattoni, in compagnia degli stufai e di un garzone. Bisognava riparare i forni per i futuri lavori estivi dei mattonai. Quel mattino, nella fabbrica, M-tski e B. mi avevano fatto far conoscenza con un sorvegliante che c'era là, il sottufficiale Ostrozki. Era un polacco, un vecchio sulla sessantina, alto, magro, di aspetto oltremodo garbato e perfino maestoso. Egli si trovava a prestar servizio in Siberia da lunghissimo tempo e, sebbene provenisse dal popolino, c'era venuto come soldato delle truppe del 1830, ma M-tski e B. gli volevano bene e lo stimavano. Egli leggeva di continuo la Bibbia cattolica.
Io mi ero messo a discorrere con lui, ed egli parlava in modo tanto affabile, tanto assennato, raccontava cose tanto interessanti, aveva un aspetto così bonario e onesto! Da quel tempo non l'avevo più visto per un paio d'anni, avevo udito soltanto che, per non so quale faccenda, egli si trovava sotto inchiesta, e improvvisamente l'avevano condotto nella nostra corsia come pazzo. Era entrato strillando, sghignazzando e, coi gesti più indecenti, più da "kamàrinskaia", si era messo a ballare per la corsia. I detenuti erano entusiasti, ma io mi sentii così triste... Dopo tre giorni noi tutti non sapevamo più dove cacciarci per sfuggirgli. Litigava, si azzuffava, strillava, cantava canzoni, perfino di notte, e faceva ogni momento degli atti così ripugnanti che la nausea prendeva tutti. Egli non temeva alcuno. Gli mettevano la camicia di forza, ma per noi era ancora peggio, sebbene, senza camicia, attaccasse lite e si mettesse a rissare quasi con tutti. In quelle tre settimane di tanto in tanto l'intera corsia si ribellava a una voce e pregava il dottore capo di trasferire il nostro cucco nell'altra corsia di detenuti. Ma là chiedevano a loro volta, dopo un paio di giorni, che lo si rimandasse da noi. E poiché di pazzi ce n'erano capitati due insieme, irrequieti e attaccabrighe, l'una e l'altra corsia si avvicendavano nello scambiarsi i due pazzi. Ma erano l'uno peggiore dell'altro. Tutti respirammo più liberamente, quando, una buona volta, li condussero via, non so dove...
Ricordo anche un altro strano pazzo. Un giorno, d'estate, portarono da noi un imputato, un uomo robusto e molto goffo di aspetto, sui quarantacinque anni, con un viso sfigurato dal vaiolo, due piccoli occhi rossi infiammati e un'aria straordinariamente arcigna e tetra. Egli prese posto accanto a me.
Si vide che era un tipo molto quieto, che non attaccava discorso con alcuno e se ne stava come meditabondo. Incominciò a farsi buio, e tutt'a un tratto egli si rivolse a me. Subito, senz'altri preamboli, ma con un'aria come se mi comunicasse uno straordinario segreto, si mise a raccontarmi che a giorni avrebbe dovuto ricevere duemila colpi, ma che questo ora non sarebbe più avvenuto, perché la figlia del colonnello G. stava brigando per lui. Io lo guardai perplesso e gli risposi che in un caso simile mi pareva che la figlia del colonnello non fosse in grado di fare nulla. Io non dubitavo ancora di niente; egli era stato condotto lì non come pazzo, ma come malato ordinario. Gli domandai che male avesse. Mi rispose che non sapeva e che lo avevano mandato lì per qualche cosa, ma che egli era perfettamente sano, e che la figlia del colonnello era innamorata di lui; che una volta, due settimane prima, lei era passata davanti al corpo di guardia, mentre egli guardava fuori del finestrino a grata. Appena vedutolo, se n'era innamorata. E da quel giorno, con vari pretesti, era già stata tre volte al corpo di guardia: la prima volta c'era passata col padre per vedere il fratello, ufficiale, che era allora di guardia da loro; un'altra volta era venuta con la madre a distribuire le offerte e, passandogli vicino, gli aveva sussurrato che lo amava e lo avrebbe salvato. Era strano sentire con quali precisi particolari egli mi raccontasse tutta questa scempiaggine, che, s'intende, era nata di sana pianta nella sua povera testa sconvolta. Nella sua esenzione dal castigo credeva sacrosantamente. Dell'appassionato amore di quella signorina per lui parlava in tono tranquillo e sicuro e, nonostante l'assurdità generale del racconto, era bizzarro sentire quella romantica storia della signorina innamorata di un uomo prossimo alla cinquantina, dalla faccia così abbattuta, addolorata e mostruosa.
Era strano ciò che il terrore della punizione aveva potuto fare di quell'anima timida. Forse egli aveva realmente visto qualcuno dal finestrino, e la pazzia, che andava maturando in lui per effetto del terrore di ora in ora crescente, aveva a un tratto, di colpo, trovato il suo sfogo, la sua forma. Quell'infelice soldato, che forse in tutta la sua vita non aveva mai pensato alle signorine, aveva d'improvviso inventato un intero romanzo aggrappandosi istintivamente anche solo a quella pagliuzza. Io lo ascoltai in silenzio, poi riferii agli altri detenuti. Ma quando gli altri cominciarono a far domande, egli tacque pudicamente. Il giorno dopo il dottore lo interrogò a lungo e, poiché disse di non aver male alcuno e alla visita risultò realmente sano, così venne dimesso. Ma che sul suo foglio fosse stato scritto "sanat", noi lo sapemmo solo quando i dottori già erano usciti dalla corsia, cosicché fu impossibile dir loro di che si trattasse. E poi noi stessi allora non indovinavamo ancora pienamente dove stesse il punto essenziale. Intanto tutta la faccenda consisteva in un errore dei superiori che l'avevano mandato da noi, senza spiegare per che cosa l'avessero mandato. C'era stata lì una qualche negligenza. O forse anche quelli che l'avevano mandato sospettavano ancora soltanto, ma non erano affatto certi della sua pazzia e, agendo in base a voci vaghe, lo avevano inviato in osservazione. Comunque fosse, il disgraziato fu condotto dopo due giorni a subire il castigo. Esso parve costernarlo, tanto era stato inatteso; fino all'ultimo momento non aveva creduto che lo si sarebbe punito, e quando lo fecero passare tra le file dei soldati, si diede a gridare: "Aiuto!". All'infermeria lo misero questa volta non più nella nostra corsia, non essendoci lì brande libere, bensì nell'altra. Ma io m'informai di lui e seppi che in tutti quegli otto giorni non aveva detto una parola ad alcuno ed era stato sempre conturbato e oltremodo triste... Poi, quando la sua schiena fu risanata, lo spedirono non so dove. Io almeno non ho più udito nulla di lui.
Riguardo poi, in generale, alle cure e alle medicine, per quanto potevo notare, i malati leggeri quasi non seguivano le prescrizioni e non prendevano le medicine, ma quelli gravi e, in genere, i veri malati erano molto contenti di curarsi e prendevano puntualmente le loro misture e polverine; ma più di tutto erano preferiti da noi i mezzi esterni. Ventose, mignatte, fomente e cavate di sangue, che tanto predilige e in cui ha tanta fede il nostro uomo del popolo, erano da noi accolte volentieri e perfino con piacere. Mi interessò una strana circostanza. Quelle stesse persone che erano così pazienti nel sopportare i più tormentosi dolori causati dai bastoni e dalle verghe, non di rado si lagnavano, facevano smorfie e gemevano perfino per qualche ventosa. Sia che si fossero fatti un po' troppo delicati, sia che semplicemente lo facessero per vezzo, certo è che non so come spiegare la cosa. La macchinetta con cui si incide istantaneamente la pelle, l'infermiere l'aveva, da tempo immemorabile, smarrita o guastata, o forse si era guastata da sé, di modo che egli era ormai costretto a fare le iniezioni indispensabili sul corpo con la lancetta. Di taglietti se ne fanno per una ventosa circa dodici. La macchina non è dolorosa. Dodici lamette ti colpiscono insieme istantaneamente e il dolore non si avverte. Ma l'incisione fatta con la lancetta è un'altra faccenda. La lancetta taglia relativamente con molta lentezza, il dolore si sente; e poiché, ad esempio, per dieci ventose bisognava fare centoventi incisioni consimili, così tutt'insieme, naturalmente, la cosa riusciva sensibile. Io ne feci l'esperienza, ma, sebbene provassi dolore e fastidio, tuttavia essi non erano tali da non poter resistere senza gemere. Era persino buffo qualche volta vedere come certi spilungoni e schiattoni facessero smorfie e si mettessero a piagnucolare. In generale si sarebbe potuto paragonare ciò al caso di uno che, pur essendo fermo, anzi calmo in qualche sua seria occupazione, fa poi l'ipocondriaco e il capriccioso a casa, quando non ha niente da fare, non mangia quello che gli si serve, sgrida e ingiuria; nulla gli va, tutti lo infastidiscono, tutti gli fanno villanie, tutti lo tormentano: in una parola, fa il matto perché sta troppo bene, come si dice a volte di tali signori, che s'incontrano per altro anche nel popolino e, nel nostro reclusorio, data la mutua generale convivenza, anche troppo spesso. Accadeva che nella corsia i compagni stessi si mettessero a canzonare un simile delicatino e qualcuno a insolentirlo addirittura; ed ecco che quello la smetteva, come se in realtà avesse atteso appunto di essere insolentito per smetterla. Più specialmente la cosa non garbava a Ustiantsev, che non perdeva mai l'occasione di dire delle ingiurie a un delicatino. In generale del resto egli non perdeva un'occasione di attaccar briga con qualcuno. Era questo per lui un godimento, un bisogno, a causa della malattia, s'intende, e in parte anche della sua ottusità.
Dapprima soleva guardare la persona seriamente e fissamente, poi cominciava con voce calma e convinta a farle la predica. Di tutto s'impicciava: come se fosse stato preposto a vegliare da noi sull'ordine o sulla moralità generale.
- Lui arriva a tutto, - solevano dire i detenuti ridendo. Per lui del resto avevano dei riguardi ed evitavano di altercare con lui, ridevano solo così, di tanto in tanto. - To', quante ne ha dette!
Tre carri non basterebbero per portarle via.
- Quante ne ha dette? A uno sciocco, si sa, non si fa tanto di cappello. E lui che ha da gridare per la lancetta? T'è piaciuto il miele, ora deve piacerti il fiele, pazienta cioè.
- Ma tu che c'entri?
- No, fratelli, - interruppe uno dei nostri giovani detenuti, le coppette non sono niente; io ho provato: nulla di più del dolore che senti, quando ti tirano a lungo per l'orecchio.
Tutti si misero a ridere.
- E te forse ti hanno tirato?
- E tu credevi di no? Si sa, mi hanno tirato.
- Allora è per questo che hai gli orecchi a ventola.
Questo giovane detenuto, Sciapkin, aveva realmente degli orecchi lunghissimi che gli sporgevano dalle due parti. Veniva dai vagabondi, ed era ancora giovane, un ragazzo sensato e quieto, che parlava sempre con una specie di umorismo serio, dissimulato, il che conferiva molta comicità a certi suoi racconti.
- E da che cosa dovrei credere che ti abbiano tirato per l'orecchio? E come mai potrei avere una simile idea, testa dura che sei? - tornò a metter becco Ustiantsev, rivolgendosi indignato a Sciapkin, sebbene questi non avesse affatto parlato a lui, ma a tutti in generale. Sciapkin però non lo guardò nemmeno.
- E a te chi l'ha tirato? - domandò qualcuno.
- Chi? Si sa chi, il commissario. Questo, fratelli, fu per vagabondaggio. Eravamo allora giunti a K., ed eravamo in due, io e un altro, vagabondo anche lui, Jefìm, senza soprannome. Per strada ci eravamo riforniti un pochetto in casa di un contadino nel villaggio di Tolmina. C'è un villaggio di questo nome, Tolmina.
Be', entriamo e diamo un'occhiata: anche qui ci si può rifornire, e poi a gambe! Nei campi libero come il vento, in città cruccio e tormento, si sa. Be', per prima cosa entrammo in una bettoluccia.
Ci guardammo intorno. Si avvicina a noi uno tutto malandato, dai gomiti bucati, vestito alla tedesca. Si parla di questo e di quello. - E voi, - dice, - permettete una domanda, come state quanto al documento [19]?
"- No diciamo, noi non abbiamo documento.
- Ah, così! E anche noi. Ho qui due amici, - dice, - anche loro prestano servizio sotto il generale "Kukuskin" [20]. Così, ecco, oso chiedervi: noi abbiamo fatto un po' di baldoria e per il momento non siamo riforniti di quattrini. Vogliate offrirci una mezza bottiglia.
- Con tutto piacere, - diciamo. Be', si bevve. E qui loro ci segnalarono un affare in materia ladresca, di nostra competenza cioè. C'era lì una casa, alla periferia della città, e ci viveva un ricco borghese, con ogni ben di Dio, e stabilimmo di fargli una visita nella notte. Solo che in casa del ricco borghese, quella notte stessa, fummo pescati, tutti e cinque. Ci condussero alla sezione e poi dal commissario in persona. - Li interrogherò io stesso, - dice. Viene lì con la pipa, gli portano subito una tazza di tè; un pezzo d'uomo, con le fedine. Si mise a sedere. E lì, oltre a noi, ne condussero altri tre, anche loro vagabondi. Ma che uomo buffo, fratelli miei, è il vagabondo: be', non si ricorda di niente, puoi rompergli la testa, ma lui ha dimenticato tutto, non sa niente. Il commissario dice subito a me: - Tu chi sei? - E mugghiò, come se parlasse di dentro a una botte.- Be', si sa, - dico anch'io come tutti: - non ricordo niente, signoria, ho dimenticato tutto.
- Aspetta, - dice, - con te discorrerò ancora, il tuo muso mi è noto, - e mi pianta addosso due occhiacci. Ma io prima non l'avevo mai visto. Al secondo: -Tu chi sei?
- Dagli e scappa, signoria.
- Così ti chiami, dagli e scappa?
- Così mi chiamo, signoria.
- Bene, tu sei dagli e scappa, e tu? - domanda al terzo, cioè.
- E io con lui, signoria.
- Ma il tuo soprannome com'è?
- Così mi chiamo di soprannome: "E io con lui", signoria.
- Ma chi ti ha chiamato così, furfante?
- La brava gente mi ha chiamato così, signoria. Al mondo non manca la brava gente, signoria, si sa.
- E chi è questa brava gente?
- Ho perduto un pochino la memoria, signoria, abbiate la bontà di scusare.
- Tutti hai dimenticato?
- Ho dimenticato tutti, signoria.
- Ma hai pure avuto padre e madre? Di loro almeno ti ricordi ?
- Così c'è da pensare, che li abbia avuti, signoria, ma del resto l'ho pure dimenticato un pochino; può darsi che li abbia avuti, signoria.
- E dove sei vissuto fino ad ora?
- Nel bosco, signoria.
- Sempre nel bosco?
- Sempre nel bosco.
- Be', e d'inverno?
- L'inverno non l'ho mai visto, signoria.
- Be', e tu, come ti chiami?
- La scure, signoria.
- E tu?
- Affila e sta' attento, signoria.
- E tu?
- Affila e non temere, signoria.
- Voi tutti non ricordate nulla?
- Non ricordiamo nulla, signoria.
- Sta lì in piedi e ride, e loro lo guardano, sorridono. Be', in un altro momento ti dà uno sgrugnone sui denti, secondo come capita. E tutta gente robusta, grassa così.
- Conduceteli in prigione, - dice, - con loro me la vedrò poi; ma tu rimani, - questo lo dice a me. - Vieni qui, siedi! Guardo:
tavola, carta, penna. Penso: "Che cosa vuol farmi fare?". Siedi, - dice, - sulla sedia, prendi la penna, scrivile intanto mi piglia per l'orecchio e tira. Io lo guardo, come il diavolo guarda il pope: - Non so, - dico,- signoria.
- Scrivi!
- Per carità, signoria!
- Scrivi, scrivi come sai!- E intanto mi tira sempre per l'orecchio, mi tira sempre, e come lo storce! Be', fratelli, vi dirò, sarebbe stato meglio che mi avesse dato trecento vergate, vedevo perfino le stelle, - scrivi, e basta!".
- Ma che era impazzito forse?
- No, non era impazzito. Ma a T-k uno scrivanuccio non molto tempo prima ne aveva fatta una: aveva sgraffignato il denaro del governo, e poi era scappato, e anche lui aveva gli orecchi sporgenti. Be', l'avevano fatto sapere dappertutto. E io per i connotati pareva che gli somigliassi, e così voleva vedere se sapevo scrivere e come scrivevo.
- Un bel tomo! E ti faceva male?
- Come dico, male.
Echeggiò una risata generale.
- Ebbene, scrivesti?
- Ma che scrivere? Mi misi a far andare la penna, e la feci andare, andare sulla carta, e lui piantò lì. Be', mi tirò una diecina di ceffoni, s'intende, e poi mi mandò via, anche me in prigione, cioè.
- Ma forse che tu sai scrivere?
- Una volta sapevo, ma da quando hanno cominciato a scrivere con le penne, ho disimparato...
Ecco in quali racconti o, per meglio dire, in quali chiacchiere passavano qualche volta le nostre noiose ore. O Signore, che noia era quella! Giornate lunghe, soffocanti, tutte esattamente uguali l'una all'altra. Almeno avessi avuto un libro qualunque! E intanto io, specialmente in principio, andavo spesso all'infermeria, a volte malato, a volte semplicemente per starmene a letto; almeno uscivo dal reclusorio. Stare là, era penoso, ancora più penoso che qui, più penoso moralmente. Malanimo, inimicizia, litigi, invidia, continue punzecchiature per noi nobili, facce rabbiose, minacciose! Qui all'infermeria, invece, tutti si sentivano più uguali tra loro, e si viveva più all'amichevole. Le ore più tristi nel corso dell'intera giornata capitavano la sera, alla luce delle candele, e al principio della notte. Si va a dormire presto. Un fioco lumino brilla lontano, presso la porta, come un punto luminoso, e il nostro cantuccio è semibuio. L'aria diventa mefitica e soffocante. Qualcuno, non potendo addormentarsi, si solleva e sta seduto un'ora e mezzo sul letto, tenendo china la testa coperta dalla berretta da notte, come se pensasse a qualche cosa. Tu lo guardi per tutta un'ora cercando d'indovinare a che pensi, per ammazzare anche tu il tempo in qualche maniera. Oppure ti metti a fantasticare, a ricordare il passato, e nell'immaginazione ti si dipingono vasti e luminosi quadri; ti vengono in mente certi particolari che in altri momenti non avresti né ricordato, né sentito come ora. Oppure vai almanaccando riguardo al futuro: uscirai in qualche modo dal reclusorio? E dove andrai? Quando sarà questo? Tornerai un giorno o l'altro al tuo paese natale? Pensi, pensi, e la speranza ti si ridesta nell'anima... Oppure altre volte ti metti semplicemente a contare:
uno, due, tre e così via, per addormentarti durante questo conteggio. Io qualche volta contavo fino a tremila e non mi addormentavo. Ecco che qualcuno si rigira. Ustiantsev comincia a tossire con la sua tosse marcia da tisico, poi a gemere debolmente, e ogni volta soggiunge: "O Signore, l'ho fatta grossa!". Ed è terribile udire questa voce malata, rotta e gemente, in mezzo al silenzio generale. Ma ecco che in qualche cantuccio anche altri non dormono e discorrono sulle loro brande.
Uno si mette a raccontare qualcosa di ciò che fu, di cose lontane, di cose passate, della vita vagabonda, dei bambini, della moglie, dei sistemi di un tempo. E tu senti, già da quel lontano sussurrio, che tutto ciò di cui racconta non tornerà mai più nella sua vita e che egli stesso, il narratore, è un brandello tagliato via; un altro ascolta. Si sente soltanto un sommesso, uniforme mormorio, come se un'acqua gorgogliasse in qualche luogo lontano.
Mi ricordo che una volta, durante una lunga notte invernale, ascoltai un intero racconto. A tutta prima esso mi parve un qualche sogno delirante, come se io giacessi con la febbre e tutto ciò me lo fossi sognato nell'arsura, nel delirio.
(Racconto)
Era ormai notte tarda, dopo le undici. Io stavo già per prendere sonno, ma tutt'a un tratto mi risvegliai. La piccola, fosca luce del lumino lontano a mala pena rischiarava la corsia... Quasi tutti già dormivano. Dormiva perfino Ustiantsev, e nel silenzio si udiva come respirasse affannosamente e come il catarro gli rantolasse in gola a ogni respiro. In distanza, nell'ingresso, risuonarono a un tratto i passi pesanti della ronda che si avvicinava. Il calcio di un fucile picchiò sul pavimento. Si aprì la corsia; il caporale, camminando cautamente, contò i malati.
Dopo un minuto, la corsia fu richiusa, fu collocata una nuova sentinella, la pattuglia si allontanò e tornò il silenzio di prima. Allora soltanto mi accorsi che, non lontano da me, a sinistra, c'erano due che non dormivano e parevano bisbigliare tra loro. Questo accadeva nelle corsie: a volte stavano coricati per giorni e per mesi uno accanto all'altro, senza dirsi una parola, e tutt'a un tratto, non so come, si mettevano a discorrere in un'ora invitante della notte, e uno cominciava a tirar fuori davanti all'altro tutto il suo passato.
A quanto sembrava, parlavano già da un pezzo. Sul principio non avevo afferrato bene, e anche ora non potevo udire tutto bene, ma a poco a poco ci feci l'orecchio e cominciai a capire ogni cosa.
Io non potevo dormire: che fare, se non ascoltare? Uno raccontava con calore, semisdraiato sul letto, col capo sollevato, tendendo il collo nella direzione del compagno. Era visibilmente accalorato, eccitato; aveva voglia di raccontare. Il suo ascoltatore stava a sedere, arcigno e con perfetta indifferenza, sulla propria branda, tenendo distese le gambe, e tratto tratto mugolava qualcosa in risposta al narratore o in segno di interessamento, ma più che altro, così pareva, per educazione, e non sul serio, e ogni momento si riempiva il naso di tabacco che prendeva dal suo cornetto. Era quello il soldato Ceriòvin della compagnia di disciplina, un uomo sui cinquant'anni, un arcigno pedante, un freddo ragionatore e uno sciocco pieno di amor proprio. Il narratore Sciskòv, ancora giovane, sulla trentina, era uno dei nostri detenuti della categoria civile, che lavorava nella sartoria. Finora gli avevo fatto poca attenzione; e anche dopo, durante tutto il tempo della mia vita di reclusorio, non mi sentii mai portato a occuparmi di lui. Era un uomo vuoto e sventato. A volte taceva, se ne stava arcigno, si comportava ruvidamente, non parlava per settimane. E a volte d'improvviso s'impicciava in qualche storia, si metteva a spettegolare, si scaldava per bazzecole e girellava da una baracca all'altra riportando notizie, calunniando, andando fuori di sé. Se lo picchiavano, tornava a starsene zitto. Era un giovane vigliacchetto e miserevole. Tutti avevano l'aria di trattarlo con disdegno. Era di piccola statura e magro, con certi occhi irrequieti e, a volte, come ottusamente meditabondi. Se gli accadeva di raccontare qualcosa, cominciava con calore, con foga, agitando perfino le mani, e a un tratto troncava lì, o saltava ad altro, perdendosi dietro a nuovi particolari e dimenticando quello che aveva preso a dire. Spesso ingiuriava e non mancava mai, quando ingiuriava, di rinfacciare all'altro qualche cosa, qualche colpa verso di lui, e parlava con sentimento, per poco non piangeva... Non suonava male la balalaica e gli piaceva suonarla, e alle feste ballava perfino e ballava bene, quando ve l'obbligavano. Ci voleva pochissimo per obbligarlo a far qualche cosa. Non che fosse poi tanto docile, ma gli piaceva farsi vedere buon camerata e compiacere per cameratismo.
Per lungo tempo non potei capire di che cosa raccontasse. Mi pareva anche, sul principio, che si allontanasse sempre dal tema e si perdesse dietro a cose accessorie. Fors'anche si accorgeva che Ceriòvin ben poco si interessava al suo racconto, ma pareva volesse di proposito convincersi che il suo ascoltatore era tutt'orecchi, e forse sarebbe stato per lui un gran dolore, se si fosse convinto del contrario.
- ...Se capitava che andasse al mercato, - egli proseguì, tutti lo salutavano, lo riverivano, in una parola: un riccone.
- Aveva dei traffici, tu dici?
- Ma sì, dei traffici. Fra i nostri borghesi c'è una gran miseria.
Sono nudi come vermi. Le donne vengono dal fiume, salgono sulla scarpata e vanno a portare l'acqua chi sa dove, per innaffiare gli orti; si arrapinano, si arrapinano, e in autunno non hanno guadagnato nemmeno di che far la minestra di cavoli. E' una rovina. Be', lui aveva una gran distesa di terra e la lavorava coi garzoni, tre ne teneva, inoltre aveva anche il suo arniaio, trafficava miele e anche bestiame, e nel nostro paese quindi era molto rispettato. Era vecchissimo, di settant'anni, carico di ciccia, bianco in testa, così grosso. Quando andava in pelliccia di volpe al mercato, tutti lo riverivano. Sentivano rispetto per lui dunque: - Buon di, babbino, Ankudìm Trofimic'!. - Buon dì anche a te, - dice. Perché lui non disprezza nessuno. - Lunga vita a voi, Ankudìm Trofimic'!. - E come vanno i tuoi affari? - domanda. - I nostri affari sono come le mosche bianche. Ma voi, come ve la passate, babbino?. - Viviamo anche noi, - dice, - e anche noi, coi nostri peccati, affumichiamo il cielo. - Fate lunga vita, Ankudìm Trofimic'! - Non si schifa di nessuno, voglio dire, e se parla, è come se ogni sua parola valesse un rublo. Conosceva a fondo la Scrittura, sapeva leggere e scrivere, leggeva sempre cose sacre. Faceva sedere la vecchia davanti a sé: - Be', ascolta, moglie, cerca di capire! - e cominciava a spiegarle. E la vecchia non che fosse tanto vecchia, l'aveva già sposata in seconde nozze, per avere bambini, cioè, che dalla prima non ne aveva avuti. Be', di questa seconda moglie, di Maria Stiepànovna, c'erano due figli non ancora grandi; il minore, Vassia, egli l'aveva avuto a sessant'anni, e Akulka, la figlia maggiore cioè, aveva diciott'anni.
- Ed era questa tua moglie?
- Aspetta, qui prima Filka Morosov combinò un guaio. - Tu, dice Filka ad Ankudìm, - fa' le parti; dammi quattrocento rubli d'argento, sono forse il tuo lavorante io? Non voglio più commerciare con te, e la tua Akulka, - dice, - non la voglio prendere. Io ora, - dice, - mi sono messo a scialare. A me ora sono morti i genitori, - dice, - e così mi berrò tutti i soldi, poi andrò ad arruolarmi, a fare il soldato cioè, e tra dieci anni tornerò qui da voi feldmaresciallo. - E Ankudìm gli diede il denaro, regolò con lui fino all'ultimo soldo, perché il padre suo aveva già commerciato in società col vecchio. - Tu sei un uomo perduto, - dice. - E l'altro a lui: - Be', perduto o no, ma con te, barba bianca, c'è da imparare a tirar su il latte con la lesina. Tu, - dice, - anche di due "gros" vuoi fare economia, metti da parte ogni bazzecola: chi sa che non serva per la "kascia"! Io, - dice, - su tutto questo ci voglio sputare.
Ammucchi, ammucchi, poi tutto va al diavolo. Io, - dice, - ho del carattere. E la tua Akulka a ogni modo non la prenderò: io,- dice, - tanto ho già dormito con lei...
- Ma come mai, - dice Ankudìm, - osi infangare un padre onesto, una figliola onesta? Quando hai dormito con lei, razza di vipera, sangue di luccio che sei! - e intanto si era messo a tremar tutto.
Lo raccontava lo stesso Filka.
- E non soltanto non sposerà me, - dice, - ma io farò in modo che la vostra Akulka ora non possa più sposare nessuno, che nessuno la prenda; nemmeno Mikita Grigoric' la prenderà, perché ora è disonorata. Fin dall'autunno io e lei ci eravamo intesi per vivere insieme. Ma adesso per cento rubli non acconsentirei. Ecco, provati ora a darmi cento rubli: non acconsentirò.
E come si mise a scialarla, il giovanotto! Ma in tal modo che ne gemeva la terra e la città era a rumore. Aveva raccolto dei compagni, di denaro ne aveva un mucchio e per tre mesi fece baldoria, consumò tutto.
- Io, - soleva dire, - quando avrò finito tutti i soldi, liquiderò la casa, liquiderò tutto, e poi andrò o ad arruolarmi o a fare il vagabondo! - Era ubriaco dal mattino alla sera e viaggiava in tiro a due coi sonagli. E le ragazze andavano pazze per lui. Spendeva a borsa sciolta.
- Dunque aveva avuto rapporti con Akulka già prima di allora?
- Un momento, aspetta! Anch'io allora avevo sotterrato mio padre, e la mamma faceva i panforti, lavoravamo per Ankudìm e di questo campavamo. La nostra vita era misera. Be', avevamo pure un pezzo di terra dietro il bosco, seminavamo un po' di grano; ma dopo la morte di mio padre vendemmo tutto, perché anch'io mi ero messo a scialare, fratello mio. Mi facevo dare i soldi da mia madre con le botte...
- Non è una bella cosa, con le botte. E' un grosso peccato.
- Ero sempre ubriaco, fratello, dal mattino alla sera. La nostra casa era ancora così così, magari muffita, ma nostra, e in casa tua puoi far quello che vuoi. Si pativa la fame e lungo la settimana si masticavano pescetti. Mia madre me ne diceva di ogni sorta; ma a me che importava!... Io, fratello, allora non mi allontanavo da Filka Morosov. Dal mattino fino a notte ero con lui.
