Lev Tolstoj
LA SONATA A KREUTZER
Ma io vi dico: chiunque guarda una donna con concupiscenza, in cuor suo ha già commesso adulterio su lei.
(Matteo 5. 28)
I discepoli gli dicono: "Se tale è la condizione dell'uomo rispetto alla moglie, non conviene ammogliarsi". Ed egli disse loro: "Non tutti, ma coloro ai quali è stato concesso, capiscono questo. Ci sono infatti degli eunuchi, usciti tali dal seno della madre, e ci sono degli eunuchi che sono stati evirati dagli uomini: e ce ne sono di quelli che si sono evirati da sé in vista del regno dei cieli. Comprenda chi può".
(Matteo 19. 10-12)
La primavera era all'inizio. Era il secondo giorno che viaggiavamo. Entravano nel vagone e ne uscivano persone che andavano a distanze diverse, ma tre venivano, come me, dalla stazione di partenza del treno: una signora non bella né giovane, che fumava, con un viso tormentato, un paltò semimaschile addosso e un berrettino; un suo conoscente, uomo sui quarant'anni, amante della conversazione, con le sue cose tutte in ordine e nuove, e ancora un signore di statura non molto alta con i movimenti a scatti, che stava per conto suo, non vecchio ancora, ma con i capelli ricci evidentemente incanutiti prima del tempo e con degli occhi straordinariamente scintillanti, che correvano rapidi da un oggetto all'altro. Era vestito d'un vecchio paltò col colletto d'agnello, che veniva da un sarto di lusso, e aveva un alto berretto d'agnello. Sotto il paltò, quando si sbottonava, si vedeva un farsetto e una camicia ricamata alla russa. Una singolarità di questo signore consisteva inoltre nel fatto che di tanto in tanto egli emetteva degli strani suoni, simili allo spurgarsi o a un riso cominciato e interrotto.
Questo signore per tutto il tempo del viaggio aveva accuratamente evitato ogni rapporto e conoscenza con i viaggiatori. Ai vicini che attaccavano discorso rispondeva breve e tagliente, e, o leggeva, o fumava guardando dal finestrino, o, tratte fuori le provviste da una sua vecchia sacca, beveva il tè, o faceva uno spuntino.
Mi sembrava che egli sentisse il peso della sua solitudine, e varie volte avevo voluto mettermi a parlare con lui, ma sempre, quando i nostri occhi s'incontravano - e capitava spesso, perché eravamo seduti di sbieco l'uno rispetto all'altro -, lui si voltava dall'altra e prendeva un libro o guardava dal finestrino.
Durante la fermata che ci fu prima di sera, il secondo giorno, a una grossa stazione, questo signore nervoso scese a prendere dell'acqua calda e si preparò il tè. Invece il signore con quelle cose in ordine e nuove - un avvocato, come poi seppi -, insieme con la sua vicina - la signora che fumava, col paltò semimaschile -, andarono a bere il tè dentro la stazione.
Durante l'assenza di quel signore con la signora, nel vagone entrarono alcune persone nuove, tra cui un alto vecchio rasato tutto rughe, che era evidentemente un mercante, con una pelliccia di puzzola e un berretto di panno dalla visiera enorme. Il mercante si sedette di fronte al posto di quella signora e dell'avvocato e attaccò subito discorso con un giovanotto dall'aspetto di commesso, che era salito pure lui a quella stazione.
Io ero seduto di sbieco rispetto a loro, e, dato che il treno era fermo, nei momenti in cui non passava nessuno potevo sentire a tratti la loro conversazione. Il mercante dapprincipio annunciò che si recava a una tenuta poco distante, alla stazione seguente; poi, come sempre, si misero a parlare dapprima dei prezzi, di commercio, parlarono, come sempre, del traffico commerciale che c'è adesso a Mosca, poi si misero a parlare della fiera di Niznij- Novgorod. Il commesso cominciò a raccontare delle baldorie che faceva alla fiera un ricchissimo mercante che tutt'e due conoscevano, ma il vecchio non lo lasciò finire e cominciò a raccontare lui delle passate baldorie di Kunavino alle quali aveva partecipato.
Era evidente che andava orgoglioso della parte che vi aveva preso, e raccontava con soddisfazione come, con quel tale loro conoscente, una volta ne avessero fatta una, a Kunavino, che andava raccontata sottovoce: a sentir questo, il commesso scoppiò a ridere in modo da farsi sentire da tutto il vagone, e anche il vecchio rise, mostrando due denti gialli.
Non aspettandomi di sentire niente d'interessante, mi alzai, per andare a passeggiare sulla banchina fino alla partenza del treno.
Sulla porta m'incontrai con l'avvocato e la signora, che camminando parlavano animatamente di qualcosa.
- Non farete in tempo, - mi disse il socievole avvocato, - sta per suonare il secondo campanello.
E davvero, non avevo fatto in tempo ad arrivare in fondo ai vagoni che echeggiò il campanello. Quando tornai, fra la signora e l'avvocato continuava quell'animata conversazione. Il vecchio mercante sedeva in silenzio di fronte a loro, guardando con severità davanti a sé e di tanto in tanto masticando con le labbra in atto di disapprovazione.
- Quindi lei dichiarò francamente a suo marito, - diceva sorridendo l'avvocato, mentre io gli passavo accanto, - che non poteva e nemmeno desiderava stare con lui, poiché...
E proseguì a raccontare qualcosa che non potei capire. Dopo di me passarono altri viaggiatori, passò il capotreno, entrò di corsa un fattorino e per un certo tempo ci fu del chiasso, per via del quale non si sentì la conversazione. Quando tutto si fu calmato, e io sentii di nuovo la voce dell'avvocato, la conversazione era evidentemente già passata dal caso particolare alle considerazioni generali.
L'avvocato diceva come la questione del divorzio occupasse ora l'opinione pubblica europea e come da noi si presentassero sempre più spesso casi analoghi. Avendo osservato che non si sentiva la sua voce, l'avvocato interruppe il suo discorso e si rivolse al vecchio.
- Un tempo questo non accadeva, non è vero? - disse, sorridendo piacevolmente.
Il vecchio voleva rispondere qualcosa, ma in quel momento il treno si mosse, e il vecchio, togliendosi il berretto, cominciò a farsi il segno della croce e a recitare sottovoce una preghiera.
L'avvocato, distogliendo gli occhi, attendeva educatamente. Dopo aver finito la sua preghiera e il triplice segno della croce, il vecchio si calzò ben diritto il berretto, si riassettò al suo posto e cominciò a parlare.
- Accadeva anche prima, signore, solo più di rado, - disse. - Ma ai tempi nostri non può non accadere. Ormai la gente s'è fatta troppo istruita.
Il treno andava sempre più in fretta, rumoreggiava alle giunture delle rotaie, e mi era difficile sentire, ma m'interessava, e mi misi a sedere più vicino. Il mio vicino, quel signore nervoso dagli occhi scintillanti, s'era evidentemente interessato anche lui e, senza alzarsi dal suo posto, ascoltava.
- Ma che c'è di male nell'istruzione? - disse la signora, sorridendo appena percettibilmente. - Possibile che sia meglio sposarsi come un tempo, quando il fidanzato e la fidanzata non s'erano neppure visti? - essa proseguì, secondo l'abitudine di molte signore di rispondere non alle parole del proprio interlocutore, ma alle parole che le pareva che egli avrebbe detto. - Non sapevano se amavano, se potevano amare, e sposavano chi capitava, e poi passavano tutta la vita nei tormenti; sicché secondo voi è meglio? - essa diceva, rivolgendo il discorso a me e all'avvocato, ma meno che mai al vecchio col quale parlava.
- Ormai la gente s'è fatta troppo istruita, - ripeté il mercante, guardando con disprezzo la signora e lasciando senza risposta la sua domanda.
- Sarebbe desiderabile sapere come spiegate il legame fra l'istruzione e la discordia nella vita matrimoniale, - disse l'avvocato, sorridendo appena percettibilmente.
Il mercante voleva dire qualcosa, ma la signora lo interruppe.
- No, quel tempo ormai è passato, - disse, ma l'avvocato la fermò.
- No, permettete al signore di esprimere la sua opinione.
- Le sciocchezze vengono dall'istruzione, - disse il vecchio con fare risoluto.
- Fanno sposare della gente che non si ama, e poi si stupiscono che non vivano d'accordo, - diceva frettolosamente la signora, volgendosi a guardare l'avvocato e me, e perfino il commesso, che, alzatosi dal suo posto e appoggiato alla spalliera, prestava orecchio sorridendo alla conversazione. - Perché sono soltanto gli animali che si possono accoppiare come vuole il padrone, ma gli uomini hanno le loro inclinazioni, i loro affetti, - diceva la signora, evidentemente cercando di ferire il mercante.
- Fate male a dire così, signora, - disse il vecchio, - gli animali sono bestie, mentre all'uomo è stata data una legge.
- Eh, ma come si fa a vivere con una persona, quando l'amore non c'è? - diceva la signora, sempre con la fretta di esprimere i suoi giudizi, che probabilmente le sembravano molto nuovi.
- Prima, di questo non si parlava, - disse il vecchio con tono autorevole. - E' solo adesso che è venuto in uso. Appena capita qualcosa, la moglie dice subito: "ti lascio". I contadini perché dovrebbero farlo? eppure anche tra loro è venuta la stessa moda.
"To'", dicono, "eccoti le tue camicie e le tue mutande, che io vado con Van'ka, è più riccioluto di te". Spiegatela un po' voi.
Invece nella donna ci dev'essere in primo luogo il timore.
Il commesso guardò l'avvocato e la signora e me, evidentemente trattenendo un sorriso e pronto sia a canzonare che ad approvare il discorso del mercante, a seconda del modo in cui sarebbe stato accolto.
- E che timore è mai? - disse la signora.
- Ecco quale: che abbia paura di suo mari-i-ito. Ecco che timore è.
- Eh, padre mio, è già passato quel tempo, - disse la signora, perfino con una certa irritazione.
- No, signora, quel tempo non può passare. Come è stata creata Eva, la donna, da una costola dell'uomo, così rimarrà fino alla fine dei tempi, - disse il vecchio, scuotendo il capo con aria così severa e trionfale che il commesso s'immaginò subito che la vittoria fosse dalla parte del mercante, e scoppiò a ridere forte.
- Ma siete voialtri uomini che ragionate così, - diceva la signora, senza arrendersi e guardando noi, - vi siete dati la libertà, ma la donna volete tenerla nel gineceo. Voialtri, non c'è pericolo, vi permettete tutto.
- Il permesso non lo dà nessuno, ma il fatto è che l'uomo non fa entrare niente in casa, mentre la donna, la moglie, è un recipiente fragile, - continuava a dire autorevolmente il mercante.
L'autorevolezza d'intonazione del mercante stava evidentemente vincendo gli ascoltatori, e perfino la signora si sentiva vinta, ma continuava a non arrendersi.
- Sì, ma credo che sarete d'accordo con me che la donna è un essere umano, e ha dei sentimenti come l'uomo. Ebbene, che cosa deve fare se non ama il marito?
- Non ama! - ripeté con aria minacciosa il mercante, muovendo le sopracciglia e le labbra. - Non c'è pericolo, lo amerà!
Questo inatteso argomento piacque particolarmente al commesso, che emise un suono d'approvazione.
- Ma no, non l'amerà, - fece la signora, - e se non c'è l'amore, non ci si può mica essere costretti.
- Ebbene, e se la moglie tradisce il marito, allora come si fa? - disse l'avvocato.
- Questo non dev'essere, - disse il mercante, - bisogna guardarci.
- E se accade, allora come si fa? Sono pur sempre cose che càpitano.
- C'è a chi succede, ma a noi non succede, - disse il mercante.
Tutti tacquero per un po'. Il commesso si mosse, si avvicinò ancora e, non volendo a quel che pareva rimanere indietro agli altri, cominciò sorridendo:
- Sissignore, ecco che anche uno dei nostri giovani ha avuto il suo scandalo. Anche lì è troppo difficile giudicare. Anche a lui era capitata una donna scostumata. E cominciò a farne di tutti i colori. Eppure lui era un ragazzo serio e con una certa istruzione. Prima col contabile. Il marito cercava di fargliela capire anche con le buone. Non mise giudizio. Faceva porcherie d'ogni sorta. Cominciò a rubargli i denari. E lui la picchiava.
Ebbene, peggiorava sempre. Se la faceva con un miscredente, un ebreo, con licenza parlando. Lui che doveva fare? L'ha piantata del tutto. E così vive scapolo, e lei va a zonzo.
- Perché è uno stupido, - disse il vecchio. - Se fin dal primo momento l'avesse tenuta a freno, e l'avesse domata per davvero, ci sarebbe stata, non c'è pericolo. E' fin dal principio che non bisogna lasciar fare a modo proprio. Al cavallo non credere in campagna, e alla donna quand'è in casa.
Intanto venne il capotreno a chiedere i biglietti per la prossima stazione. Il vecchio consegnò il suo biglietto.
- Sissignore, il sesso femminile va domato in precedenza, se no tutto è perduto.
- E allora come mai proprio voi raccontavate or ora come gli uomini sposati si divertivano alla fiera a Kunavino? - dissi io, non potendomi più trattenere.
- Quello è un altro paio di maniche, - disse il mercante, e s'immerse nel silenzio.
Quando echeggiò il campanello, il mercante si alzò, trasse una sacca da sotto il sedile, si chiuse la pelliccia e, sollevando il berretto, uscì sulla piattaforma.
Non appena andato via il vecchio, si levò una conversazione a più voci.
- Il papà è del vecchio testamento, - disse il commesso.
- E' il "Domostroj" (1) personificato, - disse la signora: - che strana idea della donna e del matrimonio!
- Sì, siamo ben lontani dalla concezione europea del matrimonio,- disse l'avvocato.
- Perché il punto principale, quello che non capiscono le persone come quelle, - disse la signora, - è che il matrimonio senz'amore non è un matrimonio, che soltanto l'amore santifica il matrimonio e che è un vero matrimonio soltanto quello che l'amore santifica.
Il commesso ascoltava e sorrideva, col desiderio di ricordare il più che poteva di quei discorsi intelligenti, per adoperarlo.
A metà della parlata della signora, dietro di me si sentì come il suono di una risata interrotta o un ruggito, e vedemmo il mio vicino, il solitario signore canuto dagli occhi scintillanti, il quale durante la conversazione, che evidentemente l'aveva interessato, si era avvicinato a noi senza che ce ne accorgessimo.
Era in piedi, con le mani appoggiate alla spalliera del sedile, e visibilmente agitato: il suo viso era rosso, e sulla guancia gli tremava un muscolo.
- Qual è mai l'amore... l'amore... che santifica il matrimonio? - egli disse esitando.
Vedendo lo stato di agitazione dell'interlocutore, la signora cercò di rispondere con la maggiore dolcezza e precisione possibile.
- Il vero amore... Se questo amore c'è tra l'uomo e la donna, è possibile anche il matrimonio, - disse la signora.
- Sissignora; ma che cosa dobbiamo intendere come amore vero?
disse il signore dagli occhi scintillanti, sorridendo goffamente e con timidezza.
- Ognuno sa che cos'è l'amore, - disse la signora, desiderando evidentemente porre fine alla conversazione con lui.
- E io non lo so, - disse quel signore. - Bisogna definire ciò che intendete dire.
- Come? è molto semplice, - disse la signora, ma si fece pensosa.
- L'amore è l'esclusiva preferenza di uno o di una persona rispetto a tutti gli altri, - essa disse.
- Preferenza per quanto tempo? Per un mese, per due o per mezz'ora? - proferì il signore canuto, e si mise a ridere.
- No, permettete, è evidente che parlate di un'altra cosa .
- No, proprio di quello.
- La signora dice, - intervenne l'avvocato, indicando la signora, - che il matrimonio deve derivare innanzi tutto da un affetto (dall'amore, se volete), e se questo esiste, solamente allora il matrimonio costituisce qualcosa diremo così di sacro; e poi che ogni matrimonio che non abbia come suo fondamento gli affetti naturali (l'amore, se volete) non racchiude in sé nulla di moralmente obbligatorio. Ho capito bene? - fece, rivolgendosi alla signora.