- Suonami la chitarra, - diceva, - e balla, e io me ne starò coricato e ti butterò i baiocchi, perché sono ricchissimo. - E che cosa non faceva! Soltanto la roba rubata non accettava: Io,- dice, - non sono un ladro, ma un uomo onesto. Su, andiamo, dice,- a ungere di catrame il portone di Akulka, perché non voglio che Akulka sposi Mikita Grigòrievic'. Questo ora mi sta a cuore più di tutto, - dice. E il vecchio già prima di allora voleva dare la ragazza a Mikita Grigòrievic'. Anche quel Mikita era un vecchio, un vedovo; portava gli occhiali, commerciava. Quando sentì le voci che correvano su Akulka, incominciò a dare indietro: - Questo, - dice, - Ankudìm Trofimic', sarebbe per me un gran disonore, e poi di sposarmi, dato che sono già vecchio, non ho desiderio. - Ed ecco che andammo a spalmare di catrame il portone di Akulka. Sì che la picchiarono in casa per questo!... Maria Stiepànovna grida:
- La toglierò dal mondo! - E il vecchio: - Nei tempi antichi, dice,- al tempo degli onorati patriarchi, io, - dice, - l'avrei fatta a pezzi su un rogo, ma oggi, - dice, - al mondo non c'è che tenebra e putridume. - I vicini per tutta la via sentivano il pianto e le urla di Akulka: la battevano dal mattino alla sera. E Filka gridava per tutto il mercato: - Brava ragazza quell'Akulka, - dice, - mia compagna di bisboccia! Sei tutta linda, vestita di bianco, dimmi chi ami! Io, - dice, - ho dato loro una botta nel naso, se ne ricorderanno.- A quel tempo anch'io una volta incontrai Akulka, che andava coi secchi, e le gridai: - Buon giorno, Akulina Kudìmovna! Salute a vostra grazia: sei ben vestita, dimmi da chi prendi i soldi, ti dirò con chi vivi! - dissi solo questo, e lei mi guardò, e aveva degli occhi così grandi, ma lei si era fatta magra come un truciolo. Quando mi guardò, la madre, credendo che ridesse con me, le gridò dall'androne: - Che hai da sciacquarti i denti, svergognata! - e quel giorno stesso la picchiò di nuovo. La picchiava a volte per un'ora di seguito. - La frusterò a morte, - dice, - perché ora non è più mia figlia.
- Era una sgualdrina dunque.
- Ma tu, ascolta, zietto. Ecco che un giorno, mentre io e Filka eravamo sempre ubriachi, arriva mia madre e io sono coricato:
Perché te ne stai coricato, mascalzone? - dice. -Brigante che sei.
- M'insulta così, e dice: - Sposati, - dice, - ecco, sposa Akulka.
Ora saranno felici di darla anche a te, e le daranno trecento rubli di puro contante. - E io le dico: - Ma lei ormai è disonorata agli occhi di tutto il mondo. - Ah, scioccone, dice, - con la corona nuziale si copre tutto; e per te sarà meglio, se lei per tutta la vita sarà colpevole di fronte a te. E noi disporremmo del loro denaro; io ho già parlato con Maria Stiepànovna, - dice.
- E lei presta orecchio volentieri. - E io:- Venti rubli d'argento in tavola, - dico, - allora mi sposo. Ed ecco, lo credi o no?, fino al giorno delle nozze fui ubriaco senza interruzione. Ma a questo punto Filka Morosov mi minaccia:- Io a te, marito di Akulka, - dice, - romperò tutte le costole, e con tua moglie, se vorrò, dormirò ogni notte. - E io a lui: Conti frottole, sangue d'un cane! - Be', lui mi coprì di vergogna per tutta la via. Io corsi a casa: - Non voglio sposarmi, - dico, - se non mi snocciolano subito altri cinquanta rubli d'argento!
- Ma a te la davano?
- A me? E perché no? Noi non siamo mica gente disonesta! Il mio genitore soltanto verso la fine fu rovinato dall'incendio, ma vivevamo ancora più riccamente di loro. Ankudìm, lui, dice: Voi siete dei miserabili pezzenti. - E io gli rispondo: - A voi, dico, - non poco hanno spalmato di catrame il portone. - E lui a me: - Che hai, - dice, - da alzare la cresta con noi? Tu prova che lei è disonesta, e poi non si può mica mettere un fazzoletto su ogni bocca! Ecco Dio, - dice, - ed ecco la soglia, non prenderla. Ma il denaro che hai preso anticipato rendimelo. - Ed ecco che allora io decisi questo con Filka: gli mandai a dire da Mitri Bikov che ora lo avrei disonorato davanti a tutto il mondo, e fino alle nozze, fratello mio, fui ubriaco senza interruzione. Mi snebbiai solo per lo sposalizio. Quando ci ricondussero dall'altare, ci fecero sedere e Mitrofàn Stiepanic', lo zio cioè, dice: - Anche se senza onore, - dice, la cosa è fatta e finita. - Il vecchio, Ankudìm, era anche lui ubriaco e si mise a piangere, stava seduto e le lacrime gli correvano giù per la barba. Be', io, fratello, allora ecco come feci: mi presi in tasca la frusta, me ne ero provvisto già prima dello sposalizio, e così mi proposi di divertirmi ora a sazietà a spese di Akulka, come a dire: impara a maritarti con un inganno disonesto, perché anche la gente sapesse che non mi ero sposato come uno scemo.
- Giusto! Perché dunque anche lei d'ora in poi sentisse...
- No, zietto, senti, sta' zitto. Dalle nostre parti, subito dopo lo sposalizio, conducono gli sposi nella dispensa e loro intanto bevono di là. Ed ecco che mi lasciarono con Akulka nella dispensa.
Lei stava a sedere bianca in viso, non una goccia di sangue. S'era spaventata cioè. Anche i suoi capelli erano tutti chiari come lino. Gli occhi grandi. E stava sempre zitta, non la si sentiva, come se in casa ci fosse una muta. Era proprio strana. Ebbene, fratello, puoi crederlo? io avevo preparato la frusta e l'avevo messa lì accanto al letto, e lei, fratello mio, risultò che non aveva verso di me nessuna colpa.
- Che dici!
- Nessuna; una ragazza proprio onesta, uscita da una casa onesta.
E per che cosa mai, fratello mio, se era così, aveva sopportato un tale martirio! Per che cosa Filka Morosov l'aveva disonorata davanti a tutto il mondo?
- Già!
- Allora mi misi in ginocchio davanti a lei, lì vicino al letto, e giunsi le mani: - Mammina, dico, - Akulina Kudìmovna, perdona quello scemo che sono per averti anch'io creduta così. Perdona,- dico, - questo mascalzone! - E lei sta seduta davanti a me sul letto e mi guarda, mi ha messo le due mani sulle spalle, ride, e intanto le vengono giù le lacrime; piange e ride... Allora andai dov'erano tutti: - Be', - dico, se ora incontro Filka Morosov, ha finito di vivere in questo mondo! - E i vecchi, quelli non sanno più che santo pregare: la madre per poco non le cadde ai piedi piangendo. E il vecchio disse: - Se avessimo saputo, non ti avremmo cercato, diletta figlia nostra, un simile marito. - E quando io e lei la prima domenica andammo in chiesa, io avevo un berretto di pelle d'agnello, un caffettano di panno fino e dei braconi di felpa, e lei una pelliccia nuova di lepre e un fazzoletto di seta, cioè io ero degno di lei e lei era degna di me: ecco come andiamo in chiesa! La gente ci ammira: io faccio la mia figura, e anche Akulìnuska, se non si può lodarla davanti agli altri, non si può nemmeno criticarla, su dieci non se ne troverebbe una così...
- Benissimo.
- Be', ascolta. Io il giorno dopo le nozze, benché fossi ubriaco, scappai via lasciando gli invitati; mi ero divincolato e correvo:
- Datemi qui, - dico, - quel farabutto di Filka Morosov, datemi qui quel mascalzone! - vado gridando per ll mercato! Be', anche lui era ubriaco; me mi acchiapparono già vicino ai Vlassov e con la forza, in tre, mi condussero a casa. Per la città intanto si sparge la voce. Le ragazze al mercato parlano tra loro: - Ragazze, brave figliole, lo sapete? Akulka è stata trovata onesta. - E Filka poco tempo dopo, in presenza di gente, mi dice: - Vendi la moglie e potrai ubriacarti. Da noi, dice, - il soldato Jaska si sposò per questo: non dormì con la moglie, ma fu ubriaco per tre anni. - Io gli dico: - Sei un mascalzone! - E tu, - dice lui, - sei uno scemo. Ti hanno fatto sposare che eri brillo. Perciò, che hai potuto capire in questa faccenda? - Io arrivo a casa e grido:
- Voi, - dico, - mi avete fatto sposare che ero ubriaco! - Mia madre stava già per attaccar lite: - Tu, mamma, - dico, - hai le orecchie foderate d'oro. Fa' venire Akulka! - Be' cominciai a suonargliele. E gliele suonai, fratello, gliele suonai, gliele suonai per un paio d'ore, fino a che io stesso non mi reggevo più; per tre settimane non si alzò dal letto.
- E sì, certo, - osservò flemmaticamente Ceriòvin - se non le picchi, loro... ma forse che tu l'avevi sorpresa con l'amante?
- No, quanto a sorprenderla, non la sorpresi, - replicò Sciskòv dopo un po' di silenzio e come se facesse uno sforzo. - Troppo mi ero sentito offeso, la gente mi aveva canzonato a buono, e in tutto ciò il caporione era stato Filka. - Tu, - dice, - hai una moglie modello, da far vedere alla gente. - Ci aveva invitati a bere, e venne fuori con questa uscita: - Sua moglie, - dice, - è un'anima caritatevole, generosa, gentile, è laboriosa, ha tutte le buone qualità, ecco come sono le cose adesso! E ha dimenticato, il ragazzo, che lui stesso le unse il portone di catrame! - Io ero lì seduto, ubriaco, e lui in quel momento mi afferrò per i capelli, mi afferrò e mi chinò in giù: - Balla, dice, - marito di Akulka, io ti terrò così per i capelli e tu balla, divertimi!. - Tu sei un mascalzone! - grido. E lui a me: Io verrò da te con la mia compagnia e frusterò con le verghe tua moglie Akulka davanti a te, finché mi piacerà. - Tanto che io, credimi o no, dopo questo fatto per tutto un mese ebbi paura di uscire di casa: può venire, penso, e disonorarmi. Ecco, per questo appunto mi misi a batterla...
- Ma perché battere! Le mani si legano, la lingua non si lega.
Anche battere molto non va. Castigala, insegnale, ma trattala anche bene. Non per niente è tua moglie.
Sciskòv tacque un po' di tempo.
- M'ero sentito offeso, - egli ricominciò, - e ripresi quest'abitudine: qualche giorno la picchiavo dal mattino alla sera; la giornata principiava male e continuava peggio. Se non la battevo, mi annoiavo. Lei stava seduta e taceva, guardava dalla finestra, piangeva... Lei piangeva sempre, mi faceva pena, eppure la picchiavo. Mia madre a volte me ne diceva di ogni sorta per lei: - Sei un mascalzone, - dice, - sei carne da galera!- L'ammazzo, - io grido, - e che ora nessuno osi dirmi niente, perché mi avete fatto sposare con inganno. - Da principio il vecchio Ankudìm prendeva le sue parti, veniva in persona: Tu,- dice, - non sa ancora nemmeno Iddio che c... sei; io troverò giustizia anche contro di te! - Ma poi lasciò correre. E Maria Stiepànovna si era fatta tutta mansueta. Un giorno viene e mi pregò piangendo: - Vengo a pregarti d'una cosa, Ivàn Semionic', è una piccola cosa, ma la preghiera è grande. Rendimi felice, babbino, - e s'inchinò; - calmati, perdonale! Gente cattiva ha calunniato la nostra figliola: lo sai anche tu, l'hai presa onesta... - S'inchina fino a terra e piange. E io faccio lo spavaldo: - Ora non voglio nemmeno ascoltarvi! Ora faccio di voi tutti quello che voglio, perché non sono più padrone di me; e Filka Morosov, - dico, - è il mio compagno e il mio primo amico...
- Vi eravate dunque rimessi a scialare insieme?
- Macché! Non lo si poteva nemmeno più avvicinare. Era proprio ubriaco fradicio. Aveva venduto tutto il suo e si era arruolato per conto di un borghese; per andar soldato in luogo del figlio maggiore. E dalle nostre parti, se uno si arruola per un altro, fino al giorno che lo conducono via, tutto nella casa deve essere a sua disposizione e lui ha piena signoria su tutti. Quando lo consegnano, riceve il denaro integralmente, e fino a quel momento vive nella casa del padrone, ci vive per sei mesi, e lì tante ne combina a danno dei padroni che è uno scandalo addirittura. Io, - dice, - vado soldato invece di tuo figlio, quindi sono il vostro benefattore, e voi tutti mi dovete rispettare, altrimenti io dirò di no. - E così Filka in casa del borghese fa la pioggia e il bel tempo, dorme con la figlia, ogni giorno dopo pranzo trascina il padrone per la barba: fa tutto a piacere suo. Ogni giorno fa il bagno e vuole che lo si massaggi con l'acquavite, e che siano le donne a portarlo nel bagno con le loro mani. Torna a casa dalla bisboccia, si pianta sulla strada: - Non voglio entrare per il portone, butta giù lo steccato ! - Così devono in un altro punto, accanto al portone, buttare giù lo steccato, perché lui ci possa passare. Finalmente ha finito, vanno a consegnarlo, gli fanno passare la sbornia. E quanta, quanta gente si precipita per tutta la via: vanno a consegnare Filka Morosov! E lui fa saluti da tutte le parti. E Akulka in quel momento veniva dall'orto; quando Filka la vede proprio vicino al nostro portone: - Ferma! - grida, salta giù dal carro e senz'altro le fa un inchino fino a terra: - Anima mia, - dice, - fiorellino mio, ti ho amata per due anni e adesso mi portano con la musica a fare il soldato. Perdonami, - dice, onesta figlia di un onesto padre, perché io sono stato un mascalzone verso di te, e ho colpa di tutto! - E le s'inchinò un'altra volta fino a terra. Akulka si era fermata, come se dapprima si fosse spaurita, ma poi gli fece un profondo inchino e disse: - Perdona anche tu me, bravo giovane, e io non ti faccio nessuna colpa. - Io la seguo nella isba: - Che cosa gli hai detto, sangue d'un cane? - E lei, ecco, puoi credermi o no, mi guardò e disse: - Ma lui ora io l'amo più della luce!
- Guarda un po'!
- Io In tutto quel giorno non le dissi nemmeno una parola...
Soltanto verso sera: - Akulka! Ora ti ammazzerò, - le dico. Nella notte non potei dormire, uscii nell'andito a bere del "kvas", e intanto cominciò a spuntare l'aurora. Rientrai nell'isba. - Akulka, - dico, - preparati a venire nel campo. - E io mi ero preparato già prima, e la mamma sapeva che saremmo andati. - Ecco - dice, - così va bene: è il tempo dei lavori, e il lavorante, ho sentito, sono tre giorni che è a letto col mal di ventre. - Io attacco il carro e sto zitto. Quando si esce dalla nostra città, lì subito si stende un bosco di pini per quindici verste, e dietro il bosco c'è la nostra terra. Facemmo un tre verste nel bosco, poi fermai il cavallo: - Alzati, dico, Akulina; è giunta la tua fine.
- Lei mi guarda spaventata, si mette davanti a me e sta zitta. - Sono stufo di te, - dico: prega Iddio! - Allora l'afferro per i capelli: le sue trecce erano così grosse, lunghe, me le avvolsi su una mano, poi la strinsi di dietro coi ginocchi da tutt'e due le parti, tirai fuori il coltello, le piegai la testa all'indietro e le menai un colpo di coltello alla gola. Come lei si mise a gridare, e il sangue spruzzò fuori, io gettai il coltello, la cinsi con le braccia per davanti, mi stesi a terra e l'abbracciai, e intanto grido sopra di lei e piango a dirotto; lei grida e io grido; lei trema tutta, si dibatte, e il sangue, il sangue mi spiccia addosso, e sul viso e sulle mani, a fiotti, a fiotti. Io la lasciai, mi aveva preso la paura, lasciai anche il cavallo, e via a correre a correre, entrai di corsa in casa nostra dalla parte di dietro, e poi nel bagno: c'era da noi un vecchio bagno fuori uso; mi rannicchio sotto un palchetto e sto lì. Ci stetti fino a notte.
- E Akulka?
- E lei, si vede, si era alzata dopo di me e si era avviata anche lei verso casa. Così la trovarono poi a cento passi da quel posto.
- Non l'avevi finita dunque.
- Sì... - Sciskòv si fermò per un minuto.
C'è una certa vena, - osservò Ceriòvin, - se non la si taglia, quella vena lì, di primo colpo, la persona continua a dibattersi, ma, per quanto sangue venga fuori, non morirà.
- Ma lei invece morì. La trovarono la sera, morta. Lo fecero sapere alla polizia, si misero a cercarmi e mi scovarono già verso notte, nel bagno! Ecco ormai il quarto anno, press'a poco, che sono qui, - soggiunse dopo un po' di silenzio.
- Ehm... Certamente, se non si picchia non si fa nulla di buono,- osservò con metodica flemma Ceriòvin tornando a cavar fuori il cornetto. Poi cominciò a fiutare, a lungo e con pause.- Però anche tu, ragazzo, - proseguì, - ti sei dimostrato, per conto tuo, molto sciocco. Anch'io una volta sorpresi mia moglie così con un amante.
Allora la chiamai nella rimessa e piegai in due una briglia. - A chi, - dico, - fai giuramenti? A chi fai giuramenti? - E la picchiai, la picchiai, e continuai a picchiarla con la briglia per un'ora e mezzo, e infine lei mi grida: - Laverò i tuoi piedi, e poi berrò quell'acqua. - Si chiamava Ovdotia.
Ma ecco già il principio di aprile, ecco che già si avvicina anche la Settimana Santa. A poco a poco cominciano i lavori estivi. Il sole è ogni giorno più caldo e più luminoso; l'aria odora di primavera e ha un'azione irritante sull'organismo. Le belle giornate che sopravvengono agitano anche l'uomo in catene; fanno germogliare in lui non so che desideri, aspirazioni, angosce. Pare che la nostalgia della libertà la si senta ancora più forte sotto i vividi raggi del sole che in una brutta giornata d'inverno o d'autunno, e questo lo si nota in tutti i detenuti. Essi hanno bensì l'aria di esser lieti delle giornate serene, ma nello stesso tempo cresce in loro una specie d'impazienza, d'impulsività.
Davvero, ho notato che in primavera gli alterchi nel nostro reclusorio sembravano farsi più frequenti. Più spesso si udivano strepiti, grida, baccano, più spesso nascevano beghe; in pari tempo ti accadeva di sorprendere tutt'a un tratto in qualche posto, sul lavoro, uno sguardo pensoso e ostinato teso verso lo sfondo azzurrino, verso un qualche punto laggiù, sull'altra sponda dell'Irtis, dove incomincia, come un'immensa tovaglia, lunga millecinquecento verste, la libera steppa chirghisa; o sorprendevi qualcuno a sospirare profondamente, con tutto il petto, come se l'individuo anelasse a respirare quell'aria lontana e libera e a dare così sollievo all'anima oppressa, incatenata. "Ahimè!", dice alla fine il detenuto e a un tratto, come scuotendo da sé le fantasticherie e l'esitazione, impaziente e arcigno, dà di piglio alla zappa o ai mattoni che bisogna trasportare da un luogo a un altro. Dopo un minuto egli già dimentica la sua improvvisa sensazione e comincia a ridere o a ingiuriare, secondo il suo carattere; oppure di colpo, con insolita foga, del sproporzionata al bisogno, si applica al suo compito, se gli è stato assegnato, e si mette a lavorare, a lavorare con tutte le forze, come se volesse soffocare in sé, col peso del lavoro, qualcosa che lo urge e l'opprime dal di dentro. Tutta questa è gente vigorosa, per la maggior parte nel fiore degli anni e delle forze... Pesanti sono i ferri ai piedi in questa stagione! Io non faccio della poesia in questo momento e sono sicuro che la mia osservazione è giusta. A parte il fatto che al caldo, in mezzo al sole vivo, quando, con tutta l'anima, con tutto l'essere tuo, odi e senti intorno a te la natura che rinasce con immenso vigore, ancora più gravi ti diventano la chiusa prigione, la scorta e l'altrui volontà; a parte ciò, in questa stagione primaverile comincia per tutta la Siberia e per tutta la Russia, con l'apparire della prima allodola, il vagabondaggio: le creature di Dio fuggono dai reclusori e si rifugiano nelle foreste. Dopo aver provato la tomba soffocante, i tribunali, i ferri ai piedi e i bastoni, esse vagabondano in piena balìa di se stesse là dove vogliono, dove la vita è più attraente e più agevole; bevono e mangiano dove e quello che capita, quello che manda Iddio, e la notte si addormentano placidamente dove che sia, in un bosco o in un campo, senza grandi fastidi, senza l'angoscia del carcere, come gli uccelli della foresta, dicendo addio per la notte alle sole stelle del cielo, sotto l'occhio di Dio. Chi parla! A volte è duro ed estenuante "prestar servizio sotto il generale Kukuskin", e c'è da patire la fame. Per giorni interi qualche volta non si riesce a vedere il pane; bisogna nascondersi a tutti, rimpiattarsi; capita anche di dover rubare, commettere rapine e talora anche ammazzare.
"Il confinato è come un bimbo, quel che vede lo attira", dicono in Siberia dei confinati. Questo detto si può applicare anche al vagabondo. Il vagabondo di rado non è un brigante e quasi sempre è ladro, più per necessità, s'intende, che per vocazione. Ci sono i vagabondi incalliti. Taluno scappa perfino dopo aver terminato il suo periodo di lavori forzati, già dal luogo di confino. Pare che nel luogo di confino si trovi contento e abbia la vita assicurata, invece no, si sente sempre attirato, chiamato in qualche altro posto. La vita nelle foreste, vita povera e orribile, ma libera e piena di avventure, ha qualcosa di seducente, un qualche misterioso fascino per quelli che già una volta l'hanno provata, ed ecco che scappano, perfino degli uomini umili, ordinati, che già promettevano di diventare buoni coloni e operosi padroni. Uno magari si sposa, tira su dei figli, vive per cinque anni in un posto, e improvvisamente, un bel mattino, scompare non si sa dove, lasciando perplessi la moglie, i figli e tutto il circondario a cui è stato ascritto. Nel nostro reclusorio mi avevano indicato uno di tali fuggitivi. Non aveva commesso alcun delitto speciale, per lo meno non si sentiva dire di lui nulla di simile, eppure fuggiva sempre, in tutta la sua vita non aveva fatto altro che fuggire. Era stato e al confine russo meridionale, oltre il Danubio, e nella steppa chirghisa, e nella Siberia orientale, e nel Caucaso, era stato dappertutto. Chi sa, forse in altre circostanze ne sarebbe venuto fuori un Robinson Crusoe con la sua passione dei viaggi. Del resto tutto ciò me l'avevano detto sul suo conto gli altri; nel reclusorio egli discorreva ben poco e tutt'al più diceva le cose più indispensabili. Era un contadinotto molto piccolo, già sulla cinquantina, oltremodo pacifico, dalla faccia oltremodo placida e perfino ottusa, placida fino all'idiozia. D'estate gli piaceva starsene al sole e non mancava mai di canticchiare tra sé una qualche canzoncina, ma così piano che a cinque passi da lui più non si udiva. I tratti del suo viso erano come lignificati; mangiava poco e, più che altro, del pane; non comprava mai né un panino a ciambella né un quartino di acquavite; ed era ben difficile che in qualche momento avesse del denaro, era ben difficile perfino che sapesse contare. Egli considerava ogni cosa con perfetta flemma. A volte nutriva con le proprie mani i cani del reclusorio, mentre ai cani da noi nessuno dava da mangiare. E poi al russo in generale non piace dar da mangiare ai cani. Dicevano che si fosse sposato, due volte anzi; dicevano che in qualche posto avesse dei figli... Perché fosse finito al reclusorio, non so assolutamente. I nostri si aspettavano sempre che alzasse i tacchi anche da noi; ma, o non fosse ancora venuta la sua ora, o egli fosse già troppo avanti negli anni, certo è che se ne viveva per suo conto tenendo un contegno, in certo qual modo, contemplativo verso tutto quello strano mondo che lo circondava. Del resto era impossibile essere sicuri al riguardo, anche se pareva che egli non avesse alcun motivo di fuggire: che cosa ci avrebbe guadagnato? E pur tuttavia, nel suo insieme, la vita vagabonda, nelle foreste, era un paradiso di fronte a quella del reclusorio. La cosa è tanto comprensibile, né può esserci confronto. Anche se è una dura sorte, sei pur sempre libero. Ecco perché ogni detenuto in Russia, dovunque si trovi, diventa come inquieto in primavera, coi primi invitanti raggi del sole primaverile. Benché poi ben pochi abbiano intenzione di fuggire: si può dire positivamente che vi si risolve, date le difficoltà e la responsabilità a cui si va incontro, uno su cento; ma in cambio gli altri novantanove per lo meno fantasticano sul come si potrebbe fuggire e dove si avrebbe da fuggire; per lo meno si consolano col solo desiderio, col solo immaginarsi la possibilità della fuga. Qualcuno magari ricorderà di essere evaso in qualche tempo lontano...
Io parlo ora unicamente dei condannati. Ma s'intende che molto più spesso e più di tutti si inducono alla fuga i giudicabili. I condannati a termine invece evadono tutt'al più all'inizio della loro detenzione. Ma dopo avere scontato due o tre anni di lavori forzati, il detenuto già comincia ad apprezzare tali anni e a poco a poco riconosce in cuor suo che è meglio terminare ormai in modo legale il suo periodo di lavori e poi andare al confino che risolversi a un simile rischio e a un simile disastro in caso di fiasco. E il fiasco è così facile! Tutt'al più uno su dieci riesce a mutare la propria sorte. Anche fra i condannati, più spesso degli altri si arrischiano a fuggire i condannati a pene assai lunghe. Quindici, venti anni sembrano un'eternità e il condannato a tali pene è sempre pronto a sognare un mutamento della sorte, anche se avesse già scontato dieci anni di lavori forzati. Infine anche il marchio trattiene in parte dall'arrischiare una fuga.
"Mutare la sorte" poi è termine tecnico. E così negli interrogatori, quando è accusato di evasione, il detenuto risponde che voleva mutare la sua sorte. Questa espressione un po' libresca è letteralmente applicabile al caso. Chiunque evade ha in vista non di rendersi definitivamente libero, - egli sa che ciò è quasi impossibile, ma o di capitare in un altro stabilimento penale, o di finire al confino, o di essere giudicato daccapo, per un nuovo delitto, commesso già durante il vagabondaggio, insomma di finire in qualunque luogo, purché non sia il vecchio posto che gli è venuto a noia, purché non sia il reclusorio di prima. Tutti questi fuggiaschi, se non trovano nel corso dell'estate un qualche casuale, insolito posto dove passar l'inverno, - se per esempio, non s'imbattono in qualche ricettatore di evasi, che in ciò ha il suo vantaggio; se infine non si procurano, a volte con un assassinio, un passaporto, col quale si può soggiornare dappertutto, - verso l'autunno, ove non siano stati acciuffati prima, per lo più si presentano da sé in folti branchi nelle città e nelle prigioni, quali vagabondi, e si fanno mettere in carcere per l'inverno, non senza speranza naturalmente di fuggire di nuovo in estate.
La primavera esercitava il suo influsso anche su di me. Mi ricordo che a volte guardavo avidamente dalle fessure tra i pali e rimanevo in piedi a lungo, con la testa appoggiata al nostro steccato, osservando, ostinato e insaziabile, come verdeggiasse l'erba sul bastione della nostra fortezza e come sempre più carico si facesse l'azzurro del cielo lontano. La mia inquietudine e la mia angoscia crescevano di giorno in giorno e il reclusorio mi diventava sempre più odioso. L'odio che io, come nobile, ebbi costantemente a sperimentare nel corso dei primi anni da parte dei detenuti, diveniva per me intollerabile e mi avvelenava tutta l'esistenza. In quei primi anni andavo spesso, senza malattia alcuna, a mettermi in letto all'infermeria unicamente per non stare nel carcere, pur di liberarmi da quel caparbio odio generale che nulla placava. "Voi avete il becco di ferro, voi ci avete beccati a morte!", ci dicevano i detenuti, e quanto io invidiavo di solito la semplice gente del popolo che arrivava al reclusorio!
Quelli si facevano subito amici con tutti. E perciò la primavera, il fantasma della libertà, la letizia universale della natura avevano in me, in certo qual modo, anche una triste e irritante risonanza. Alla fine della quaresima, mi pare nella sesta settimana, mi toccò far le divozioni. Tutto il reclusorio, fin dalla prima settimana, era stato diviso dal sottufficiale anziano in sette turni, in base al numero di settimane della quaresima, per far le divozioni. Ciascun turno era risultato in tal modo di una trentina d'uomini. La settimana delle divozioni mi piacque molto. I partecipanti erano esentati dal lavoro. Noi andavamo alla chiesa, che non era lontana dal reclusorio, due o tre volte al giorno. Da lungo tempo non ero stato in chiesa. Le funzioni quaresimali, a me così note fin dalla lontana infanzia, nella casa paterna, le solenni preghiere, le genuflessioni, tutto ciò rimescolava nell'anima mia un passato lontano lontano, mi ricordava le impressioni degli anni infantili e mi rammento che era per me un gran piacere quando al mattino, sul terreno che era gelato durante la notte, solevano condurci sotto scorta, coi fucili carichi, nella casa di Dio. La scorta del resto non entrava in chiesa. Noi ci collocavamo in folto gruppo proprio vicino alla porta, proprio negli ultimi posti, cosicché si poteva udire tutt'al più il vocione del diacono o scorgere, di dietro la folla, la nera pianeta e la calvizie del sacerdote. Io rammentavo come un tempo, ancora bambino, stando in piedi in chiesa, guardassi a volte la gente del popolo che faceva ressa vicino all'entrata e servilmente si traeva da parte dinanzi a due fitte spalline, a un grasso signore o a una agghindatissima, ma oltremodo pia signora, che non mancavano mai di farsi avanti verso i primi posti e per il primo posto erano pronti in ogni momento a litigare. Mi pareva allora che là, presso l'entrata, si pregasse anche in modo diverso che da noi, si pregasse umilmente, con fervore, con profonde genuflessioni e con una certa piena consapevolezza del proprio umile stato.
Ora toccò anche a me stare in piedi in quegli stessi posti, e anche in peggiori condizioni: noi eravamo incatenati e coperti d'infamia; tutti si scostavano da noi, tutti anzi avevano l'aria di temerci, ogni volta ci facevano la carità, e ricordo che ciò mi era perfino, in certo qual modo, gradito e una certa qual raffinata, speciale sensazione coloriva quel mio strano piacere.
"E sia pure, se è così!", pensavo. I detenuti pregavano con molto zelo e ciascuno di loro portava in chiesa ogni volta la sua povera copeca per una candeletta o la deponeva nella cassetta della questua: "Sono anch'io un uomo", forse egli pensava o sentiva porgendola, "davanti a Dio tutti sono uguali". Noi facevamo la comunione dopo la prima messa. Quando il sacerdote, col calice nelle mani, recitava le parole: "... ma accoglimi come il ladrone", quasi tutti si prosternavano facendo risonare i ferri, e prendendo, mi pare, queste parole letteralmente a proprio conto.
Ma ecco che arrivò anche la santa Pasqua. Da parte dei superiori ci furono inviati un uovo e una fetta di pane bianco al burro a testa. Dalla città tornarono ad affluire al reclusorio le offerte.