La signora con un movimento del capo espresse l'approvazione al chiarimento del proprio pensiero.
- Dopo di che... - fece l'avvocato, continuando il suo discorso, ma il signore nervoso, con gli occhi che adesso ardevano fiamme, si tratteneva con evidente difficoltà e, non lasciando parlare l'avvocato, cominciò:
- No, parlo proprio di quello, della preferenza di uno o di una rispetto a tutti gli altri, ma domando soltanto questo: preferenza per quanto tempo?
- Per quanto tempo? per un pezzo, per tutta la vita certe volte,- disse la signora, alzando le spalle.
- Ma questo c'è solo nei romanzi, e nella vita non c'è mai. Nella vita esiste questa preferenza di uno rispetto agli altri per anni, che è un fatto molto raro, più spesso per mesi, o se no per settimane, per giorni, per ore, - egli diceva, sapendo evidentemente di stupire tutti con la sua opinione, e soddisfatto di questo.
- Oh! che dite! Ma no... No, permettete... - esclamammo tutt'e tre a una voce.
Perfino il commesso aveva dato fuori un suo suono indeterminato.
- Sì, lo so, - rispondeva il signore canuto, gridando più forte di noi, - voi parlate di quello che si ritiene che esista, e io parlo di quello che è. Ogni uomo prova ciò che voi chiamate amore per ogni bella donna.
- Ah, quello che dite voi è orribile. Ma c'è pure tra gli uomini quel sentimento che si chiama amore e che è dato non per mesi e per anni, ma per tutta la vita...
- No, non c'è. Anche ammettendo che l'uomo preferisca una certa donna per tutta la vita, la donna, secondo ogni probabilità, ne preferirà un altro, e così è sempre stato ed è tuttora al mondo,- egli disse e, tratto fuori il portasigarette, cominciò a fumare. - No, non è possibile, - egli ribatté, - allo stesso modo come non è possibile che in un carro di piselli due dati piselli vadano a cadere uno accanto all'altro. E inoltre qui non c'è solo una probabilità, c'è, di sicuro, la sazietà. Amare per tutta la vita una o uno è lo stesso che dire che una candela ha da ardere per tutta la vita, - egli diceva, aspirando avidamente il fumo.
- Ma voi non parlate che dell'amore carnale. Non ammettete forse l'amore fondato sulla concordanza di ideali, sulla parentela spirituale? - disse la signora.
- Parentela spirituale! Concordanza d'ideali! - egli ripeté, emettendo quel suo suono: - ma in tal caso è inutile dormire insieme (scusate la volgarità). Se no la gente va a dormire insieme in seguito alla concordanza d'ideali, - egli disse, e si mise a ridere nervosamente.
- Ma permettete, - disse l'avvocato, - i fatti contraddicono ciò che voi dite. Noi vediamo che le unioni coniugali esistono, che l'umanità o una gran parte di essa vive di vita coniugale, e molti trascorrono onestamente una prolungata vita coniugale.
Il signore canuto si mise di nuovo a ridere.
- Un po' dite che i matrimoni si fondano sull'amore, ma quando io metto in dubbio l'esistenza dell'amore, a parte quello sensuale, voi mi dimostrate l'esistenza dell'amore con la circostanza che esistono i matrimoni. Ma i matrimoni al tempo nostro non sono che inganno.
- Nossignore, permettete, - disse l'avvocato, - io dico soltanto che sono esistiti ed esistono i matrimoni.
- Esistono! Ma come mai esistono? Sono esistiti ed esistono tra quelle persone che nel matrimonio vedono qualcosa di misterioso.
Un mistero che vincola davanti a Dio. Tra quelle persone esistono, ma tra noi no. Tra noi la gente si sposa non vedendo nulla, nel matrimonio, all'infuori dell'accoppiamento, e ne risulta un inganno o una violenza; quando è un inganno, si sopporta facilmente. Il marito e la moglie non fanno che ingannare la gente con la loro monogamia, ma vivono in poligamia e in poliandria; è male, ma passi ancora; ma quando, come càpita per lo più, il marito e la moglie hanno assunto l'obbligo esteriore di stare insieme per tutta la vita, e dopo un mese si odiano già, desiderano dividersi e tuttavia vivono insieme, allora ne risulta quell'inferno tremendo che induce le persone a darsi al bere, a spararsi e ad avvelenarsi da se stessi e tra loro, - egli diceva, sempre rapidamente, senza permettere a nessuno di metter bocca e accalorandosi di più.
Tutti si sentivano a disagio.
- Sì, senza dubbio càpitano degli episodi critici nella vita coniugale, - disse l'avvocato cercando di far cessare una conversazione che si era disdicevolmente accalorata.
- A quel che vedo, avete capito chi sono, - disse piano e come tranquillamente il signore canuto.
- No, non ho questo piacere.
- Il piacere non è grande. Sono Pozdnyshev, quello a cui è capitato quell'episodio critico al quale alludete, l'episodio d'avere ucciso sua moglie, - egli disse, gettando un rapido sguardo a ciascuno di noi.
Nessuno seppe trovare nulla da dire, e tutti tacquero.
- Su, è lo stesso, - egli disse, emettendo quel suo suono. - Del resto, scusatemi! Eh!... Non voglio darvi noia.
- Ma no, lasciate stare... - disse l'avvocato, che non sapeva nemmeno lui perché ci fosse da lasciar stare. Ma Pozdnyshev, senza dargli ascolto, si volse in fretta e se ne andò al suo posto. Quel signore con la signora si parlavano sottovoce. Io ero seduto accanto a Pozdnyshev e tacevo, non sapendo escogitare che cosa dire. Per leggere era troppo buio, e perciò chiusi gli occhi e finsi di voler dormire. Così giungemmo in silenzio fino alla stazione seguente.
A questa stazione quel signore con la signora passarono in un altro vagone, avendone parlato già prima al capotreno. Il commesso si accomodò sul sedile e si addormentò. Pozdnyshev, invece, non faceva che fumare e bere il tè che s'era preparato fin dall'altra stazione.
Quando aprii gli occhi e lo guardai, egli a un tratto si rivolse a me con risolutezza e irritazione.
- Vi dispiace forse stare qui con me, sapendo chi sono ? Allora me ne vado.
- Oh no, che dite?
- Ebbene, allora volete favorire? Solo che è forte.
Egli mi versò del tè.
- Parlano... E sono tutte menzogne... - disse.
- Di che parlate? - chiesi io.
- Ma sempre della stessa cosa, di quel loro amore e di che cos'è.
Voi non avete sonno.
- Per niente.
- Allora volete che vi racconti come da quello stesso amore io sia stato condotto a ciò che mi è capitato?
- Sì, se la cosa non vi riesce penosa.
- No, mi è penoso tacere. Ma bevete il tè; o è troppo forte?
Il tè era davvero come birra, ma io ne bevvi un bicchiere. Intanto passò il capotreno. Egli lo seguì in silenzio con occhi irritati, e cominciò soltanto quando l'altro se ne fu andato.
- Ebbene, allora vi racconterò... Ma lo desiderate veramente?
Io ripetei che lo desideravo molto. Lui stette un po' zitto, si passò le mani sul viso e cominciò:
- Se si racconta, bisogna raccontare tutto dal principio: bisogna raccontare come e perché mi sono ammogliato e come ero prima di ammogliarmi.
Prima di ammogliarmi vivevo come vivono tutti, cioè nel nostro ambiente. Io sono proprietario terriero e ho un diploma di studi universitari, e sono stato maresciallo della nobiltà. Prima di ammogliarmi vivevo come vivono tutti, cioè in modo depravato, certo di vivere normalmente. Fra me credevo di essere un simpaticone, di essere una persona pienamente morale. Non ero un seduttore, non avevo gusti contro natura, non ne facevo lo scopo principale della vita, come facevano molti dei miei coetanei, ma mi davo alla depravazione con gravità, con decenza, per salute.
Evitavo le donne che, mettendo al mondo un bambino o affezionandosi a me, avrebbero potuto costituire un legame per me.
Del resto, forse ci furono anche dei bambini, ci furono degli affetti, ma io facevo come se non ci fossero. E questo appunto mi pareva non solo morale, ma ne ero orgoglioso...
Egli si fermò, emise quel suo suono, come faceva sempre quando gli veniva un'idea evidentemente nuova.
- Perché in questo appunto consiste la principale turpitudine, egli esclamò. - La depravazione non consiste mica in qualcosa di fisico, giacché nessuna indecenza fisica è depravazione; ma la depravazione, l'autentica depravazione consiste proprio nel liberarsi dai rapporti morali verso la donna con la quale entri in rapporto fisico. E di questa liberazione appunto io mi facevo un merito. Ricordo come mi tormentai una volta, non avendo fatto in tempo a pagare una donna che mi si era data, probabilmente perché le ero piaciuto, e mi tranquillizzai soltanto quando le ebbi mandato i denari, mostrando con ciò che moralmente non mi sentivo in nessun modo legato a lei... Non accennate col capo, come se foste d'accordo con me, - fece a un tratto, redarguendomi. - Perché io lo conosco questo trucco. Noi tutti, e anche voi nel migliore dei casi, se non siete una rara eccezione, avete le medesime opinioni che avevo io. Via, è lo stesso, perdonatemi, - egli proseguì, - ma il fatto è che è orribile, orribile, orribile!
- Che cosa è orribile? - chiesi io.
- L'abisso di aberrazione in cui ci troviamo riguardo alle donne e ai rapporti con loro. Sissignore, non ne posso parlare con calma, e non perché mi sia capitato quell'episodio, come diceva quello, ma perché da quando mi è capitato quell'episodio mi si sono aperti gli occhi, e ho visto tutto in una luce interamente diversa. Tutto a rovescio, tutto a rovescio!
Accese una sigaretta e, appoggiandosi con i gomiti alle ginocchia, cominciò a parlare.
Nell'oscurità non riuscivo a vedere il suo viso, non sentivo che la sua voce suggestiva e piacevole sull'acciottolio del treno.
- Sissignore, soltanto dopo aver sofferto come ho sofferto, soltanto grazie a questo ho capito dove sta la radice di tutto, ho capito quello che deve essere, e perciò ho visto tutto l'orrore di quello che è.
Sicché guardate pure: ecco come e quando è cominciato ciò che mi ha condotto al mio episodio. La cosa cominciò che non avevo ancora sedici anni. Accadde quando ero al ginnasio, e il mio fratello maggiore era studente del primo anno. Non conoscevo ancora le donne, ma, come tutti gli sventurati fanciulli del nostro ambiente, non ero più un ragazzo innocente, già da un anno ero stato corrotto dai ragazzi; la donna, non una qualunque, ma la donna come qualcosa di dolce, la donna, ogni donna, la nudità della donna mi tormentava già. I miei isolamenti erano impuri. Mi tormentava come si tormentano i novantanove centesimi dei nostri ragazzi. Inorridivo, soffrivo, pregavo e cadevo. Ero già corrotto nell'immaginazione e nella realtà, ma non avevo ancora fatto l'ultimo passo. Mi perdevo da solo, ma senza ancora mettere le mani su un altro essere umano. Ma ecco che un compagno di mio fratello, studente buontempone, un cosiddetto buon figliolo, cioè un grandissimo mascalzone, avendoci insegnato a bere e a giocare a carte, dopo una bevuta ci indusse ad andare laggiù. Ci andammo.
Mio fratello pure era ancora innocente e cadde quella stessa notte. E io, ragazzino sedicenne, macchiai me stesso e contribuii a macchiare una donna, senza capire affatto quello che facevo.
Infatti, da nessuno dei più anziani avevo mai sentito dire che quello che facevo fosse male. Ma neppure adesso nessuno lo sentirebbe dire. E' vero che questo c'è in un comandamento, ma si sa che i comandamenti servono soltanto per rispondere all'esame al "padre", e del resto non servono gran che, assai meno del comandamento intorno all'uso di "ut" nelle proposizioni concessive.
Sicché dalle persone più anziane di cui rispettavo le opinioni non avevo mai sentito che fosse male. Al contrario, avevo sentito da persone che rispettavo che era ben fatto... Avevo sentito che le mie lotte e sofferenze dopo questo si sarebbero calmate, l'avevo sentito e letto, avevo sentito dalle persone più anziane che per la salute sarebbe stato un bene; dai miei compagni poi avevo sentito che in questo c'era un certo merito e ardimento. Sicché in genere non si vedeva nulla, in questo, che non fosse buono. Il pericolo di malattia? Ma anche quello, si sa, è previsto. Se ne occupa premurosamente il governo. Esso sorveglia la regolare attività delle case di tolleranza e garantisce la depravazione per gli alunni delle scuole medie. E dei medici stipendiati sorvegliano la casa. Così dev'essere. Essi affermano che la depravazione può essere utile alla salute, e creano loro stessi una depravazione regolare, metodica. Conosco delle madri che si prendono cura in questo senso della salute dei loro figli. E la scienza li manda nelle case di tolleranza.
- E perché mai la scienza?
- Ma chi sono i medici? I sacerdoti della scienza. Chi deprava gli adolescenti, asserendo che questo è necessario per la salute, sono loro. E poi con una grande aria d'importanza si cura la sifilide.
- Ma perché mai non si dovrebbe curare la sifilide?
- Perché, se un centesimo di quegli sforzi che sono stati posti nella cura della sifilide fossero stati rivolti a sradicare la depravazione, della sifilide non ci sarebbe da un pezzo neanche il ricordo. Invece gli sforzi sono rivolti non a sradicare la depravazione, ma a incoraggiarla, a garantire l'incolumità della depravazione. Eh, ma non si tratta di questo. E' che a me e ai nove decimi, se non di più, non solo della nostra classe, ma di tutte, perfino dei contadini, è accaduto il fatto tremendo di essere caduto non per aver soggiaciuto alla seduzione delle attrattive di una determinata donna. No, nessuna donna mi ha sedotto, e sono caduto perché l'ambiente che mi circondava vedeva, in quello che era una caduta, gli uni la più legittima e più sana delle funzioni, gli altri il passatempo più morale e non solo perdonabile, ma anche innocente per un giovanotto. Io non capivo che qui ci fosse una caduta; cominciai semplicemente ad abbandonarmi a quelli che in parte erano piaceri, in parte esigenze, propri, a quanto mi si era fatto credere, di una certa età; cominciai ad abbandonarmi a quella depravazione come avevo cominciato a bere, a fumare. E pur tuttavia in quella prima caduta ci fu qualcosa di particolare e di commovente.
Ricordo che subito, già lì, prima di uscire dalla camera, mi venne una tristezza, una tristezza tale da aver voglia di piangere.
Piangere sulla mia innocenza perduta, sul mio atteggiamento verso la donna rovinato per sempre. Sissignore, l'atteggiamento naturale, semplice verso la donna era rovinato per sempre; da allora non ebbi, né potei avere più, un atteggiamento puro verso la donna. Ero diventato quello che si dice un fornicatore. Ed essere un fornicatore è una condizione fisica simile alla condizione del morfinomane, dell'ubriacone, del fumatore inveterato. Come il morfinomane, l'ubriacone, il fumatore inveterato non è più un uomo normale, così l'uomo che ha conosciuto parecchie donne per il suo piacere non è più normale, ma un uomo fornicatore corrotto per sempre. Come un ubriacone e un morfinomane si può riconoscere subito dal volto, così pure anche un fornicatore. Il fornicatore può moderarsi, lottare; ma un atteggiamento semplice, chiaro, puro verso la donna, un atteggiamento fraterno, non l'avrà mai più. Dal modo come guarda, come esamina una donna giovane si può subito riconoscere il fornicatore. E io diventai un fornicatore e tale rimasi, e questo appunto mi ha rovinato.
- Sì, proprio così. Poi andò avanti, avanti, ci furono relazioni d'ogni genere. Dio mio! quando ricordo tutte le mie turpitudini sotto questo aspetto, sono preso dall'orrore! Di me, che i miei compagni deridevano per la mia cosiddetta innocenza, ho di questi ricordi. E se poi sentissimo parlare della "jeunesse dorée", degli ufficiali, dei parigini! E tutti questi signori, e anch'io, quando, depravati trentenni che avevamo sulla coscienza centinaia dei più diversi orrendi delitti riguardo alle donne, quando, depravati trentenni, ben lavati, rasati, profumati, con la biancheria pulita, in frac o in uniforme entravamo in un salotto o in un ballo, eravamo l'emblema della purezza, una delizia!
Pensate un po' a quello che dovrebbe essere e a quello che è.
Dovrebbe essere così: che, quando in società a mia sorella o a mia figlia si accosta un signore di quel genere, io, conoscendo la sua vita, dovrei avvicinarmi a lui, chiamarlo in disparte e dirgli piano: "Mio caro, lo so bene come hai vissuto, come passi le tue notti e con chi. Qui non è posto per te. Qui ci sono delle fanciulle pure, innocenti. Vattene!". Così dovrebbe essere; e invece è così: che, quando compare un signore di quel genere, e balla abbracciato con mia sorella o con mia figlia, esultiamo, se è ricco e ha delle aderenze. C'è caso che, dopo una Rigolboche, degni della sua attenzione anche mia figlia. Se pure sono rimaste tracce di indisposizione, non importa. Adesso si sa curare bene.
Come no, so che alcune fanciulle dell'alta società sono state maritate con entusiasmo dai genitori a dei malati d'una certa malattia. Oh! oh... turpitudine ! Verrà bene il momento in cui si smaschererà questa turpitudine e questa menzogna!
E per parecchie volte egli emise quei suoi strani suoni, e si mise a bere il tè. Il tè era straordinariamente forte; non c'era acqua per diluirlo. Io sentivo che mi rendevano agitato soprattutto i due bicchieri che ne avevo bevuto. Si vede che anche su di lui agiva il tè, perché diventava sempre più eccitato. La sua voce diventava sempre più cantante ed espressiva. Continuamente cambiava posizione, ora si toglieva il berretto, ora se lo metteva, e il suo viso mutava straordinariamente, nella penombra in cui eravamo.
- Ebbene, ecco come vissi fino ai trent'anni, senza abbandonare neppure per un momento l'intenzione di ammogliarmi e di organizzarmi la più elevata, la più pura vita familiare, e con questo scopo mi guardavo in giro per trovare la ragazza adatta a questo scopo, - egli continuò. - Mi insudiciavo nel marciume della depravazione e nello stesso tempo mi guardavo in giro per trovare delle ragazze che per la loro purezza fossero degne di me. Molte le scartai proprio perché non erano abbastanza pure per me; finalmente ne trovai una che ritenni degna di me. Era una delle due figlie di un possidente della provincia di Penza, che un tempo era stato molto ricco, ma si era rovinato.
Una sera, dopo che eravamo stati in barca, e tornavamo a casa a notte al lume di luna, e io ero seduto accanto a lei e ammiravo la sua figuretta slanciata, fasciata da un jersey, e i suoi riccioli, conclusi a un tratto che era lei. Mi parve, quella sera, che capisse tutto, tutto ciò che io sentivo e pensavo, e mi pareva di sentire e pensare le cose più elevate. In sostanza, invece, era soltanto questo: che il jersey le stava particolarmente bene, come pure i riccioli, e che dopo una giornata trascorsa vicino a lei mi era venuta voglia d'una vicinanza anche maggiore.
E' stupefacente come sia piena l'illusione che la bellezza sia virtù. Una bella donna dice delle sciocchezze, l'ascolti, e non senti le sciocchezze, ma senti delle cose intelligenti. Dice e fa delle porcherie, ma tu vedi qualcosa di grazioso. Quando poi non dice né sciocchezze, né porcherie, ma è bella, sei subito sicuro che sia un prodigio d'intelligenza e di moralità.
Tornai a casa pieno d'entusiasmo e conclusi che lei era un miracolo di perfezione morale e che appunto per questo era degna di diventare mia moglie, e il giorno dopo feci la mia proposta di matrimonio.
Che confusione è mai questa! Tra mille uomini che prendono moglie, non solo di quelli che vivono come noi, ma sventuratamente anche del popolo, è difficile che ce ne sia almeno uno che non abbia preso moglie già una decina di volte, o anche un centinaio e un migliaio, come Don Giovanni, prima del matrimonio.
E' vero che adesso, a quel che odo e osservo, ci sono dei giovani puri, i quali sentono e sanno che non si tratta d'uno scherzo, ma di una grave questione. Che Dio li aiuti! Ma al tempo mio di questi non ce n'era neppure uno su diecimila. E tutti lo sanno e fingono di non saperlo. In tutti i romanzi sono descritti fino ai minuti particolari i sentimenti dei protagonisti, gli stagni e gli arbusti vicino ai quali passano; ma, descrivendo il loro grande amore per qualche ragazza, non si scrive nulla di quanto è capitato prima a quel seducente protagonista; neppure una parola sulla sua frequentazione di quelle certe case, sulle cameriere, sulle cuoche, sulle mogli altrui. Se poi dei romanzi così sconvenienti esistono, non li mettono in mano soprattutto a coloro che più hanno bisogno di saperlo, alle fanciulle.
In principio si finge dinanzi alle fanciulle che quella dissolutezza, che riempie metà della vita delle nostre città e perfino delle campagne, che quella dissolutezza non esista affatto. Poi ci si abitua tanto a questa finzione che finalmente si comincia a credere con sincerità, come gli inglesi, che siamo tutti persone morali e viviamo in un mondo morale. Le ragazze, loro, poverine, ci credono con piena serietà. Così ci credeva anche la mia sventurata moglie. Ricordo come, durante il fidanzamento, le mostrai il mio diario, dal quale poteva venire a sapere almeno qualcosa sul mio passato, e soprattutto intorno all'ultima relazione che avevo avuto, e di cui poteva avere notizia da altri e di cui perciò sentivo la necessità di parlarle.
Ricordo il suo orrore, la sua disperazione e il suo smarrimento, quando seppe e capì. Vedevo che allora voleva lasciarmi. E perché non mi lasciò!...
Emise quel suo suono, bevve ancora un sorso di tè e tacque per un poco.
- No, del resto meglio così, meglio così! - egli gridò. - Me lo merito! Ma non si tratta di questo. Volevo dire che in questo caso non sono ingannate altro che quelle sventurate fanciulle.
Ma le madri lo sanno, particolarmente le madri, educate dai propri mariti, lo sanno benissimo. E, fingendo di credere alla purezza degli uomini, in realtà agiscono in tutt'altro modo. Sanno qual è l'amo a cui far abboccare gli uomini, per sé e per le loro figlie.
Perché non siamo che noi, uomini, a non sapere, e non sappiamo perché non vogliamo sapere; ma le donne sanno benissimo che l'amore più elevato, più poetico, come lo chiamiamo, non dipende dalle qualità morali, ma dalla vicinanza fisica e per di più dalla pettinatura, dal colore e dal taglio del vestito. Dite a un'esperta civetta che si sia imposto il compito d'irretire un uomo se preferisce correre il rischio d'essere accusata fondatamente di menzogna, di crudeltà, perfino di dissolutezza in presenza di colui che sta seducendo, oppure di mostrarsi alla presenza di lui con un vestito mal fatto e brutto. Ciascuna preferirà sempre la prima cosa. La donna sa che quello che noi diciamo dei sentimenti elevati sono tutte bugie, che non abbiamo bisogno che del corpo, e perciò perdoniamo qualsiasi porcheria, ma un abito mancato, senza gusto, inelegante non lo perdoneremmo.
La civetta lo sa coscientemente, ogni fanciulla innocente lo sa incoscientemente, come lo sanno gli animali .
Ecco la ragione di questi jersey, di questi odiosi sgonfi, di queste spalle e braccia nude, di questi petti seminudi. Le donne, e particolarmente quelle che sono passate attraverso la scuola dell'uomo, sanno molto bene che i discorsi su argomenti elevati sono discorsi, e che l'uomo ha bisogno del corpo e di tutto ciò che lo mette in mostra nella luce più ingannatrice, ma più attraente; e questo appunto è quel che si fa. Perché basta mettere da parte l'abitudine a questa indecenza, che per noi è diventata una seconda natura, e vedere la vita delle nostre classi superiori come è, con tutta la sua impudenza, per accorgersi che è una sola vasta casa di tolleranza... Non siete d'accordo? Permettete, ve lo dimostro, - fece, interrompendomi. - Voi dite che le donne del nostro ambiente hanno altri interessi, nella vita, che non le donne delle case di tolleranza, e io dico di no, e ve lo dimostro.
Se le persone sono diverse quanto agli scopi della vita, quanto al contenuto interiore della vita, questa diversità si rispecchia immancabilmente anche nell'apparenza, e l'apparenza è diversa. Ma guardate quelle, le sventurate, le disprezzate, e le signore della più alta società: sono le medesime acconciature, le medesime mode, i medesimi profumi, il medesimo denudamento delle braccia, delle spalle, del petto e la medesima esposizione del SEDERE sotto la stoffa ben tesa; la medesima passione per le pietre, per le cose scintillanti e preziose, i medesimi divertimenti, il ballo e la musica, il canto. Come quelle, così pure queste adescano con tutti i mezzi. Non c'è nessuna differenza. Dando una definizione rigorosa, non rimane se non da dire che quelle che fanno le prostitute per brevi periodi di solito sono disprezzate, e quelle che fanno le prostitute per lunghi periodi di solito sono rispettate.
- Sì, e così questi jersey e riccioli e sgonfi mi accalappiarono.
E accalappiarmi era facile, perché ero stato educato in quelle condizioni in cui si fanno maturare rapidamente, come cetrioli primaticci, i giovanotti innamorati. Perché la nostra supernutrizione eccitante, unita a un pieno ozio fisico, non è nient'altro che un'infiammazione sistematica della concupiscenza.
Che ve ne stupiate o no, è così. Del resto anch'io, fino a questi ultimi tempi, non vedevo niente di tutto ciò. L'ho visto adesso.
Per questo appunto, soffro che non lo sappia nessuno, e che si dicano delle sciocchezze tali, come le diceva quella signora là.
Sissignore, questa primavera vicino a casa mia dei contadini lavoravano al terrapieno della ferrovia. Il nutrimento consueto di un contadino giovane è pane, "kvas" (2), cipolla; costui è vivace, pronto, allegro; compie il lieve lavoro dei campi. Trova posto alle ferrovie, e il suo vitto è una "kasha" (3) e una libbra di carne. Ma in compenso questa carne gli va via in un lavoro di sedici ore al giorno con una carriola del peso di trenta libbre. E sta appena bene. Ma noi, che mangiamo due libbre di carne per uno, e selvaggina, e pesce, e svariati cibi e bevande che riscaldano, dove ci va a finire questa roba? In eccessi sensuali. E se va a finire là, la valvola di sicurezza è aperta, e tutto procede bene; ma socchiudete la valvola, come l'avevo temporaneamente socchiusa io, e ne deriverà subito un'eccitazione, che, passando attraverso il prisma della nostra vita artificiosa, si esprimerà in un innamoramento della più bell'acqua, a volte perfino platonico. E io m'innamorai come s'innamorano tutti. E c'era tutto: gli entusiasmi, la commozione, la poesia. Ma in sostanza questo mio amore era il prodotto, da un lato dell'attività della madre e dei sarti, dall'altro dell'eccesso del cibo da me ingurgitato in una vita oziosa. Se non ci fossero state, da un lato, le gite in barca, se non ci fossero stati i sarti con i loro vitini e simili, ma mia moglie fosse stata vestita d'una vestaglia mal fatta e fosse rimasta a casa, e, dall'altro lato, se io fossi stato in condizioni normali, cioè una persona che ingurgita la quantità di cibo necessaria per il suo lavoro, e se fosse stata aperta la mia valvola di sicurezza, mentre, chi sa perché, si era socchiusa in quel tempo, non mi sarei innamorato, e nulla di questo sarebbe accaduto.
- Ebbene, in questo caso le mie condizioni erano adatte, il vestito era bello, la gita in barca riuscita bene. Venti volte non era riuscita, e in questo caso riuscì. Una specie di trappola. Non dico per ridere. Perché adesso i matrimoni sono fatti proprio come trappole. Infatti, che cosa sarebbe naturale? Se una ragazza si è fatta adulta, bisogna darle marito. Sembra così semplice, quando la ragazza non è un mostro e ci sono degli uomini che vogliono ammogliarsi. Così appunto si faceva al tempo antico. Quando una ragazza raggiungeva l'età, i genitori disponevano le nozze. Così si faceva e si fa nell'umanità tutta; tra i cinesi, i pellirosse, i maomettani, da noi tra il popolo; così si fa nel genere umano, o almeno nei suoi novantanove centesimi. Soltanto una centesima parte, o ancor meno, di noi dissoluti abbiamo ritenuto che non andasse bene, e abbiamo escogitato qualcosa di nuovo. Ma che cosa c'è mai di nuovo? C'è di nuovo che le fanciulle stanno lì, e gli uomini, come se fossero al mercato, vengono e scelgono. E le fanciulle aspettano e pensano, ma non osano dire: "Me, padre mio!
no, me! Non lei, ma me; guarda come ho le spalle e il resto". E noi uomini, passiamo, osserviamo, e siamo contenti. "Lo so bene, non mi ci faccio prendere". Passano, sogguardano, e sono molto contenti che tutto sia preparato per loro a questo modo. Guarda un po', non ci hai fatto caso, ma basta un colpo, e ci sei.
- E allora com'è? - dissi io: - deve forse essere la donna a fare la proposta di matrimonio?
- Ma non so proprio come; tuttavia, se eguaglianza c'è, eguaglianza sia. Se si è ritenuto che combinare i matrimoni fosse umiliante, questo poi lo è mille volte di più. Là i diritti e le probabilità sono uguali, mentre qui la donna è una schiava al mercato o l'esca d'una trappola, quella dell'"andare in società".
Dite a una madre o alla ragazza stessa la verità, che essa non è ad altro intenta che nel dare la caccia a un marito. Dio mio, che offesa! Eppure loro tutte non fanno altro, e non hanno altro da fare. E quello che è tremendo è vedere occupate a volte in questo delle povere fanciulle ingenue ancora giovanissime. E, ripeto, almeno la cosa fosse fatta apertamente; mentre invece non è che inganno. "Oh, l'origine della specie, com'è interessante! Oh, Lily s'interessa molto di pittura! E voi verrete all'esposizione? Com'è istruttiva! E i tiri a tre, e i teatri, e la sinfonia? Oh, che meraviglia. La mia Lily è pazza per la musica. E voi perché non dividete queste opinioni? E in barca?...". E il pensiero è uno solo: "Prendimi, prendimi, prendi la mia Lily! No, me! Su, almeno prova!...". Oh turpitudine! menzogna! - egli concluse e, dopo aver finito il suo ultimo resto di tè, cominciò a mettere via le tazze e le stoviglie.
- Sì, sapete, - egli cominciò, riponendo il tè e lo zucchero nella sacca, - è per la dominazione delle donne che il mondo soffre; tutto deriva da quello.
- Come la dominazione delle donne? - dissi io. - I diritti, la prevalenza dei diritti, ce l'hanno gli uomini.