Di nuovo la visita del sacerdote con la croce, di nuovo la visita dei superiori, di nuovo la minestra grassa di cavoli, di nuovo ubriacature e vagabondaggi: tutto punto per punto come già a Natale, con la differenza che ora si poteva già passeggiare per il cortile del carcere e riscaldarsi al solicello. C'era come più luce, più spazio che d'inverno, ma, in certo qual modo, maggiore era l'angoscia. La lunga, interminabile giornata estiva pareva farsi particolarmente insopportabile nei giorni festivi. In quelli feriali almeno era abbreviata dal lavoro.
I lavori estivi risultarono effettivamente molto più faticosi di quelli invernali. Si lavorava per lo più alle costruzioni del genio. Dei detenuti fabbricavano, scavavano la terra, collocavano i mattoni; altri erano addetti a lavori di magnano, di falegname e di decoratore nelle opere di restauro degli edifici governativi.
Altri ancora andavano a far mattoni. Quest'ultimo lavoro era considerato tra noi come il più pesante. La fabbrica di mattoni si trovava a un tre o quattro verste dalla fortezza. Ogni giorno, nel corso dell'estate, verso le sei del mattino tutto uno scaglione di detenuti, una cinquantina d'uomini, si avviava a far mattoni. Per questo lavoro si sceglievano gli uomini di fatica, i non artigiani cioè e quelli che non avevano alcun mestiere. Essi prendevano con sé del pane, perché, data la lontananza del luogo, non conveniva venire a casa per desinare e percorrere in tal modo un otto verste di più, e desinavano poi la sera, al ritorno in reclusorio. Il compito veniva assegnato per tutto il giorno, e tale che a mala pena il detenuto poteva, nell'intera giornata lavorativa, venirne a capo.
In primo luogo, bisognava scavare ed estrarre l'argilla, portarsi l'acqua da sé, da sé pestare l'argilla nell'apposita fossa e infine fabbricare con essa moltissimi mattoni, due centinaia, mi pare, e perfino poco meno di duecentocinquanta. Io andai alla mattonaia solo due volte in tutto. Gli operai tornavano che era già sera, stanchi, sfiniti, e durante l'intera estate rinfacciavano continuamente agli altri che il loro lavoro era il più faticoso di tutti. Era questa, a quanto pareva, la loro consolazione. Ciò nonostante, certuni andavano laggiù perfino di buona voglia: innanzi tutto, si andava fuori di città e il sito era aperto, libero, in riva all'Irtis. Guardare in giro era pur sempre più confortante, e non c'era la fiscalità della fortezza!
Si poteva fumare un poco liberamente e perfino stare sdraiati con gran piacere per una mezz'ora. Quanto a me, o andavo come prima al laboratorio, o a pestare l'alabastro, o infine venivo utilizzato come manovale nei lavori di costruzione. In quest'ultimo caso mi toccò una volta trasportar mattoni dalla riva dell'Irtis a una baracca che si costruiva a un centocinquanta metri di distanza, di là dal bastione del reclusorio, e questo lavoro continuò un paio di mesi di fila. Esso mi piacque perfino, sebbene la fune, con cui bisognava legare i mattoni, mi sfregasse di continuo le spalle. Ma mi era gradito che, per effetto di quel lavoro, le mie forze crescessero visibilmente. Da principio non potevo portare che otto mattoni per volta, e ogni mattone pesava dodici libbre. Ma poi arrivai fino a dodici e a quindici mattoni, e questo mi rallegrava molto. La forza fisica era necessaria in galera non meno di quella morale per sopportare tutti i disagi materiali di quella vita maledetta.
E io volevo ancora vivere anche dopo l'uscita dal reclusorio...
A me del resto piaceva portare mattoni non soltanto perché questo lavoro m'irrobustiva il corpo, ma anche perché si svolgeva sulla riva dell'Irtis. Io parlo così spesso di questa riva unicamente per il fatto che da essa soltanto era visibile il creato, il puro, sereno orizzonte, con le libere steppe disabitate, che mi facevano sempre una strana impressione per la loro deserta immensità. Su quella riva soltanto si poteva volgere il dorso alla fortezza e non più vederla. Tutti gli altri luoghi dei nostri lavori erano nel forte o in sua prossimità. Fin dai primi giorni io avevo odiato quella fortezza e specialmente taluni dei suoi edifici. La casa del nostro maggiore di piazza mi pareva non so che luogo maledetto e ripugnante, e io la guardavo con odio ogni qual volta le passavo dinanzi. Sulla riva del fiume invece ci si poteva abbandonare all'oblio, e tu guardavi quella immensa distesa deserta come un recluso dalla finestra della sua prigione guarda la libertà. Lì per me tutto era simpatico e caro: e il fulgido sole ardente nell'azzurro senza fondo del cielo, e la canzone lontana che giungeva dalla riva chirghisa. Se vi figgevi a lungo lo sguardo, finivi col discernere la misera, affumicata tenda di un qualche nomade povero; discernevi presso la tenda un po' di fumo e la chirghisa che là si affaccendava intorno ai suoi due montoni. Tutto ciò era povero e selvaggio, ma libero. Nell'aria azzurra trasparente scorgevi un qualche uccello e ne seguivi a lungo, ostinatamente, il volo: ecco che ha sbattuto le ali sopra l'acqua, eccolo scomparso nell'azzurro, eccolo mostrarsi di nuovo come un balenante puntino. Perfino il povero, stentato fiorellino che trovai al principio di primavera in uno spacco della riva sassosa, anche quello attrasse in certo qual modo morbosamente la mia attenzione. L'angoscia di tutto quel primo anno di lavori forzati era intollerabile e aveva su di me un effetto irritante, mi riempiva di amarezza. In quel primo anno, a causa di quest'angoscia, non mi accorgevo di molte cose che mi stavano intorno. Chiudevo gli occhi e non volevo osservare. Fra i miei cattivi, odiosi compagni forzati, non notavo i buoni, gli uomini capaci di pensare e e di sentire, nonostante tutta la disgustosa corteccia che esteriormente li rivestiva. In mezzo alle parole velenose non notavo a volte la parola gentile e affettuosa, tanto più cara in quanto pronunciata senza alcun secondo fine e non di rado venuta direttamente da un'anima che più di me aveva patito e sofferto. Ma a che diffondersi su questo? Io ero immensamente felice se mi accadeva di sentirmi stanchissimo, una volta tornato a casa: forse avrei potuto prender sonno! Perché dormire era da noi, d'estate, un tormento quasi quasi ancor peggiore che d'inverno. Le sere, in verità, erano talora bellissime. Il sole, che durante l'intera giornata non aveva lasciato il cortile del reclusorio, tramontava. Sopraggiungeva la frescura e, dopo di essa, la notte delle steppe (relativamente parlando) quasi fredda.
I detenuti, in attesa di venire rinchiusi, sogliono passeggiare a frotte per il cortile. Il grosso, veramente, si affolla piuttosto in cucina. Là viene sempre sollevato un qualche problema della quotidiana vita carceraria, si discorre del più e del meno, talora si vaglia qualche voce, spesso assurda, che suscita però uno straordinario interesse fra quegli uomini segregati dal mondo; così, per esempio, era giunta notizia che il nostro maggiore di piazza l'avrebbero sbalzato via. I detenuti sono creduli come bambini; essi stessi sanno che la notizia è una fola, che l'ha recata un noto chiacchierone e uomo "senza criterio", il detenuto Kvassov, a cui già da un pezzo hanno stabilito di non più credere e che, a ogni parola che dice, tira fuori una bugia, e intanto tutti si aggrappano alla notizia, la discutono e la giudicano, e si consolano da sé, e finisce che si arrabbiano con se stessi e si sentono loro stessi vergognosi di aver prestato fede a Kvassov.
- Ma chi mai lo scaccerà? - grida uno, - ha il muso duro, chi vuoi che lo metta a posto!
- Ma c'è anche chi è superiore a lui! - obietta un altro, un giovane focoso e non sciocco, che ne ha viste di tutti i colori, un disputatore come non ce n'è ancora stati al mondo.
- Cane non mangia cane! - osserva tetro, come tra sé, un terzo, un uomo già brizzolato, che, tutto solo, finisce di mangiare in un angolo la sua minestra di cavoli.
- E i superiori forse verranno a domandare a te se hanno da cambiarlo o no? - soggiunge con indifferenza un quarto, strimpellando leggermente la balalaica.
- E perché non a me? - replica con furore il secondo, - dal momento che tutta la poveraglia lo chiede, dichiaratelo tutti, se v'interrogheranno. Ma da noi magari si grida, quando si viene al fatto però, allora si tirano indietro.
- E tu come credevi che fosse? - dice il suonatore di balalaica.- Non per niente questa è galera.
- L'altro giorno, - continua, senza ascoltarlo e con foga, il disputatore, - era rimasta della farina. Raccolsero le raschiature, proprio le ultime briciole quindi, e mandarono a venderle. Ebbene, lo venne a sapere; il capoccia aveva fatto la spia; ce la tolsero: per fare economia. E' giusto o no?
- Ma tu a chi vuoi lagnarti?
- A chi! Ma al "levisore" stesso, che viene qui.
- Ma a che "levisore" mai?
- Questo è vero, fratelli, che viene il "levisore", - dice un giovane sveglio, che ha un po' d'istruzione, un ex-scrivano che ha letto "La duchessa Lavallière" o qualcosa del genere. Egli è un eterno allegro bontempone, ma per una sua certa qual conoscenza e pratica delle cose lo rispettano. Senza badare alla suscitata generale curiosità circa il futuro ispettore, egli va diritto dalla "sguattera", cioè dal cuoco, e gli chiede del fegato. Le nostre "sguattere" spesso facevano di questi commerci. Compravano, per esempio, di tasca propria un grosso pezzo di fegato, lo facevano arrostire e lo vendevano al minuto ai detenuti.
- Per un "gros" o per due? - domanda la "sguattera" - Tagliane per due: voglio che la gente m'invidi! - risponde il detenuto. - Viene un generale, fratelli, un certo generale di Pietroburgo, ispezionerà tutta la Siberia. Questo è vero. Lo dicevano dagli attendenti.
La notizia produce un'agitazione straordinaria. Per un quarto d'ora continuano le domande: chi è precisamente? che generale? che grado ha? ed è superiore ai generali di qui? Di gradi, di capi, di chi tra loro sia superiore agli altri, di chi possa mettere a posto l'altro o essere messo a posto, ai detenuti piace immensamente discorrere, per i generali essi discutono e si ingiuriano, e per poco non s'azzuffano. "Che vantaggio ci trovano?", vien da pensare. Ma dalla conoscenza minuta dei generali e degli altri superiori si misura anche il grado delle cognizioni, dell'assennatezza di un uomo e dell'importanza che aveva nella società prima di venire al reclusorio. In genere le conversazioni sulle alte autorità sono considerate nel carcere come le più eleganti e le più serie.
- Allora ne viene, fratelli, che il maggiore lo sostituiscono davvero, - osserva Kvassov, un omino piccolo e tutto rosso, focoso e scervellato all'estremo. Era stato lui per primo a portare la notizia del maggiore.
- Lo comprerà! - obietta bruscamente il detenuto tetro brizzolato, che già s'è sbrigato della minestra di cavoli.
- Certo che lo comprerà! - dice un altro. - Quanto denaro ha rubato! Prima di noi era ancora comandante di battaglione. Poco fa voleva sposare la figlia dell'arciprete.
- Non l'ha sposata però: gli hanno mostrato la porta; vuol dire che è povero. Che partito è lui! Se si alza dalla sedia, ha tutto con sé. A Pasqua ha perduto tutto a carte. L'ha detto Fedka.
- Sì; anche se non lo butti, il denaro se ne va.
- Eh, fratello, ho avuto moglie anch'io. Per il povero è un brutto affare sposarsi: ti sposi e poi non finisci di pentirti!- fa notare Skuratov, arrivato a questo punto della conversazione.
- E come! Qui si parla appunto di te, - osserva il giovane disinvolto, l'ex-scrivano. - Ma tu, Kvassov, te lo dico io, sei un grande scemo. Credi tu proprio che il maggiore comprerà un simile generale e che un simile generale verrà apposta da Pietroburgo per fare un'ispezione al maggiore? Sei stupido, ragazzo, ecco quel che ti dico.
- E che c'è? Perché è generale, non prenderà lo sbruffo, eh? fa notare scetticamente qualcuno della folla.
- Si sa che non lo prenderà, e se lo prenderà, lo prenderà grosso.
- Grosso, si sa; secondo il grado.
- Un generale lo prenderà sempre, - afferma risoluto Kvassov.
- Tu gliel'hai già dato, che? - dice a un tratto con aria sprezzante Baklusein, che è entrato. - Ma tu un generale quando mai l'hai visto?
- Altro che visto!
- Conti frottole.
- Contale tu.
- Ragazzi, se ne ha visti, dica subito davanti a tutti che generale conosce. Su, dillo, perché io i generali li conosco tutti.
- Io ho visto il generale Sibert, - risponde Kvassov con un po' di esitazione.
- Sibert? Un generale di questo nome non c'è. Si vede che quel Sibert ti accarezzò solo un momento la schiena, quando forse era appena tenente colonnello, e a te per la paura sembrò che fosse un generale.
- No, ascoltatemi, - grida Skuratov, - perché io sono un uomo ammogliato. Un generale di questo nome c'era realmente a Mosca, un Sibert, di origine tedesca, ma russo. Ogni anno, all'Assunzione di Maria, si confessava al pope russo e beveva continuamente acqua, fratelli, come un'anatra. Ogni giorno vuotava quaranta bicchieri d'acqua della Moscova. Dicevano che si curasse di non so che malattia con l'acqua; a me lo diceva il suo cameriere stesso.
- E nella pancia, a forza di bere acqua, forse gli erano nati i coracini? - osserva il detenuto dalla balalaica.
- Be', smettetela voi! Qui si parla di cose serie, e loro... Ma chi è questo "levisore", fratelli? - domanda impensierito un detenuto dall'aria affaccendata, Martinov, un vecchio militare, un ex-ussero.
- Ma quella gente lì conta frottole! - osserva uno degli scettici.
- E dove vanno a pescarle? Ma sono tutte sciocchezze.
- No, non sono sciocchezze, - osserva con aria sentenziosa Kulikòv, che finora ha taciuto maestosamente. E' questo un uomo autorevole, sulla cinquantina, oltremodo bello di viso e con una certa maniera di fare sprezzantemente maestosa. Egli ne è consapevole ed orgoglioso. E' un po' zingaro e veterinario, guadagna denari in città curando i cavalli e da noi traffica acquavite. E' un tipo intelligente e ha visto molte cose. Lascia cadere le parole come se regalasse dei rubli.
- Questo è vero, fratelli, - egli continua tranquillamente, - io 1'avevo già sentito dire la scorsa settimana; viene un generale, di quelli molto importanti, e ispezionerà tutta la Siberia.
Compreranno anche lui, si sa, ma non il nostro Ottocchi, che non oserà nemmeno venirgli tra i piedi. C'è generale e generale, fratelli. Ce n'è d'ogni sorta. Io vi dico però che il nostro maggiore in ogni caso resterà al suo posto. Questo è sicuro. Noi siamo gente senza lingua e dei superiori nessuno denuncerà il suo collega. L'ispettore darà un'occhiata al reclusorio, e poi se ne andrà, e riferirà che ha trovato tutto in regola...
- Proprio così, fratelli, ma il maggiore s'è preso paura: è ubriaco fin dal mattino.
- E la sera guida un altro carrozzino. Me l'ha detto Fedka.
- Un cane nero, per quanto lo lavi, non sarà mai bianco. E' forse ubriaco per la prima volta?
- No, che c'è da dire, se anche il generale non farà nulla! No, basta ormai tollerare i loro capricci! - dicono tra loro i detenuti, agitandosi.
La notizia relativa all'ispettore si propaga in un batter d'occhio per il reclusorio. Degli uomini vanno in giro per il cortile e, con impazienza, si comunicano a vicenda la novità. Altri tacciono di proposito, conservando il loro sangue freddo, e con ciò visibilmente cercano di darsi più importanza. Altri ancora restano indifferenti. Sulle scalette delle camerate si mettono a sedere i detenuti con le balalaiche. Taluni seguitano a chiacchierare.
Altri intonano canzoni, ma in generale quella sera si trovano tutti in uno stato di singolare eccitazione.
Dopo le nove tutti i nostri venivano contati, fatti entrare nelle camerate e rinchiusi per la notte. Le notti erano brevi; li si svegliava prima delle cinque del mattino e nessuno si addormentava mai prima delle undici di sera. Sempre, fino a quell'ora, continuavano l'andirivieni, i discorsi e qualche volta, come già d'inverno c'erano anche i "majdàn". Durante la notte, il caldo e l'afa si fanno insopportabili. Sebbene la frescura notturna spiri da una finestra il cui telaio è sollevato, i detenuti si rivoltano sui loro tavolacci tutta la notte, come in delirio. Le pulci pullulano a miriadi. Esse vivono da noi anche durante l'inverno, e in più che bastevole quantità ma, a cominciare dalla primavera, si moltiplicano in proporzioni tali che io, pur avendone già sentito parlare, ma non avendone fatto diretta esperienza, non ci volevo credere. E quanto più si va verso l'estate, tanto più diventano rabbiose. Alle pulci, è vero, ci si può abituare, io stesso ne ho fatto la prova; ma è pur sempre una cosa penosa. Ti sfiniscono al punto che ti pare alla fine di aver la febbre e senti tu stesso che non dormi, ma deliri soltanto. Finalmente, quando proprio verso il mattino si calmano, una buona volta, anche le pulci, come tramortite, e quando, col fresco mattutino, ti sembra di potere in realtà dolcemente prendere sonno, echeggia tutt'a un tratto il rullo spietato del tamburo al portone del reclusorio e comincia la sveglia. Tu ascolti, maledicendo, mentre ti avvolgi nella pelliccia corta, quei suoni forti e distinti, come se tu li contassi, e intanto, attraverso il sonno, ti si insinua in capo l'intollerabile pensiero che così sarà anche domani, e dopodomani, e per parecchi anni di seguito, fino al giorno della libertà. Ma quando mai, tu pensi, verrà questa libertà, e dov'è essa? E intanto bisogna svegliarsi; incomincia il solito andare e venire, il trambusto... gli uomini si vestono; si affrettano per andare al lavoro. E' vero che si poteva ancora dormire un'oretta a mezzogiorno.
Riguardo all'ispettore avevano detto il vero. Le voci si confermavano una volta di più ogni giorno e infine tutti seppero ormai con certezza che veniva da Pietroburgo a ispezionare l'intera Siberia un generale molto importante, che già era arrivato, che già era a Tobòlsk. Ogni giorno nuove voci giungevano al reclusorio. Giungevano notizie anche dalla città: si sentiva dire che tutti avevano paura e si davano da fare, volendo presentare ogni cosa sotto la miglior luce. Dicevano che le autorità superiori preparavano ricevimenti, balli, feste. I detenuti venivano inviati a gruppi a spianare le vie della fortezza, a rimuovere i monticelli di terra, a ridipingere steccati e pilastri, a intonacare, a riverniciare, insomma si voleva in un batter d'occhio racconciare tutto ciò di cui bisognava far bella mostra. I nostri capivano benissimo la faccenda e con sempre maggior calore e petulanza ne discutevano tra loro. La loro fantasia si sbrigliava senza limiti. Facevano conto perfino di avanzare un reclamo, quando il generale si fosse messo a domandare se erano contenti. E intanto discutevano e s'ingiuriavano tra loro. Il maggiore di piazza era agitato. Più spesso piombava nel reclusorio, più spesso gridava, più spesso si scagliava sulle persone, più spesso riuniva tutti nel corpo di guardia e badava con più zelo alla pulizia e alla bella figura.
Nel frattempo, come a farlo apposta, accadde nel carcere un piccolo incidente, che del resto non turbò affatto il maggiore, come ci si sarebbe potuto aspettare, ma al contrario gli fece perfino piacere. Un detenuto, in rissa, piantò una lesina nel petto a un altro, quasi sotto il cuore.
Il detenuto che aveva commesso il delitto si chiamava Lomov:
quello che era stato ferito lo chiamavano da noi Gavrilka; apparteneva ai vagabondi incorreggibili. Non mi ricordo se avesse un altro soprannome; da noi lo si chiamava sempre Gavrilka.
Lomov era un contadino agiato di T., nel distretto di K. Tutti i Lomov vivevano in famiglia: il vecchio padre, tre figli e il loro zio, Lomov. Erano contadini ricchi. Si diceva in tutta la provincia che possedessero un capitale di trecentomila rubli in assegnati. Coltivavano la terra, lavoravano le pelli, ma soprattutto si dedicavano all'usura, alla ricettazione dei vagabondi e delle cose rubate e ad altri mestieri. I contadini di mezzo distretto erano indebitati verso di loro e si trovavano in loro piena balìa. Avevano fama di contadini intelligenti e scaltri, ma avevano finito col montare in superbia, specialmente dopo che un personaggio molto importante di quella regione si era fermato da loro in viaggio, aveva fatto conoscenza personale col vecchio e l'aveva preso in simpatia per la sua accortezza e intraprendenza. Tutt'a un tratto si erano immaginato di essere ormai superiori alla legge e si erano messi ad arrischiare sempre di più in varie imprese illegali. Tutti mormoravano contro di loro, tutti auguravano loro di sprofondare sotterra; ma essi alzavano la cresta sempre di più. Commissari di polizia e assessori non contavano più nulla per loro. Finalmente fecero un passo falso e si perdettero, ma non per il male fatto, non per i loro occulti delitti, ma per una falsa denuncia. Essi avevano a una decina di verste dal villaggio una grossa fattoria, in siberiano "tenuta". Là una volta avevano soggiornato da loro verso l'autunno sei lavoratori chirghisi, da lunghissimo tempo ridotti in servitù. Una notte tutti questi lavoranti chirghisi furono sgozzati. Cominciò un'inchiesta, che durò a lungo. Durante l'inchiesta si scoprirono molte altre brutte faccende. I Lomov furono accusati di avere assassinato i propri lavoranti. Essi stessi avevano raccontato e tutto il reclusorio sapeva che li avevano sospettati di essersi molto fortemente indebitati verso i lavoranti e, poiché, nonostante il loro cospicuo patrimonio, erano avari e avidi, di avere assassinato i chirghisi per non pagar loro il dovuto. Durante l'istruttoria e il processo tutta la loro fortuna andò in fumo. Il vecchio morì. I figli furono spediti via.
Uno di essi e lo zio finirono al nostro reclusorio per vent'anni.
Ebbene? Essi erano del tutto innocenti della morte dei chirghisi.
Lì stesso, nel carcere, comparve poi Gavrilka, noto briccone e vagabondo, un giovane allegro e sveglio, che si addossò la colpa di tutta la faccenda. Io del resto non ho sentito che egli stesso lo avesse confessato, ma tutto il reclusorio era profondamente convinto che i chirghisi li avesse spacciati lui. Gavrilka aveva già avuto da fare coi Lomov quando era ancora un randagio. Egli era venuto al reclusorio per una breve pena, come soldato disertore e vagabondo. I chirghisi li aveva assassinati insieme con altri tre randagi; essi pensavano di fare un lauto bottino e di svaligiare la fattoria.
I Lomov da noi non erano benvoluti, non so perché. Uno di loro, il nipote, era un baldo giovane, un ragazzo intelligente e di carattere socievole; ma suo zio, quello che aveva ferito Gavrilka con la lesina, era uno sciocco e rissoso contadino. Già prima di quel fatto aveva litigato con molti ed era stato sonoramente picchiato. A Gavrilka invece tutti volevano bene per il suo carattere allegro e sereno. I Lomov, pur sapendo che il colpevole era lui e che essi erano venuti li per causa sua, con lui però non litigavano; non s'incontravano nemmeno mai del resto, e anch'egli non rivolgeva loro alcuna attenzione. E tutt'a un tratto era scoppiata una lite tra lui e lo zio Lomov per un'antipaticissima ragazza. Gavrilka aveva preso a vantarsi della benevolenza di lei; il contadino si era ingelosito e un bel mezzodì lo aveva ferito con la lesina.
I Lomov, pur essendosi rovinati durante il processo, vivevano nel reclusorio da ricconi. Avevano evidentemente del denaro. Tenevano un samovar, bevevano il tè. Il nostro maggiore ne era informato e odiava i due Lomov all'estremo. Egli li perseguitava alla vista di tutti e in generale cercava di fargliela pagare. I Lomov spiegavano la cosa col desiderio del maggiore di pigliar da loro lo sbruffo. Ma lo sbruffo essi non lo davano.
Naturalmente, se Lomov avesse affondato solo un po' di più la sua lesina, avrebbe ucciso Gavrilka. Ma la cosa si ridusse proprio a una semplice graffiatura. Fu fatto rapporto al maggiore. Mi ricordo che costui arrivò di corsa, trafelato e visibilmente soddisfatto. Egli trattò Gavrilka con sorprendente affettuosità, come se fosse stato un suo figlio.
- Ebbene, amico, puoi andare all'infermeria così o no? No, è meglio che si attacchi per lui un cavallo. Si attacchi subito un cavallo! - gridò in fretta e furia al sottufficiale.
- Ma io, alta signoria, non sento niente. Mi ha ferito solo leggermente, alta signoria.
- Tu non sai, tu non sai, mio caro; vedrai... E' un punto pericoloso; tutto dipende dal punto; ti ha colpito proprio sotto il cuore, il brigante! Quanto a te, quanto a te, - si mise a urlare rivolgendosi a Lomov, - be', ora te la faccio pagare io!...
Al corpo di guardia!
E realmente gliela fece pagare. Lomov fu giudicato e, sebbene la ferita fosse risultata una leggerissima scalfittura, l'intenzione era stata evidente. Al colpevole fu prolungato il periodo di lavori forzati e gli furono date mille bastonate. Il maggiore era pienamente soddisfatto...
Giunse infine anche l'ispettore.
Fin dal secondo giorno dopo il suo arrivo in città, egli venne anche nel nostro reclusorio. Era una giornata festiva. Già più giorni prima tutto da noi era stato lavato, lisciato, lustrato. I detenuti erano stati rasi a nuovo. Il loro vestito era bianco, lindo. D'estate tutti, secondo il regolamento, portavano casacche e calzoni di tela bianca. Sul dorso di ciascuno era cucito un cerchio nero, del diametro di circa un decimetro. Per tutta un'ora ai detenuti era stato insegnato come dovessero rispondere, nel caso che l'alto personaggio avesse loro rivolto un saluto. Si erano fatte delle prove. Il maggiore si affannava come un disperato. Un'ora prima che comparisse il generale, tutti erano in piedi ai loro posti, come statue, in posizione di attenti.
Finalmente all'una del pomeriggio il generale arrivò. Era un generale importante, così importante che tutti i cuori dei capi, credo, avevano dovuto tremare per tutta la Siberia occidentale al suo arrivo. Egli entrò con aria severa e maestosa; dietro di lui si precipitò un gran codazzo di autorità locali che lo accompagnavano, parecchi generali, colonnelli. C'era un signore in borghese, alto e bello, con marsina e stivaletti, giunto anche lui da Pietroburgo, che teneva un contegno oltremodo disinvolto e indipendente. Il generale spesso si rivolgeva a lui, e con grande affabilità. Questo interessò straordinariamente i detenuti: un borghese e simili onori, e per giunta da parte di un tal generale!
In seguito appresero il suo cognome e chi fosse, ma di chiacchiere ce ne fu un'infinità. Il nostro maggiore, attillato, con gli occhi venati di sangue, col viso paonazzo e pieno di foruncoli, non fece al generale, a quanto pare, troppo buona impressione. In segno di particolare rispetto verso l'alto visitatore, non aveva gli occhiali. Egli stava in piedi, sull'attenti, un po' discosto, e con tutto l'essere suo attendeva febbrilmente l'istante in cui si avesse bisogno di lui, per volare a eseguire i desideri di sua eccellenza. Ma non si ebbe alcun bisogno di lui. Il generale fece in silenzio il giro delle camerate, diede un'occhiata anche alla cucina, assaggiò, mi pare, la minestra di cavoli. Io gli fui indicato: è così e così, gli fu detto, è un ex-nobile.
- Ah! - rispose il generale. - E come si comporta?
- Finora in modo soddisfacente, eccellenza.
Il generale fece un cenno col capo e dopo un paio di minuti uscì dal reclusorio. I detenuti naturalmente erano abbagliati e intimiditi, ma tuttavia erano rimasti un po' perplessi. S'intende che a un reclamo contro il maggiore non s'era nemmeno potuto pensare. Il maggiore stesso ne era perfettamente sicuro già in precedenza.
L'acquisto di Gniedko, avvenuto nel reclusorio poco dopo, interessò e distrasse i detenuti molto più piacevolmente dell'autorevole visita. C'era nel nostro carcere un cavallo destinato al trasporto dell'acqua, allo sgombro delle immondizie eccetera. Ad averne cura era designato un detenuto. Ed egli andava in giro con la bestia, s'intende, sotto scorta. Di lavoro per il nostro cavallo ce n'era più che a sufficienza mattina e sera.
Gniedko era in servizio da noi già da un bel pezzo. Era un cavalluccio buono, ma un po' strapazzato. Un bel mattino, proprio la vigilia della festa di San Pietro, dopo aver portato la botte per la sera, Gniedko cadde e morì in pochi minuti. Tutti lo compiansero, gli si raccolsero intorno, parlarono, discussero. Gli ex-soldati di cavalleria, zingari, veterinari eccetera, che erano da noi, fecero anzi sfoggio in questa occasione di molte speciali cognizioni in fatto di cavalli, e s'ingiuriarono perfino tra loro, ma non risuscitarono Gniedko. Esso giaceva per terra morto, col ventre gonfio, in cui tutti si stimavano in dovere di affondare il dito; si fece rapporto al maggiore sul compiutosi volere di Dio, ed egli stabilì che si comprasse immediatamente un nuovo cavallo.
Proprio il giorno di San Pietro, al mattino dopo la messa, quando da noi tutti erano riuniti, cominciarono a condurre i cavalli offerti in vendita. Va da sé che della compra bisognava incaricare i detenuti stessi. C'erano da noi dei veri conoscitori e gabbare duecentocinquanta persone che in passato non si erano occupate d'altro era difficile. Vennero dei chirghisi, dei sensali, degli zingari, dei borghesi. I detenuti attendevano con impazienza la comparsa di ogni nuovo cavallo. Essi erano allegri come bambini.
Più di tutto li lusingava che anch'essi, come gli uomini liberi, avessero l'aria di comprarsi realmente un cavallo di tasca propria e avessero il pieno diritto di comprarlo. Tre cavalli furono condotti lì e ricondotti via, fino a che l'affare venne concluso per il quarto. I sensali che entravano si guardavano in giro con un certo stupore e come intimiditi, e tratto tratto gettavano perfino delle occhiate ai soldati di scorta che li introducevano.