- Sì, sì, è questo, è proprio questo, - egli fece, interrompendomi. - E' proprio questo che voglio dirvi, è questo appunto che spiega lo straordinario fenomeno per cui da un lato è verissimo che la donna è ridotta al grado di umiliazione più basso, mentre dall'altro lato domina. Proprio come gli ebrei. Come essi con la loro potenza pecuniaria si vendicano della propria oppressione, così fanno anche le donne. "Ah, voi volete che siamo solamente commercianti. Va bene, noi, come commercianti, c'impadroniremo di voi", dicono gli ebrei. "Ah, voi volete che siamo solamente oggetto di sensualità. Va bene, noi, come oggetto di sensualità, vi ridurremo in schiavitù", dicono le donne. La mancanza di diritti della donna non consiste nel non poter votare, o fare il giudice. Occuparsi di queste cose non costituisce nessun diritto, bensì di essere eguale all'uomo dal punto di vista sessuale, di avere il diritto di usare dell'uomo e astenersene a proprio piacimento, di scegliere a proprio piacimento l'uomo e non esserne scelta. Voi dite che è un'indecenza. Va bene. Allora che neanche l'uomo abbia questi diritti. Mentre adesso la donna è priva del diritto che ha l'uomo. Ed ecco che, per compensare questo diritto essa agisce sulla sensualità dell'uomo, e attraverso la sensualità lo asservisce a tal punto che sceglie lui solamente per la forma, ma in realtà è lei che sceglie. E, una volta impadronitasi di questo sentimento, essa certo ne abusa e acquista un potere eccezionale sulla gente.
- Ma dov'è questo particolare potere? - chiesi io.
- Dov'è questo potere? Ma dappertutto, in ogni cosa. Girate per i negozi in qualunque grande città. Lì ci sono dei milioni; è impossibile valutare le fatiche umane che vi sono state spese; ma guardate i nove decimi di quei negozi, c'è forse qualcosa per uso degli uomini? Tutto il lusso dell'esistenza è richiesto e tenuto su dalle donne.
Contate tutte le fabbriche. Una grandissima parte di esse fa ornamenti senza utilità, carrozze, mobili, giocattoli per le donne. Milioni di persone, generazioni di schiavi periscono nel lavoro da galera delle fabbriche solo per il capriccio delle donne. Le donne, come regine, tengono prigionieri della schiavitù e del lavoro pesante i nove decimi del genere umano. E tutto perché le hanno umiliate, privandole dell'eguaglianza di diritti con gli uomini. Ed ecco che esse si vendicano agendo sulla nostra sensualità, cogliendoci nelle loro reti. Sì, tutto per questo. Le donne si sono trasformate in un tale strumento di eccitazione della sensualità che l'uomo non può trattare con tranquillità la donna. Non appena l'uomo si avvicina alla donna, cade subito sotto la sua azione tossica e diventa pazzo. Anche prima provavo sempre disagio e timore quando vedevo una signora agghindata in abito da ballo; ma adesso ho proprio paura, ci vedo proprio qualcosa di pericoloso per la gente e d'illegale, e avrei voglia di chiamare un poliziotto, di chiedere aiuto contro quel pericolo, di esigere che venga tolto via, messo da parte quell'oggetto pericoloso.
Ma voi ridete! - egli mi gridò: - invece non è affatto uno scherzo. Sono sicuro che verrà un tempo, e forse molto presto, che gli uomini lo capiranno e si stupiranno che potesse esistere una società in cui fossero ammesse azioni così perturbatrici della quiete sociale come quegli ornamenti del proprio corpo, addirittura eccitatori della sensualità, che sono ammessi per le donne nella nostra società. Perché è lo stesso che distribuire trappole d'ogni genere sulle passeggiate e per i viottoli; anzi, peggio! Come mai il gioco d'azzardo è proibito, e le donne in acconciature da prostitute e tali da eccitare la sensualità non sono proibite? Sono mille volte più pericolose!
- Ebbene, così appunto venni accalappiato. Ero quel che si dice innamorato. Non solo me la raffiguravo come un culmine di perfezione, ma raffiguravo anche me stesso, in quel tempo del mio fidanzamento, come un culmine di perfezione. Infatti non c'è mascalzone che, dopo aver cercato un po', non trovi dei mascalzoni che per qualche rispetto sono peggiori di lui, e che perciò non possa trovare una ragione d'inorgoglirsi e d'essere contento di sé. E così anch'io: non mi sposavo per i denari, l'interesse non c'entrava, non era come per la maggioranza dei miei conoscenti che si sposavano per i denari e per le aderenze: io ero ricco, lei era povera. Questo era uno. Un'altra cosa di cui ero orgoglioso era che gli altri si sposavano con l'intenzione di continuare a vivere nella medesima poligamia in cui vivevano prima del matrimonio; mentre io avevo la ferma intenzione, dopo le nozze, di attenermi alla monogamia, e a causa di ciò il mio orgoglio non aveva limiti.
Sì, ero un gran porco, e m'immaginavo di essere un angelo.
Il tempo che fui fidanzato non durò a lungo. Adesso non posso ricordare senza vergogna questo tempo del fidanzamento! Che orrore! Infatti si sottintende un amore spirituale, e non sensuale. Ebbene, se l'amore fosse spirituale, una comunione spirituale, questa comunione spirituale dovrebbe esprimersi con parole, discorsi, colloqui. Invece non ci fu niente di tutto questo. Quando rimanevamo soli, parlare, di solito, era tremendamente difficile. Che lavoro di Sisifo era mai! Appena avevi escogitato che cosa dire, e lo dicevi, bisognava di nuovo tacere e immaginare qualcosa. Non c'era di che parlare. Tutto quello che si poteva dire sulla vita che ci attendeva, sulla nostra sistemazione, sui nostri progetti era stato detto; e dopo?
Perché se fossimo stati bestie, avremmo saputo benissimo che non avevamo da parlare; ma lì, al contrario, parlare si doveva, ed era inutile, giacché c'interessava qualcosa che non si risolve con i discorsi. E, per di più, ancora quell'indecente uso dei confetti, della volgare voracità di dolciumi, e tutti quegli infami preparativi del matrimonio: i discorsi sull'alloggio, sulla camera da letto, sui letti, sulle vestaglie, sulle vesti da camera, sulla biancheria, sulle toilettes. Dovete capire che, se ci si sposa secondo le regole del "Domostroj" come diceva quel vecchio, i piumini, il corredo, il letto sono tutti non altro che particolari che accompagnano il sacramento. Ma tra noi, quando su dieci che contraggono matrimonio ce n'è forse uno che non solo crede al sacramento, ma crede perfino che quello che sta facendo costituisce un certo obbligo, quando su cento uomini ce n'è forse uno che non abbia già avuto moglie prima e uno su cinquanta che non si prepari anticipatamente a tradire la propria moglie a ogni occasione favorevole, quando la maggioranza guarda all'andata in chiesa soltanto come a una speciale condizione per possedere una certa donna; pensate, in questo caso, che orribile significato assumono tutti questi particolari. Ne risulta che tutto sta in questo. Ne risulta una specie di vendita. A un depravato viene venduta una fanciulla innocente, e questa vendita è accompagnata da determinate formalità.
- Così si sposano tutti, così mi sposai anch'io, e iniziò la lodata luna di miele. Perché, se non altro, anche il nome quant'è vile! - egli sibilò con ira. - Una volta a Parigi giravo tutti gli spettacoli, ed entrai a vedere, secondo quanto diceva il cartello, la donna barbuta e il cane marino. Risultò che non era nient'altro che un uomo scollato vestito da donna e un cane ficcato in una pelle di foca che nuotava in una vasca da bagno piena d'acqua.
Tutto ciò era molto interessante; ma, mentre uscivo, l'imbonitore mi accompagnò cortesemente e, rivolgendosi alla gente che stava all'entrata, disse, indicandomi: "Ecco, chiedete a questo signore se vale la pena di venire a vedere. Entrate, entrate, un franco a testa!". Io mi vergognavo di dire che non valeva la pena di andare a vedere, e su questo probabilmente contava l'imbonitore. Così càpita probabilmente anche a quelli che hanno sperimentato tutto l'orrore della luna di miele e non disingannano gli altri. Anch'io non disingannai nessuno, ma adesso non vedo perché non bisognerebbe dire la verità. Ritengo perfino che sia indispensabile dire la verità su questo argomento. Ci si sente a disagio, ci si vergogna, si prova ribrezzo e pietà, ma soprattutto ci si annoia, ci si annoia fino all'inverosimile! E' una specie di quello che provavo quando imparavo a fumare, quando avevo dei conati di vomito e mi colava la saliva, ma io la inghiottivo e facevo finta che mi piacesse molto. Il piacere del fumo, come pure di questo, se verrà, verrà dopo: bisogna che lo sposo educhi questo vizio nella moglie, per ritrarne piacere.
- Come, vizio? - dissi io. - Ma voi parlate della più naturale proprietà umana.
- Naturale? - egli disse. - Naturale! No, vi dirò al contrario che mi sono convinto che è una cosa non... naturale. Sì, interamente non... naturale. Chiedete ai ragazzi, chiedete a una fanciulla che non sia depravata. Mia sorella andò sposa molto giovane a un uomo che era due volte più vecchio di lei, e un depravato. Ricordo come ci meravigliammo, la notte del matrimonio, quando lei, pallida e in lacrime, gli scappò via, e, tremando in tutto il corpo, diceva che non l'avrebbe fatto a nessun costo, che non avrebbe neppure potuto raccontare quello che lui voleva da lei. Voi dite:
naturale! E' naturale mangiare. E mangiare è una cosa che fin da principio è lieta, facile, piacevole e non è vergognosa; questa invece è abominevole e vergognosa e dolorosa. No, è innaturale! E una fanciulla che non sia corrotta, me ne sono convinto, la odia.
- Ma come, - dissi io, - come continuerebbe il genere umano?
- Sì, purché non vada perso il genere umano! - egli disse con astiosa ironia, come se si fosse aspettato quest'obiezione, che conosceva ed era in mala fede. - Predicare la continenza nella generazione in nome della possibilità, per i lords inglesi, di continuare sempre a rimpinzarsi è permesso. Predicare la continenza nella generazione in nome d'una maggior piacevolezza di vita è permesso; ma basta accennare lontanamente alla continenza nella generazione in nome della morale: padri santi, che grida!
purché il genere umano non s'interrompa per il fatto che una decina o due di persone vogliono smettere di essere dei porci. Del resto, scusate. A me dà noia questa luce, posso coprirla? - egli disse, indicando la lanterna.
Io dissi che per me era lo stesso, e allora lui, con la fretta che metteva in tutto quel che faceva, salì sul sedile e coprì la lanterna con la sua tendina di lana.
- Eppure, - dissi io, - se tutti lo ammettessero come legge, il genere umano s'interromperebbe.
Egli non rispose subito.
- Voi dite: come continuerà il genere umano? - egli fece, sedendosi di nuovo di fronte a me, con le gambe molto aperte e appoggiandovisi chino con i gomiti. - E perché mai deve continuare, il genere umano? - disse.
- Come perché? altrimenti noi non ci saremmo.
- E perché dobbiamo esserci?
- Come perché? Ma per vivere.
- E perché vivere? Se non esiste nessun scopo, se la vita ci è data per se stessa, è inutile vivere. E se è così, gli Schopenhauer e i Hartmann, come anche tutti i buddisti, hanno perfettamente ragione. E se poi nella vita c'è uno scopo, è chiaro che la vita deve cessare quando sia raggiunto lo scopo. La conclusione è proprio questa, - egli diceva con visibile agitazione, avendo evidentemente molto a cuore la sua idea. - La conclusione è proprio questa. Notate che, se lo scopo dell'umanità è ciò che è detto nelle profezie, che tutti gli uomini siano uniti insieme dall'amore, che le lance siano trasformate in falci, eccetera, al raggiungimento di questo scopo che cosa si frappone?
Si frappongono le passioni. Tra le passioni la più forte, cattiva e ostinata è l'amore sessuale, carnale, e perciò se saranno distrutte le passioni, e anche l'ultima, la più forte di esse, l'amore carnale, la profezia si adempirà, gli uomini si uniranno insieme, lo scopo dell'umanità sarà raggiunto ed essa non avrà più ragione di vivere. Ma finché l'umanità vive, le sta dinanzi un ideale, e non è, s'intende, l'ideale dei conigli o dei maiali, di moltiplicarsi il più possibile, né quello delle scimmie e dei parigini, di usufruire nel modo più raffinato dei piaceri della passione sessuale, ma un ideale di bene, che si raggiunge con la continenza e la purezza. Ad esso hanno sempre teso e tendono gli uomini. E guardate che cosa ne risulta. Ne risulta che l'amore carnale è la valvola di sicurezza. Se la generazione umana che vive adesso non ha raggiunto lo scopo, non l'ha raggiunto solamente perché ha in sé delle passioni, e la più forte di esse è quella sessuale. Ma se c'è la passione sessuale, c'è anche una nuova generazione, cioè anche la possibilità di raggiungere lo scopo nella generazione seguente. Se non lo raggiunge neanche questa, c è di nuovo quella seguente, e così fino a che non sia raggiunto lo scopo, non sia adempiuta la profezia e gli uomini non si uniscano insieme. Altrimenti, infatti, che cosa ne verrebbe fuori? Ammettiamo che Dio abbia creato gli uomini per il raggiungimento di un determinato fine e li abbia creati o mortali senza la passione sessuale o eterni. Se fossero mortali, ma senza la passione sessuale, che cosa ne risulterebbe? che vivrebbero, e morirebbero senza avere raggiunto lo scopo; e per raggiungere lo scopo Dio dovrebbe creare dei nuovi uomini. Se invece fossero eterni, mettiamo (benché sia più difficile per le medesime persone che non per delle nuove generazioni correggere gli errori e avvicinarsi alla perfezione), mettiamo che lo raggiungessero dopo parecchie migliaia d'anni; ma allora a che servirebbero? Dove si dovrebbero mettere? Il meglio è proprio così come stanno le cose... Ma forse questa forma d'espressione non vi piace e siete un evoluzionista. Ma anche allora il risultato è eguale. La specie animale superiore è quella umana; per conservarsi nella lotta con gli altri animali, essa deve stringersi insieme come uno sciame d'api, e non moltiplicarsi all'infinito; come le api, deve educare degli asessuati, cioè tendere di nuovo alla continenza, e non certo all'eccitazione della concupiscenza, a cui è rivolta tutta la struttura della nostra esistenza -. Egli per un po' tacque. - Il genere umano s'interromperà. Ma possibile che qualcuno, comunque veda il mondo, possa dubitarne? Perché è altrettanto indubitabile come la morte. Perché secondo tutte le dottrine religiose verrà la fine del mondo e secondo tutte le dottrine scientifiche è inevitabile la stessa cosa. Che c'è di strano, allora, che secondo la dottrina morale si giunga al medesimo risultato?
Dopo di che egli tacque a lungo, finì di fumare la sigaretta e, trattene delle altre dalla sacca, le mise nel suo vecchio portasigarette macchiato.
- Capisco il vostro pensiero, - dissi io: - gli "skakers" (4) affermano qualcosa di simile.
- Sì, sì, e hanno ragione, - egli disse. - La passione sessuale, comunque sia presentata, è un male, un male tremendo col quale bisogna lottare, invece d'incoraggiarlo come si fa da noi. Le parole del Vangelo, secondo cui chi guarda una donna con concupiscenza ha già commesso adulterio con lei, non si riferiscono solamente alle mogli altrui, ma precisamente soprattutto alla propria moglie.
- Invece nel nostro ambiente è proprio il contrario: se un uomo pensava ancora alla continenza mentre era scapolo, sposandosi chiunque ritiene che adesso la continenza non sia più necessaria.
Infatti, queste partenze dopo il matrimonio, i luoghi solitari dove, col permesso dei genitori, si recano i giovani sposi non sono altro che un permesso dato alla depravazione. Ma la legge morale si vendica da sé, quando la violi. Per quanto cercassi di farmi una luna di miele, non riuscivo a nulla. Provavo di continuo disgusto, vergogna e noia. Ma ben presto l'umore divenne anche tormentosamente penoso. La cosa cominciò ben presto. Dopo due o tre giorni, mi pare, la trovai malinconica, cominciai a chiederle come mai, cominciai ad abbracciarla, che era tutto quello che, secondo me, poteva desiderare, e lei allontanò la mia mano e si mise a piangere. Perché piangesse, non sapeva dirmelo; ma era triste, accorata. Probabilmente i suoi nervi spossati le avevano suggerito la verità sulla disgustosità dei nostri rapporti, ma non sapeva dirla. Cominciai a interrogarla, lei disse qualcosa, accennando che si sentiva triste senza la madre. Mi parve che non fosse vero. Cominciai a dirle delle parole d'incoraggiamento, senza parlare della madre. Non capivo che era semplicemente accorata, e la madre non era che un pretesto. Ma lei si offese subito che avessi taciuto della madre, come se non le avessi creduto. Mi disse che vedeva che non l'amavo. Io l'accusai d'essere capricciosa, e a un tratto il viso le si mutò interamente, invece della tristezza vi si espresse l'irritazione, e con le parole più velenose cominciò a rimproverarmi di egoismo e di crudeltà. Io la guardai. Il suo viso esprimeva la freddezza e ostilità più piena, quasi un odio per me. Ricordo come fui preso da spavento vedendolo. Come? che cos'è? pensavo. L'amore è un'unione delle anime, e invece ecco che cos'è! Ma è possibile? ma non è lei! Provai a placarla, ma cozzai contro una muraglia così insormontabile di fredda, velenosa ostilità che in un batter d'occhio l'irritazione prese anche me,e ci dicemmo vicendevolmente un mucchio di cose spiacevoli. L'impressione di quel primo litigio era tremenda. Io lo chiamavo litigio, ma litigio non era, bensì soltanto lo svelarsi dell'abisso che c'era in realtà tra noi. L'innamoramento s'era esaurito con la soddisfazione della sensualità, ed eravamo rimasti l'uno di fronte all'altro in quelli che erano i nostri autentici rapporti reciproci, cioè come due egoisti interamente estranei l'uno all'altro e desiderosi di ottenere l'uno per mezzo dell'altro il maggior piacere possibile. Io chiamavo litigio quello che era avvenuto tra noi ma litigio non era, bensì solamente la conseguenza della cessazione dello stato di sensualità, che rivelava i nostri autentici rapporti reciproci. Non capivo che questi rapporti freddi e ostili erano i nostri rapporti normali, non lo capivo perché i nostri rapporti ostili nei primi tempi ci vennero ancora una volta nascosti da una distillata sensualità nuovamente sollevatasi in noi, cioè dall'innamoramento.
E io pensavo che avessimo litigato e fatto pace e che questo non sarebbe più accaduto, ma in quella stessa luna di miele venne di nuovo assai presto un periodo di sazietà, di nuovo cessammo di essere necessari l'uno all'altro e avvenne di nuovo un litigio.
Questo litigio mi colpì ancora più dolorosamente del primo. Sicché il primo non è stato un caso, ma così doveva essere, e così sarà, pensavo io. Il secondo litigio mi colpì tanto maggiormente, in quanto sorse col pretesto più assurdo. Qualcosa che si riferiva ai denari, che io non ho mai lesinato e che certo per mia moglie non avrei mai potuto lesinare. Ricordo solamente che lei girò la cosa in modo che una mia osservazione venne a essere l'espressione del mio desiderio di dominarla per mezzo dei denari, sui quali avrei affermato il mio diritto esclusivo: qualcosa di impossibile, di sciocco, di vile, di non naturale né per me, né per lei. Io m'irritai, cominciai a rimproverarla di poca discrezione, lei rimproverò me, e si tornò da capo. E nelle parole e nell'espressione del suo viso e negli occhi le vidi di nuovo quella crudele, fredda ostilità che prima m'aveva tanto colpito.
Ricordo che con mio fratello, con i miei amici, con mio padre avevo litigato, ma tra noi non c'era mai stato quel particolare velenoso risentimento che c'era qui. Ma passò qualche tempo, e di nuovo quest'odio reciproco fu nascosto dall'innamoramento, cioè dalla sensualità, e io mi consolai col pensiero che questi due litigi erano stati errori che si potevano riparare. Ma ecco che venne il terzo, il quarto litigio, e io capii che non era un caso e che così doveva essere, e così sarebbe stato, e inorridii di ciò che mi attendeva. Inoltre mi tormentava ancora l'orribile pensiero che ero io solo ad andare così poco d'accordo con mia moglie, tanto diversamente da quel che mi aspettavo, mentre negli altri matrimoni questo non accadeva. A quel tempo non sapevo ancora che è un destino comune, ma che tutti pensano come me che sia una loro sventura esclusiva, nascondono questa loro esclusiva vergognosa sventura non solo agli altri, ma anche a se stessi, non lo confessano neppure a se stessi.
Cominciò dai primi giorni e continuò per tutto il tempo, e con forza e inasprimento sempre maggiori. Nel profondo dell'animo sentii fin dalle prime settimane che ero rovinato, che il risultato era molto diverso da quello che m'aspettavo, che il matrimonio non solo non era la felicità, ma addirittura qualcosa di molto penoso, ma, come tutti, non volevo confessarmelo (non me lo confesserei neppure adesso, non ci fosse stata quella fine) e lo nascondevo non solo agli altri, ma pure a me stesso. Ora mi stupisco come non vedessi la mia vera situazione. Sarebbe stato possibile vederla non foss'altro che per il fatto che le liti cominciavano da pretesti tali, che poi, quando finivano, era impossibile ricordarsi come mai erano sorte.
La ragione non faceva in tempo a escogitare pretesti sufficienti per l'ostilità reciproca che c'era sempre. Ma ancora più stupefacente era l'insufficienza dei pretesti di riconciliazione.
A volte c'erano parole, spiegazioni, perfino lacrime, ma a volte - oh, fa ribrezzo ricordarlo anche adesso dopo le più crudeli parole reciproche erano silenziosi sguardi, sorrisi, baci, amplessi...
Ah, che orrore! Come potevo non vedere, allora, tutto ciò che c'era di ripugnante in questo...
Entrarono due viaggiatori e cominciarono a disporsi su un sedile lontano. Egli tacque mentre essi si sistemavano. Ma, non appena si furono chetati, continuò, senza aver perduto neppure per un momento, come era evidente, il filo del proprio pensiero.
- Ecco soprattutto quel che è sudicio, - egli cominciò: - si presuppone in teoria che l'amore sia qualcosa d'ideale, di elevato, eppure in pratica l'amore è qualcosa di schifoso, di maialesco, che fa schifo e vergogna a parlarne e a ricordarlo. Non per nulla infatti la natura ha fatto sì che se ne provasse schifo e vergogna. E se si prova schifo e vergogna, vuol dire che le cose stanno così. Mentre la gente fa finta, al contrario, che ciò che è schifoso e vergognoso sia bellissimo ed elevato.
Quali furono i primi sintomi del mio amore? Il fatto che mi abbandonavo a eccessi animaleschi, non solo senza vergognarmene, ma, chi sa perché, gloriandomi di poter compiere questi eccessi fisici. Senza pensare affatto, intanto, non solo alla sua vita spirituale, ma addirittura alla sua vita fisica, mi chiedevo con meraviglia da dove venisse il nostro reciproco astio; mentre la cosa era chiarissima. Questo astio non era nient'altro che la protesta della natura umana contro l'animalesco che la soffocava.
Mi meravigliavo del nostro odio reciproco. Eppure non poteva essere diversamente. Quest'odio non era altro che l'odio reciproco dei complici di un delitto per l'istigazione e la partecipazione al delitto. E come non chiamarlo delitto, quando lei, poverina, ingravidò fin dal primo mese, e la nostra maialesca relazione continuò! Pensate che mi allontani dal racconto? Per nulla. Non faccio che raccontarvi come ho ucciso mia moglie. Al processo mi chiedono con che e come ho ucciso mia moglie. Imbecilli! pensano che io l'abbia uccisa allora, con un coltello, il 5 ottobre. Non l'ho uccisa allora, ma molto prima. Allo stesso modo come adesso tutti loro uccidono, tutti, tutti...
- Ma con che cosa mai? - chiesi io.
- Questo, appunto, è stupefacente: che nessuno si voglia accorgere di ciò che è così chiaro ed evidente, di ciò che dovrebbero sapere e predicare i medici, ma di cui tacciono.
La cosa, infatti, è straordinariamente semplice. L'uomo e la donna sono fatti come gli animali, sicché dopo l'amore carnale comincia la gravidanza, poi l'allattamento, stati in cui, sia per la donna che per la sua creatura, l'amore carnale è nocivo. Le donne e gli uomini sono in numero eguale. Che cosa se ne desume? sembra che sia chiaro. E non ci vuole una grande saggezza per trarne la conseguenza che ne traggono gli animali, cioè la continenza. Ma no. La scienza è giunta al punto da scoprire non so che leucociti che corrono nel sangue e delicate sciocchezze d'ogni sorta, ma questo non l'ha potuto capire. Almeno non c'è caso di poter sentire che l'abbia detto.
Ed ecco che per le donne non ci sono che due vie d'uscita: una, rendersi un mostro, distruggere o andar distruggendo in sé secondo il bisogno la capacità d'essere donna, e cioè madre, perché l'uomo possa tranquillamente e sempre godere di lei; o l'altra via, che non è neppure una via d'uscita, ma una semplice, volgare, autentica violazione delle leggi della natura, che viene compiuta in tutte le cosiddette famiglie per bene, vale a dire che la donna, in contrasto con la sua natura, debba a un tempo essere incinta, dare il latte e fare da amante, debba essere come nessun animale si riduce. Neppure le forze possono bastarle. Ed è perciò che nel nostro ambiente ci sono gli isterismi e i nervi, e nel popolo le invasate. Notate che tra le ragazze, quelle oneste, l'invasamento non c'è, ma soltanto tra le donne, e tra le donne che stanno con i loro mariti. Così è da noi. Anche in Europa è proprio lo stesso.
Tutti gli ospedali sono pieni di donne isteriche, che violano la legge naturale. Ma le invasate e le pazienti di Charcot sono quelle del tutto inferme, e di donne infermicce è pieno il mondo.
Eppure basterebbe pensare quanto è grande l'opera che si compie nella donna, quando ha concepito o quando allatta il bambino che è nato. Cresce ciò che ci continua, ci sostituisce. E appunto quest'opera è turbata, e da che cosa mai? Fa paura pensarci! E si parla della libertà, dei diritti della donna. E' come se i cannibali ingrassassero dei prigionieri per mangiarli, e nello stesso tempo assicurassero che si preoccupano dei loro diritti e della loro libertà.
Tutto questo era nuovo, e mi colpì.
- E allora come si fa? Se è così, - dissi io, - ne deriva che si può amare la propria moglie una volta ogni due anni, e l'uomo...
- Per l'uomo è indispensabile, - soggiunse lui. - Sono di nuovo i cari sacerdoti della scienza che hanno persuaso tutti. A loro, a questi magi, farei esercitare l'ufficio di quelle donne, che secondo la loro opinione sono indispensabili agli uomini; che cosa direbbero allora? Fate credere a un uomo che gli sono indispensabili l'acquavite, il tabacco, l'oppio, e tutto ciò gli sarà indispensabile. Ne risulta che Dio non sapeva quello che poteva servire, e perciò, non avendone chiesto ai magi, ha fatto male le cose. Come vedete, il problema non torna. Per l'uomo è necessario, indispensabile, secondo quanto hanno stabilito loro, soddisfare la propria lussuria, e qui ci si sono messi di mezzo la procreazione e l'allattamento dei figli, che ostacolano la soddisfazione di quest'esigenza. E che fare allora? Rivolgetevi ai magi, loro accomoderanno le cose. E infatti hanno trovato. Oh!
quand'è che saranno smascherati questi magi con i loro inganni? E' ora! Ecco fino a che punto si è arrivati! la gente impazzisce e si spara, e tutto per questo. E del resto, come potrebbe essere altrimenti ? Le bestie è come se sapessero che la loro discendenza continua la razza, e sotto questo aspetto si attengono a una determinata legge. Soltanto l'uomo non lo sa e non lo vuol sapere.
Ed è preoccupato solo del modo di avere il maggior piacere possibile. E di chi si tratta mai? Del re della natura, dell'uomo!
Perché, se osservate, le bestie si uniscono solo quando possono produrre una discendenza, mentre il sudicio re della natura lo fa sempre, purché ne ricavi piacere. E, contento di questo, eleva questa scimmiesca occupazione a perla della creazione, ad amore...
E in nome di quest'amore, cioè d'una porcheria, rovina - che cosa mai? - metà del genere umano. Tutte le donne, che dovrebbero essere delle collaboratrici nel moto dell'umanità verso la verità e il bene, egli, in nome del proprio piacere, le rende non delle collaboratrici, ma delle nemiche.
Osservate, che cos'è che inceppa dappertutto il progresso dell'umanità? Le donne. E come mai sono così? Ma soltanto per questo. Sissignore, sissignore, - egli ripeté parecchie volte, e cominciò a dimenarsi, a tirar fuori le sigarette e a fumare, desiderando evidentemente di calmarsi un poco.
- E così vivevo da maiale, - egli proseguì, di nuovo col tono di prima. - Ma la cosa peggiore di tutte era che, vivendo di questa vita obbrobriosa, m'immaginavo, siccome non ero sedotto dalle altre donne, di vivere per conseguenza un'onesta vita familiare, d'essere una persona morale e di non avere colpa di nulla, e se tra noi avvenivano dei litigi, ne era colpevole lei, col suo carattere.
Ma la colpevole, s'intende, non era lei. Lei era come tutte, come la maggioranza. Era stata educata come vuole la situazione della donna nella nostra società, e perciò come sono educate tutte, senza eccezione, le donne delle classi abbienti e come non possono non essere educate. Si discorre di una nuova istruzione femminile.
Sono tutte parole: l'istruzione della donna dev'essere proprio così, col modo privo d'infingimenti e davvero generale che attualmente si ha di considerare la donna.
E l'istruzione della donna corrisponderà sempre al modo che ha l'uomo di considerarla. Infatti noi tutti sappiamo come gli uomini guardano alla donna. "Wein, Weiber und Gesang" ["Vino, donne e canto"], già lo dicono i poeti nei loro versi. Prendete tutta la poesia, tutta la pittura, la scultura, a cominciare dalle poesie d'amore e dalle Veneri e dalle Frini, nude, vedrete che la donna è uno strumento di godimento, tanto alla Truba e alla Gracevka come al ballo più raffinato. E notate l'astuzia del diavolo: allora, se è godimento, se è piacere, tanto varrebbe saperlo che è un piacere, che la donna è una leccornia. No, dapprima i cavalieri asseriscono di divinizzare la donna (la divinizzano, eppure guardano a lei come a uno strumento di godimento). Adesso invece asseriscono di rispettare la donna. Gli uni le cedono il posto, le tirano su i fazzoletti; gli altri le riconoscono il diritto di ricoprire tutti gli uffici, di partecipare all'amministrazione, eccetera. Tutto questo si fa, ma il modo di considerarla è sempre eguale. Essa è uno strumento di godimento. Il suo corpo è un mezzo di godimento. E lei lo sa. E' come la schiavitù. La schiavitù, infatti, non è che lo sfruttamento da parte di certuni del lavoro forzato di molti. E perché la schiavitù non ci sia bisogna che la gente non voglia sfruttare il lavoro forzato degli altri, lo consideri un peccato o una vergogna. Ma invece ci si mette ad abolire la forma esteriore della schiavitù, si fa in modo che non si possa più stipulare contratti d'acquisto di schiavi, e s'immagina e ci si vuole convincere che la schiavitù non esista più, e non si vede e non si vuole vedere che la schiavitù continua a esserci, perché la gente continua proprio nello stesso modo ad amare e ritenere opportuno e giusto lo sfruttare il lavoro degli altri. E dato che lo ritengono opportuno, si troveranno sempre delle persone più forti o più astute delle altre, che lo sapranno fare. Con l'emancipazione della donna è lo stesso. Infatti la schiavitù della donna consiste soltanto nel fatto che la gente desidera e ritiene molto opportuno servirsene come di uno strumento di godimento. E così, ecco che si dà la libertà alla donna, le si concedono ogni sorta di diritti eguali a quelli dell'uomo, ma si continua a guardare a lei come a uno strumento di godimento e così la si educa, nell'infanzia e ad opera della pubblica opinione. Ed ecco che essa è sempre la stessa schiava umiliata e corrotta, mentre l'uomo è sempre lo stesso corrotto possessore di schiave.