Una turba di duecento persone siffatte, rase, marchiate, incatenate, a casa propria, nel loro nido di forzati, la cui soglia nessuno varcava, ispirava un rispetto tutto speciale. I nostri poi si sbizzarrivano in varie malizie nell'esaminare ogni cavallo condotto lì. Dove, dove non andavano a guardarlo, che cosa non gli palpavano, e per giunta con un aspetto così affaccendato, così serio e meticoloso, come se da ciò dipendesse essenzialmente il benessere del reclusorio! I circassi balzavano addirittura in groppa al cavallo; i loro occhi si accendevano ed essi parlottavano rapidamente nel loro incomprensibile dialetto scoprendo i denti bianchi e facendo dei cenni coi loro volti abbronzati, dal naso arcuato. Qualcuno dei russi ne seguiva tutto intento le discussioni con tanta fissità come se stesse per saltar loro agli occhi. Poiché non capiva le parole, voleva almeno indovinare dall'espressione degli occhi come avessero giudicato:
se il cavallo andava o no. E un'attenzione così febbrile sarebbe parsa perfino strana a più di un osservatore estraneo. Di che cosa, si sarebbe detto, dovevano darsi pensiero in modo così speciale certi detenuti, e anche qualche detenuto mediocre, umile, avvilito, che non osava fiatare nemmeno dinanzi a taluni dei suoi stessi compagni? Come se egli comprasse il cavallo per sé, come se in realtà non fosse per lui indifferente la compra dell'uno o dell'altro! Oltre i circassi, si distinguevano soprattutto gli ex- zingari e gli ex-sensali: a loro si lasciava il primo posto e la prima parola. Qui si svolse perfino una specie di nobile singolar tenzone tra due detenuti: Kulikòv, un ex-zingaro, ladro di cavalli e sensale, e un veterinario autodidatta, uno scaltro contadinotto siberiano, venuto da poco tempo al reclusorio, che già era riuscito a portar via a Kulikòv tutta la sua clientela cittadina.
Il fatto è che i nostri veterinari autodidatti del carcere erano molto apprezzati in tutta la città, e non soltanto i borghesi o i mercanti, ma anche le più alte autorità si rivolgevano al reclusorio, quando si ammalavano i loro cavalli, sebbene ci fossero in città parecchi veri medici veterinari. Kulikòv, prima che arrivasse Jolkin, il contadinotto siberiano, non aveva rivali, aveva una larga clientela e, s'intende, ne riceveva delle ricompense in denaro. Egli faceva molto lo zingaro e il ciarlatano e sapeva assai meno di quanto mostrasse di sapere. Per i suoi redditi, era fra i nostri un aristocratico. Per l'esperienza, l'intelligenza, l'audacia e la risolutezza egli aveva già da un pezzo ispirato un involontario rispetto a tutti i detenuti del reclusorio. Da noi lo si ascoltava e gli si obbediva. Ma egli parlava poco: parlava come se regalasse dei rubli e sempre solo nei casi più importanti. Era un gran fatuo, ma c'era in lui molta effettiva, non simulata energia. Era già attempato, ma molto bello e molto perspicace. Coi nostri nobili trattava con una specie di raffinata cortesia e insieme con una straordinaria dignità. Io credo che, se lo si fosse vestito bene e poi condotto, sotto il nome di un qualche conte, in un circolo della capitale, egli si sarebbe ritrovato anche lì, avrebbe giocato al "whist", avrebbe parlato egregiamente, sobriamente, con autorità, e durante l'intera serata forse nessuno si sarebbe accorto che non era un conte, ma un vagabondo. Lo dico sul serio: tanto era intelligente, avveduto e pronto nel riflettere. Inoltre i suoi modi erano bellissimi, raffinati. In vita sua doveva averne viste di ogni sorta. Del resto il suo passato era avvolto nelle tenebre dell'ignoto. Da noi viveva nella sezione speciale. Ma con l'arrivo di Jolkin, contadino sì, ma contadino scaltrissimo, sui cinquant'anni, proveniente dai "raskòlniki" [21], la fama di Kulikòv come veterinario si era eclissata. In un paio di mesi l'altro gli aveva soffiato quasi tutta la sua clientela cittadina.
Egli guariva, e con gran facilità, certi cavalli che Kulikòv già da un bel pezzo aveva rinunciato a curare. Ne guariva perfino di quelli di cui non volevano più sapere i medici veterinari della città. Questo contadinotto era venuto lì insieme con altri per falsa moneta. Aveva proprio avuto bisogno di mettersi socio, già vecchio, in una simile impresa! Egli stesso, ridendo di sé, raccontava da noi che, con tre vere monete d'oro, riuscivano a fabbricarne una sola falsa. Kulikòv era alquanto offeso dei suoi buoni successi come veterinario, anzi la sua fama aveva cominciato a oscurarsi fra i detenuti. Egli teneva un'amante nel sobborgo, andava in giubbetto di felpa, portava anello e orecchini d'oro e propri stivali con orlatura, e tutt'a un tratto, per mancanza di redditi, era stato costretto a farsi cantiniere, e perciò tutti si aspettavano che, in occasione della compra del nuovo Gniedko, i due nemici, chi sa, si sarebbero magari azzuffati. Si aspettava con curiosità. Ciascuno di essi aveva il suo partito. Gli avamposti dei due partiti già avevano cominciato ad agitarsi e, poco per volta, a scambiarsi insolenze. Lo stesso Jolkin già aveva atteggiato la sua faccia scaltra al più sarcastico dei sorrisi. Ma le cose andarono altrimenti: Kulikòv non pensava neppure a ingiuriare, ma anche senza ingiurie si comportò magistralmente.
Egli incominciò facendo una concessione, ascoltò anzi con rispetto le opinioni critiche del suo rivale, ma, coltolo in fallo su una parola, gli osservò modestamente, ma con insistenza, che s'ingannava, e prima che Jolkin avesse avuto il tempo di riprendersi e di spiegarsi, dimostrò che s'ingannava precisamente in questo e in quest'altro. Insomma Jolkin fu battuto nel modo più inatteso e più abile, e sebbene il sopravvento tuttavia l'avesse avuto lui, anche il partito di Kulikòv rimase soddisfatto.
- No, ragazzi, non lo batti facilmente, sa difendersi; altro che!
- dicevano gli uni.
- Jolkin la sa più lunga! - osservavano gli altri, ma l'osservavano con una certa quale arrendevolezza. Entrambi i partiti si misero d'un tratto a parlare con un tono straordinariamente conciliante.
- Non è che sappia, ha soltanto la mano più leggera. Ma in quanto al bestiame, anche Kulikòv non ha paura di nessuno!
- Non ha paura il giovanotto!
- Non ha paura...
Il nuovo Gniedko finalmente fu scelto e comprato. Era un cavallino eccellente: giovane, bello, robusto e dall'aspetto oltremodo simpatico e giocoso. S'intende poi che, per tutti gli altri rispetti, risultò inappuntabile. Si cominciò a mercanteggiare: si chiedevano trenta rubli, i nostri ne offrivano venticinque.
Mercanteggiarono con calore e a lungo, si fecero ribassi e concessioni. Infine a loro stessi venne da ridere.
- Ma che i soldi li tirerai fuori dal tuo borsellino, o che?
dicevano gli uni, - che c'è da mercanteggiare?
- O che si deve far risparmiare il governo? - gridavano altri.
- Ma sono pur sempre, fratelli, sono pur sempre soldi della comunità...
- Della comunità! No, si vede che gli imbecilli come noialtri non c'è da seminarli, nascono da sé...
Finalmente il mercato fu concluso per ventotto rubli. Si riferì al maggiore e l'acquisto fu deciso. S'intende che furono subito portati pane e sale e il nuovo Gniedko fu introdotto con tutti gli onori nel reclusorio. Mi pare che non ci fosse detenuto che in quell'occasione non gli battesse sul collo o non lo accarezzasse sul muso. In quello stesso giorno Gniedko fu attaccato perché trasportasse l'acqua e tutti stettero a guardare con curiosità come il nuovo Gniedko trasportò la sua botte. Il nostro portatore d'acqua Romàn gettava delle occhiate al nuovo cavallino con aria oltremodo presuntuosa. Era quello un contadino sui cinquanta, di carattere taciturno e posato. Del resto tutti i cocchieri russi sogliono essere di carattere oltremodo posato e perfino taciturno, come se fosse proprio vero che la continua dimestichezza coi cavalli conferisce all'uomo una certa speciale serietà e perfino gravità. Romàn era quieto, gentile con tutti e di poche parole, fiutava il tabacco del suo cornetto e si occupava costantemente, da tempo immemorabile, dei Gniedko del reclusorio. Quello di nuovo acquisto era già il terzo. Da noi tutti erano convinti che per il carcere ci voleva un cavallo dal mantello baio, che questo si confaceva alla casa. Così affermava anche Romàn. Un cavallo pezzato, per esempio, non l'avrebbero comprato per nulla al mondo.
Il posto di portatore d'acqua era sempre riservato, in base a non so qual diritto, a Romàn, e da noi nessuno avrebbe mai neppure pensato a contestargli questo diritto. Quando era caduto il precedente Gniedko, a nessuno, nemmeno al maggiore, era venuto in mente di incolpare di alcunché Romàn: si era compiuto il volere di Dio, e basta, e Romàn era un buon cavallaro. Ben presto Gniedko divenne il beniamino del reclusorio. I detenuti, pur essendo gente ruvida, si avvicinavano spesso per accarezzarlo. Accadeva che Romàn, di ritorno dal fiume, chiudesse il portone, che gli era stato aperto dal sottufficiale, e Gniedko, entrato nel carcere, se ne stesse fermo con la botte ad aspettarlo sbirciandolo con gli occhi. "Vattene solo!", gli grida Romàn, e Gniedko subito va avanti solo, arriva alla cucina e si ferma aspettando che le "sguattere" e i portabigonci vengano a prendere l'acqua. - E' giudizioso Gniedko! - gli gridano, - l'ha portata da sé!... E' ubbidiente!
- Ve', infatti: è una bestia, ma capisce!
- Bravo, Gniedko!
Gniedko scuote la testa e sbuffa, come se veramente capisse e fosse contento delle lodi. E qualcuno senza fallo gli porta subito del pane e del sale. Gniedko mangia e torna a far cenni con la testa, come se soggiungesse: "Ti conosco io! Ti conosco! Io sono un caro cavallino e tu sei un brav'uomo!".
Anche a me piaceva portare del pane a Gniedko. Si provava un che di gradito guardando il suo bel muso e sentendo sulle palme le sue labbra molli e calde che agilmente tiravano su l'offerta.
In generale i nostri detenuti sarebbero stati capaci di voler bene agli animali e, se fosse stato loro concesso, volentieri avrebbero allevato nel reclusorio una quantità di bestie domestiche e di uccelli. E, mi pare, che cosa più di questa occupazione, per esempio, avrebbe potuto raddolcire, ingentilire il rude e brutale carattere dei detenuti? Ma questo non era concesso. Né il nostro regolamento né il posto lo permetteva.
Nel reclusorio, durante tutto il tempo che ci fui io, soggiornarono però casualmente alcuni animali. Oltre Gniedko, ci furono da noi dei cani, delle oche, il capro Vaska, e ci visse per qualche tempo un'aquila.
Come cane permanente del reclusorio viveva da noi, come già da me è stato detto in precedenza, Pallino, un cane intelligente e buono, col quale io fui costantemente in amicizia. Ma poiché il cane in generale è tenuto da tutto il popolino in conto di animale impuro, a cui non bisogna nemmeno rivolgere attenzione, così anche a Pallino da noi quasi nessuno badava. Il cane se ne viveva per suo conto, dormiva nel cortile, mangiava i rifiuti della cucina e non destava particolare interesse in alcuno, conosceva tutti però e nel reclusorio considerava tutti quanti come suoi padroni.
Quando i detenuti tornavano dal lavoro, esso, al grido che risuonava presso il corpo di guardia: "Caporale!", già correva al portone, accoglieva festosamente ogni squadra, scodinzolando, e guardava amorosamente negli occhi chiunque entrava, in attesa di qualche carezza. Ma nel corso di molti anni non aveva mai ottenuto una carezza da nessuno, fuorché da me. Per questo appunto mi amava più di tutti. Non ricordo in qual modo fosse poi comparso nel nostro carcere anche un altro cane, Bielka. Il terzo, Kultiapka, lo allevai io stesso, dopo averlo portato un giorno dal lavoro, ancora cucciolo. Bielka era una strana creatura. Qualcuno gli era andato addosso col carro, e il suo dorso era curvato all'indentro, cosicché, quando correva da lontano sembrava che corressero non so quali due bestie bianche, fuse insieme. Inoltre era tutto tignoso con gli occhi suppuranti; la sua coda era spelacchiata anzi quasi priva di peli, e continuamente levata in alto. Offeso dal destino, evidentemente aveva deciso di rassegnarsi. Non abbaiava mai contro alcuno e non brontolava mai, come se non osasse. Viveva, cibandosi di pane, per lo più dietro le baracche; se gli accadeva di vedere qualcuno dei nostri, subito, ancora a parecchi passi di distanza, si rovesciava sulla schiena, in segno di sottomissione: "Fa' di me quello che ti garba", pareva dire, "ma io, come vedi, non penso nemmeno ad oppormi". E ogni detenuto davanti a cui facesse la sua capriola gli dava un calcio con lo stivale, come se vedesse in ciò un suo assoluto dovere. Ma Bielka non osava nemmeno guaire, e se il dolore era stato troppo acuto uggiolava solo in tono soffocato e lamentoso. Allo stesso modo faceva la sua capriola anche davanti a Pallino e a ogni altro cane, quando correva per i fatti suoi fuori del reclusorio. Soleva farla e poi starsene disteso quieto, quando qualche grosso cane dalle orecchie pendenti gli si gettava addosso col muso, latrando. Ma i cani amano nei loro simili la pacatezza e l'umiltà. Il cane inferocito si raddolciva immediatamente, si fermava un po' meditabondo sul docile cane che gli giaceva dinanzi con le zampe in alto, e lentamente, con gran curiosità cominciava ad annusarlo in tutte le parti del corpo. Che poteva pensare in quel momento Bielka, che fremeva tutto? "E se ora, il brigante, mi desse una zannata?", gli passava probabilmente per il capo. Ma, dopo averlo fiutato attentamente, il cagnaccio infine lo lasciava stare, non trovando in lui nulla di particolarmente interessante. Bielka subito balzava su e tornava a gettarsi zoppicando dietro la lunga fila di cani che accompagnavano una qualche cagnetta nera. E, pur sapendo di sicuro che con la cagnetta non avrebbe mai fatto intima conoscenza, tuttavia anche soltanto zoppicarle dietro da lontano era per lui una consolazione nelle sue sventure. Agli onori evidentemente aveva già smesso di pensare. Perduta ogni prospettiva di carriera, non viveva che per il pane e ne aveva piena consapevolezza. Io mi provai una volta ad accarezzarlo; ciò gli riuscì così nuovo e inatteso che a un tratto si accovacciò al suolo, con tutt'e quattro le zampe, e si mise a fremere tutto e a guaire forte dall'intenerimento. Per pietà io l'accarezzavo spesso. Esso in cambio non poteva accogliermi senza guaiti. Se mi vedeva da lontano, cominciava a guaire, e guaiva dolorosamente e in tono lacrimoso. Finì che altri cani lo sbranarono fuori del reclusorio, sul bastione.
Di un carattere tutto diverso era Kultiapka. Perché io l'avessi portato, cucciolo e ancora cieco, dall'officina nel carcere, non so. Mi faceva piacere nutrirlo e allevarlo. Pallino aveva subito preso Kultiapka sotto la sua protezione e dormiva insieme con lui.
Kultiapka, fattosi grandicello, lasciava che l'altro gli mordesse le orecchie, gli strappasse il pelo e giocasse con lui come di solito i cani adulti giocano coi cuccioli. Cosa strana, Kultiapka non cresceva quasi in altezza, ma solo in lunghezza e larghezza.
Il suo pelo era arruffato, di un certo color topo chiaro; un'orecchia gli era cresciuta all'ingiù, l'altra all'insù. Era di carattere focoso ed entusiastico, come ogni cucciolo, che, per la gioia di vedere il padrone, di solito si mette a guaire, ad abbaiare, cerca di leccarvi anche il viso ed è pronto, lì davanti a voi, a lasciar libero corso anche a tutti gli altri suoi sentimenti: "Purché si veda l'entusiasmo, e poi le convenienze non contano nulla!". Dovunque io fossi, appena gridavo: "Kultiapka!", esso compariva all'improvviso di dietro a qualche angolo, come di sotterra, e con stridulo entusiasmo volava verso di me rotolando come una palla e facendo le capriole per via. Io avevo messo a quel piccolo mostriciattolo un'affezione straordinaria. Pareva che il destino gli riservasse nella vita non altro che benessere e gioie. Ma un bel giorno il detenuto Nieustroiev, che fabbricava scarpe da donna e lavorava le pelli, gli rivolse particolare attenzione. Qualcosa lo aveva colpito a un tratto. Chiamò Kultiapka a sé, gli palpò il pelo e lo rovesciò affettuosamente con la schiena sul suolo. Kultiapka, che non sospettava di nulla, guaiva dal piacere. Ma il mattino dopo scomparve. Io lo cercai a lungo: pareva sprofondato sott'acqua, e solo dopo due settimane tutto si chiarì: la pelliccia di Kultiapka era oltremodo piaciuta a Nieustroiev. Costui gliel'aveva levata e con essa aveva fabbricato e foderato un paio di stivaletti invernali di velluto che gli aveva ordinato la moglie di un cancelliere militare. Egli mi mostrò anche gli stivaletti, quando furono pronti. Il pelo era meraviglioso. Povero Kultiapka!
Molti da noi, in reclusorio, attendevano alla lavorazione delle pelli e spesso conducevano con sé dei cani di bel pelame, che in quell'attimo stesso sparivano. A volte li rubavano, a volte li compravano perfino. Mi ricordo che un giorno scorsi dietro le cucine due detenuti. Essi si stavano consigliando su non so che cosa ed erano affaccendati. Uno di loro teneva legato con una cordicella un magnifico e grosso cane, evidentemente di razza pregiata. Qualche farabutto di domestico l'aveva sottratto al proprio padrone e venduto ai nostri calzolai per trenta copeche d'argento. I detenuti si accingevano a impiccarlo. La cosa si faceva con tutta comodità: la pelle veniva strappata via e il cadavere gettato nella grande e profonda fossa delle immondizie che si trovava nell'angolo più remoto del nostro reclusorio e che d'estate, coi forti calori, puzzava terribilmente. Di rado la si ripuliva. Il povero cane pareva comprendere la sorte che gli si preparava. Gettava occhiate scrutatrici e inquiete alternativamente a noi tre e solo di tanto in tanto osava rigirare la sua coda lanuginosa, stretta contro il corpo, come se desiderasse rabbonirci con questo segno della sua fiducia in noi.
Io me ne andai in fretta, e quelli, s'intende, ultimarono felicemente le loro faccende.
Anche le oche s'introdussero da noi come per caso. Chi le avesse allevate e a chi propriamente appartenessero non so, ma per un po' di tempo divertirono i detenuti e furono note perfino in città.
Esse erano nate nel reclusorio ed erano tenute in cucina. Quando la covata fu cresciuta, tutte quante, in corpo, presero l'abitudine di andare al lavoro insieme coi detenuti. Appena il tamburo si metteva a strepitare e i forzati si muovevano verso l'uscita, le nostre oche ci correvano dietro schiamazzando, aprendo le ali, una dopo l'altra scavalcavano l'alta soglia del portello e non mancavano di portarsi sul fianco destro, dove si schieravano aspettando che terminasse lo smistamento. Si univano sempre allo scaglione più grosso e, sui luoghi del lavoro, pascolavano in qualche sito non lontano. Appena lo scaglione si muoveva per tornare dal lavoro al reclusorio, si mettevano in moto anche loro. Nella fortezza si era sparsa la voce che le oche andavano al lavoro coi detenuti. - To', i detenuti vanno con le loro oche! - solevano dire quelli che c'incontravano, ma come mai hanno fatto ad ammaestrarle!. - Eccovi per le oche! soggiungeva un altro e ci faceva l'elemosina. Ma, nonostante tutta la loro devozione, per non so quale rottura di digiuno le sgozzarono tutte.
Invece il nostro capro Vaska per nulla al mondo lo avrebbero ammazzato, se non si fosse data una particolare circostanza.
Ignoro pure di dove fosse venuto e chi l'avesse portato, ma all'improvviso si trovò nel reclusorio un piccolo, candido, bellissimo capretto. In pochi giorni da noi tutti gli si affezionarono, ed esso diventò uno svago e perfino un conforto per tutti. Trovarono anche un motivo per tenerlo: bisognava pure che nel carcere, poiché c'era una stalla, si tenesse un capro. Non visse però nella stalla, ma dapprima in cucina e poi per tutto il reclusorio. Era una graziosissima e giocosissima creatura.
Accorreva al richiamo, saltava sulle panche e sulle tavole, cozzava coi detenuti, era sempre allegro e sollazzevole. Quando già gli erano spuntati due discreti cornetti, una volta di sera, il lesghino Babàj, seduto sulla scaletta della baracca, in mezzo a un gruppo di altri amici, ebbe l'idea di cozzare con lui. Già da un pezzo si urtavano con la fronte, - era questo il divertimento preferito dei detenuti col capro , - quando, a un tratto, Vaska saltò sul gradino più alto della scaletta e, appena Babàj si voltò da un lato, in un baleno s'impennò, serrò a sé i suoi zoccoli anteriori e con tutto il suo slancio colpì Babàj nella nuca, tanto che questi volò a capofitto giù dalla scala, fra l'entusiasmo di tutti i presenti e di Babàj per il primo. In una parola, a Vaska tutti volevano un bene dell'anima. Quando incominciò a farsi adulto, fu compiuta su di lui, dopo un generale e serio consulto, una nota operazione, che i nostri veterinari sapevano fare egregiamente. "Se no, puzzerà di capro", dicevano i detenuti. Dopo di che Vaska prese a ingrassare enormemente. E lo nutrivano anche a crepapelle. Infine diventò un bello e gran capro con lunghissime corna e di non comune grossezza. Camminando si dondolava in qua e in là. Anch'esso aveva preso l'abitudine di venire con noi al lavoro, a sollazzo dei detenuti e della gente che s'incontrava.
Tutti conoscevano Vaska, il capro del reclusorio. A volte, se lavoravano per esempio, sulla riva del fiume, i detenuti solevano strappare dei ramicelli flessibili di vetrice, si procuravano anche un po' di foglie, raccoglievano sul bastione dei fiori e di tutto ciò adornavano Vaska: intorno alle corna gli intrecciavano i ramoscelli e i fiori e su tutto il corpo gli mettevano delle ghirlande. Vaska faceva sempre ritorno al carcere alla testa dei detenuti, tutto adorno e agghindato, mentre essi lo seguivano e parevano orgogliosi di lui di fronte ai passanti. Questo vezzeggiamento del capro arrivò a tal segno che a taluni di loro venne perfino in mente, come se fossero bambini, un'idea: "E se si indorassero le corna di Vaska?". Ma ne parlarono soltanto così e non ne fecero nulla. Io del resto mi ricordo che domandai ad Akim Akimic', il nostro miglior indoratore dopo Issàj Fomìc': - Si possono realmente indorare le corna di un capro? - Egli dapprima guardò il capro con attenzione, rifletté seriamente e rispose che magari si poteva, "ma sarebbe stata una cosa poco duratura, e inoltre del tutto inutile". E così finì la faccenda. E Vaska avrebbe fatto lunga vita nel reclusorio e sarebbe morto tutt'al più di asma; ma un giorno, tornando alla testa dei detenuti dal lavoro, tutto adorno e agghindato, capitò tra i piedi al maggiore che andava in carrozzino. - Alt! - egli urlò: - di chi è questo capro? Glielo spiegarono. - Come! Nel reclusorio c'è un capro, e senza il mio permesso! Sottufficiali! - Accorse un sottufficiale e subito fu dato ordine di ammazzare immediatamente il capro. Gli si togliesse la pelle, per venderla al mercato e versare il denaro ricavato nella cassa governativa per i reclusi, e si desse la carne ai detenuti per la minestra di cavoli. Nel carcere si parlottò, si recriminò, ma tuttavia non si osò disobbedire. Vaska fu sgozzato sopra la nostra fossa delle immondizie. La carne la comprò per intero uno dei detenuti sborsando al reclusorio un rublo e mezzo d'argento. Con questo denaro si comprarono dei pani a ciambella, e chi aveva acquistato Vaska lo rivendette a pezzi ai suoi compagni come arrosto. La carne apparve in realtà straordinariamente gustosa.
Soggiornò pure per qualche tempo nel nostro carcere un'aquila (una "aquila tartara"), della razza delle piccole aquile di steppa.
Qualcuno l'aveva portata al reclusorio ferita e sfinita. Tutti i forzati le si fecero intorno; essa non poteva volare: la sua ala destra pendeva per terra, una zampa era slogata. Ricordo com'essa si guardava furiosamente intorno, osservando la folla curiosa, aprendo il suo becco adunco e preparandosi a vender cara la vita.
Quando tutti si furono saziati di mirarla e presero a separarsi, essa arrancò zoppicando, saltellando su un piede solo e agitando l'ala sana, fino al cantuccio più remoto del reclusorio, dove si accovacciò in un angolo stringendosi forte alla palizzata. Lì passò presso di noi un tre mesi e durante tutto questo tempo non uscì nemmeno una volta dal suo angolo. Dapprima venivano spesso a guardarla aizzandole contro il cane. Pallino si avventava su di lei con furore, ma temeva visibilmente di accostarsi, il che divertiva molto i detenuti. Una belva! - dicevano, - non si arrende! - Poi anche Pallino cominciò a bistrattarla dolorosamente; la paura gli era passata e, quando lo aizzavano, s'ingegnava di afferrarla per l'ala malata. L'aquila si difendeva a tutta forza con gli artigli e col becco, e con aria orgogliosa e selvaggia, come una regina ferita, rincantucciata nel suo angolo, squadrava i curiosi che venivano a osservarla. Finalmente venne a noia a tutti, tutti l'abbandonarono e la dimenticarono, e nondimeno ogni giorno si potevano vedere accanto a lei dei brandelli di carne fresca e un coccio con acqua. Qualcuno ne aveva pur cura. Sul principio non aveva nemmeno voluto mangiare e per alcuni giorni non aveva mangiato; infine si era messa ad accettare il cibo, mai dalle mani però o in presenza di gente. A me accadde più di una volta di osservarla da lontano. Non vedendo alcuno o credendo di esser sola, si induceva qualche volta ad allontanarsi di poco dal suo angolo e arrancava lungo i pali, per una dozzina di passi dal suo posto, poi tornava indietro, poi si allontanava di nuovo, come per fare del moto. Scortomi, si affrettava subito, con ogni suo sforzo, zoppicando e saltellando, a tornare al proprio posto e, rigettata indietro la testa, spalancato il becco, con le penne irte, subito si preparava alla lotta. Io non potevo ammansirla con nessuna carezza: mordeva e si dibatteva, non accettava da me la carne di manzo e, per tutto il tempo che stavo lì chino su di lei, mi guardava negli occhi fisso fisso col suo sguardo cattivo, penetrante. Solitaria e rabbiosa, attendeva la morte, senza fidarsi di alcuno e senza far pace con alcuno. Infine i detenuti parvero ricordarsi di lei e, benché nessuno se ne fosse dato pensiero, nessuno ne avesse fatto cenno per un paio di mesi, improvvisamente si manifestò in tutti come un senso di compassione per lei. Incominciarono a dire che bisognava portar fuori l'aquila: - Crepi pure, ma non nel carcere, - dicevano.
- Si sa, è un uccello libero, selvatico, non l'avvezzerai al reclusorio, - facevano coro altri.
- Non è mica come noi, - soggiunse qualcuno.
- To', l'ha detta grossa: quello è un uccello e noi siamo uomini.
- L'aquila, fratelli, è la regina dei boschi... - cominciava già a dire Skuratov, ma questa volta non stettero ad ascoltarlo. Un giorno, dopo desinare, quando rullò il tamburo chiamando al lavoro, presero l'aquila serrandole il becco con una mano, perché si era messa a lottare furiosamente, e la portarono fuori del carcere. Giunsero al bastione. Gli uomini di quella squadra, una dozzina, erano curiosi di vedere dove l'aquila se ne sarebbe andata. Cosa strana: tutti erano soddisfatti non so di che, come se avessero essi stessi riavuto un po' di libertà.
- To', corpo d'un cane, le fai del bene e lei continua a mordere!
- disse quello che la teneva guardando quasi con amore l'uccello rabbioso.
- Lasciala andare, Mikitka!
- Non puoi tenere chiuso il diavolo in un baule. Dalle la libertà, la vera e cara libertà.
L'aquila venne buttata giù dal bastione verso la steppa. Era tardo autunno, una giornata fredda e fosca. Il vento fischiava sulla steppa nuda e rumoreggiava in mezzo all'erba ingiallita, disseccata, arruffata della steppa. L'aquila corse via in linea retta agitando l'ala malata e come se si affrettasse ad andarsene alla ventura lontano da noi. I detenuti seguivano con curiosità l'apparire e sparire della sua testa nell'erba.
- Guardala un po'! - disse uno, pensieroso.
- E non si volta nemmeno! - soggiunse un altro. - Nemmeno una volta, fratelli, si è voltata indietro, se la dà a gambe!
- E tu credevi che tornasse a ringraziare? - osservò un terzo.
- Si sa, la vita libera. Ha fiutato la vita libera.
- Già, la libertà.
- E non la si vede più, fratelli...
- Perché state fermi? Marsc! - gridarono i soldati di scorta, e tutti si trascinarono in silenzio al lavoro.
Cominciando questo capitolo, l'editore delle memorie del defunto Aleksàndr Petrovic' Goriàncikov si stima in dovere di fare ai lettori la seguente comunicazione.
Nel primo capitolo delle "Memorie di una Casa Morta" si sono dette alcune parole di un parricida, un ex-nobile. Tra l'altro, egli è stato citato come esempio dell'insensibilità con cui i detenuti parlano a volte dei delitti da loro commessi. E' stato anche detto che l'assassino non aveva confessato dinanzi al tribunale il proprio misfatto, ma che, a giudicare dai racconti delle persone che conoscevano tutti i particolari della sua storia, i fatti erano chiari a tal punto da non potersi non credere al delitto.
Queste stesse persone avevano raccontato all'autore delle "Memorie" che il delinquente era di condotta assolutamente scapestrata, si era ingolfato nei debiti e aveva ucciso suo padre per la bramosia di goderne l'eredità. Del resto tutta la città in cui il parricida aveva in passato prestato servizio raccontava questa storia allo stesso modo. Su quest'ultima circostanza l'editore delle "Memorie" possiede informazioni abbastanza precise. Infine nelle "Memorie" è detto che nel reclusorio il parricida era di continuo del più eccellente, del più allegro umore; che era un uomo sventato, leggero, irriflessivo in sommo grado, benché niente affatto sciocco, e che l'autore delle "Memorie" non aveva mai notato in lui una qualsiasi particolare crudeltà. E a questo punto erano state aggiunte le parole:
"S'intende che a questo delitto io non avevo creduto".
Giorni fa l'editore delle "Memorie di una Casa Morta" ha ricevuto notizia dalla Siberia che il criminale era in realtà innocente e aveva ingiustamente sofferto dieci anni di lavori forzati: che la sua innocenza è venuta in luce per via legale, ufficialmente; che i veri colpevoli sono stati scoperti e hanno confessato e che il disgraziato è già stato dimesso dal reclusorio. L'editore non può in alcun modo dubitare dell'attendibilità di questa notizia...
Non c'è altro da aggiungere. Non è il caso di dilungarsi a parlare di tutta la profonda tragicità di questo fatto, di una vita ancora giovane rovinata sotto una così tremenda accusa. Il fatto è troppo intuitivo e troppo impressionante di per sé.
Noi pensiamo pure che, se un simile fatto si è dimostrato possibile, questa stessa possibilità aggiunge ancora una nuova e oltremodo vivida pennellata alle caratteristiche di una "casa morta" e alla pienezza del quadro.
E ora continuiamo.
Ho già detto in precedenza che io mi ero finalmente familiarizzato con la mia condizione di recluso. Ma questo "finalmente" si era avverato con ardui e tormentosi sforzi, anche troppo gradualmente.
In fondo, mi occorse per questo quasi un anno, e fu quello l'anno più difficile della mia vita. Per ciò appunto esso si depose nella mia memoria così integralmente. Di quell'anno mi pare di ricordare tutte le ore una dopo l'altra. Ho detto pure che anche gli altri detenuti non potevano abituarsi a tale vita. Mi ricordo che in quel primo anno spesso riflettevo tra me: "E loro, come fanno?
Possibile che si siano quietati?". E queste domande mi occupavano parecchio. Ho già accennato che tutti i detenuti vivevano lì come se fossero non a casa loro, ma alla locanda, in marcia, a una qualche tappa. Gli uomini mandati lì per tutta la vita, anche quelli erano inquieti o angosciati, e certamente ciascuno di loro sognava in cuor suo qualcosa di pressoché impossibile. Questa perenne inquietudine, che si palesava in modo sia pur silenzioso, ma visibile, questa strana veemenza e impazienza di speranze talora involontariamente espresse, a volte così prive di fondamento da rassomigliare a un delirio e, quel che più colpiva, radicatesi non di rado nelle menti in apparenza più pratiche, tutto ciò conferiva un aspetto e un carattere straordinario a quel luogo, tanto che forse appunto tali tratti ne costituivano il lato più caratteristico. Si sentiva in certo qual modo, quasi fin dal primo sguardo, che così non era fuori del reclusorio. Lì tutti erano sognatori, e questo saltava agli occhi. Se ne aveva una sensazione penosa, precisamente perché quel fantasticare dava alla maggioranza dei reclusi un aspetto arcigno e cupo, un certo quale aspetto malsano. L'enorme maggioranza era taciturna e torva fino all'odio e non amava esternare le proprie speranze. La bonarietà, la franchezza erano oggetto di disprezzo. Quanto più inattuabili erano le speranze e quanto più il sognatore stesso sentiva questa inattuabilità, tanto più ostinatamente e pudicamente le celava dentro di sé, ma rinunciarvi non poteva. Chi sa, forse taluno se ne vergognava in cuor suo. C'è nel carattere russo una così positiva e sobria visione delle cose, tanta intima ironia, in primo luogo, verso se medesimi!... Forse appunto per questa continua celata scontentezza di sé c'era in quegli uomini tanta impazienza nei quotidiani vicendevoli rapporti, tanta reciproca implacabilità e derisione. E se, per esempio, fra loro stessi saltava fuori tutt'a un tratto qualcuno un po' più ingenuo e più impaziente a esprimere qualche volta ad alta voce ciò che tutti avevano nell'animo e si abbandonava a sogni e speranze, subito veniva brutalmente messo a posto, rabbuffato, schernito; ma ho l'impressione che i più accaniti fra i suoi persecutori fossero precisamente quelli che forse erano andati ancora più lontano di lui nei loro sogni e nelle loro speranze. Gli ingenui e i sempliciotti, l'ho già detto, erano in generale considerati da noi come i più volgari degli imbecilli e trattati sprezzantemente.
Ciascuno era torvo e pieno di amor proprio al punto di mettersi a disprezzare chi era buono e senza amor proprio. A parte questi chiacchieroni ingenui e sempliciotti, tutti i rimanenti, cioè i taciturni, si dividevano nettamente in buoni e cattivi, in tetri e sereni. I tetri e i cattivi erano di gran lunga i più; se poi fra loro se ne trovavano anche di quelli che per natura fossero ciarlieri, erano tutti immancabilmente dei pettegoli irrequieti e degli invidiosi senza pace. Si impicciavano in tutte le cose altrui, sebbene anch'essi non lasciassero trapelare con alcuno né l'anima propria né i propri affari segreti. Questo non era di moda, non era ammesso. I buoni - un esiguo gruppetto - erano quieti, nascondevano silenziosamente in sé le loro illusioni e, s'intende, più di quelli tetri erano inclini a sperare e ad aver fede in esse. Mi sembra del resto che nel reclusorio ci fosse anche una categoria di persone che avevano perduto ogni speranza.
Tale era, per esempio, il vecchio dei sobborghi di Starodùb; in ogni caso costoro erano pochissimi. Il vecchio, in apparenza, era tranquillo (già ho parlato di lui), ma da certi segni suppongo che il suo stato d'animo fosse orribile. Egli aveva per altro una sua salvezza, una sua via di uscita: la preghiera e l'idea del martirio. Il detenuto impazzito, che tanto aveva letto la Bibbia e che si era scagliato con un mattone contro il maggiore, apparteneva anch'egli probabilmente ai disperati, a quelli che l'ultima speranza aveva abbandonato; e poiché vivere del tutto senza speranza è impossibile, egli si era trovato una via di uscita in un volontario, quasi artificiale martirio. Egli aveva dichiarato che si sarebbe gettato sul maggiore senza astio, unicamente per il desiderio di subire il supplizio. E chi sa quale processo psicologico si era allora compiuto nell'anima sua! Senza un qualche scopo e senza l'aspirazione a raggiungerlo nessun uomo può vivere. Quando ha perduto lo scopo e la speranza, l'uomo, dall'angoscia, si trasforma non di rado in un mostro... Lo scopo di tutti i nostri era la libertà e l'uscita dalla galera.
Del resto, ecco che io mi sforzo ora di classificare tutto il nostro reclusorio per categorie; ma è questo possibile? La realtà è infinitamente multiforme, in confronto con tutte le deduzioni del pensiero astratto, anche con le più sottili, e non tollera nette e vistose distinzioni. La realtà tende allo spezzettamento.
Una vita nostra speciale c'era anche da noi, una vita qualunque sia pure, ma c'era, e non soltanto quella ufficiale, ma anche una vita interiore, nostra propria.
Ma, come in parte ho già accennato, io non potevo, e nemmeno sapevo, all'inizio della mia reclusione, penetrare nell'intima profondità di quella vita, e perciò tutte le sue manifestazioni esteriori mi infliggevano allora la tortura di una inesprimibile angoscia. A volte cominciavo addirittura a odiare quei sofferenti uguali a me. Li invidiavo finanche e accusavo il destino. Li invidiavo, perché essi erano purtuttavia fra i loro simili, fra camerati, e si comprendevano a vicenda, sebbene, in fondo, a tutti loro, come a me, fosse venuto a noia e riuscisse disgustoso quel cameratismo sotto le fruste e i bastoni, quella comunità coattiva, e ognuno dentro di sé distogliesse lo sguardo da tutti gli altri per guardare altrove. Torno a ripeterlo, questa invidia che io provavo nei momenti di rabbia aveva il suo legittimo fondamento.
Hanno infatti sicuramente torto quelli che dicono che per un nobile, un uomo istruito eccetera, la vita nelle nostre galere e nei nostri reclusori è altrettanto penosa quanto per qualunque contadino. Io so, io ho udito parlare di questa supposizione negli ultimi tempi, io ne ho letto. Il fondamento di questa idea è giusto, è umano. Tutti sono persone, tutti sono uomini. Ma è questa un'idea troppo astratta. Si sono perdute di vista moltissime condizioni pratiche che non si possono capire se non nella realtà stessa. Io non dico questo perché il nobile e l'uomo istruito abbiano un sentire più raffinato, più acuto, perché siano più evoluti. E' difficile attribuire all'anima e al suo sviluppo un determinato livello. Perfino l'istruzione in questo caso non è un criterio. Io per il primo sono pronto ad attestare che, anche in mezzo alla maggiore ignoranza e al maggiore avvilimento, ho trovato fra questi sofferenti i tratti del più fine sviluppo psichico. Nel reclusorio ti accadeva a volte di conoscere una persona da più anni e di pensare che quello fosse un bruto, e non un uomo, e di disprezzarlo. E tutt'a un tratto veniva casualmente un momento in cui l'anima sua, in uno slancio involontario, si apriva all'esterno e voi ci vedevate dentro una tale ricchezza, un tal cuore e sentimento, una così chiara comprensione della propria e dell'altrui sofferenza che era come se vi si aprissero gli occhi e nel primo momento non credeste nemmeno a ciò che voi stessi avevate veduto e udito. Accade anche l'inverso: l'istruzione va congiunta qualche volta a una tale barbarie, a un tale cinismo, che ne provate schifo e, per quanto siate buono o ben disposto, non trovate nel vostro cuore né scuse né giustificazioni.
Non dico nulla anche del cambiamento di abitudini di tenore di vita, di cibo eccetera, che per un uomo dei ceti sociali superiori è naturalmente più gravoso che per il contadino. il quale non di rado in libertà pativa la fame e nel reclusorio, per lo meno, mangiava a sazietà. Anche su questo non discuterò. Mettiamo pure che per un uomo un po' forte di volontà tutte queste siano sciocchezze a paragone di altri inconvenienti, sebbene, in fondo, il cambiamento delle abitudini non sia affatto cosa da nulla e d'infima importanza. Ma ci sono degli inconvenienti di fronte ai quali tutto ciò impallidisce a tal punto che non si bada più né al sudiciume, né alle strettezze, né al cibo scarso e sordido. Il più paffuto scansafatiche, il più tenero dei raffinati, dopo aver lavorato tutto il giorno col sudore alla fronte, come non aveva mai lavorato in libertà, mangerà anche il pane nero e la minestra di cavoli con gli scarafaggi. A questo ci si può ancora abituare, com'è detto nella canzone umoristica dei detenuti sull'ex- scansafatiche finito in galera:
"Mi dan cavoli con acqua e, mangiando, la testa mi scoppia".
No, più importante di tutto questo è il fatto che ognuno dei nuovi venuti al reclusorio, dopo due ore dall'arrivo, diventa tale e quale come tutti gli altri, si sente a casa sua e padrone, nella comunità del carcere, con diritti pari a quelli di ogni altro.
Tutti lo possono capire ed egli stesso capisce tutti, è noto a tutti, e tutti lo considerano come uno dei loro. Non così accade all'uomo ben nato, al nobile. Per giusto, buono, intelligente che egli sia, durante interi anni, in massa, l'odieranno e lo disprezzeranno; non lo si capirà e, soprattutto, non si avrà fiducia in lui. Egli non è per loro né amico né compagno, e anche se otterrà alla fine, con gli anni, che non lo si offenda, tuttavia non sarà dei loro e avrà perenne, tormentosa consapevolezza del proprio isolamento e della propria solitudine.
Questo isolamento avviene talora senza alcun malanimo da parte dei detenuti, ma così, inconsciamente. Non è dei loro, e basta. Non c'è nulla di più orribile del non vivere nel proprio ambiente. Il contadino trasferito da Taganròg al porto di Petropavlovsk subito troverà laggiù un altro contadino russo proprio uguale, subito si intenderà e si accorderà con lui, e di lì a due ore essi si metteranno magari a vivere insieme nel modo più pacifico nella stessa isba o nella stessa capanna. Non così per i nobili. Un profondissimo abisso li divide dal popolino, e questo si nota pienamente solo allorquando il nobile stesso, in forza di circostanze esteriori, viene in realtà di fatto privato dei suoi precedenti diritti e trasformato in uomo del popolo. Altrimenti, potete anche per tutta la vostra vita aver da fare col popolo, potete anche per quarant'anni di seguito essere ogni giorno a contatto con lui, per servizio, ad esempio, nelle forme amministrative convenzionali, o anche così, semplicemente all'amichevole, sotto veste di benefattore e, in certo senso, di padre: non potrete mai conoscerne la vera essenza. Ogni cosa sarà soltanto illusione ottica e niente più. Io so bene che tutti, assolutamente tutti, leggendo questa mia osservazione, diranno che esagero. Ma io sono persuaso che essa è giusta. Me ne sono persuaso non sui libri, non con l'intelletto, ma nella realtà, e ho avuto abbastanza tempo per verificare le mie convinzioni. Forse in seguito tutti sapranno fino a che punto questo sia giusto...
Gli avvenimenti, come a farlo apposta, fin dal mio primo passo confermavano le mie osservazioni ed esercitavano su di me un'azione irritante e morbosa. In quella prima estate io vagavo per il reclusorio quasi del tutto solo. Ho già detto che ero in tale stato d'animo da non poter nemmeno apprezzare e distinguere tra i forzati quelli che avrebbero potuto volermi bene in seguito, pur non trattandomi mai da pari a pari. Avevo anch'io dei compagni, tra i nobili, ma questo cameratismo non toglieva dalla mia anima tutto il fardello. Mi pare che avrei voltato le spalle a tutto, ma non sapevo dove fuggire. Ed ecco, per esempio, uno di quei casi che, di primo colpo, maggiormente mi fecero capire il mio isolamento e la singolarità della mia posizione nel reclusorio. Una volta, in quella stessa estate, già verso il mese di agosto, in una limpida e calda giornata feriale, nella prima ora del pomeriggio, quando, secondo il solito, tutti riposavano prima del lavoro pomeridiano, tutti i forzati improvvisamente si levarono su come un sol uomo e cominciarono a schierarsi nel cortile del reclusorio. Io non avevo saputo nulla proprio fino a quel momento. A quel tempo ero a volte così sprofondato in me stesso che quasi non mi accorgevo di ciò che avveniva intorno a me. E intanto erano già tre giorni che i forzati si agitavano sordamente. Forse quell'agitazione era cominciata molto prima, come compresi poi, ricordandomi involontariamente di qualche parola delle conversazioni fra i detenuti e, al tempo stesso, del loro forte malumore, della tetraggine e dello stato di particolare esasperazione che si erano notati in loro negli ultimi tempi. Io attribuivo ciò al duro lavoro, alle noiose, lunghe giornate estive, alle involontarie fantasticherie sulle foreste e sulla vita in libertà, e alla brevità delle notti, in cui era difficile togliersi la voglia di dormire. Forse tutto questo si era ora associato insieme, in un unico scoppio, ma il pretesto per tale scoppio fu il vitto. Già da alcuni giorni, negli ultimi tempi, tutti si lagnavano rumorosamente, esprimevano la loro indignazione nelle camerate e specialmente riunendosi in cucina all'ora del desinare e della cena, erano scontenti delle "sguattere", provarono perfino a cambiarne una, ma subito cacciarono via la nuova e richiamarono quella di prima. Insomma tutti erano in una certa inquieta disposizione di spirito.
- Il lavoro è duro e ci danno da mangiare della trippa, - si mette a brontolare qualcuno in cucina.
- Se non ti piace, ordina un biancomangiare, - ribatte un secondo.
- La minestra di cavoli con trippa, fratelli, a me piace assai,- replica un terzo, - perché è molto gustosa.
- Ma se ti dessero sempre solo trippa, la troveresti ancora gustosa?
- Certo, ora è il tempo di mangiar carne, - disse un quarto, all'officina si fatica, si tribola, e dopo il lavoro si ha voglia di sbafare. E la trippa che cibo è!
- E se non è trippa, sono frattaglie.
- Ma sì, prendiamo anche queste frattaglie. Trippa e frattaglie, sempre la stessa canzone. Che cibo è! vero questo o no?
- Sì, la biada è cattiva.
- Scommetterei che si riempie la tasca.
- Non è affare di tua competenza.
- Di chi allora? La pancia è mia. E ci sarebbe da fare un reclamo tutti insieme.
- Un reclamo?
- Sì.
- Suonartele bisognerebbe per questo reclamo. Fantoccio!
- E' vero, - soggiunge brontolando un altro, finora silenzioso, si fa presto a parlare. Che cosa diresti tu nel tuo reclamo? Ecco, di' prima questo, testa di cavolo!
- Be', lo direi. Se si andasse tutti, anch'io allora parlerei con tutti gli altri. Con la poveraglia cioè. Da noi c'è chi mangia il suo e chi ha soltanto la roba del governo.
- To', l'invidioso dagli occhi aguzzi! Gli fa gola la roba altrui.
- Sull'altrui boccone non aprir bocca, alzati prima e procacciati il tuo.
- Procacciati!... Io con te potrei discutere di questa faccenda fino ad avere i capelli bianchi. Vuol dire che sei ricco, se vuoi startene a braccia conserte.
- Se Jeroska è ricco, vivono anche il cane e il gatto.
- Ma davvero, fratelli, perché starcene qui fermi? Basta tollerare i loro capricci! Ci strappano via la pelle. Perché non andare?
- Perché? A te si dovrebbe masticar la pappa e ancora ficcartela in bocca; sei abituato ad avere la pappa bell'e masticata. Siamo in galera: ecco perché!
- La conclusione è questa: metti il popolo in discordia, o Dio, e fa' mangiare i comandanti!
- Proprio così. E' ingrassato Ottocchi. S'è comprata una pariglia di cavalli bigi.
- Be', e poi non gli piace bere.
- L'altro giorno s'è picchiato col veterinario giocando a carte.
- Tutta la notte gli hanno dato cappotto. E il nostro ha passato due ore a fare a pugni. Fedka l'ha detto.
- Per questo abbiamo minestra di cavoli con frattaglie.
- Eh, voi, sciocconi!
- Ma ecco, bisogna andarci tutti, allora vedremo che giustificazione tirerà fuori. E tener duro.
- Giustificazione! Lui te le darà sugli idoli [22], e poi via.
- Lo manderebbero ancora sotto processo...
Insomma tutti si agitavano. A quel tempo realmente da noi il vitto era cattivo. E poi tutto si era accumulato insieme. Ma il più importante era l'umor nero generale, la pena segreta di ogni ora.
Il forzato è già per natura sua litigioso e ribelle; ma che si sollevino tutti insieme, o in gran numero, è raro. Ne sono cagione gli eterni dispareri. Questo lo sentiva da sé ognuno di loro: ecco perché da noi erano più le imprecazioni che i fatti. E nondimeno questa volta l'agitazione non finì in nulla. Cominciarono a riunirsi in gruppi, discussero nelle camerate, imprecarono, ricordarono con acrimonia tutta la direzione del nostro maggiore; erano riusciti a sapere tutto per filo e per segno. Si agitavano specialmente alcuni detenuti. In ogni faccenda simile compaiono sempre gli istigatori, i caporioni. I caporioni, in questi casi, cioè in caso di reclami, sono in generale singolarissima gente, e non solo nel reclusorio, ma anche in tutte le comunità, le unità militari eccetera. E' questo un tipo speciale, molto simile dappertutto. E' gente impulsiva, che ha sete di giustizia ed è convinta, nel modo più ingenuo, più sincero, della sua immancabile, ineluttabile e, soprattutto, immediata possibilità.
Questa gente non è più sciocca dell'altra, anzi ci sono fra esse persone anche molto intelligenti, ma è troppo impulsiva per essere scaltra e calcolatrice. In tutti questi casi, anche se ci sono degli uomini che sanno abilmente guidare la massa e vincere la partita, questi costituiscono già un altro tipo di condottieri del popolo e di naturali suoi capi, tipo da noi oltremodo raro. Ma questi istigatori di reclami e caporioni, dei quali ora parlo, quasi sempre perdono la partita e vanno poi a popolare, per questo, reclusori e galere. Grazie alla foga loro essi perdono, ma grazie alla stessa foga hanno anche un potere sulla massa. Insomma li seguono volentieri. Il loro ardore e la loro onesta indignazione agiscono su tutti e alla fine anche i più irresoluti si uniscono a essi. La loro cieca fiducia nel buon esito seduce perfino gli scettici più incalliti, nonostante che a volte questa fiducia abbia basi così incerte e puerili che gli estranei si meravigliano di come gli altri abbiano potuto seguirli. Ma il più è questo, che essi marciano per primi e marciano senza timore di nulla. Essi, come tori, si lanciano diritto con le corna abbassate, spesso senza conoscere le cose, senza prudenza, senza quel gesuitismo pratico con cui non di rado anche l'uomo più ignobile e bacato vince la causa, raggiunge lo scopo ed esce asciutto dall'acqua. Loro invece si rompono senza fallo le corna.
Nella vita ordinaria questa gente è biliosa, sofistica, irritabile e intollerante. Il più delle volte poi è oltremodo corta di mente, il che del resto ne costituisce in parte anche la forza. Ma ciò che più indispone in loro è che, invece di mirare diritto, spesso si buttano di sbieco, su minuzie anziché sulla cosa essenziale. Ed è questo appunto ciò che li perde. Ma essi riescono comprensibili alla massa; in ciò sta la loro forza... Del resto bisogna dire ancora due parole su questo punto: che cosa significa RECLAMO?
Nel nostro reclusorio c'erano alcuni uomini venuti lì a causa di un reclamo. Erano appunto quelli che si agitavano di più.
Specialmente uno, Martinov, che in passato aveva prestato servizio negli usseri, un uomo focoso, irrequieto e diffidente, onesto e retto però. Un altro era Vassili Antonov, un uomo che si irritava in certo qual modo a sangue freddo, dallo sguardo insolente, dal sorriso altezzoso e sarcastico, oltremodo sveglio del resto, anche lui onesto e retto. Ma non potrei enumerarli tutti; ce n'erano molti. Petròv, tra l'altro, faceva addirittura la spola avanti e indietro, tendeva l'orecchio ai discorsi di tutti i crocchi, parlava poco, ma era visibilmente eccitato e per primo balzò fuori dalla camerata quando cominciarono a schierarsi.
Il nostro sottufficiale del reclusorio, che faceva da noi da sergente maggiore, uscì subito fuori spaventato. Messisi per file, gli uomini lo pregarono cortesemente di dire al maggiore che i forzati desideravano parlare con lui e pregarlo personalmente a proposito di alcuni punti. Dietro il sottufficiale uscirono tutti gli invalidi e si allinearono dall'altra parte, di fronte ai forzati. L'incarico dato al sottufficiale era fuori dell'ordinario e lo piombò nel terrore. Ma non riferire immediatamente al maggiore egli non osava. In primo luogo, poiché i forzati si erano sollevati, poteva venirne fuori anche qualcosa di peggio. Tutti i nostri superiori erano, per quanto riguardava i forzati, oltremodo timorosi. In secondo luogo, anche se non fosse successo niente, e tutti avessero subito mutato pensiero e si fossero sciolti, anche allora il sottufficiale avrebbe dovuto riferire immediatamente ai superiori su tutto l'accaduto. Pallido e tremante di spavento, si avviò in fretta dal maggiore, senza nemmeno provarsi a interrogare ed esortare i detenuti. Capiva che con lui ora non si sarebbero nemmeno messi a parlare.
Senza sapere assolutamente nulla, anch'io uscii per mettermi in fila. Tutti i particolari della faccenda li appresi poi. "Ora", pensavo, "si sta per fare qualche verifica"; ma non vedendo i soldati di guardia, che procedessero alla verifica, mi meravigliai e cominciai a guardarmi in giro. Le facce erano eccitate e irritate. Taluni erano perfino pallidi. Tutti in generale impensieriti e silenziosi, in attesa di come si sarebbe dovuto prendere la parola davanti al maggiore. Io notai che molti mi guardarono con meraviglia, ma si volsero in là senza dir nulla.
Riusciva loro visibilmente strano che io mi fossi messo in fila con essi. Evidentemente non credevano che anch'io avessi dei reclami da fare. Ben presto però quasi tutti quelli che mi erano intorno si volsero di nuovo verso di me. Tutti mi guardavano interrogativamente.
- Tu perché sei qui? - mi domandò ruvidamente e a voce alta Vassili Antonov, che era da me un po' più distante degli altri e che finora sempre mi aveva dato del voi e mi aveva trattato cortesemente.
Io lo guardai perplesso, cercando ancora sempre di capire che cosa ciò significasse e già indovinando che succedeva qualcosa di insolito.
- Infatti che hai da stare qui? Vattene in camerata, - disse un giovane, della categoria militare, col quale non avevo avuto alcun rapporto, un ragazzo buono e tranquillo. - Non è cosa di tua competenza.
- Ma si mettono in fila, - gli risposi, - credevo ci fosse un'ispezione.
- To' anche lui è venuto fuori, - gridò uno.
- Becco di ferro, - disse un altro.
- Schiacciamosche! - proferì un terzo, con indicibile disprezzo.
Questo nuovo nomignolo suscitò le risate generali.
- E' addetto per grazia alla cucina, - aggiunse ancora qualcuno.
- Per loro dappertutto è paradiso. Questa è galera, e loro mangiano panini e comprano i porchetti. Tu mangi la roba tua; cosa vieni a cacciarti qui?
- Qui non è posto per voi, - disse Kulikòv avvicinandosi a me disinvolto; mi prese per un braccio e mi fece uscire dalle file.
Egli stesso era pallido, i suoi occhi neri lampeggiavano e il suo labbro inferiore era morsicchiato. Non attendeva a sangue freddo il maggiore. A proposito: mi piaceva enormemente guardare Kulikòv in tutti i casi simili, in tutti quei casi cioè in cui doveva dar prova di sé.
Egli posava all'eccesso, ma faceva anche i fatti. Mi pare che anche al supplizio sarebbe andato con una certa eleganza e ricercatezza. Ora, che tutti mi davano del tu e m'ingiuriavano, egli aveva visibilmente a bella posta raddoppiato la sua cortesia verso di me, ma al tempo stesso le sue parole avevano un'insistenza in certo qual modo speciale, perfino altezzosa, e non ammettevano alcuna obiezione.
- Noi siamo qui per cose nostre, Aleksàndr Petrovic', e voi qui non avete niente da fare. Andate in qualche posto, aspettate...
Ecco, i vostri sono tutti in cucina, andate là.
- Sotto il nono palo, dove vive Antipka il monco! - rincalzò qualcuno.
Attraverso il telaio sollevato della finestra della cucina io scorsi infatti i nostri polacchi; mi parve del resto che là, oltre a loro, ci fosse molta altra gente. Imbarazzato andai in cucina.
Risate, ingiurie e grida di "uh-uh-uh!" (che fra i detenuti tenevano luogo di fischi) echeggiarono alle mie spalle.
- Non gli siamo piaciuti!... Uh-uh-uh! Piglialo...
Fino a quel giorno non ero ancora stato mai tanto insultato nel reclusorio, e questa volta ciò mi riusci penosissimo. Ma il caso aveva voluto così. Nell'ingresso della cucina mi venne incontro T- ski, un ex-nobile, un giovane fermo e generoso, senza grande istruzione, che voleva un bene straordinario a B. I forzati lo distinguevano da tutti gli altri e lo amavano perfino un po'. Egli era coraggioso, virile e forte, cosa che pareva esprimersi in ogni suo gesto.
- Eh, voi, Goriàncikov, - mi gridò, - venite qui!
- Ma che succede là ?
- Fanno reclamo, non lo sapete forse? Non riusciranno, s'intende:
chi presterà fede ai forzati? Si metteranno a cercare gli istigatori, e se noi saremo là, s'intende che su noi per primi riverseranno l'accusa di ribellione. Ricordatevi per che cosa siamo venuti qui. Loro li bastoneranno soltanto, ma noi andremmo sotto processo. Il maggiore ci odia tutti e sarebbe felice di rovinarci. E poi si giustificherà accusando noi.
- E poi anche i forzati ci denuncerebbero, - soggiunse M-ski, quando fummo entrati in cucina.
- State tranquillo, non ci risparmierebbero! - ribadì T-sky.
In cucina, oltre i nobili, c'era molta altra gente, in tutto una trentina di persone. Erano rimasti tutti lì, non volendo reclamare: gli uni per vigliaccheria, gli altri perché fermamente convinti della perfetta inutilità di qualsiasi reclamo. C'era lì anche Akim Akimic', inveterato e naturale nemico di simili reclami, che turbavano il regolare andamento del servizio e il buon ordine. Egli attendeva in silenzio e con estrema tranquillità la fine della faccenda, per nulla inquieto circa il suo esito, e al contrario pienamente sicuro che avrebbero inevitabilmente trionfato l'ordine e il volere dei superiori. C'era lì anche Issàj Fomìc', immerso in una straordinaria perplessità, che, a naso chino, avidamente e paurosamente tendeva l'orecchio al nostro parlottìo. Era in preda a grande inquietudine. C'erano lì tutti i polaccuzzi del reclusorio, di semplice condizione, associatisi anch'essi ai nobili. C'erano, dei russi, alcune persone timide, sempre taciturne e depresse. Uscire fuori con gli altri non avevano osato e attendevano con tristezza di vedere come sarebbe terminata la cosa. C'erano infine alcuni detenuti arcigni e sempre cupi, di quelli non timidi. Erano rimasti per una loro ostinata e sprezzante convinzione che tutto ciò era una sciocchezza e che da quella faccenda non sarebbe venuto fuori altro che male. Ma a me pare che essi si sentissero ora pur tuttavia un po' a disagio e non avessero un'aria del tutto sicura di sé. Pur comprendendo che si aveva del tutto ragione quanto al reclamo, il che si confermò in seguito, erano però consapevoli di essere come degli apostati, che avevano disertato la comunità, quasi avessero abbandonato i compagni al maggiore di piazza. Si trovava lì anche Jolkin, quello stesso scaltro contadinotto siberiano che era venuto fra noi per falsa moneta e che aveva portato via a Kulikòv la sua clientela di veterinario. Il vecchietto dei sobborghi di Starodùb c'era pure.
Le "sguattere" erano rimaste in cucina proprio dalla prima all'ultima, probabilmente perché convinte che anch'esse formavano parte dell'amministrazione e che quindi era per loro sconveniente andarle contro.