Si viene liberando la donna nelle scuole superiori nei tribunali, e si guarda a lei come a un oggetto di godimento. Insegnatele a guardare a se stessa nel modo che le è stato insegnato da noi, e rimarrà sempre un essere inferiore. O, con l'aiuto di medici mascalzoni preverrà il concepimento, cioè diventerà in tutto una prostituta, discesa non fino al grado di bestia, ma fino al grado di cosa; oppure diventerà quello che è nella maggior parte dei casi, ammalata di malattia mentale, isterica, infelice, come appunto esse sono, senza possibilità di sviluppo spirituale. I ginnasi e le scuole superiori non possono mutare la cosa. Può mutarla soltanto un mutamento nel modo che hanno gli uomini di considerare le donne e le donne di considerare se stesse. Questo si muterà soltanto quando la donna considererà come lo stato più elevato lo stato di vergine, e non, come ora, la condizione umana più elevata come una vergogna e un'infamia. Ma finché questo non esiste, l'ideale di ogni fanciulla, qualunque sia la sua istruzione, sarà pur sempre quello di attrarre a sé il maggior numero possibile di uomini, il maggior numero possibile di maschi, per avere possibilità di scelta.
E che una sappia un po' di matematica, mentre un'altra sa suonare l'arpa, non servirà a cambiare nulla. La donna è felice, e raggiunge tutto ciò che può desiderare, quando riesce ad affascinare un uomo. E perciò il problema principale della donna è di saperlo affascinare. Così è sempre stato e sarà. Così è per le ragazze, nel nostro ambiente, e così continua a essere per le donne sposate. Alle ragazze serve per avere la scelta, alle donne sposate per dominare il marito.
L'unica cosa che fa cessare questo, o almeno lo soffoca per un certo tempo, sono i figli, e a condizione che la donna non sia un mostro, cioè che allatti da sé. Ma qui vengono di nuovo i medici.
A mia moglie, che volle allattare e allattò da sé i cinque figli che vennero dopo, con la nascita del primo bambino capitò di avere un'indisposizione. Quei medici, che cinicamente la spogliavano e la palpavano dappertutto, per la qual cosa dovevo ringraziarli e pagare loro del denaro, quei cari medici ritennero che non dovesse allattare, e per i primi tempi lei fu privata dell'unico mezzo che poteva liberarla dalla civetteria. Allattò una balia, cioè approfittammo della povertà, del bisogno e dell'ignoranza di una donna, l'allontanammo dal suo bambino in favore del nostro, e in compenso le mettemmo un diadema con dei galloni. Ma non si tratta di questo. Si tratta di quest'altro: che, proprio in quel periodo in cui era libera dalla gravidanza e dall'allattamento, si manifestò in lei con particolare forza quella civetteria femminile che prima si era assopita. E in corrispondenza a questo si manifestarono in me, con forza altrettanto particolare, i tormenti della gelosia, che mi dilaniarono ininterrottamente per tutto il tempo della mia vita coniugale, come non possono non dilaniare tutti i mariti che vivono con le loro mogli come ci vivevo io, cioè in modo immorale.
- Per tutto il tempo della mia vita coniugale non smisi mai di provare i tormenti della gelosia. Ma ci furono dei periodi in cui ne soffrii con particolare asprezza. E uno di tali periodi fu quello in cui, dopo la nascita del primo bambino, i medici le proibirono di allattare. Ero particolarmente geloso in quel tempo, in primo luogo perché mia moglie provava l'inquietudine caratteristica della madre, che una gratuita derogazione al corso normale della vita deve suscitare; in secondo luogo perché, vedendo come aveva rinunciato facilmente al suo obbligo morale di madre, avevo concluso giustamente, seppure senza rendermene conto, che avrebbe rinunciato altrettanto facilmente a quello di sposa, tanto più che stava benissimo e, nonostante la proibizione di quei cari medici, allattò i figli che vennero dopo e li allevò benissimo.
- Ma voi non li amate, i medici, - dissi io, avendo osservato un'espressione particolarmente cattiva nella sua voce ogni volta che appena li nominava.
- Qui non si tratta di amore o di disamore. Essi hanno rovinato la mia vita, come hanno rovinato e rovinano la vita a migliaia, a centinaia di migliaia di persone, e io non posso non collegare le conseguenze con la causa. Capisco che, come anche gli avvocati e gli altri, hanno voglia di far soldi, e cederei loro volentieri metà del mio reddito, e ciascuno, se capisse quello che fanno, cederebbe loro volentieri metà dei propri beni, purché non s'immischiassero nella nostra vita familiare e non si avvicinassero mai molto a noi. Certo, non sono stato a raccogliere notizie in merito, ma conosco decine di casi - e sono una quantità - in cui essi hanno ucciso ora il bambino nel grembo della madre, assicurando che la madre non poteva partorire, mentre la madre poi partoriva benissimo; ora le madri col pretesto di non so che operazioni. Nessuno sta a contare queste uccisioni, come non si stavano a contare le uccisioni dell'Inquisizione, perché si presupponeva che avvenissero per il bene dell'umanità. Non si possono enumerare i delitti da loro commessi. Ma tutti questi delitti non sono nulla in confronto con la depravazione morale materialistica che introducono nel mondo, in particolar modo attraverso le donne. E non parlo di quest'altro fatto: che, a seguire le loro indicazioni, per via dei contagi che ci sono dappertutto e in ogni cosa, la gente dovrebbe andare non verso l'unione, ma verso la disunione. Tutti, secondo loro, dovrebbero stare separati e tenere sempre in bocca una siringa piena di acido fenico (del resto, hanno scoperto che anche quello non va bene).
Ma pure questo non è niente. Il veleno principale sta nella corruzione della gente, delle donne in particolare.
Oggi non si può più dire: "Tu vivi malamente, cerca di vivere meglio", non si può dirlo né a sé, né a un altro. E se vivi malamente, ne è causa l'anormalità delle funzioni nervose, e simili. E bisogna andare da loro, che vi ordinino per 35 copeche di medicine da prendere in farmacia, e prenderle! Diventerete ancora peggio, e allora ancora medicine e ancora medici. Una bellissima storia!
Ma non si tratta di questo. Io non dicevo se non che lei poteva allattare benissimo i figli e che questa gravidanza e questo allattamento dei figli erano l'unica cosa che mi liberasse dai tormenti della gelosia. Non fosse stato questo, sarebbe successo tutto prima. I figli salvavano me e lei. In otto anni le erano nati cinque figli. E tutti, tranne il primo, li allattò lei.
- E dove sono adesso, i vostri figli? - chiesi io.
- I miei figli? - domandò a sua volta lui, spaventato.
- Scusatemi, forse è un ricordo penoso per voi.
- No, non fa niente. I miei figli li hanno presi mia cognata e suo fratello. A me non li hanno dati. Io ho ceduto loro il mio patrimonio, ma non me li hanno dati. Perché io sono una specie di pazzo. Torno adesso da una visita che ho fatto loro. Li ho visti, ma non me li daranno. Altrimenti li educherei in modo che non fossero come i loro genitori. Invece bisogna che siano precisi a loro. Ebbene, che fare? Si capisce che non me li daranno e non me li affideranno. Ma non so se sarei capace di educarli. Credo di no. Sono un rudere, un infermo. Una sola cosa c'è in me. Lo so.
Sì, è la fede che ho di sapere quello che tutti non riusciranno a sapere tanto presto.
Sì, i miei figli sono vivi e crescono da selvaggi, come tutti gli altri intorno a loro. Li ho visti, li ho visti tre volte. Non posso far nulla per loro. Nulla. Adesso vado a casa mia, nel mezzogiorno. Là ho una casetta e un piccolo giardino.
Sì, non tanto presto gli uomini verranno a sapere quello che so io. Se ci sia molto ferro e che metalli ci siano nel sole e nelle stelle, si può sapere con facilità; ma quello che viene a scoprire la nostra porcaggine è difficile, tremendamente difficile!
Voi almeno ascoltate; anche di questo vi sono grato.
- Ecco, voi avete rammentato i figli. Di nuovo, che grosse bugie si dicono sui figli! I figli sono una benedizione di Dio, i figli sono una gioia. Ma è tutta menzogna. Tutto questo è esistito un tempo, ma ora non c'è niente di simile. I figli sono un tormento e nient'altro. La maggior parte delle madri sentono proprio così, e a volte lo dicono proprio così, involontariamente. Interrogate la maggior parte delle madri del nostro ambiente di persone agiate:
vi diranno che, per la paura che i loro figli possano ammalarsi e morire, esse non vogliono avere figli, non vogliono allattare se già hanno partorito, per non affezionarsi e non soffrire. Il godimento che procura loro un bambino col fascino suo, di quelle manine, dei piedini, di tutto il corpicino, il piacere arrecato da un bambino è minore della sofferenza che esse provano, a non voler parlare d'una malattia o della perdita del bambino, per la sola paura d'una possibilità di malattia e di morte. Dopo aver pesato i vantaggi e gli svantaggi, il risultato è che non conviene, e perciò non è desiderabile, avere figli. Esse lo dicono con franchezza e coraggio, immaginando che in loro questi sentimenti provengano dall'amore per i bambini; sentimento buono e lodevole, di cui sono orgogliose. Non si accorgono che con questo ragionamento negano addirittura l'amore, e affermano soltanto il proprio egoismo. Per loro è minore il piacere dato dal fascino d'un bambino che non le sofferenze suscitate dalla paura che avrebbero per lui, e perciò non vogliono quel bambino che avrebbero amato. Esse non sacrificano se stesse per un essere amato, ma il futuro essere amato a se stesse. E' chiaro che questo non è amore, ma egoismo. Eppure, il braccio non si leva a giudicarle per questo egoismo, le madri di famiglie agiate, quando ci si ricorda di tutto quello che debbono passare per le indisposizioni dei figli, di nuovo grazie agli stessi medici, nella nostra vita signorile. Basta che io mi ricordi, perfino adesso, la vita e lo stato d'animo di mia moglie nei primi tempi, quando avevamo tre o quattro figli e lei era tutta assorbita da loro, che mi prende lo spavento! Una nostra vita non esisteva affatto. Era una specie di eterno pericolo, il mettersi in salvo da esso, il pericolo che incombeva di nuovo, di nuovo gli sforzi disperati e di nuovo la salvezza, cioè continuamente la situazione che c'è su una nave che sta naufragando. A volte mi sembra che questo fosse fatto apposta, che lei si fingesse inquieta per i figli allo scopo di vincermi. Tanto era attraente e semplice il modo con cui questo risolveva tutte le questioni in suo favore. Mi sembrava, a volte, che tutto ciò che faceva e diceva in quei casi fosse fatto e detto apposta. E invece no, lei si tormentava sempre tremendamente ed era piena d'incertezza per i figli, per la loro salute e le loro malattie. Era una tortura per lei e anche per me.
E lei non poteva non tormentarsi. Infatti, l'inclinazione per i figli, l'esigenza animale di allattarli, cullarli, difenderli, c'era, come c'è nella maggioranza delle donne. Ma non c'era quello che c'è negli animali, l'assenza d'immaginazione e di raziocinio.
La gallina non ha paura di quel che può capitare al suo pulcino, non conosce tutte le malattie che possono colpirlo; non conosce tutti i rimedi con i quali gli uomini s'immaginano di poter salvare dalle malattie e dalla morte. E i figli per essa, per la gallina, non sono un tormento. Essa fa per i suoi pulcini quello che le viene naturalmente e gioiosamente fatto; i figli sono una gioia per essa. Quando un pulcino comincia ad ammalarsi, le preoccupazioni che essa nutre non sono molto definite: lo scalda, gli dà da mangiare. E, facendo questo, sa di fare tutto quel che deve fare. Se il pulcino muore, essa non si chiede come mai è morto, dove se n'è andato, sta lì a chiocciare per un po', poi smette, e seguita a vivere come prima. Ma per le nostre povere donne e per mia moglie era diverso. A non voler parlare delle malattie, del modo di curarle, sul modo di educare, di far crescere i bambini sentiva e leggeva da ogni parte delle regole infinitamente varie e sempre mutevoli. Sul dar loro da mangiare così, questo; no, non così, non questo, ma in quest'altro modo, sul vestirli, sulle cose da dar loro da bere, sul fare il bagno, sul metterli a letto, sul portarli a spasso, sull'aria, su tutto questo noi, e principalmente lei, imparavamo ogni settimana delle regole nuove. Come se avessero cominciato a partorire bambini dal giorno prima. E se non gli aveva dato da mangiare così, non gli aveva fatto il bagno così, al momento giusto, e il bambino si ammalava, la conclusione era che i colpevoli eravamo noi, non avendo fatto ciò che bisognava fare.
Questo finché c'era la salute. E lo stesso era un tormento. Ma se poi uno si ammalava, era finita. Era un vero inferno. Si presuppone che le malattie si possano curare e che ci siano una scienza apposita e delle persone apposite - i medici - e che loro sappiano fare. Non tutti, ma che i migliori sappiano fare. Ed ecco che un bambino è malato, e bisogna mettere la mano su quello là, che è il meglio di tutti, quello che può salvarlo, e allora il bambino è salvo; ma se non ti assicuri questo medico o abiti in un altro luogo, il bambino è perduto. E questo non lo crede esclusivamente lei, ma lo credono tutte le donne del suo ambiente, e da tutte le parti lei non sente dire altro. A Ekaterina Semjònovna ne sono morti due, perché non si è chiamato in tempo Ivan Zacharyc' e a Marja Ivanovna Ivan Zacharyc' ha salvato la maggiore delle bambine; e invece dai Petrov per consiglio del medico se ne sono andati in tempo in albergo e sono rimasti in vita, mentre a quelli che non se ne sono andati, i figli sono morti. E quell'altra aveva un bambino debole, sono andati a stare nel mezzogiorno per consiglio del medico e hanno salvato il bambino. E allora come non tormentarsi e non agitarsi per tutta la vita? Quando la vita dei figli, ai quali lei è animalescamente affezionata, dipende dal fatto che sappia in tempo che cosa ne dirà Ivan Zacharyc', e quello che dirà Ivan Zacharyc' non lo sa nessuno. Meno che mai lui stesso, perché lui sa molto bene di non sapere nulla e di non poter giovare a nulla, e si limita a menare il can per l'aia come gli càpita, purché non si cessi di credere che sa qualcosa. Certo, se lei fosse stata in tutto una bestia, non si sarebbe tormentata così. E se fosse stata in tutto un essere umano, avrebbe avuto la fede in Dio, e avrebbe detto e pensato, come dicono i credenti: "Dio l'ha dato, Dio l'ha ripreso, a Dio non si sfugge".
Perciò tutta la vita con i figli era per mia moglie, e di conseguenza pure per me, non una gioia, ma un tormento. E come non tormentarsi? E lei si tormentava sempre. Capitava che c'eravamo appena calmati dopo qualche scena di gelosia o un semplice litigio, e volevamo vivere, leggere e pensare un poco; c'eravamo appena messi a fare qualcosa, che a un tratto arrivava la notizia che Vasja vomitava o Masha perdeva sangue andando di corpo o Andrjusha aveva un'eruzione; e si capisce che era finita, e la vita non esisteva più. Dove bisognava correre, quali medici andare a chiamare, dove isolare il malato? E cominciavano i clisteri, le temperature, le pozioni e i medici. Non faceva in tempo a finire questo che cominciava qualcosa d'altro. Una vita familiare regolare e stabile non esisteva. C'era invece, come vi ho detto, un continuo salvarsi da immaginari ed effettivi pericoli. Così è adesso nella maggioranza delle famiglie. E nella mia famiglia ciò avveniva in un modo particolarmente spiccato. Mia moglie era tenera dei figli e credula.
Sicché la presenza dei figli non solo non rendeva migliore la nostra vita, ma l'avvelenava. Inoltre i figli erano per noi un nuovo pretesto di discordia. Da quando avevamo figli e quanto più essi crescevano, tanto più spesso erano proprio i figli che costituivano un mezzo e un oggetto di discordia. Non solo un oggetto di discordia, ma i figli erano anche uno strumento di lotta; era come se combattessimo tra noi attraverso i figli.
Ognuno di noi aveva il suo figlio preferito, che era uno strumento di battaglia. Io combattevo più che altro attraverso Vasja, il maggiore, e lei attraverso Liza. Inoltre, quando i figli cominciarono a crescere e i loro caratteri si definirono, accadde che diventarono degli alleati, che facemmo intervenire ognuno dalla sua parte. Loro, poverini, ne soffrivano terribilmente, ma noi, nella nostra continua guerra, avevamo altro da pensare che a loro. La bambina era mia partigiana, mentre il maggiore dei ragazzi, che somigliava a lei ed era il suo preferito, mi riusciva spesso odioso.
- E così, questa era la nostra vita. I nostri rapporti diventavano sempre più ostili. E finalmente si arrivò al punto che non era più il disaccordo a produrre l'ostilità, ma l'ostilità che produceva il disaccordo: qualunque cosa lei dicesse, io non ero d'accordo fin da prima, e proprio lo stesso capitava a lei.
Dopo tre anni si era concluso spontaneamente da ambo le parti che non potevamo capirci, non potevamo andare d'accordo. Avevamo ormai smesso di tentare di spiegarci a fondo. Sulle cose più semplici, in particolar modo sui figli, rimanevamo inalterabilmente ognuno della propria opinione. Per quel che ricordo adesso, le opinioni che difendevo non mi erano affatto così care che io non potessi rinunciarci; ma lei era dell'opinione opposta, e cedere significava cederle. E questo io non potevo farlo. Lei neppure.
Probabilmente, riteneva d'essere sempre in tutto dalla parte della ragione rispetto a me, e certo quello che facevo io rispetto a lei era sempre sacrosanto ai miei occhi. Quando eravamo soli, eravamo quasi costretti al silenzio oppure a discorsi come quelli che, ne sono certo, possono fare gli animali tra loro: "Che ora è? è ora d'andare a dormire. Che cosa c'è a pranzo quest'oggi? Dove dobbiamo andare? Che cosa sta scritto sul giornale? Bisogna mandare a chiamare il medico. Masha ha mal di gola". Bastava uscire di un capello da questa cerchia di discorsi, ristrettasi fino all'inverosimile, perché scoppiasse l'irritazione. Venivano fuori scontri ed espressioni d'odio per il caffè, la tovaglia, la carrozzella, per una mossa di "vint", tutte cose che né per l'uno né per l'altra potevano avere nessuna importanza. In me, perlomeno, ribolliva spesso contro di lei un odio tremendo! A volte stavo a vedere come versava il tè, muoveva una gamba o avvicinava il cucchiaino alla bocca, faceva gorgogliare e assorbiva il liquido, e la odiavo proprio per quello come per il peggiore degli atti. Non avevo osservato allora che i periodi di rancore sorgevano in me con assoluta regolarità e uniformità, in corrispondenza ai periodi di ciò che noi chiamavamo amore. Un periodo d'amore, un periodo di rancore; un energico periodo d'amore, un lungo periodo di rancore; un più debole manifestarsi dell'amore, un breve periodo di rancore. Allora non capivamo che quell'amore e quel rancore erano il medesimo sentimento animale, ma considerato da due lati diversi. Vivere così sarebbe stato orrendo, se avessimo capito la nostra situazione; ma noi non la capivamo e non la vedevamo. In questo appunto sta la salvezza e la punizione dell'uomo, che quando vive irregolarmente può velarsi lo sguardo per non vedere la miseria della propria situazione. Così facevamo anche noi. Lei cercava di distrarsi con le sue occupazioni convulse e sempre frettolose: l'andamento della casa, l'arredamento, gli abiti suoi e dei figli, lo studio e la salute dei figli. Io, invece, avevo le cose mie: le ubriacature, l'ufficio, la caccia, le carte. Entrambi eravamo sempre occupati.
Sentivamo entrambi che, più eravamo occupati, più potevamo essere cattivi l'uno con l'altro. "Per te è facile fare le tue smorfie", pensavo di lei, "ma ecco che hai passato tutta la notte a tormentarmi con le tue scene, e io ho una seduta". "E tu te la passi bene", non solo pensava, ma diceva lei, "e io sono stata tutta la notte senza dormire per via del bambino". Queste nuove teorie dell'ipnotismo, delle malattie mentali, sono tutte una sciocchezza, non tanto semplice, ma nociva, disgustevole. Di mia moglie Charcot avrebbe detto senza dubbio che era isterica, e di me avrebbe detto che ero un anormale, e magari si sarebbe messo a curarmi. Invece qui non c'era niente da curare.
E così vivevamo dentro una continua nebbia, senza vedere la situazione in cui ci trovavamo. E se non fosse accaduto ciò che è accaduto, e io avessi continuato a vivere così fino alla morte, avrei certo creduto morendo, d'avere trascorso una vita buona, non particolarmente buona, ma neppure cattiva, come càpita a tutti; non avrei capito l'abisso d'infelicità e l'ignobile menzogna in cui mi ero dibattuto.
Invece noi eravamo due galeotti che si odiavano, legati dalla stessa catena, e si avvelenavano reciprocamente la vita, cercando di non vederlo. Allora non sapevo ancora che i novantanove centesimi dei coniugi vivono nel medesimo inferno in cui vivevo io, e che non può essere diversamente. Allora non lo sapevo ancora né degli altri, né di me stesso.
E' straordinario quali coincidenze càpitino nella vita regolare, e perfino in quella irregolare! Proprio quando i genitori, per causa l'uno dell'altro, sentono la vita diventare insopportabile, si rendono indispensabili anche le condizioni di vita cittadina per l'educazione dei figli. Ed ecco che appare la necessità di trasferirsi in città.
Egli tacque, ed emise un paio di volte quei suoi strani suoni, che adesso erano ormai in tutto simili a singhiozzi trattenuti. Ci avvicinavamo a una stazione.
- Che ora è? - egli chiese.
Guardai, erano le due.
- Non siete stanco? - egli chiese.
- No; ma voi siete stanco?
- Mi sento soffocare. Permettete, vado a fare due passi, a bere un po' d'acqua.
E barcollando attraversò il vagone. Io rimasi solo, riandando con la mente a tutto ciò che mi aveva detto, ed ero così assorto che non avevo fatto caso come fosse tornato da un'altra porta.
- Sì, non faccio che lasciarmi distrarre, - egli cominciò. - Ho pensato molto. Molte cose le vedo in un altro modo, e tutto questo ho voglia di dirlo. Sicché, cominciammo a vivere in città. In città un uomo può starci cent'anni, e non accorgersi che è morto e putrefatto da un pezzo. Non c'è tempo di venire a capo di se stessi, si è sempre occupati.
Gli affari, i rapporti sociali, la salute, le arti, la salute dei figli, la loro educazione. Ora bisogna ricevere questi e questi altri, andare da questi e da questi altri, ora bisogna vedere quella, ascoltare quello o quella. Perché in città in qualsiasi momento c'è una, o anche due o tre celebrità che non si possono in nessun modo lasciar perdere. Ora bisogna curare se stessi, questo o quello, ora ci sono i professori, i ripetitori, le istitutrici, e la vita è vuota vuotissima. Così dunque vivevamo, e sentivamo meno il dolore della convivenza. Inoltre nei primi tempi ci fu un'occupazione magnifica, l'installazione in una città nuova in un nuovo alloggio, e poi l'occupazione dei viaggi dalla città in campagna e dalla campagna in città.
Trascorremmo un inverno, e nell'inverno successivo avvenne ancora la circostanza seguente, che non poteva essere notata da nessuno e pareva insignificante, ma fu tale da produrre tutto quello che è accaduto.
Lei era indisposta, e i medici le ordinarono di non avere figli e le insegnarono un espediente. A me questo ripugnava. Mi ci opposi, ma lei con spensierata ostinazione insistette, e io mi sottomisi; l'ultima giustificazione della vita maialesca - i figli - era tolta e la vita diventò ancora più schifosa.
Al contadino che lavora i figli sono necessari, benché gli sia difficile tirarli su; ma gli sono necessari, e perciò i suoi rapporti coniugali hanno una giustificazione. Invece a noi, persone che abbiamo figli, non sono necessari altri figli, sono una preoccupazione in più, una spesa, dei futuri coeredi, sono un peso. E giustificazioni della vita maialesca per noi non ce n'è nessuna. O ci liberiamo artificialmente dai figli, oppure guardiamo ai figli come a una sventura, alla conseguenza di un'imprudenza. E questo è ancora più schifoso. Non c'è giustificazione. Ma noi siamo caduti così in basso moralmente che non vediamo neppure la necessità di una giustificazione. La maggior parte dell'ambiente colto di oggi si abbandona a questa depravazione senza il minimo rimorso di coscienza. Non c'è nulla che possa rimordere, perché di coscienza nel nostro mondo non ce n'è nessuna, tranne, se così si può chiamarla, la coscienza dell'opinione pubblica e della legge penale. E qui né l'una né l'altra sono violate; non c'è da vergognarsi di fronte alla società, lo fanno tutti: "Anche Marja Pavlovna e Ivan Zacharyc'.
Altrimenti, si dovrebbe forse allevare dei poveri diavoli o privarsi della possibilità di vivere tra la gente?". Vergognarsi della legge penale e temerla è egualmente inutile. Sono quelle scandalose sgualdrine e mogli di soldati che gettano i figli negli stagni e nei pozzi: quelle, si capisce, bisogna metterle in prigione, ma tra noi tutto è fatto a suo tempo e pulitamente.
Così trascorremmo ancora due anni. L'espediente di quei mascalzoni di medici cominciava evidentemente ad avere effetto; lei si era fatta più piena e più bella nel fisico, come l'ultima bellezza dell'estate. Lei lo sentiva, e si occupava di se stessa. Le era venuta una bellezza provocante, che rendeva inquiete le persone.
Era in tutta la sua forza di donna trentenne che non partorisce, ben grassa ed eccitata. Il suo aspetto suscitava inquietudine.
Quando passava tra gli uomini, attirava su di sé i loro sguardi.
Era come un cavallo ben grasso, rimasto fermo per un pezzo al suo attacco, al quale avessero tolto il freno della briglia. Freni non ne aveva nessuno, come i novantanove centesimi delle nostre donne.
E io lo sentivo, e avevo paura.
A un tratto egli si alzò e andò a sedersi proprio accanto al finestrino.
- Scusatemi, - egli proferì e, fissando gli occhi fuori del finestrino, rimase a sedere così per circa tre minuti, in silenzio. Poi sospirò profondamente e si sedette di nuovo di fronte a me. Il suo viso era diventato del tutto diverso, gli occhi facevano pena e un sorriso quasi strano gli increspava le labbra. - Sono un poco stanco, ma terminerò il mio racconto. C'è ancora molto tempo, non fa ancora giorno. Sissignore, - egli cominciò di nuovo, accendendo una sigaretta. - Era ingrassata dacché aveva smesso di partorire, e quella malattia che era l'eterno stare in pena per i figli aveva cominciato a passarle.
Non era che passasse, ma era come se fosse tornata in sé dopo l'ubriachezza e avesse visto che c'era tutto il creato con le sue gioie che lei aveva dimenticate, ma nel quale non sapeva vivere, il creato che lei non capiva affatto. "Come fare a non lasciarselo sfuggire? Il tempo passa, e non si può farlo tornare indietro". Mi figuro che pensasse o, piuttosto, sentisse a questo modo; e del resto non poteva pensare e sentire diversamente: l'avevano educata nell'idea che al mondo c'era una sola cosa degna di attenzione, l'amore. S'era maritata, aveva avuto qualcosa di quest'amore, ma non solo assai meno di quanto era promesso, di quanto era atteso, ma anche molte delusioni e sofferenze, e per di più l'inatteso tormento di tutti quei figli. Questo tormento l'aveva spossata. Ed ecco che, grazie alla premura dei medici, era venuta a sapere che si poteva fare a meno dei figli. S'era rallegrata, l'aveva sperimentato ed era rinata per la sola cosa che sapeva, per l'amore. Ma l'amore con un marito reso brutto dalla gelosia e da cattiverie d'ogni genere era ormai tutt'altra cosa. Cominciò ad apparirle nell'immaginazione un altro amore, bello pulito, bello nuovo, o almeno così pensavo io di lei. Ed ecco che cominciò a guardarsi intorno, come aspettando qualcosa. Io lo vidi, e non potevo non esserne preoccupato. Cominciò a capitare spesso che, discorrendo come sempre con me attraverso gli altri, cioè parlando con estranei ma rivolgendo il discorso a me, affermasse arditamente, senza pensare affatto che un'ora prima aveva detto l'opposto e l'aveva affermato quasi seriamente, che le cure materne erano un inganno, che non valeva la pena di sacrificare la propria vita per i figli, che esisteva la giovinezza e ci si poteva godere la vita. Dei figli si occupava meno, non più così disperatamente come prima, ma si occupava sempre più di se stessa, del proprio aspetto, benché lo nascondesse, e dei propri piaceri e perfino del proprio perfezionamento. S'era rimessa con passione al pianoforte, che prima era stato interamente trascurato. Da questo appunto prese inizio tutto.
Egli si volse di nuovo verso il finestrino con i suoi occhi dallo sguardo stanco, ma subito, facendo visibilmente uno sforzo su se stesso, continuò di nuovo:
- Sì, comparve quell'uomo -. Si confuse e un paio di volte emise col naso dei suoni particolari.
Vedevo che per lui era un tormento nominare quell'uomo, ricordarlo, parlarne. Ma egli fece uno sforzo e, come lacerando l'ostacolo che gli dava noia, continuò risolutamente:
- Era una mala persona ai miei occhi, secondo il mio giudizio. E non per l'importanza che acquistò nella mia vita, ma perché era effettivamente tale. Del resto, il fatto che lui valesse poco non serve che a dimostrare come era irresponsabile lei. Se non era lui, sarebbe stato un altro; era una cosa che doveva accadere -.
Egli tacque di nuovo per un po'. - Sissignore, era un musicista, un violinista; non un musicista professionista, ma mezzo professionista, mezzo uomo di società. Suo padre è un proprietario terriero, vicino di mio padre. Suo padre s'era rovinato, e i figli, erano tre ragazzi, si sistemarono tutti, soltanto questo, che era il minore, fu affidato alla sua madrina a Parigi. Là lo fecero entrare al conservatorio, perché aveva attitudine per la musica, e ne uscì violinista, e suonava nei concerti. Era un uomo... - Desiderando evidentemente dire qualcosa di male di lui, se ne trattenne, e disse in fretta: Insomma, non so come vivesse, so soltanto che quell'anno era comparso in Russia ed era comparso da me: gli occhi umidi a mandorla, le labbra rosse sorridenti, i baffetti impomatati, la pettinatura più recente, alla moda, il viso d'una bellezza volgare, quello che le donne chiamano "mica male", di complessione debole, anche se non mostruosa, con il sedere particolarmente sviluppato, come ce l'hanno le donne, come ce l'hanno, si dice, gli ottentotti. Anche loro, si dice, sono musicisti. Portato a forzare, per quanto è possibile, la confidenza, ma attento e sempre pronto a fermarsi alla minima resistenza, conservando la dignità esteriore e con quella particolare sfumatura parigina delle scarpe abbottonate e delle cravatte a colori vivaci e delle altre cose che si appropriano gli stranieri a Parigi e che per la loro particolare novità fanno sempre effetto sulle donne. Nei modi un'artificiosa allegria esteriore. La consuetudine, sapete, di parlare di tutto attraverso allusioni e frammenti, come se tutto questo lo sapeste, lo ricordaste e poteste integrarlo da voi. Lui, appunto, con la sua musica, fu la causa di tutto. Perché al processo la cosa fu presentata come se tutto fosse accaduto per gelosia. Niente affatto, cioè non niente affatto ma è così e non è così. Al processo giunsero proprio alla conclusione che ero un marito ingannato e che avevo ucciso per difendere il mio onore oltraggiato (perché così si chiama nel loro linguaggio). E per questo mi hanno assolto. Io al processo cercai di chiarire il significato della cosa, ma loro l'interpretavano nel senso che volessi riabilitare l'onore di mia moglie.