- Però, - presi a dire io rivolgendomi esitante a M., all'infuori di questi, sono andati quasi tutti.
- E a noi che importa? - borbottò B.
- Noi rischieremmo, se fossimo andati, cento volte più di loro e per che cosa? "Je hais ces brigands" [Odio questi briganti]. E pensate forse anche solo per un momento che il loro reclamo sarà accolto? Che gusto c'è a mischiarsi in una scempiaggine?
- Non ne verrà fuori nulla, - rincalzò uno dei forzati, un vecchio caparbio e inasprito. Almasov, che era lì anche lui, si affrettò a fargli eco rispondendo:
- A parte che daranno a tutti cinquecento bastonate, non ne verrà fuori niente.
- Il maggiore è arrivato! - gridò qualcuno, e tutti si precipitarono avidamente verso le finestrine.
Il maggiore era piombato lì rabbioso, infuriato, rosso in viso, con gli occhiali. In silenzio, ma con aria risoluta, si avvicinò allo schieramento. In questi casi egli era realmente audace e non perdeva la presenza di spirito. Del resto era quasi sempre semiubriaco. Perfino il suo berretto unto dal giro arancione e le spalline d'argento sporche avevano in quel momento qualcosa di sinistro. Dietro di lui veniva lo scrivano Diatlov, un personaggio molto importante nel nostro reclusorio, che in sostanza dirigeva lì tutto quanto e aveva un influsso perfino sul maggiore, un giovane furbo, un gran volpone, ma anche un uomo non cattivo. I detenuti erano contenti di lui. Lo seguiva il nostro sottufficiale, che evidentemente aveva già avuto il tempo di ricevere una tremenda lavata di capo e se ne aspettava una ancora dieci volte più forte; dietro di lui dei soldati di scorta, tre o quattro uomini, non di più. I detenuti, che erano senza berretto, mi pare fin dal momento in cui avevano mandato a chiamare il maggiore, ora si raddrizzarono tutti e si ravviarono: ciascuno di loro passò da un piede sull'altro e poi tutti si irrigidirono addirittura aspettando la prima parola o, per meglio dire, il primo grido dell'autorità superiore.
Esso seguì immediatamente; fin dalla seconda parola il maggiore si mise a urlare a squarciagola, perfino, questa volta, con una specie di sibilo: era troppo infuriato! Dalle nostre finestre potevamo vedere come egli corresse lungo lo schieramento avventandosi e interrogando. Le sue domande del resto, come pure le risposte dei detenuti, non potevano, per la distanza, essere udite da noi. Lo sentimmo soltanto gridare con voce stridula:
- Ribelli!... Per le verghe... Istigatori! Tu sei un istigatore!
Tu sei un istigatore! - e si scagliò su qualcuno.
La risposta non si udì. Ma dopo un minuto vedemmo un detenuto staccarsi e andare verso il corpo di guardia. Dopo un altro minuto un secondo lo seguì, poi un terzo.
- Tutti sotto processo! Vi farò vedere io! Chi c'è là in cucina?- strillò vedendoci dalle finestrine aperte. - Tutti qui! Fateli subito venire qui!
Lo scrivano Diatlov venne da noi in cucina. In cucina gli dissero che non si avevano reclami da fare. Egli tornò immediatamente indietro e riferì al maggiore.
- Ah, non ne hanno!- disse costui con voce di due toni più bassa, visibilmente rallegrato. - Fa lo stesso, tutti qui!
Uscimmo. Io sentivo che noi eravamo come vergognosi di uscir fuori. E tutti avevano l'aria di camminare a capo chino.
- Ah, Prokofiev! Anche Jolkin, sei tu, Almasov... Mettetevi, mettetevi qui, in gruppo, - ci diceva il maggiore con una certa voce precipitosa, ma dolce, gettandoci affabili occhiate. M-ki, anche tu qui... ecco, si prendano i nomi di tutti, Diatlov! Si segnino subito tutti, i contenti a sé e i malcontenti a sé, tutti fino all'ultimo, e mi si porti il foglio. Io vi manderò tutti...
sotto processo! Vi aggiusterò io, furfanti!
Il foglio produsse il suo effetto.
- Noi siamo contenti! - gridò a un tratto una voce cupa della folla dei malcontenti, ma non troppo risolutamente.
- Ah, siete contenti! Chi è contento? Chi è contento venga fuori.
- Contenti, contenti! - gridarono alcune altre voci.
- Contenti! Dunque vi hanno messi su! Dunque ci sono stati degli istigatori, dei ribelli? Tanto peggio per loro!
- Signore, che è mai questo? - risonò una voce nella folla.
- Chi, chi ha gridato questo, chi? - si mise a ruggire il maggiore slanciandosi dalla parte di dove era venuta la voce. Sei tu, Rastorguiev, che hai gridato? Al corpo di guardia!
Rastorguiev, un ragazzone grassoccio e alto, uscì fuori e si avviò lentamente al corpo di guardia. Non era stato affatto lui a gridare, ma poiché avevano indicato lui, non stette nemmeno a contraddire.
- Schiattate dal grasso! - gli urlò dietro il maggiore. - To', che muso grasso, in tre giorni non... Ora vi scoverò tutti! Vengano fuori i contenti!
- Siamo contenti, alta signoria! - risonarono cupamente alcune diecine di voci; gli altri tacevano ostinati. Ma al maggiore occorreva solo quello. A lui, evidentemente, tornava vantaggioso liquidare la cosa da sé al più presto e liquidarla in qualche modo all'amichevole.
- Ah, ora siete TUTTI contenti! - egli disse frettoloso. Questo l'ho visto... lo sapevo. Sono stati gli istigatori! Fra loro evidentemente ci sono degli istigatori! - continuò rivolgendosi a Diatlov. - Bisogna indagare più a fondo. E ora... ora è tempo di andare al lavoro. Si suoni il tamburo!
Egli stesso assistette allo smistamento. I detenuti si separarono silenziosi e tristi per andare ai lavori, contenti almeno di uscirgli al più presto di sotto agli occhi. Ma dopo lo smistamento il maggiore passò subito al corpo di guardia e diede ordini circa gli "istigatori", non molto crudeli del resto. Aveva fretta anzi.
Uno di essi, dicevano poi, aveva chiesto perdono, ed egli l'aveva tosto perdonato. Si vedeva che il maggiore era un po' a disagio e forse si era perfino preso paura. Un reclamo è in ogni caso una faccenda delicata e, sebbene le lagnanze dei detenuti, in fondo, non potessero nemmeno dirsi un reclamo, perché non le avevano presentate a un'autorità superiore, ma al maggiore stesso, tuttavia la cosa era un pochino imbarazzante, incresciosa.
Particolarmente dava da pensare il fatto che si erano sollevati tutti, in massa. Occorreva soffocare la cosa a qualunque costo.
Gli "istigatori" ben presto furono mandati via. Il giorno dopo il vitto migliorò, sebbene non per molto tempo. Il maggiore nei primi giorni prese a visitare più spesso il reclusorio e più spesso trovava irregolarità. Il nostro sottufficiale aveva un aspetto turbato e disorientato, come se non potesse ancora tornare in sé dalla meraviglia. Per ciò che riguarda i detenuti, ancora per lungo tempo dopo il fatto non poterono calmarsi, ma non si agitarono più come prima ed erano silenziosamente inquieti, impensieriti in certo qual modo. Taluni avevano perfino curvato il capo. Altri si esprimevano su tutta quella faccenda brontolando, anche se senza loquacità. Molti si canzonavano da sé con una cert'aria rabbiosa, e ad alta voce, come per punirsi del reclamo.
- To', fratello, piglia, mordi! - dice, per esempio, uno.
- Ridi, ridi e intanto sgobbi! - soggiunge un altro.
- Dov'è il topo per attaccare il campanello al gatto? osservava un terzo.
- I pari nostri senza bastone non li convinci, si sa. Meno male che non ha fatto legnare tutti.
- E tu d'ora innanzi sappila più lunga e chiacchiera meno, sarà meglio! - osservava rabbiosamente qualcuno.
- Ma tu che hai da insegnare, maestro ?
- T'insegno, si sa.
- Ma tu chi sei per saltar fuori così?
- Io, per intanto, sono ancora un uomo, ma tu chi sei?
- Un avanzo rosicchiato di cane, ecco chi sei.
- Lo sarai tu.
- Be', be', smettetela voi! Che avete da far baccano? - gridano da tutte le parti ai contendenti...
Quella medesima sera, cioè il giorno stesso del reclamo, tornato dal lavoro, incontrai dietro le baracche Petròv. Egli già mi cercava. Accostatosi a me, mormorò qualche parola, qualcosa come due o tre esclamazioni vaghe, ma ben presto tacque con aria distratta e macchinalmente si avviò al mio fianco. Tutta quella faccenda mi pesava ancora dolorosamente sul cuore e mi parve che Petròv avrebbe potuto chiarirmi qualcosa.
- Dite, Petròv, - gli domandai, - i vostri non sono arrabbiati con noi?
- Chi è arrabbiato? - domandò lui, come riavendosi.
- I detenuti contro di noi... contro i nobili.
- E per che cosa arrabbiarsi contro di voi?
- Be', per il fatto che non siamo usciti a reclamare.
- Ma voi perché avreste dovuto far reclamo? - egli interrogò, come facendo uno sforzo per capirmi, - voi mangiate il vostro.
- Ah, Dio mio! Ma anche fra i vostri ce ne sono che mangiano la roba propria, eppure sono usciti. Be', anche noi avremmo dovuto...
per cameratismo.
- Ma... ma voi che camerata siete per noi? - domandò perplesso.
Io gli gettai in fretta uno sguardo: egli non mi capiva proprio, non capiva che cosa volessi sapere. Ma io invece in quell'istante compresi lui perfettamente. Ora per la prima volta un pensiero che già da un pezzo si agitava confusamente in me e mi perseguitava mi si chiarì in modo definitivo e io capii tutt'a un tratto quello che finora avevo malamente indovinato. Capii che non mi avrebbero mai accolto come un camerata, fossi io pure stato un arcidetenuto, anche per tutta l'eternità, anche della sezione speciale. Ma particolarmente mi rimase impresso nella memoria l'aspetto di Petròv in quel momento. Nella sua domanda: "Ma voi che camerata siete per noi?", si sentiva un'ingenuità così sincera, una così candida perplessità! Io pensavo: "Non c'è in queste parole una qualche ironia, malevolenza, derisione?". Non c'era nulla:
semplicemente non ero un camerata, e basta. Tu va' per la tua strada, e noi andiamo per la nostra; tu hai i tuoi affari, e noi abbiamo i nostri.
E in realtà io già pensavo che, dopo il reclamo, ci avrebbero addirittura sbranati e non ci avrebbero più lasciati vivere. Non ne fu nulla: né il minimo rimprovero, né il minimo accenno di rimprovero noi udimmo, nessun malanimo particolare si aggiunse da parte loro. Semplicemente ci molestavano un po' a ogni occasione, come ci molestavano già prima, e nient'altro. Del resto, non erano punto adirati neppure con tutti coloro che non avevano voluto reclamare ed erano rimasti in cucina, come pure con quelli che tra i primi avevano gridato che erano contenti di tutto. Anzi, a questo nessuno fece nemmeno un accenno. Specialmente quest'ultima cosa non la potevo capire.
Io, certo, mi sentivo maggiormente attirato verso i miei, cioè verso i "nobili", specie nei primi tempi. Ma dei tre ex-nobili russi che si trovavano nel nostro reclusorio (Akim Akimic', la spia A-v e quello che da noi si credeva fosse un parricida), il solo con cui avevo rapporti e discorrevo era Akim Akimic'. Lo confesso, io mi avvicinavo ad Akim Akimic', per dir così, dalla disperazione, nei momenti di maggior noia e quando proprio non prevedevo di potermi avvicinare ad alcuno, all'infuori di lui. Nel precedente capitolo mi sono provato a classificare tutti i nostri uomini in categorie, ma ora che mi è venuto in mente Akim Akimic', penso che vi si possa ancora aggiungere una categoria. E' vero che egli era il solo a costituirla. E' questa la categoria dei forzati del tutto indifferenti. Di indifferenti del tutto, di quelli cioè per i quali fosse la stessa cosa vivere in libertà o in galera, da noi, s'intende, non ce n'erano e non ce ne potevano essere, ma Akim Akimic' mi pare che formasse un'eccezione. Egli si era perfino assestato nel reclusorio come se facesse conto di passarci tutta la vita: ogni cosa intorno a lui, cominciando dal materasso, dai guanciali, dagli utensili, aveva un assetto così solido, così permanente, così duraturo ! Di provvisorio, che ricordasse il bivacco, non si notava in lui neanche la traccia. Gli restavano ancora molti anni da passare nel reclusorio, ma è ben difficile che egli qualche volta avesse pensato al momento di uscirne. Ma anche se si era rassegnato alla realtà, ciò aveva fatto, s'intende, non di suo gusto, bensì per subordinazione, il che del resto era per lui la stessa cosa. Egli era un brav'uomo e mi aveva perfino aiutato in principio coi suoi consigli e con qualche servigio, ma a volte, lo confesso, m'infondeva involontariamente, specie nei primi tempi, un'uggia senza uguale, che rafforzava ancora di più la mia già uggiosa disposizione d'animo. E io appunto per l'uggia attaccavo discorso con lui. Mi accadeva di essere assetato non fosse che di una parola viva, magari biliosa, magari impaziente, non fosse che di un moto di rabbia qualunque:
avremmo almeno imprecato insieme contro la nostra sorte; ma lui taceva, incollava le sue lanternine o raccontava quale rivista avessero avuto nel tale anno, e chi fosse il comandante della divisione, e come lo avesse chiamato per nome e patronimico, e se fosse rimasto contento della rivista o no, e come fossero stati cambiati i segnali per i tiratori eccetera. E tutto questo con voce così uguale, così ufficiosa, come se un'acqua stillasse a goccia a goccia. Non si rianimava quasi affatto nemmeno quando mi raccontava che, per aver partecipato a una certa azione nel Caucaso, aveva avuto l'onore di ricevere le insegne di Sant'Anna sulla spada. Soltanto la sua voce si faceva in quel momento come insolitamente grave e posata; egli l'abbassava perfino un poco, sino a farla alquanto misteriosa, quando pronunciava "di Sant'Anna", dopo di che per un tre minuti diventava in un certo modo particolarmente taciturno e grave. In quel primo anno io avevo degli stupidi momenti in cui (e sempre all'improvviso) cominciavo quasi a odiare Akim Akimic', senza sapere perché, e maledicevo in silenzio il mio destino per avermi collocato sul tavolaccio a testa a testa con lui. Di solito dopo un'ora io già me ne facevo rimprovero. Ma ciò fu soltanto nel primo anno; in seguito mi riconciliai del tutto in cuor mio con Akim Akimic' e mi vergognai delle mie precedenti sciocchezze. Ma apertamente, mi ricordo, noi non avemmo mai alcuna lite.
Oltre questi tre russi, fecero dei soggiorni da noi, durante il mio tempo, altre otto persone. Con alcune di loro mi affiatai abbastanza strettamente, e anche con piacere, ma non con tutte. I migliori erano gente un po' morbosa, insolita e intollerante in sommo grado. Con due di essi smisi in seguito addirittura di parlare. Di persone istruite ce n'erano fra loro tre sole: B-ki, M-ki e il vecchio Z-ki, che in passato era stato non so dove professore di matematica: un vecchio buono, bello, un grande originale e, nonostante la sua istruzione, un uomo, mi pare, d'ingegno limitato all'estremo. Affatto diversi erano M-ki e B-ki.
Con M-ki mi affiatai bene di primo colpo; con lui non avevo mai litigi, e lo stimavo, ma volergli bene, affezionarmi a lui non potei mai. Era un uomo profondamente diffidente e inasprito, che sapeva però dominarsi meravigliosamente bene. Era appunto questa sua troppo grande capacità che non mi piaceva in lui: mi pareva di sentire che egli mai e davanti a nessuno avrebbe aperto tutta l'anima sua. Del resto può darsi che io m'inganni. Era una natura forte e sommamente nobile. La sua straordinaria e perfino un po' gesuitica abilità e prudenza nel trattare con la gente rivelava il suo celato, profondo scetticismo. E intanto era quella un'anima che soffriva precisamente di questa duplicità: lo scetticismo e una profonda, incrollabile fede in certe sue speciali convinzioni e speranze. Nonostante però tutta la sua abilità pratica, egli era in acerrima inimicizia con B-ki e il suo amico T-ski. B-ki era un uomo malato, alquanto predisposto alla tisi, irritabile e nervoso, ma in fondo arcibuono e perfino generoso. La sua irritabilità giungeva a volte all'estrema intolleranza e ai capricci. Io non potei sopportare questo carattere e in seguito mi allontanai da B- ki, ma per altro non smisi mai di amarlo; con M-ki invece non avevo screzi, ma non gli volli mai bene. Allontanatomi da B-ki, accadde che io dovetti separarmi subito anche da T-ski, quello stesso giovane di cui ho fatto cenno nel capitolo precedente parlando del nostro reclamo. Questo mi rincrebbe assai. T-ski, anche se non era un uomo istruito, era buono e coraggioso, in una parola, un eccellente giovane. Tutta la faccenda stava in ciò, che egli a tal punto amava e stimava B-ki, a tal punto lo venerava, da considerare subito quasi come suoi nemici tutti quelli che appena un tantino non andassero d'accordo con M-ki. Mi pare che col tempo si allontanasse poi anche da M-ki per via di B-ki, pur essendosi fatto forza a lungo. Essi tutti del resto erano moralmente malati, biliosi, irritabili, diffidenti. Questo è comprensibile: la loro condizione era penosissima, molto più penosa della nostra. Erano lontani dalla loro patria. Alcuni di essi erano stati mandati lì per lungo tempo, per dieci, dodici anni, e, soprattutto, guardavano con profonda prevenzione quanti li circondavano, vedevano nei forzati soltanto la bestialità e non potevano, anzi non volevano, scorgere in loro nemmeno un tratto buono, proprio nulla di umano e, cosa anch'essa molto comprensibile, a questo disgraziato punto di vista erano stati condotti dalla forza delle circostanze, dal destino. Era palese che nel reclusorio l'angoscia li soffocava. Coi circassi, coi tartari, con Issàj Fomic' erano gentili e cortesi, ma sfuggivano con ripugnanza tutti gli altri forzati. Soltanto il vecchio credente di Starodùb si era guadagnato il loro pieno rispetto. E' degno di nota tuttavia che nessuno dei forzati, durante tutto il tempo che io passai nel reclusorio, mai rinfacciò a essi né l'origine, né la fede loro, né il modo di pensare, come avviene, sia pure del resto assai di rado, nel nostro popolino di fronte agli stranieri, soprattutto ai tedeschi. Del tedesco per altro tutt'al più si ride: ll tedesco rappresenta per il popolino russo qualcosa di profondamente comico. Coi nostri invece i forzati si comportavano perfino con deferenza, molto più che con noi, e non li TOCCAVANO affatto. Ma quelli, mi pare, non volevano mai accorgersene né tenerne conto.
Io mi ero messo a parlare di T-ski. Era stato lui, quando li avevano trasferiti dal luogo della loro prima deportazione nella nostra fortezza, a portare B-ki in braccio durante quasi tutto il cammino, allorché questi, debole di salute e di complessione, si sentiva affaticato quasi dopo ogni mezza tappa. Erano stati prima mandati a U-gorsk. Là, essi raccontavano, stavano bene, cioè molto meglio che nella nostra fortezza. Ma avevano avviato non so quale, del resto innocentissima, corrispondenza con altri deportati di un'altra città, e per questo si era giudicato necessario trasferirli tutti e tre nella nostra fortezza, più vicino agli occhi della nostra autorità superiore. Il terzo compagno loro era Z-ki. Prima del loro arrivo, M-ki era solo nel reclusorio. Quanto aveva dovuto crucciarsi nel primo anno della sua deportazione!
Questo Z-ki era quel vecchio che continuamente pregava Dio, di cui già ho fatto cenno. Tutti i nostri delinquenti politici erano gente giovane, in parte anzi giovanissima; il solo Z-ki aveva già cinquant'anni suonati. Era un onest'uomo, naturalmente, ma alquanto strano. I suoi compagni B-ki e T-ski non lo amavano per niente, anzi non parlavano con lui, dicendo che era caparbio e litigioso. Non so quanto avessero ragione in questo caso. Nel reclusorio, come in qualsiasi altro luogo dove la gente si ammucchia non di sua volontà, ma forzatamente, mi pare che ci si possa litigare e perfino odiare a vicenda più facilmente che in libertà. Molte circostanze vi contribuiscono. Del resto Z-ki era in realtà un uomo abbastanza ottuso e forse antipatico. Anche tutti gli altri suoi compagni non andavano d'accordo con lui. Io pur non litigando mai, non ero con lui particolarmente affiatato.
La sua materia, la matematica, mi pareva la conoscesse. Ricordo che si sforzava sempre di spiegarmi nella sua lingua semirussa un certo speciale sistema astronomico da lui stesso escogitato. Mi si diceva che un tempo lo aveva dato alle stampe, ma che nel mondo scientifico avevano soltanto riso di lui. A me pare che fosse un po' tocco nel cervello. Per intere giornate pregava Dio in ginocchio cattivandosi con ciò il rispetto generale dei forzati, del quale godette fino alla sua morte. Egli morì nella nostra infermeria dopo una grave malattia, sotto i miei occhi. Del resto il rispetto dei forzati se l'era guadagnato fin dal primo passo nel reclusorio dopo il suo incidente col nostro maggiore. Nel viaggio da U-gorsk alla nostra fortezza i detenuti non erano stati rasati e le barbe erano loro cresciute tanto che, quando li condussero senz'altro dal nostro maggiore di piazza, questi s'indignò furiosamente per un tale strappo alla disciplina, del quale d'altro lato essi non avevano colpa alcuna.
- Che aspetto hanno! - egli si mise a ruggire, questi sono vagabondi, briganti!
Z-ki, che allora capiva ancora male il russo e aveva creduto che si domandasse: chi sono? vagabondi o briganti? rispose:
- Noi non siamo vagabondi, ma delinquenti politici.
- Co-o-ome! Tu far l'insolente? Far l'insolente? - urlò il maggiore, - al corpo di guardia! Cento vergate subito, sul momento!
Il vecchio fu punito. Egli si stese sotto le verghe senza replicare, si morse una mano coi denti e sopportò il castigo senza il minimo grido o gemito, senza fare un movimento. B-ki e T-ski intanto erano già entrati nel reclusorio, dove M-ki, che li attendeva al portone, si buttò immediatamente al loro collo, sebbene fino a quel giorno non li avesse mai neppure veduti.
Sconvolti dalle accoglienze del maggiore, essi gli raccontarono ogni cosa di Z-ki. Ricordo come M-ki mi parlava di ciò:
- Io ero fuori di me, - diceva, - non capivo che cosa mi succedesse e tremavo come se avessi i brividi. Aspettavo Z-ki al portone. Egli doveva venire direttamente dal corpo di guardia, dove lo stavano castigando. A un tratto si aprì il portello: Z-ki, senza guardare nessuno, col viso pallido e le labbra sbiancate e tremanti passò tra i forzati che si erano raccolti in cortile, avendo già saputo che si puniva un nobile, entrò in camerata, andò direttamente al suo posto e, senza dire una parola, s'inginocchiò e cominciò a pregare Dio. I forzati ne furono impressionati e perfino commossi.
- Quando io vidi questo vecchio, - diceva M-ki, - dai capelli bianchi, che aveva lasciato a casa moglie e figli, quando lo vidi in ginocchio ignominiosamente punito e in atto di preghiera, corsi dietro le baracche e per due buone ore fui come fuori di conoscenza; ero in uno stato di frenesia... - I forzati avevano preso fin da allora a stimare molto Z-ki e lo trattavano sempre rispettosamente. Era loro piaciuto in particolare che non avesse gridato sotto le verghe.
Bisogna però dire tutta la verità: da questo esempio non si può affatto giudicare del comportamento dell'autorità in Siberia coi deportati di origine nobile, chiunque essi fossero, russi o polacchi. Questo esempio mostra soltanto che ci si può imbattere in un uomo focoso e, naturalmente, se quest'uomo focoso esercitasse in qualche posto un comando superiore e autonomo, la sorte del deportato, nel caso in cui questo focoso comandante non l'avesse preso particolarmente in simpatia, sarebbe assai male assicurata. Ma non si può non riconoscere che la stessa suprema autorità siberiana, da cui dipendono il tono e l'umore di tutti gli altri comandanti, è, riguardo ai deportati nobili, molto scrupolosa e tende perfino in certi casi a essere con loro indulgente in confronto con gli altri forzati, quelli del basso popolo. Chiare ne sono le ragioni: questi capi supremi, in primo luogo, sono essi stessi nobili; secondariamente, era già accaduto in precedenza che alcuni nobili non si fossero distesi sotto le verghe e si fossero avventati contro gli esecutori, per il che erano accadute cose terribili; e in terzo luogo, fin da trentacinque anni addietro, era comparsa in Siberia, tutto in una volta, una gran massa di deportati nobili, e appunto questi deportati, nel corso di trent'anni, avevano saputo così bene affermarsi e farsi valere in tutta la Siberia che l'autorità, già per antica ereditaria consuetudine, involontariamente guardava ai miei tempi i delinquenti nobili di una certa categoria con occhi diversi che tutti gli altri deportati. Sull'esempio dell'autorità superiore, si erano abituati a guardarli con gli stessi occhi anche i comandanti inferiori, mutuando, s'intende, questo modo di vedere e questo tono dall'alto e inchinandovisi, sottostandovi.
Del resto molti di questi comandanti subalterni erano di corte vedute, criticavano in cuor loro le disposizioni superiori e sarebbero stati molto molto contenti se non si fosse loro impedito di disporre a modo proprio. Ma questo non era loro consentito del tutto. Io ho valide ragioni di pensarla così, ed ecco perché. La seconda categoria di lavori forzati, nella quale io mi trovavo e che era costituita dai detenuti in fortezza, sotto direzione militare, era senza paragone più gravosa delle altre due categorie, cioè la terza (negli stabilimenti) e la prima (nelle miniere). Era più gravosa non solo per i nobili, ma anche per tutti gli altri detenuti, precisamente perché direzione e ordinamento di questa categoria, tutto era militare e ricordava molto le compagnie di detenuti della Russia. La direzione militare è più severa, il regolamento più restrittivo: sempre in catene, sempre sotto scorta, sempre sotto chiave, mentre tutto questo non c'è, con tanto rigore, nelle altre due categorie. Così almeno dicevano tutti i nostri detenuti, e fra loro c'erano dei competenti. Tutti sarebbero passati con gioia nella prima categoria, considerata dalla legge come la più dura, anzi molte volte fantasticavano al riguardo. Delle compagnie di detenuti dalla Russia poi, tutti i nostri che c'erano stati parlavano con terrore assicurando che in tutta la Russia non c'era luogo peggiore delle compagnie di detenuti in fortezza e che in Siberia si era in paradiso a paragone di quella vita. Per conseguenza, se con un trattamento così severo come quello del nostro reclusorio, con una direzione militare, sotto gli occhi del generale governatore in persona e, infine, tenuto conto dei casi (qualche volta accaduti) in cui delle persone estranee, ma ufficiose, per rancore o per zelo di servizio, erano pronte a denunciare in segreto a chi di ragione che ai criminali della tal categoria i tali male ispirati comandanti usavano indulgenza, se in un luogo siffatto, dico, i delinquenti nobili erano considerati con occhi alquanto diversi che gli altri forzati, a più forte ragione li consideravano molto più benevolmente nella prima e nella terza categoria. Mi pare quindi di potere, dal luogo dove io ero, giudicare per questo rispetto anche dell'intera Siberia. Tutte le voci e tutti i racconti che giungevano fino a me, a tal riguardo, dai deportati di prima e terza categoria confermavano la mia conclusione. In realtà con tutti noi nobili, nel nostro reclusorio, i superiori usavano più riguardo e più circospezione.
Indulgenza con noi, quanto al lavoro e al trattamento, non se ne aveva proprio nessuna: gli stessi lavori, gli stessi ferri ai piedi, gli stessi chiavistelli, insomma tutto lo stesso come per gli altri detenuti. E poi anche agevolarci era impossibile. Io so che in questa città, in quel più recente passato remoto, c'erano tanti delatori, tanti intrighi, tanta gente che si scavava la fossa a vicenda, che la direzione naturalmente aveva timore di una denuncia. E che c'era di più terribile a quel tempo di una denuncia nel senso che ai delinquenti di una certa categoria si usava indulgenza! E così ognuno era timoroso e noi vivevamo alla pari con tutti i forzati, ma relativamente alle punizioni corporali si faceva qualche eccezione. A dir vero, ci avrebbero fustigati con estrema facilità, se noi l'avessimo meritato, cioè se avessimo commesso qualche mancanza. Questo lo esigeva il dovere del servizio e dell'uguaglianza, di fronte al castigo corporale.
Ma così, per nulla, alla leggera, tuttavia non ci avrebbero fustigati, mentre coi detenuti ordinari accadeva, s'intende, che si agisse così alla leggera, specialmente da parte di certi comandanti subalterni, vogliosi di fare atto di autorità e di incutere rispetto. A noi era noto che il comandante della fortezza, appreso l'incidente del vecchio Z-ki, si era molto indignato contro il maggiore e gli aveva fatto intendere che in avvenire favorisse tenere le mani a posto. Così mi raccontavano tutti. Da noi si sapeva pure che lo stesso generale governatore, che aveva fiducia nel nostro maggiore e un poco anche gli voleva bene, come a un buon esecutore e a un uomo dotato di certe capacità, avendo saputo di questo incidente, lo aveva del pari redarguito. E il nostro maggiore se lo tenne per detto. Quanto avrebbe voluto, per esempio, farla pagare a M-ki, che odiava a causa delle calunnie di A-v, ma non poté mai farlo fustigare, per quanto cercasse un pretesto, lo perseguitasse e gli minasse il terreno sotto i piedi. Dell'incidente di Z-ki ben presto seppe tutta la città e l'opinione pubblica fu contro il maggiore; molti lo criticarono, taluni perfino procurandogli delle noie. Mi rammento ora anche del mio primo incontro col maggiore di piazza.
A noi, cioè a me e a un altro deportato nobile, insieme col quale ero entrato nel reclusorio, avevano fatto paura già a Tobòlsk parlandoci dello spiacevole carattere di quest'uomo. Gli antichi deportati per venticinque anni, nobili, che erano là a quel tempo e che ci accolsero con profonda simpatia ed ebbero rapporti con noi durante tutto il nostro soggiorno nel luogo di tappa, ci avevano messi in guardia contro il nostro futuro superiore e ci avevano promesso di fare tutto ciò che era in loro potere, attraverso persone di conoscenza, per difenderci dalla sua persecuzione. Infatti tre figlie del generale governatore, giunte dalla Russia e ospiti in quel momento del padre, ricevettero da loro delle lettere e gli parlarono, credo, in nostro favore. Ma che poteva egli fare? Disse soltanto al maggiore che fosse un po' più guardingo. Dopo le due del pomeriggio noi, io cioè e il mio compagno, arrivammo in questa città e i soldati di scorta ci condussero direttamente dal nostro superiore. Stavamo in piedi nell'anticamera aspettandolo. Intanto già avevano mandato a cercare il sottufficiale del reclusorio. Appena egli comparve, uscì fuori anche il maggiore di piazza. Il suo viso paonazzo, pustoloso e cattivo ci fece un'impressione oltremodo sconfortante:
come se un ragno malvagio si fosse avventato sulla povera mosca capitata nella sua ragnatela.
- Come ti chiami? - domandò al mio compagno. Egli parlava in fretta, con voce brusca, a scatti, e voleva evidentemente farci impressione.
- Tal dei tali.
- E tu? - continuò rivolgendosi a me e piantandomi in faccia i suoi occhiali. Tal dei tali.
- Sottufficiale! Condurli subito nel reclusorio, raderli al corpo di guardia, alla civile, immediatamente, metà del capo; i ferri domani stesso. Che cappotti sono questi? Da chi li avete ricevuti?
- domandò a un tratto rivolgendo la sua attenzione ai cappotti grigi, con cerchio giallo sul dorso, datici a Tobòlsk, coi quali ci eravamo presentati davanti ai suoi occhi chiari. Questa è una nuova uniforme! E' certamente qualche nuova uniforme... E' ancora in progetto... viene da Pietroburgo... diceva rigirandoci uno dopo l'altro. - Con sé non hanno nulla? domandò a un tratto al gendarme che ci scortava.
- Hanno vestiario proprio, alta signoria, - rispose il gendarme mettendosi istantaneamente sull'attenti, perfino con un lieve tremito. Tutti lo conoscevano, tutti avevano udito parlar di lui, faceva paura a tutti.
- Togliere loro ogni cosa. Render loro soltanto la biancheria, se bianca, ma quella di colore, se ce n'è, toglierla. Tutto il resto venderlo all'asta. Il denaro segnarlo all'entrata. Il detenuto non ha proprietà, - proseguì, dopo averci guardati severamente. - Badate dunque, comportatevi bene! Che io non abbia a sentir nulla!
Se no... la puni-zione corporale! Per la minima mancanza le v-v- verghe!...
Tutta quella sera io, non avendoci l'abitudine, stetti quasi male per quell'accoglienza. Del resto l'impressione fu accresciuta anche da ciò che vidi nel reclusorio; ma del mio ingresso nel reclusorio ho già raccontato.
Ho accennato poc'anzi che a noi non facevano e non osavano fare alcuna preferenza, alcuna agevolazione sul lavoro rispetto agli altri detenuti. Una volta però si provarono a farcene; io e B-ki per tre mesi interi andammo agli uffici del genio come scrivani.
Ma questo fu fatto con gran mistero e segreto, e lo fece la direzione del genio. Voglio dire che tutti gli altri, magari, a cui toccava sapere lo sapevano, ma facevano finta di non sapere nulla. Questo accadde quando comandante del corpo era ancora G- kov. Il tenente colonnello G-kov ci era piovuto come dal cielo, era stato da noi pochissimo tempo, - non più di sei mesi, forse anche meno, - ed era partito per la Russia lasciando un'impressione straordinaria in tutti i detenuti. Non che amarlo, i detenuti lo adoravano, se qui si può usare questa parola. Come ci fosse riuscito io non so, ma egli li conquistò di primo colpo.
"Un padre, un padre! Non c'è bisogno di padre!", dicevano ogni momento i detenuti durante tutto il periodo in cui diresse i servizi del genio. Era un bisboccione, a quanto pare, tremendo. Di piccola statura, dallo sguardo ardito, sicuro di sé. Ma in pari tempo era affettuoso coi detenuti, quasi fino alla tenerezza, e li amava realmente come un padre. Perché tanto amasse i detenuti non saprei dire, ma non poteva vederne uno senza dirgli una parola affettuosa, gioviale, senza ridere un poco con lui, senza scherzare con lui, e, soprattutto, non c'era in questo nemmeno un briciolo di alcunché di autoritario, di qualcosa che rivelasse la gentilezza del non eguale o puramente del superiore. Era quello in sommo grado un loro compagno, uno dei loro. Ma, nonostante tutto questo suo istintivo fare democratico, i detenuti nemmeno una volta mancarono verso di lui. con qualche atto non rispettoso, con qualche familiarità. All'opposto. Ma tutto il viso del detenuto si illuminava, quando s'imbatteva nel comandante e, levatosi il berretto, già lo guardava sorridendo, mentre l'altro gli si avvicinava. E se questi attaccava discorso, era come se gli regalasse un rublo. Ci sono pure degli uomini così popolari. Egli aveva un aspetto gagliardo, camminava diritto, alla brava.
"Un'aquila", solevano dire di lui i detenuti. Agevolarli, naturalmente, non poteva in alcun modo; egli sovrintendeva soltanto ai lavori del genio, che, anche sotto tutti gli altri comandanti, seguivano il loro solito andamento a norma di legge, fissato una volta per sempre. Tutt'al più, incontrando casualmente una squadra al lavoro e vedendo che il lavoro era finito, non li tratteneva un momento di troppo e li mandava via prima del rullo di tamburo. Ma piacevano la sua fiducia nel detenuto, la mancanza in lui di una stretta meticolosità e irritabilità, l'assoluta mancanza di certi modi offensivi nel suo contegno di superiore. Se egli avesse smarrito mille rubli, io credo che il primo dei nostri ladri, ove li avesse rinvenuti, glieli avrebbe riportati. Sì, sono sicuro che sarebbe stato così. Con quale profonda simpatia i detenuti appresero che quell'aquila del loro comandante aveva litigato a morte col nostro odioso maggiore! Questo accadde fin dal primo mese dopo il suo arrivo. Il nostro maggiore era stato un tempo suo collega. Essi s'incontrarono, dopo la lunga separazione, come amici e presero a far baldoria insieme. Ma a un tratto sopraggiunse la rottura. Essi questionarono e G-kov diventò suo mortale nemico. Si sentì dire perfino che in quella occasione si erano picchiati, cosa che, col nostro maggiore, poteva accadere:
egli si abbaruffava spesso. Quando i detenuti seppero questo, la loro gioia non ebbe limiti. "Ottocchi farsela con uno così? Quello è un'aquila, e il nostro...", e qui di solito si aggiungeva una parola non pubblicabile. Enorme era da noi l'interessamento per sapere chi di loro avesse picchiato l'altro. Se la voce del loro alterco fosse risultata falsa (come forse era), mi pare che i nostri detenuti ne avrebbero provato un gran dispetto. "No, di sicuro il comandante ha avuto la meglio", essi dicevano, "lui è piccolo, ma senza paura, e l'altro, a quanto si dice, s'è cacciato sotto il letto". Ma ben presto G-kov parti e i detenuti ricaddero nell'abbattimento. I comandanti del genio erano da noi, in verità, tutti buoni: mentre c'ero io, se ne cambiarono tre o quattro. "Ma un altro così non lo trovi più", dicevano i detenuti, "un'aquila era, un'aquila e un difensore". Ora, appunto questo G-kov voleva molto bene a tutti noi, nobili, e alla fine aveva ordinato a me e a B-ki di andare qualche volta negli uffici. Ma dopo la sua partenza la cosa assunse un aspetto più regolare. Fra gli ingegneri c'erano persone (uno specialmente) che avevano molta simpatia per noi, Noi andavamo là a copiare carte, e la nostra scrittura aveva perfino cominciato a perfezionarsi, quando a un tratto venne dall'autorità superiore l'ordine di rimandarci immediatamente ai lavori di prima: qualcuno aveva già fatto la spia! Del resto, andò anche bene: l'ufficio cominciava ad annoiarci tutti e due. Poi per un paio d'anni io e B-ki andammo, quasi inseparabilmente, ai medesimi lavori il più delle volte al laboratorio. Noi due si chiacchierava, si parlava delle nostre speranze, delle nostre convinzioni. Egli era un uomo eccellente; ma le sue convinzioni erano a volte molto strane, singolari.
Spesso in una certa categoria di persone, assai intelligenti, si radicano delle idee a volte del tutto paradossali. Ma per esse tanto si è sofferto nella vita, a così caro prezzo si sono pagate, che rinunciarvi è ormai troppo doloroso, quasi impossibile. B-ki accoglieva ogni obiezione con dolore e mi rispondeva acremente.
Forse in molte cose egli aveva anche più ragione di me, non so; ma noi finimmo col separarci, e questo mi addolorò fortemente: molte cose avevamo già diviso insieme.
Intanto M-ki pareva farsi, con gli anni, più malinconico e più tetro. L'angoscia lo soverchiava. In precedenza, nei primi tempi da me passati al reclusorio, egli era stato più socievole, l'anima sua, nonostante tutto, più spesso e maggiormente si rivelava. Era già il terzo anno che viveva nel carcere, quando vi giunsi io. Sul principio s'interessava a molte delle cose che in quei due anni erano accadute nel mondo e di cui, stando nel carcere, non aveva idea; m'interrogava, ascoltava, si agitava. Ma verso la fine, con l'andar degli anni, tutto ciò parve concentrarsi in lui nell'intimo, nel cuore. I carboni si andavano ricoprendo di cenere. La sua esasperazione cresceva sempre più. "Je hais ces brigands", egli mi ripeteva spesso guardando con odio i forzati, che io ero riuscito a conoscere più da vicino, e nessun argomento mio in loro favore agiva su di lui. Egli non capiva quello che io dicevo; talora del resto assentiva distrattamente; ma il giorno dopo ripeteva daccapo: "Je hais ces brigands". A proposito: noi due spesso parlavamo in francese, e per questo un sorvegliante ai lavori, il soldato del genio Dranìsnikov, in base a non so quale considerazione, ci aveva soprannominati "ferscel" [23]. M-ki si animava soltanto ricordando sua madre.
- Lei è vecchia; lei è malata, - mi diceva, - lei mi ama più di tutto al mondo, e io, qui, non so se sia viva o no. E' già stato abbastanza per lei aver saputo che mi hanno fatto passare per le verghe...
M-ki non era nobile e prima della deportazione aveva subito un castigo corporale. Ricordando questo, egli stringeva i denti e si sforzava di guardare in disparte. Negli ultimi tempi aveva preso a passeggiare sempre più spesso solo. Un mattino dopo le undici, fu chiamato dal comandante. Il comandante gli venne incontro con un lieto sorriso.
- Be', M-ki, che cosa hai sognato stanotte? - gli domandò.
"Io ebbi addirittura un sussulto", raccontava M-ki, tornato da noi. "Fui come trafitto al cuore".
- Ho sognato che avevo ricevuto una lettera da mia madre, - egli rispose.
- C'è di meglio, c'è di meglio! - replicò il comandante. - Tu sei libero! Tua madre ha supplicato... la sua supplica è stata accolta. Ecco la sua lettera, ed ecco anche l'ordine a tuo riguardo. Uscirai subito dal reclusorio.
Egli tornò da noi pallido, non ancora riavutosi dalla notizia. Ci rallegrammo con lui. Egli ci strinse le mani con le sue, tremanti, fattesi di gelo. Molti altri detenuti si rallegravano con lui ed erano lieti della sua felicità.
Egli uscì per andare al confino e rimase nella nostra città. Ben presto gli diedero un posto. Sul principio veniva spesso al nostro reclusorio e, quando poteva, ci comunicava varie novità.
Specialmente quelle politiche lo interessavano molto.
Dei quattro rimanenti, - cioè, oltre M-ki, T-ski, B-ki e Z-ki, due erano ancora giovanissimi, inviati a scontare brevi pene, poco istruiti, ma onesti, semplici, leali. Il terzo, A-ciukovski, era un po' troppo sempliciotto e non aveva in sé nulla di speciale, ma il quarto, B-m, un uomo già maturo, faceva a noi tutti pessima impressione. Non so come fosse capitato in tale categoria di delinquenti, ed egli stesso negava il fatto. Era un'anima grossolana, piccolo-borghese, dalle abitudini e dai princìpi di un bottegaio arricchitosi con le copeche sottratte nei conti. Mancava di qualsiasi istruzione e non s'interessava di nulla, all'infuori del suo mestiere. Era decoratore, ma un decoratore di eccezione, un magnifico decoratore. Ben presto i superiori seppero delle sue attitudini e tutta la città incominciò a chiamare B-m per la pittura di pareti e soffitti. In due anni egli dipinse quasi tutti gli alloggi governativi. I possessori degli alloggi lo pagavano di tasca loro ed egli non campava poveramente. Ma la cosa più bella fu che presero a mandare al lavoro insieme con lui anche altri compagni. Di quelli che costantemente lo accompagnavano, due impararono da lui il mestiere e uno di essi, T-zevski, si mise a decorare non meno bene di lui. Il nostro maggiore di piazza, che occupava pure una casa governativa, richiese a sua volta B-m e ordinò che gli dipingesse tutte le pareti e tutti i soffitti. Qui B-m fece del suo meglio: anche dal generale governatore non c'era una decorazione simile. La casa era di legno, a un piano, abbastanza decrepita ed esteriormente oltremodo scalcinata:
all'interno invece la decorazione era come quella di un palazzo e il maggiore era pieno di entusiasmo... Egli si fregava le mani e andava dicendo che ora doveva assolutamente ammogliarsi. "Con un simile alloggio è impossibile non prender moglie", soggiungeva con gran serietà. Di B-m era sempre più soddisfatto e, grazie a lui, anche degli altri che insieme con lui lavoravano. Il lavoro durò un intero mese. In questo mese il maggiore mutò radicalmente la sua opinione su tutti i nostri e cominciò a proteggerli. Si arrivò al punto che un giorno, all'improvviso, chiamò in sua presenza, dal reclusorio, Z-ki.
- Z-ki, - gli disse, - io ti ho fatto un affronto. Io ti ho fustigato ingiustamente, lo so. Me ne pento. Capisci tu questo?
Io, IO, IO, me ne pento!
Z-ki rispose che lo capiva.
- Capisci che IO, IO, il tuo superiore, ti ho chiamato per chiederti perdono? La senti tu questa cosa? Chi sei tu di fronte a me? Un vermiciattolo ! Meno di un vermiciattolo: sei un detenuto!
E io un maggiore per grazia di Dio [24]. Un maggiore! Comprendi tu questo?
Z-ki rispose che capiva anche questo.
- Be', allora adesso io faccio la pace con te. Ma la senti tu, la senti tu questa cosa pienamente, in tutta la sua pienezza? Sei tu capace di comprendere e di sentire questo? Considera solo: io, io, un maggiore... - e così via.
Lo stesso Z-ki mi riferì tutta questa scena. C'era dunque anche in quell'uomo ubriacone, futile e disordinato un sentimento umano.
Tenendo conto delle sue idee e della sua levatura, un'azione simile si poteva stimare quasi magnanima. Del resto lo stato di ubriachezza vi aveva forse contribuito parecchio.
Il suo sogno non si avverò: egli non prese moglie, benché vi si fosse già del tutto risoluto, quando ebbero finito di decorargli l'alloggio. Invece di ammogliarsi, andò sotto processo e gli fu ordinato di dare le dimissioni. Gli addossarono allora anche tutti i suoi vecchi falli. Prima egli era stato in questa città, ci si ricorda, capo della polizia... Il colpo gli giunse inaspettato.
Nel reclusorio si allietarono smodatamente della notizia. Fu una festa, un giubilo! Dicono che il maggiore singhiozzasse come una vecchia donnicciola e si inondasse di lacrime. Ma non c'era niente da fare. Egli diede le dimissioni, vendette la pariglia di cavalli bigi, poi tutta la proprietà e cadde perfino in miseria. Noi lo incontrammo poi vestito di una marsina civile logora e di un berretto con una piccola coccarda. Guardava i detenuti con astio.
Ma tutto il suo fascino era sfumato appena aveva smesso la divisa.
In divisa era il terrore, era un dio. Con la marsina era improvvisamente diventato un nulla assoluto e aveva l'aria di un domestico. E' sorprendente quanta parte abbia la divisa in questi uomini.
Poco dopo il cambiamento del nostro maggiore di piazza ci furono nel nostro carcere radicali mutamenti. Il lavoro forzato fu soppresso e, al suo posto, fu istituita una compagnia di detenuti sotto giurisdizione militare, sul modello delle compagnie russe di detenuti. Ciò significava che i deportati forzati di seconda categoria non li mandavano più al nostro reclusorio. Esso cominciò invece a popolarsi da quel momento unicamente di detenuti sotto giurisdizione militare, quindi di gente non privata dei diritti civili, di soldati come tutti gli altri, ma puniti, che venivano per brevi pene (fino a sei anni al massimo) e che, all'uscita dal carcere, rientravano nei loro battaglioni come uomini di truppa, quali erano prima. Quelli però che tornavano al reclusorio per recidive venivano puniti, come già in passato, con pene ventennali. Da noi del resto, anche prima di questo mutamento, c'era una sezione di detenuti della categoria militare, ma essi vivevano con noi perché non c'era per loro un altro posto. Ora invece tutto il reclusorio fu riservato a questa categoria militare. S'intende da sé che i forzati precedenti, i veri forzati civili, privi di tutti i loro diritti, marchiati e rasi sul capo per il lungo, rimasero nel carcere fino al termine delle loro pene; di nuovi non ne giungevano e i rimasti a poco a poco scontavano la pena e andavano via, di modo che entro una decina di anni non sarebbe rimasto nel nostro reclusorio nessun forzato. Fu conservata nel carcere anche la sezione speciale, nella quale si continuò di tempo in tempo a mandare i maggiori criminali di competenza militare, fino all'introduzione in Siberia dei lavori forzati più pesanti. In tal modo per noi la vita continuò, in sostanza, come prima: lo stesso trattamento, lo stesso lavoro e quasi la stessa disciplina, fu solo mutata e divenne più complessa la direzione. Vi si designò un ufficiale di stato maggiore, comandante della compagnia, e in più quattro ufficiali superiori, che facevano servizio per turno nel reclusorio. Furono soppressi anche gli invalidi e sostituiti con dodici sottufficiali e un armiere. Furono istituiti dei reparti di dieci ciascuno, fu istituito un caporale tratto dagli stessi detenuti, con grado nominale, s'intende, e va da sé che Akim Akimic' si trovò subito a esser caporale. Tutta questa nuova organizzazione e l'intero reclusorio con tutti i suoi graduati e detenuti rimasero come prima sotto la giurisdizione del comandante della fortezza, come capo supremo. Ed ecco tutto ciò che avvenne. Naturalmente i detenuti da principio si agitarono molto, discussero, studiarono e cercarono di decifrare i nuovi superiori; ma quando videro che, in fondo, tutto era rimasto come prima, si calmarono subito e la nostra vita procedette come in passato. Ma l'essenziale è che tutti furono sbarazzati del precedente maggiore; tutti parvero respirare e rinfrancarsi. Erano scomparse le facce spaurite, ognuno sapeva ora che, in caso di necessità, poteva spiegarsi col superiore, che un innocente tutt'al più per errore poteva essere punito in luogo del colpevole. Perfino l'acquavite continuò a vendersi da noi esattamente allo stesso modo e sulle stesse basi di prima, nonostante che al posto degli invalidi fossero subentrati i sottufficiali. Questi sottufficiali si mostrarono, per la maggior parte, gente perbene e avveduta, che capiva la propria posizione. Taluni di essi per altro manifestarono all'inizio la velleità di fare i galletti, pensando, naturalmente, per inesperienza, di poter trattare i detenuti come soldati. Ma ben presto anche questi compresero di che si trattava. Ad altri invece, che ci mettevano troppo tempo a capirla, i detenuti stessi facevano intendere il nocciolo della cosa. Ci furono dei conflitti abbastanza aspri: essi, per esempio, tentavano un sottufficiale e lo facevano bere, dopo di che gli spiegavano, a modo proprio, s'intende, che aveva bevuto con loro, e per conseguenza... Finì che i sottufficiali guardavano con indifferenza o, meglio, cercavano di non vedere come si introducessero le vesciche piene di vodca e come la si vendesse. Ben più: come gli invalidi di prima, essi andavano al mercato e portavano ai detenuti panini a ciambella, carne di manzo e tutto il resto, cioè tutto ciò di cui potevano incaricarsi senza troppi scrupoli. Perché si fossero fatti tutti questi mutamenti, perché fosse stata istituita la compagnia di detenuti, questo poi non lo so. La cosa accadde già durante i miei ultimi anni di lavori forzati. Ma ero destinato a trascorrere ancora due anni sotto questo nuovo regime...
Dovrei annotare tutta la mia vita, tutti i miei anni di reclusorio? Non credo. A scrivere per ordine, di fila tutto ciò che accadde, e tutto ciò che vidi e provai in quegli anni, si potrebbero ancora scrivere, s'intende, tre o quattro volte più capitoli di quelli scritti finora. Ma una simile descrizione, senza volere, diverrebbe alla fine troppo uniforme. Tutti i casi occorsi riuscirebbero troppo monotoni, specialmente se il lettore è già pervenuto dai capitoli precedenti, a farsi un concetto anche solo un po' soddisfacente della vita dei forzati di seconda categoria. Io volevo presentare tutto il nostro reclusorio e tutto ciò che vissi in quegli anni in un intuitivo e vivido quadro. Se abbia raggiunto questo scopo non so. E in parte anche non spetta a me giudicarne. Ma sono convinto che qui si può anche fare punto.
Inoltre io stesso a volte sono preso da angoscia a questi ricordi.
E poi difficilmente potrei rammentare ogni cosa. Gli anni successivi si sono come cancellati nella mia memoria. Molte circostanze, ne sono persuaso, sono state da me del tutto dimenticate. Ricordo, per esempio che tutti quegli anni, in fondo così simili l'uno all'altro, passavano fiaccamente, uggiosamente.
Ricordo che tutte quelle lunghe, noiose giornate erano così uniformi come lo sgocciolare dell'acqua da un tetto dopo la pioggia. Ricordo che soltanto un appassionato desiderio di resurrezione, di rinnovamento, di nuova vita mi diedero la forza di aspettare e di sperare. E io finalmente riuscii a farmi forza:
aspettavo, contavo ogni giorno e, nonostante che ne rimanessero ancora mille, contavo con delizia ciascuno di essi, lo accompagnavo, lo sotterravo e, con lo spuntare di un nuovo giorno, ero lieto che ne restassero non più mille, ma novecentonovantanove. Ricordo che in tutto quel tempo, nonostante le centinaia di compagni, io fui sempre in una tremenda solitudine e finii con l'amare tale solitudine. Moralmente solo, passavo in rassegna tutta la mia vita trascorsa, analizzavo ogni cosa fino ai più minuti particolari, meditavo sul mio passato, mi giudicavo da me con implacabile severità, e in qualche ora benedicevo finanche il destino per avermi mandato quella solitudine, senza di cui non sarebbero stati possibili né quel processo fatto a me stesso, né quella rigorosa rassegna della vita precedente. E quali speranze fecero allora battere il mio cuore! Io pensai, io stabilii, io mi giurai che nella mia vita avvenire non ci sarebbero più stati né gli errori, né i traviamenti che c'erano stati prima. Io mi tracciai il programma di tutto il mio futuro e mi proposi di seguirlo fermamente. In me era rinata una cieca fede che avrei adempiuto tutto ciò e che potevo adempierlo... Io attendevo, io invocavo al più presto la libertà, volevo mettermi alla prova daccapo, in una nuova lotta. Talora mi afferrava una febbrile impazienza... Ma mi è doloroso ricordarmi ora del mio stato d'animo a quel tempo. Naturalmente tutto questo riguarda me solo... Ma ho scritto questo appunto perché mi pare che ognuno lo capirà, perché a ognuno dovrebbe accadere la stessa cosa, se egli capitasse in prigione per un certo tempo nel fiore degli anni e delle forze.
Ma a che dire di questo! Racconterò piuttosto ancora qualcosa, per non terminare con un taglio troppo netto.
M'è venuto in mente che qualcuno potrebbe domandare: possibile che a nessuno mai fosse dato fuggire dai lavori forzati e che da noi, in tutti quegli anni, nessuno fosse fuggito? Io ho già scritto che il detenuto che ha trascorso due o tre anni in reclusorio comincia ormai ad apprezzare tali anni e involontariamente a far questo calcolo, che è meglio finire il tempo che gli resta senza fastidi, senza pericoli, per poi andarsene legalmente al confino. Ma un simile calcolo entra in testa solo al detenuto mandato qui per una breve pena. Chi ha da scontare lunghi anni è magari anche pronto a rischiare... Ma da noi, chi sa perché, ciò non accadde mai. Non so se fossero molto paurosi, se la sorveglianza fosse particolarmente severa, militare, o la situazione della nostra città (nella steppa, aperta) per molti rispetti sfavorevole: è difficile dirlo.
Io penso che tutte queste cause avessero la loro influenza.
Realmente, evadere da noi era un po' difficile. E tuttavia anche mentre c'ero io accadde un fatto del genere: due ci si arrischiarono, anzi due dei maggiori criminali...
Dopo la sostituzione del maggiore, A-v (quello che gli faceva la spia nel reclusorio) era rimasto completamente solo senza protezione. Egli era ancora giovanissimo, ma il suo carattere si andava fortificando e rinsaldando con gli anni. In generale era un uomo audace, risoluto e anche accortissimo. Egli avrebbe bensì continuato a fare la spia e a esercitare varie attività clandestine se gli avessero dato la libertà, ma ora non ci sarebbe più cascato in modo così sciocco e inconsiderato, come aveva fatto prima, pagando la propria stupidità con la deportazione. Egli si esercitava da noi anche un poco in falsi passaporti. Non lo affermo però con sicurezza. Così sentivo dire dai nostri detenuti.
Dicevano che si occupasse di questo lavoro fin da quando andava nella cucina dal maggiore di piazza, ritraendone, s'intende, un reddito adeguato. Insomma, a quanto pareva, egli avrebbe potuto risolversi a tutto, pur di mutare la sua sorte. Io ebbi occasione di conoscere un poco l'animo suo: il cinismo arrivava in lui a un'insolenza rivoltante, al più freddo sarcasmo, e suscitava un'invincibile repulsione. Mi sembra che, se gli fosse venuto una gran voglia di bere un quartino di acquavite, e se non avesse potuto procurarsi questo quartino se non assassinando qualcuno, egli l'avrebbe senza dubbio assassinato, pur di poter fare ciò alla chetichella, a insaputa di chicchessia. In reclusorio aveva imparato a essere calcolatore. Ed ecco, appunto a quest'uomo aveva rivolto la sua attenzione il detenuto Kulikòv della sezione speciale.
Già ho parlato di Kulikòv. Era un uomo non più giovane, ma dominato dalle passioni, pieno di vitalità, forte, dotato di straordinarie e svariate attitudini. In lui c'era una gran forza ed egli voleva ancora vivere, siffatti uomini fino alla più tarda vecchiaia continuano ad aver voglia di vivere. E se io avessi dovuto meravigliarmi perché da noi non si tentava di evadere, mi sarei meravigliato in primo luogo di Kulikòv. Ma Kulikòv aveva preso una decisione. Chi di loro due aveva più influsso sull'altro: A-v su Kulikòv o Kulikòv su A-v? Non lo so, ma entrambi si valevano a vicenda ed erano uomini che per questa impresa si confacevano l'uno all'altro. Essi strinsero amicizia.
Mi pare che Kulikòv facesse conto che A-v avrebbe preparato i passaporti. A-v era un ex-nobile e apparteneva alla buona società:
ciò prometteva una certa varietà nelle future avventure, purché avessero potuto raggiungere la Russia. Chi sa come si erano intesi e quali speranze avevano; ma certamente le loro speranze uscivano dalla solita routine del vagabondaggio siberiano. Kulikòv era per natura attore e poteva scegliersi nella vita molte e diverse parti; poteva sperare molto, per lo meno una vita molto varia.
Tali uomini doveva produrre il reclusorio! Essi si accordarono per fuggire.
Ma fuggire senza il soldato di scorta era impossibile. Bisognava indurre il soldato di scorta ad accompagnarli. In uno dei battaglioni di stanza nella fortezza faceva servizio un polacco, un uomo energico e forse degno di miglior sorte, un uomo già maturo, di baldo aspetto, serio. Da giovane, appena giunto in Siberia per prestar servizio, aveva disertato per la sua profonda nostalgia della patria. Lo avevano acciuffato, punito e tenuto un paio d'anni nelle compagnie di detenuti. Quando fu rimandato a fare il soldato, egli mutò pensiero e si mise a servire con zelo, con tutte le sue forze. In segno di distinzione, lo avevano fatto caporale. Era un uomo ambizioso, presuntuoso e sapeva farsi valere. Aveva appunto l'aspetto e il modo di parlare di uno che sa farsi valere. Io più volte lo avevo incontrato in quegli anni fra gli altri soldati di scorta. Qualcosa mi avevano detto di lui anche i polacchi. A me era parso che la sua nostalgia di un tempo si fosse convertita in odio, un odio celato, sordo, perenne.
Quest'uomo poteva risolversi a tutto e Kulikòv non s'ingannò scegliendolo come compagno. Il suo cognome era Koller. Essi si intesero e fissarono il giorno. Si era nel mese di giugno, le giornate erano affocate. Il clima di questa città è abbastanza costante; d'estate il tempo è stabile, caldo; e questo fa il gioco del vagabondo. S'intende che essi in nessuna maniera avrebbero potuto partire direttamente dal posto, dalla fortezza: tutta la città è situata in alto e aperta da ogni parte. Intorno, per una distesa abbastanza vasta, non ci sono boschi. Bisognava travestirsi da abitanti del luogo e, a questo scopo, arrivare innanzi tutto nel sobborgo, dove Kulikòv aveva da lungo tempo un suo covo. Non so se i favoreggiatori del sobborgo fossero pienamente iniziati al loro segreto. Bisogna supporre che lo fossero, sebbene poi, nell'inchiesta, la cosa non si sia del tutto chiarita. Quell'anno, in un cantuccio del sobborgo, aveva appena iniziato la sua carriera una giovane e avvenentissima ragazza, soprannominata Vanka Tanka, che prometteva molto bene e in parte mantenne le sue promesse in seguito. La chiamavano anche "Fuoco".