I suoi rapporti con quel musicista, di qualunque natura siano stati, non sono una cosa che importi per me, e neppure per lei.
Importa invece quello che vi ho raccontato, cioè la mia porcaggine. Tutto è avvenuto perché tra noi c'era quell'abisso tremendo di cui vi ho parlato, quella tremenda tensione del reciproco odio dell'uno per l'altro, in cui bastava il primo pretesto che si presentasse per suscitare la crisi. Negli ultimi tempi i litigi tra noi diventavano qualcosa di pauroso ed erano particolarmente stupefacenti, alternati a una passionalità animale anch'essa convulsa.
Se non fosse comparso lui, sarebbe comparso un altro. Se non ci fosse stato il pretesto della gelosia, ce ne sarebbe stato un altro. Insisto che tutti i mariti che vivono come vivevo io devono o darsi alla dissolutezza o separarsi dalla moglie, o uccidere se stessi o la propria moglie, come ho fatto io. Se a qualcuno questo non è capitato, si tratta di un'eccezione particolarmente rara.
Perché io, prima di finire come ho finito, sono stato parecchie volte sulla soglia del suicidio, e anche lei tentò di avvelenarsi.
- Sì, così è stato, e non molto tempo prima di quello.
Vivevamo come in armistizio, e non c'era nessuna ragione di violarlo. A un tratto si comincia a parlare d'un cane che all'esposizione ha ricevuto una medaglia, dico io. Lei dice che non è una medaglia, ma una menzione onorevole. Comincia una discussione. Comincia il saltare da un oggetto all'altro, i rimproveri: "Eh, ma si sa da un pezzo, è sempre così. Tu hai detto...". "No, non l'ho detto". "Allora vuol dire che mentisco!...".
Si sente che da un momento all'altro può cominciare quel tremendo litigio, in cui si ha voglia di uccidere se stessi o lei. Sai che sta per cominciare, e ne hai paura come del fuoco, e perciò vorresti trattenerti, ma l'ira invade tutto il tuo essere. Lei è in una situazione simile, anzi peggiore, dà un'altra interpretazione a ogni tua parola, attribuendole un significato falso; e ogni sua parola è imbevuta di veleno; dovunque sa che posso soffrire di più, là appunto mi colpisce. Più si va avanti, peggio è. Io grido: "Taci", o qualcosa del genere. Lei esce precipitosamente dalla stanza, e corre nella camera dei bambini.
Io cerco di trattenerla, per finire il discorso e dimostrarle tutto, la prendo per un braccio. Lei finge che le abbia fatto male, e grida: "Bambini, vostro padre mi picchia!". Io grido: "Non mentire!". " Perché non è più la prima volta!" grida lei, o qualcosa di simile. I bambini si precipitano verso di lei. Lei li calma. Io dico: "Non fingere!". Lei dice: "Per te tutto è finzione, tu sei capace di uccidere una persona e dire che finge.
Adesso ti ho capito. E' questo appunto che vuoi!". "Oh, che tu possa crepare!" grido io. Ricordo come mi fecero inorridire queste parole. Non mi aspettavo affatto che avrei potuto dire delle parole così tremende e volgari, e mi stupisco che mi siano uscite fuori. Grido queste orribili parole e scappo nel mio studio, mi siedo e fumo. Sento che lei esce in anticamera e si prepara ad andarsene Io chiedo dove va. Lei non risponde. Ebbene, che il diavolo se la porti, mi dico io, tornando nello studio, e di nuovo mi corico e fumo. Mille diversi progetti sul modo di vendicarmi di lei e liberarmene e sul modo di accomodare tutto e fare come se non fosse successo niente, mi vengono in testa. Penso tutto questo, e fumo, fumo, fumo. Penso di fuggire lontano da lei, di nascondermi, di partire per l'America. Arrivo al punto di sognare come mi libererò di lei e come sarà bello, come mi unirò a un'altra ottima donna, del tutto nuova. Me ne libererò perché morirà o perché divorzierò e escogito il mezzo di farlo. Vedo che mi confondo, che non penso quello che dovrei, e per non vedere che non penso quello che dovrei, per questo appunto fumo.
E la vita in casa continua. Viene l'istitutrice, chiede dov'è "Madame" e quando tornerà. Il domestico chiede se deve servire il tè. Arrivo in sala da pranzo; i bambini, e in particolar modo Liza, la maggiore, che già capisce, mi guardano con aria interrogativa e malevola. Beviamo il tè in silenzio. Lei continua a non esserci. Passa tutta la sera e lei non c'è, e due sentimenti si alternano nell'animo: il rancore contro di lei perché tormenta me e tutti i bambini con la sua assenza, che deve pur finire in un suo ritorno, e la paura che non torni e attenti a se stessa.
Andrei a prenderla. Ma dove cercarla? Da sua sorella? Ma è sciocco arrivare là a domandare. E del resto, che Dio la protegga; se vuole tormentare, che si tormenti lei. Perché lei non aspetta altro. E la prossima volta sarà ancora peggio. Ma se non fosse da sua sorella, e stesse attentando o avesse già attentato a se stessa?... Passano le dieci, passano le undici! Non vado in camera da letto, è sciocco star lì coricato ad aspettare, sicché non mi corico. Voglio mettermi a fare qualcosa, scrivere una lettera, leggere, ma non posso far nulla. Sto lì solo nello studio, mi tormento, mi irrito e rimango in ascolto. Sono le tre, le quattro:
lei continua a non esserci. Verso la mattina mi addormento. Mi sveglio: non c'è.
Tutto, in casa, va come prima, ma tutti sono perplessi e tutti mi guardano con aria d'interrogazione e di rimprovero, presupponendo che ogni cosa derivi da me.
In me c'è sempre la stessa lotta fra il rancore perché mi tormenta e l'inquietudine per lei.
Verso le undici del mattino arriva la sorella come sua ambasciatrice. E comincia la solita storia: "Lei è in una situazione tremenda. Su, che cosa è mai questo? Non è mica successo niente". Io parlo del suo carattere impossibile e dico che non ho fatto nulla.
"Ma le cose non possono mica restare così", dice sua sorella.
"Tutto questo è affar suo, e non mio", dico io. "Io il primo passo non lo farò. Se c'è da separarci, separiamoci".
Mia cognata se ne va senza avere ottenuto nulla. Ho detto arditamente che non avrei fatto il primo passo, ma, quando lei se n'è andata e io sono venuto fuori e ho visto i bambini che facevano pietà, spaventati com'erano, ero già pronto a fare il primo passo. E sarei lieto di farlo, ma non so come. Di nuovo cammino, fumo, bevo dell'acquavite e del vino a colazione, e ottengo quello che inconsciamente desidero: non vedo la stupidità, la volgarità della mia situazione.
Verso le tre arriva lei. Incontrandomi, non dice niente. Io immagino che si sia rassegnata, e comincio a dire che sono stato eccitato dai suoi rimproveri. Lei, sempre con lo stesso viso severo e tremendamente spossato, dice che non possiamo vivere insieme. Io comincio a dire che il colpevole non sono io, che è stata lei a farmi perdere il lume degli occhi. Lei mi guarda severa, solenne, e poi dice: "Non dire di più, te ne pentirai". Io dico che non posso soffrire le commedie. Allora lei grida qualcosa che non riesco a capire, e se ne fugge in camera sua. E la segue il rumore della chiave: s'è chiusa dentro. Io busso, non viene risposta, e mi allontano irritato. Mezz'ora dopo Liza accorre in lacrime. "Che c'è? è successo qualcosa?" "La mamma non si sente".
"Andiamo". Io scrollo la porta con tutte le mie forze. Il paletto è mal tirato, ed entrambi i battenti si spalancano. Mi avvicino al letto. Lei, con le sue sottane e le scarpe alte, è buttata sul letto. Sulla tavola c'è una fiala di oppio vuota. La facciamo tornare in sé. Lacrime e, infine, riconciliazione. Non riconciliazione. Nell'animo di ciascuno c'è il medesimo vecchio rancore reciproco, con l'aggiunta, in più, dell'irritazione per il dolore arrecato da quel litigio e da ciascuno messo in conto dell'altro. Ma bisogna pur mettere fine a tutto questo, e la vita prosegue come prima. Così, litigi come quello e peggiori avvenivano di continuo, ora una volta alla settimana, ora una volta al mese, ora ogni giorno. Ed era sempre la stessa cosa. Una volta m'ero già fatto dare il passaporto per l'estero: il litigio era durato due giorni. Ma poi ci fu di nuovo una mezza spiegazione, una mezza riconciliazione, e rimasi.
- Ecco, dunque, in quali rapporti eravamo quando comparve quell'uomo. L'uomo - il suo nome è Truchacevskij - arrivò a Mosca e comparve a casa mia. Era mattina. Lo ricevetti. Una volta ci davamo del tu. Con delle frasi che stavano a mezzo fra il tu e il voi egli cercò di rimanere al tu, ma io intonai apertamente il discorso sul voi, e lui si sottomise subito.
Mi era dispiaciuto molto fin dalla prima occhiata. Ma, fatto strano, una strana forza fatale mi portava a non respingerlo, a non allontanarlo, ma, al contrario, a ravvicinarlo. Infatti, che cosa ci sarebbe stato di più semplice che discorrere freddamente con lui e congedarlo, senza avergli fatto conoscere mia moglie? E invece no: come a farlo apposta, mi misi a parlare della sua arte, e dissi come m'avessero riferito che aveva abbandonato il violino.
Lui disse che, al contrario, ora suonava più di prima. Ricordò che anch'io una volta suonavo. Io dissi che non suonavo più, ma che mia moglie suonava bene. Fatto straordinario! Il mio comportamento con lui, nel primo giorno, nella prima ora del nostro incontro furono tali, come avrebbero potuto essere solamente dopo tutto ciò che è accaduto. C'era qualcosa di convulso nei miei rapporti con lui: notavo ogni parola, ogni espressione detta da lui o da me, attribuendovi importanza.
Lo presentai a mia moglie. Il discorso cadde subito sulla musica, e lui si offrì di suonare con lei. Mia moglie, come sempre in quegli ultimi tempi, era molto elegante e attraente, bella in una maniera inquietante. Lui le era visibilmente piaciuto fin dal primo sguardo. Inoltre, lei s'era rallegrata perché avrebbe avuto il piacere di suonare col violino, cosa che amava molto, tanto da pagare per questo un violinista d'orchestra, e sul viso s'era espressa questa gioia. Ma, vedendomi, capì subito il mio sentimento e mutò la sua espressione, e cominciò questo gioco del reciproco inganno. Io sorridevo piacevolmente, facendo finta di essere molto contento. Lui, guardando mia moglie come tutte le persone immorali guardano le belle donne, faceva finta che lo interessasse soltanto l'argomento della conversazione, che era proprio quello che certo non lo interessava affatto. Lei cercava di sembrare indifferente, ma evidentemente la mia espressione, che le era ben nota, di geloso dal sorriso falso e lo sguardo lascivo dell'ospite la eccitavano. Vidi che fin dal primo incontro le si erano messi a brillare in particolar modo gli occhi, e che, probabilmente in conseguenza della mia gelosia, tra lui e lei s'era stabilita subito come una corrente elettrica, che provocava come un'identità d'espressione degli sguardi e dei sorrisi. Lei arrossiva, arrossiva lui. Lei sorrideva, sorrideva lui. Si parlò di musica, di Parigi, di ogni sorta di cose futili. Lui si alzò per andarsene, e, sorridendo, col cappello sulla coscia che sussultava, stava in piedi e guardava ora lei, ora me, come aspettando quello che avremmo fatto. Ricordo quel momento proprio perché in quel momento potevo non invitarlo, e allora non sarebbe capitato nulla. Ma io guardai lui, guardai lei. "Che non ti venga neppure in mente che io sia geloso di te", le dissi mentalmente, "o che abbia paura di te", dissi mentalmente a lui, e lo pregai di portare qualche sera il violino, per suonare con mia moglie. Lei mi guardò con stupore, si fece di fiamma e, come si fosse spaventata, cominciò a dire di no, sostenendo che non suonava abbastanza bene. Questo suo dire di no mi irritava ancora di più, e insistei ancora maggiormente. Ricordo lo strano sentimento con cui guardavo la nuca, il collo bianco di lui, che faceva contrasto con i capelli neri spartiti dalla scriminatura, mentre, col suo saltellante passo da uccello, usciva da casa nostra. Non potevo non confessarmi che la presenza di quell'uomo mi tormentava.
Dipende da me, pensavo, fare in modo di non vederlo mai; ma fare così voleva dir confessare che lo temevo. No, non lo temo! Sarebbe troppo umiliante, mi dicevo. E lì in anticamera, sapendo che mia moglie mi sentiva, insistei che venisse quella sera stessa col violino. Lui me lo promise e andò via.
Alla sera venne col violino, e suonarono. Ma per un pezzo non riuscirono a suonare: non c'era la musica di cui avevano bisogno, e quella che c'era, mia moglie non poteva suonarla senza prepararsi. A me la musica piaceva molto e dimostravo la mia simpatia per la loro esecuzione mettendogli a posto il leggio, voltando le pagine. E qualche cosa suonarono. Certe melodie senza parole e una sonata di Mozart. Lui suonava magnificamente: aveva al massimo grado quello che si chiama stile; inoltre, un gusto fine e nobile, che non andava affatto d'accordo col suo carattere.
Era molto più abile di mia moglie, s'intende, e l'aiutava e nello stesso tempo le lodava garbatamente il suo modo di suonare. Si comportava molto bene. Mia moglie sembrava interessarsi unicamente alla musica ed era molto semplice e naturale. Io invece, benché fingessi d'interessarmi alla musica, per tutta la sera, senza interruzione, fui tormentato dalla gelosia.
Fin dal primo momento in cui gli occhi di lui s'erano incontrati con quelli di mia moglie, avevo visto che la bestia che si annidava in entrambi aveva chiesto, di là da ogni convenzionalità di posizione e di mondo: "si può?" e aveva risposto "oh sì, benissimo". Avevo visto che lui non si aspettava affatto di trovare in mia moglie, una signora moscovita, una donna così attraente, e ne era stato molto lieto, giacché dubbi sul fatto che lei fosse d'accordo non ne aveva alcuno. Tutto il problema era che non desse noia l'insopportabile marito. Se io stesso fossi stato puro, non l'avrei capito, ma, come la maggior parte delle persone, anch'io avevo pensato a quel modo delle donne mentre non ero ammogliato, e perciò leggevo nell'animo di lui come in un libro.
Mi tormentavo particolarmente perché vedevo senza possibilità di dubbio che in lei per me non c'era altro sentimento all'infuori d'una permanente irritazione, solo di rado interrotta da una sensualità ormai abituale; mentre quell'uomo, sia per la sua esteriore eleganza e novità, come soprattutto per la sua indubbia grande attitudine alla musica, per il ravvicinamento che sorgeva dal suonare insieme, per l'influsso suscitato sulle nature emotive dalla musica, e particolarmente dal violino, quell'uomo doveva, non dico piacerle, ma indubbiamente e senza la minima esitazione doveva conquistarla, schiacciarla, strizzarla, attorcerla come una corda, farne tutto quello che voleva. Questo non potevo non vederlo, e soffrivo orribilmente. Ma, malgrado questo o forse in seguito a ciò, c'era una forza che, contro la mia volontà, mi costringeva a essere in particolar modo non solo compìto, ma affabile con lui. Non so se lo facessi per mia moglie o per lui, per dimostrare che non lo temevo, oppure per me, per ingannare me stesso, ma fin dai miei primi rapporti con lui non