Sembra che lei pure prendesse una certa parte alla cosa. Kulikòv era già tutto un anno che si rovinava per lei. I nostri baldi giovani andarono la mattina allo smistamento e con abilità fecero in modo che li mandarono col detenuto Scilkin, stufaio e stuccatore, a intonacare le baracche vuote del battaglione, di dove i soldati già da un pezzo erano andati al campo. A-v e Kulikòv si avviarono con lui come manovali. Koller s'intrufolò come soldato di scorta e, poiché per tre detenuti ci voleva scorta doppia, volentieri affidarono a Koller, quale vecchio soldato e caporale, una giovane recluta perché la guidasse e la istruisse nel servizio di scorta. Dovevano dunque i nostri fuggiaschi avere un fortissimo influsso su Koller e costui essersi fidato di loro, se, dopo un lungo e, negli ultimi anni, fortunato servizio, egli, che era persona intelligente, posata, calcolatrice, si era indotto a seguirli.
Giunsero alle baracche. Erano le sei del mattino. Oltre a loro non c'era alcuno. Dopo aver lavorato un'oretta, Kulikòv e A-v dissero a Scilkin che sarebbero andati al laboratorio, in primo luogo, per vedere qualcuno e, secondariamente, per prendere intanto non so quale strumento che era risultato mancante. Con Scilkin bisognava far le cose scaltramente, cioè nel modo più naturale possibile.
Egli era un moscovita, stufaio di mestiere, di origine borghese, furbo, intrigante, intelligente, di poche parole. Di aspetto era mingherlino e smunto. Egli avrebbe voluto andare sempre in panciotto e veste da casa, alla moscovita, ma il destino aveva disposto altrimenti e, dopo lunghe peregrinazioni, si era arenato per sempre da noi nella sezione speciale, cioè nella categoria dei più efferati delinquenti militari. Come si fosse meritato una simile carriera non so; ma in lui non si notava mai un forte malcontento; teneva un contegno pacifico e uguale; solo qualche volta si ubriacava come un ciabattino, ma anche allora si comportava bene. A parte del segreto egli naturalmente non era, e i suoi occhi erano molto penetranti. Va da sé che Kulikòv gli ammiccò che andavano a pigliare l'acquavite, che fin dal giorno prima era stata riposta nel laboratorio. Questo toccò il cuore di Scilkin; egli si separò da loro senza alcun sospetto rimanendo solo con la recluta, e Kulikòv, A-v e Koller si diressero verso il sobborgo.
Trascorse mezz'ora; gli assenti non ritornavano e tutt'a un tratto, mangiata la foglia, Scilkin si mise a riflettere. Il giovanotto aveva tutte le malizie. Cominciò a ricordarsi: Kulikòv era di un umore un po' speciale, A-v pareva gli avesse due volte bisbigliato qualcosa, almeno Kulikòv gli aveva due volte strizzato l'occhio, lui aveva visto; ora si ricordava di tutto ciò. Anche in Koller si notava un non so che: quanto meno, nell'andar via con loro, si era messo a dare istruzioni alla recluta sul come comportarsi in sua assenza, e questo, in certo modo, non era del tutto naturale, da parte di Koller, almeno. Insomma, quanto più Scilkin andava avanti a ricordare, tanto più crescevano i suoi sospetti. Il tempo intanto passava, quelli non ritornavano, e la sua inquietudine giungeva agli estremi limiti. Egli capiva benissimo quale rischio corresse in questa faccenda: su di lui avrebbero potuto appuntarsi i sospetti dei superiori. Potevano pensare che avesse lasciato partire i compagni scientemente, per un mutuo accordo, e se avesse tardato a denunciare la scomparsa di Kulikòv e di A-v, tali sospetti avrebbero acquistato anche maggiore verosimiglianza. Non c'era tempo da perdere. A questo punto si rammentò che negli ultimi giorni tra Kulikòv e A-v c'era stata una certa quale particolare intimità, che spesso avevano bisbigliato tra loro, spesso erano andati dietro le baracche, lontano da ogni sguardo. Si rammentò che già allora aveva pensato qualcosa sul loro conto. Guardò con occhio scrutatore il suo soldato di scorta; quello sbadigliava, col gomito appoggiato al fucile, e col fare più innocente si puliva il naso con un dito, tanto che Scilkin non si degnò nemmeno di comunicargli i propri pensieri, ma puramente e semplicemente gli disse di seguirlo al laboratorio del genio. Nel laboratorio bisognava domandare se gli altri non fossero venuti lì. Ma risultò che lì nessuno li aveva visti. Tutti i dubbi di Scilkin si dissiparono. Che fossero andati soltanto a bere un poco e a spassarsela nel sobborgo, come qualche volta faceva Kulikòv, - pensava Scilkin, - anche questo in quel caso non era possibile. Gliel'avrebbero detto, perché non metteva conto di nasconderglielo. Scilkin piantò il lavoro e, senza passare alla baracca, si avviò direttamente al reclusorio.
Erano già quasi le nove, quando si presentò al sergente maggiore e gli spiegò di che si trattasse. Il sergente maggiore allibì e sulle prime non volle nemmeno prestargli fede. S'intende che anche Scilkin gli aveva esposto tutto ciò solo a titolo di congettura, di sospetto. Il sergente si precipitò senz'altro dal maggiore. Il maggiore corse immediatamente dal comandante della fortezza. Dopo un quarto d'ora erano già stati presi tutti i provvedimenti necessari. Fu fatto rapporto al generale governatore in persona. I criminali erano d'importanza e per loro poteva venire da Pietroburgo un forte rabbuffo. A ragione o no, A-v era stato ascritto ai delinquenti politici; Kulikòv era della sezione speciale, cioè arcicriminale e pure militare per giunta. Non si aveva ancora esempio fino a quel giorno che qualcuno fosse fuggito dalla sezione speciale. Si ricordarono in proposito che, secondo le norme, per ciascun detenuto della sezione speciale dovevano esserci sul lavoro due soldati di scorta o, almeno, uno. Questa norma non era stata osservata. Ne veniva quindi una faccenda incresciosa. Furono inviati dei messi in tutti i paesi, in tutte le cittadine dei dintorni per dar notizia degli evasi e lasciare dappertutto i loro connotati. Si mandarono dei cosacchi a inseguirli, a dar loro la caccia; si scrisse anche ai distretti e alle provincie vicine. Insomma, lo sgomento fu grande.
Intanto da noi, nel reclusorio, era cominciata un'agitazione di altro genere. I detenuti, man mano che venivano dai lavori, subito apprendevano di che si trattava. La nuova era già volata dappertutto. Tutti accoglievano la notizia con una certa straordinaria, occulta gioia. A tutti il cuore aveva dato come un sobbalzo. A parte che quel caso aveva interrotto la vita monotona del reclusorio e messo a soqquadro il formicaio, una fuga, e una simile fuga, aveva trovato come un'eco fraterna in tutti gli animi e toccato in essi delle corde da gran tempo dimenticate: un che di simile alla speranza, alla temerità, alla possibilità di mutare la propria sorte si era risvegliato in tutti i cuori. "Degli uomini erano pur fuggiti: perché dunque?". E ognuno a questo pensiero si ringalluzziva e guardava gli altri con aria di sfida. Per lo meno, tutti si erano fatti subitamente come orgogliosi e avevano cominciato a guardare dall'alto in basso i sottufficiali.
S'intende che nel reclusorio piombarono subito i superiori. Venne anche il comandante in persona. I nostri si erano ringalluzziti e avevano un'aria baldanzosa, anzi un po' sprezzante, e una certa quale taciturna, severa gravità, come a dire: "Noi sappiamo fare le cose". Va da sé che da noi si era subito previsto la visita di tutti i superiori. Si era previsto pure che senza fallo ci sarebbero state delle perquisizioni e si era anticipatamente nascosto tutto. Si sapeva che i superiori in questi casi erano sempre forti del senno di poi. E così accadde, ci fu un gran trambusto: tutto venne frugato, rovistato e... non si trovò nulla, s'intende. Al lavoro pomeridiano i detenuti furono mandati sotto scorta rafforzata. La sera le sentinelle si davano la voce nel reclusorio a ogni momento; gli uomini furono contati una volta più del solito; nel far questo si sbagliò anche un paio di volte più del solito. Ne nacque una nuova baraonda: tutti furono mandati fuori in cortile e li si contò daccapo. Poi li si contò ancora una volta, nelle baracche. Insomma ci si diede un gran da fare.
Ma i detenuti non se ne davano per inteso. Essi avevano tutti un'aria di estrema indipendenza e, come sempre è costume in tali casi, tennero tutta quella sera un contegno insolitamente corretto: "Non è possibile quindi attaccarsi a nulla".
Naturalmente i superiori pensavano: "Non saranno rimasti nel reclusorio dei complici degli evasi?", e diedero l'ordine di sorvegliare i detenuti e di ascoltarne i discorsi. Ma i detenuti ridevano soltanto. "E' mai questa una faccenda da lasciarsi dietro dei complici?". "Queste cose si fanno a passi di lupo, e non altrimenti". "E poi è un uomo Kulikòv, è un uomo A-v da non far sparire, in una faccenda simile, qualsiasi traccia? L'hanno fatta magistralmente, in gran segreto. E' gente che ha tutte le malizie, passeranno anche attraverso le porte chiuse!". Insomma Kulikòv e A-v erano saliti in fama, tutti ne erano orgogliosi. Sentivano che l'impresa loro sarebbe giunta alla più lontana posterità dei forzati, sarebbe sopravvissuta al reclusorio.
- Gente che la sa lunga! - diceva uno.
- Ecco, credevano che da noi non si potesse fuggire. Sono fuggiti, no?... - soggiungeva altri.
- Sono fuggiti! - insinuò un terzo guardandosi intorno con una certa autorità. - Ma chi è fuggito? E' forse da mettere vicino a te?
In un altro momento il detenuto a cui si riferivano queste parole avrebbe senza fallo risposto alla sfida e difeso il proprio onore.
Ma ora rimase modestamente zitto. "Infatti non sono mica tutti come Kulikòv e A-v; prima fa' vedere chi sei!".
- E noi, fratelli, davvero, che stiamo a fare qui? - interrompe il silenzio un quarto, dimessamente seduto accanto al finestrino della cucina, parlando con un po' di cantilena per un certo qual senso di commozione, segretamente presuntuoso, e appoggiando la guancia al palmo della mano. - Che siamo noi qui? Vivi, non siamo uomini; morti, non siamo defunti. E-eh!
- Questa faccenda non è una scarpa. Dal piede non te la levi.
Perché e-eh?
- Eppure Kulikòv... - mise becco uno di quelli focosi, un giovane e sbarbato ragazzotto.
- Kulikòv! - replica subito l'altro sbirciando sprezzantemente lo sbarbatello, - Kulikòv!
E questo significa: di Kulikòv ce ne sono forse molti?
- Be', e anche A-v, fratelli, che volpone, oh, che volpone !
- Altro che! Quello ti rigira fra le dita anche Kulikòv. Non riesci a trovarne il bandolo!
- Farebbe piacere, fratelli, sapere se ora siano già lontani...
E subito si cominciò a discorrere: saranno già lontani? E da che parte si saranno avviati? E dove sarebbe meglio che andassero? E qual è il paese più vicino? Si trovarono lì degli uomini che conoscevano i dintorni. Venivano ascoltati con curiosità. Si parlò degli abitanti dei prossimi villaggi e si concluse che quella era gente poco sicura. Troppo vicina alla città, gente navigata; non avrebbero favorito i detenuti, li avrebbero presi e consegnati.
- Qui, fratelli, il contadino è feroce. U-u-uh, che contadino!
- Non c'è da fidarsene!
- Il siberiano ha le orecchie di porco. Non cascargli nelle mani, che ti ammazza.
- Be', ma i nostri...
- E' presto capito chi avrebbe la meglio. Anche i nostri non sono di quelli...
- Be', se non moriremo, sapremo.
- E tu che ne pensi? Li prenderanno?
- Io credo che non li prenderanno mai! - mette bocca uno di quelli focosi battendo il pugno sulla tavola.
- Ehm! Be', questo dipende da come si mette la faccenda.
- Ma io, ecco che cosa penso, fratelli, - salta su Skuratov, se io fossi vagabondo, non mi piglierebbero mai!
- Proprio te!
Cominciano le risate, altri si danno l'aria di non voler nemmeno ascoltare. Ma Skuratov già si è sbrigliato.
- Non mi piglierebbero mai! - replica con energia, - io, fratelli, spesso ci penso tra me e mi meraviglio di me stesso, ma mi pare che passerei anche per una fessura e nessuno mi piglierebbe.
- Ma poi ti verrà fame e andrai da un contadino per avere del pane.
Risate generali.
- Del pane! Ciance!
- Ma tu che hai da menare la lingua? Tu e lo zio Vassia avete ammazzato la morte delle vacche [25] e per questo vi hanno mandati qui.
Le risate si fanno più forti. I detenuti seri guardano con anche maggiore indignazione.
- Conti frottole! - grida Skuratov, - questo l'ha inventato sul mio conto Mikitka, e nemmeno sul mio conto, ma su quello di Vaska, e poi hanno tirato in ballo anche me. Io sono di Mosca e fin da piccolo ho conosciuto il vagabondaggio. Me lo scaccino, quando ancora mi insegnava a leggere, mi tirava per un orecchio:- Ripeti:
"fammi la grazia, o Dio, nella tua grande misericordia" - e così via... e io ripetevo dietro a lui: "Mi hanno condotto alla polizia, per la tua misericordia" e così via... Ecco dunque come io fin dalla prima infanzia presi a comportarmi.
Tutti sghignazzarono di nuovo. Ma era quello che ci voleva per Skuratov. Egli non poteva fare a meno di buffoneggiare. Ben presto lo lasciarono e ripresero i discorsi seri. A pronunciare giudizi erano soprattutto i vecchi e i competenti. Le persone più giovani e più quiete si limitavano a guardarli con compiacenza e si sporgevano col capo per ascoltare; in cucina si era radunata una gran folla; di sottufficiali, s'intende, non ce n'erano. In loro presenza non avrebbero parlato liberamente. Fra quelli che più erano lieti notai un tartaro, Mametka, di alta statura, dagli zigomi sporgenti, una figura straordinariamente comica. Egli non diceva quasi nulla in russo e non capiva quasi nulla di ciò che dicevano gli altri, ma metteva avanti la testa di dietro la folla e ascoltava, ascoltava con delizia.
- E che, Mametka va bene? - si appiccicò a lui, non sapendo che fare Skuratov, respinto da tutti.
- Bene! Oh, bene! - borbottò animandosi tutto e facendo dei cenni a Skuratov con la sua buffa testa, - bene!
- Non li prenderanno? Mai?
- Mai, mai! - e Mametka tornò a ciondolare il capo, ma questa volta agitando le braccia.
- Allora la tua ha mentito e la mia non ha capito [26], è così, è così, eh?
- Così, così, bene! - confermò Mametka accennando col capo.
- Allora bene!
E Skuratov, fattogli uno schiocco sul berretto, che poi gli calò sugli occhi, uscì dalla cucina nella più allegra disposizione di spirito lasciando Mametka un po' stupito.
Per un'intera settimana si protrassero i rigori nel reclusorio e le febbrili battute e ricerche nei dintorni. Non so in qual modo, ma i detenuti ricevevano, immediate e precise, tutte le notizie sulle operazioni dei superiori fuori del carcere. Nei primi giorni tutte le notizie furono in favore degli evasi: non un segno di vita, erano scomparsi, e basta. I nostri sogghignavano soltanto.
Ogni inquietudine circa la sorte dei fuggiaschi era dileguata.
"Non troveranno nulla, non piglieranno nessuno!", dicevano da noi con presunzione.
- Nulla di nulla; zero!
- Addio, non abbiate paura, presto tornerò!
Da noi si sapeva che tutti i contadini dei dintorni erano stati messi in moto, che tutti i luoghi sospetti, tutti i boschi, tutti i burroni erano sorvegliati.
- Sciocchezze, - dicevano i nostri sogghignando, - anche loro certamente hanno qualcuno da cui ora soggiornano.
- Di sicuro ce l'hanno! - dicevano altri, - non è gente da non averci pensato; tutto avevano preparato in precedenza.
Andarono ancora oltre nelle supposizioni: si misero a dire che i fuggitivi forse se ne stavano tuttora nel sobborgo e dimoravano in qualche cantina, in attesa che l'allarme passasse e ricrescessero loro i capelli. Ci sarebbero stati sei mesi, un anno, e poi se ne sarebbero andati.
Insomma tutti erano perfino in una certa qual romanzesca disposizione di spirito. Quando a un tratto, un otto giorni dopo l'evasione, si sparse la voce che erano state scoperte le loro tracce. Naturalmente l'assurda voce fu subito respinta con disprezzo. Ma quella stessa sera la voce ebbe conferma. I detenuti cominciarono a essere in apprensione. Al mattino del giorno dopo si prese a dire in città che già li avevano catturati, che li stavano riconducendo. Dopo desinare si appresero ancora maggiori particolari; li avevano catturati a settanta verste di là, in un certo villaggio. Infine si ricevette un'informazione precisa. Il sergente, tornato dall'ufficio del maggiore, dichiarò in modo positivo che verso sera li avrebbero condotti direttamente al corpo di guardia presso il reclusorio. Dubitare ormai era impossibile. E' difficile riferire l'impressione prodotta da questa notizia sui detenuti. Dapprima parvero adirarsi tutti, poi si fecero tristi. Poi fece capolino una certa velleità di canzonatura. Incominciarono a ridere, ma non già dei catturatori, bensì dei catturati, sul principio pochi, poi quasi tutti, all'infuori di alcune persone serie e posate che la pensavano a modo loro e che non si potevano sconcertare coi motteggi. Questi guardavano con disprezzo le frivole masse e tacevano.
Insomma, in quella stessa misura in cui prima avevano esaltato Kulikòv e A-v, ora li abbassavano, anzi li abbassavano con voluttà. Come se quelli avessero in qualche maniera offeso tutti.
Raccontavano con aria sprezzante che era venuta loro una gran voglia di mangiare, che non avevano resistito alla fame ed erano andati in un villaggio dai contadini a chiedere del pane. Era questo già l'ultimo grado dell'avvilimento per un vagabondo. Del resto questi racconti non erano esatti. I fuggiaschi erano stati spiati; essi si erano nascosti in un bosco; li avevano circondati da tutte le parti. Quelli, vedendo che non c'era possibilità di salvarsi, si erano arresi da sé. Non rimaneva loro null'altro da fare.
Ma quando verso sera realmente i gendarmi li condussero con mani e piedi legati, tutti i forzati si riversarono verso la palizzata, per vedere che avrebbero fatto di loro. S'intende che non videro niente, se non le carrozze del maggiore e del comandante presso il corpo di guardia. I fuggiaschi furono messi in una segreta, incatenati e il giorno dopo mandati sotto processo. Gli scherni e il disprezzo dei detenuti ben presto caddero da sé. Si appresero maggiori particolari sulla faccenda, si apprese che non c'era più stato altro da fare che arrendersi, e tutti cominciarono a seguire con cordiale interesse l'andamento del processo.
Gliene appiopperanno un migliaio, - dicevano gli uni.
Ma che migliaio! - dicevano gli altri, - li finiranno. Ad A-v magari un migliaio, ma l'altro lo finiranno, perché, fratello mio caro, è della sezione speciale.
Tuttavia non indovinarono. Ad A-v toccarono in tutto cinquecento colpi; si prese in considerazione la sua soddisfacente condotta anteriore e la mancanza di precedenti. A Kulikòv ne diedero, pare, millecinquecento. Furono con lui abbastanza clementi. Da persone assennate, i due dinanzi al tribunale non coinvolsero nessuno, parlarono in modo chiaro e preciso, dissero di essere fuggiti direttamente dalla fortezza, senza passare in nessun posto. Più di tutti mi fece pena Koller: egli perse tutto, le sue ultime speranze, ricevette più colpi degli altri, mi pare, duemila, e fu spedito come detenuto non so dove, non nel nostro reclusorio però.
A-v fu punito blandamente, con qualche riguardo; a ciò avevano contribuito i medici. Ma egli faceva il galletto e diceva forte all'infermeria che ormai era risoluto a tutto, pronto a tutto, e avrebbe fatto ben altro. Kulikòv si comportò come sempre, cioè con gravità e decoro, e, tornato dopo la punizione al reclusorio, aveva un'aria come se non se ne fosse mai allontanato. Ma i detenuti non lo guardavano più allo stesso modo: nonostante che Kulikòv sapesse sempre e dappertutto tenersi su, i detenuti in cuor loro parvero cessare di rispettarlo e presero a trattarlo in certo qual modo più alla pari. In una parola, dopo questa evasione la gloria di Kulikòv si offuscò grandemente. Tanto vuol dire fra gli uomini il buon successo.
Tutto ciò era accaduto già nell'ultimo anno dei miei lavori forzati. Quest'ultimo anno è per me quasi altrettanto memorabile quanto il primo, specialmente gli ultimissimi tempi passati al reclusorio. Ma a che discorrere dei particolari! Ricordo soltanto che in quell'anno, nonostante tutta la mia impazienza di scontare al più presto la pena, mi fu più facile vivere che in tutti i precedenti anni di deportazione. In primo luogo, io avevo fra i detenuti molti amici e buoni conoscenti, i quali avevano definitivamente concluso che ero una brava persona. Molti di essi mi erano devoti e mi amavano sinceramente. Il "pioniere" per poco non si mise a piangere accompagnando me e il mio compagno fuori del reclusorio, e quando poi, già uscitine, noi trascorremmo ancora un intero mese in questa città, in un edificio governativo, egli venne da noi quasi ogni giorno, solo così, per vederci un momento. Ci furono però anche delle persone ruvide e scortesi sino alla fine, per le quali sembrava fosse gravoso dire con me una parola. Dio sa perché. Pareva che tra noi ci fosse una specie di muro divisorio.
Negli ultimi tempi io ebbi, in generale, più agevolazioni che durante tutti i lavori forzati. In questa città, fra i militari in servizio avevo ritrovato dei conoscenti, e perfino degli antichi compagni di scuola. Rinnovai con essi le mie relazioni. Per mezzo loro potei avere più denaro, potei scrivere a casa e perfino ricevere dei libri. Erano già parecchi anni che non avevo letto nemmeno un libro, e mi è difficile dar conto di quella strana e insieme eccitante impressione che produsse in me il libro letto in reclusorio. Mi ricordo che cominciai a leggerlo di sera, quando chiusero la camerata, e lo lessi per tutta la notte fino all'alba.
Era un fascicolo di rivista. Come se fosse giunto a volo fino a me un messaggio dell'altro mondo, la vita precedente mi sorse tutta dinanzi chiara e luminosa, e da ciò che avevo letto mi sforzavo di indovinare questo: sono io rimasto molto addietro a questa vita?
quante vicende hanno vissuto quelli di laggiù in mia assenza? che cosa li agita ora? quali questioni li occupano ora? Io mi attaccavo alle parole, leggevo tra le righe, cercavo di trovarci un senso misterioso, degli accenni al passato; andavo in cerca delle tracce di ciò che una volta, ai miei tempi, aveva commosso gli uomini, ed era per me tanto triste sentire ora, all'atto pratico, fino a che punto io fossi un estraneo nella nuova vita, fino a che punto fossi divenuto un brandello tagliato via.
Bisognava abituarsi alle novità, far conoscenza con la nuova generazione. Soprattutto mi gettai su un articolo sotto il quale si trovava la firma di un uomo a me noto, un tempo intimo mio. Ma già risonavano anche nomi nuovi: comparivano nuovi uomini di azione e io mi affrettavo avidamente a farne conoscenza ed ero indispettito di avere così pochi libri in prospettiva e che fosse così difficile procurarseli. Prima, col precedente maggiore di piazza, era anzi pericoloso portare dei libri nel reclusorio. In caso di perquisizione non mancavano gli interrogatori: "Da dove vengono questi libri? Dove li hai presi? Dunque hai delle relazioni!...". E che potevo io rispondere a tali interrogatori? E perciò, vivendo senza libri, m'immergevo involontariamente in me stesso, mi ponevo dei quesiti, cercavo di risolverli, a volte mi tormentavo con essi. Ma, già, tutto questo non si può nemmeno ridire!...
Ero entrato nel reclusorio d'inverno e perciò d'inverno pure dovevo uscire in libertà, il medesimo giorno in cui c'ero arrivato. Con quale impazienza attendevo l'inverno, con che voluttà, alla fine dell'estate, vedevo le foglie appassire sugli alberi e l'erba avvizzire nella steppa! Ma ecco che anche l'estate è trascorsa, il vento autunnale ha preso a ululare; ecco che già comincia a volteggiare la prima neve. E' giunto infine questo inverno, da tanto tempo atteso! Il mio cuore si metteva talora a battere sordamente e con violenza per il grande presentimento della libertà. Ma cosa strana: quanto più tempo passava e quanto più si avvicinava il termine, tanto più mi facevo paziente. Verso gli ultimissimi giorni me ne meravigliai e rimproverai perfino: mi era parso di essere diventato del tutto freddo e indifferente.
Molti detenuti che m'incontravano in cortile nelle ore di riposo attaccavano discorso con me congratulandosi:
- Ecco che presto, presto, babbino Aleksàndr Petrovic', uscirete libero. Ci lascerete soli, noi poverelli.
- E voi, Martinov, presto? - io rispondo.
- Io! Be', ma che! Dovrò tribolare ancora circa sette anni.
E sospira tra sé, si ferma e guarda distrattamente come se gettasse un'occhiata nel futuro... Sì, molti si rallegravano con me sinceramente, con gioia. Mi parve che tutti avessero preso come a trattarmi con più affabilità. Io cessavo evidentemente di essere uno dei loro; essi già mi dicevano addio. K-cinski, un polacco di origine nobile, un giovane quieto e mite, amava pure, come me, passeggiare molto nelle ore di riposo in cortile. Egli pensava, con l'aria pura e col moto, di preservare la sua salute compensando tutto il danno delle notti soffocanti passate in camerata. - Io attendo con impazienza la vostra uscita, - mi disse con un sorriso incontrandomi un giorno alla passeggiata: voi uscirete di qui e allora io saprò che a me resterà un anno giusto prima della liberazione.
Osserverò qui di passata che, in conseguenza delle fantasticherie e della lunga desuetudine, la libertà pareva da noi, nel reclusorio, in certo qual modo più libera della vera libertà, di quella cioè che esiste di fatto, realmente. I detenuti si esageravano il concetto della effettiva libertà, e questo è così naturale, così proprio di ogni detenuto! Un qualunque cencioso attendente di ufficiale lo si considerava da noi poco meno che un re, poco meno che l'ideale dell'uomo libero, a paragone dei detenuti per il fatto che andava in giro non raso, senza ferri ai piedi e senza scorta.
Alla vigilia dell'ultimissimo giorno, al crepuscolo, io feci PER L'ULTIMA VOLTA, lungo la palizzata, il giro di tutto il nostro reclusorio. Quante migliaia di volte avevo fatto il giro di quella palizzata in tutti quegli anni! Lì, dietro le baracche, avevo vagato nel primo anno dei miei lavori forzati solo, derelitto, accasciato. Mi ricordo come contassi allora quante migliaia di giorni mi restavano da passare. Signore Iddio, da quanto tempo è accaduto ciò! Ecco, qui, in quest'angolo, visse in prigionia la nostra aquila; ecco, qui m'incontrava spesso Petròv. Anche ora egli non si staccava da me. Accorreva e, come indovinando i miei pensieri, camminava accanto a me in silenzio e come se si meravigliasse di qualche cosa tra sé. Io dicevo mentalmente addio a queste costruzioni di travi annerite delle nostre baracche. Che impressione ostile mi avevano fatto ALLORA, nei primi tempi!
Anch'esse dovevano ora essere invecchiate in confronto di allora; ma io non potevo accorgermene. E quanto giovinezza era stata sepolta inutilmente tra queste pareti, quante grandi forze erano qui perite invano! Bisogna pur dire tutto: questa gente era pur gente straordinaria. Essa è pure, forse, la gente più capace, più forte di tutta la gente nostra. Ma sono perite invano delle forze possenti, sono perite in modo anormale, illegale, irrevocabile. E chi ne ha colpa?
Proprio così, chi ne ha colpa?
Il mattino seguente, per tempo, ancora prima dell'uscita per andare al lavoro, quando appena cominciava ad albeggiare, io feci il giro di tutte le camerate, per salutare tutti i detenuti. Molte mani callose, forti si tesero gentilmente verso di me. Taluni le stringevano proprio da compagni, ma questi erano pochi. Gli altri capivano ormai benissimo che ora sarei diventato un uomo tutto diverso da loro. Sapevano che in città avevo una conoscenza, che ora me ne sarei andato di qui verso i signori e mi sarei messo a sedere accanto a quei signori come un uguale. Capivano ciò e mi salutavano, sia pure gentilmente, sia pure affabilmente, ma in ben altro modo che come un compagno, bensì come un signore. Taluni mi voltavano le spalle e, ruvidi, non rispondevano al mio saluto.
Qualcuno mi guardò perfino con una specie di odio .
Rullò il tamburo e tutti si avviarono al lavoro, ma io rimasi in casa. Suscilov quella mattina si era alzato quasi prima di tutti gli altri e si affaccendava del suo meglio per fare in tempo a prepararmi il tè. Povero Suscilov! Egli si mise a piangere, quando gli regalai la mia roba smessa di detenuto, le camice, i reggicatene e un po' di denaro. - Non questo, non questo m'importa! - egli diceva frenando a stento il tremito delle labbra, - se sapeste che cosa è per me perdervi, Aleksàndr Petrovic'! Con chi rimarrò io qui, senza di voi? - Per l'ultima volta mi accomiatai anche da Akim Akimic'.
- Ecco, presto sarà la vostra volta! - gli dissi.
- Io dovrò restare qui ancora a lungo, molto a lungo, - egli mormorava stringendo la mia mano. Io mi gettai al suo collo e ci baciammo.
Una decina di minuti dopo l'uscita dei forzati, uscimmo anche noi dal reclusorio, per non tornarci mai più, io e il mio compagno, col quale ero giunto. Bisognava andare direttamente alla fucina, per farci sferrare. Ma non ci accompagnava più il soldato col fucile: ci andammo con un sottufficiale. Ci tolsero i ferri i nostri stessi detenuti, nell'officina del genio. Io aspettai un poco, mentre sferravano il mio compagno, poi mi accostai io stesso all'incudine. I fabbri mi fecero voltare col dorso verso di loro, sollevarono di dietro il mio piede; lo posarono sull'incudine.
Essi si affannavano, volevano fare con abilità, nel miglior modo.
- La ribaditura, per prima cosa gira la ribaditura!... comandava il più anziano, - tienila ferma, ecco così, bene... Ora batti col martello...
I ferri caddero. Io li sollevai. Volevo tenerli un momento in mano, dar loro un ultimo sguardo. Ero come meravigliato che un istante prima fossero sulle mie gambe.
- Be', andate con Dio! Con Dio! - dicevano i detenuti con voci a scatti, rudi, ma che parevano contente di non so che cosa.
Sì, con Dio! La libertà, una nuova vita, la risurrezione dai morti...
Che gran bel momento!
NOTE: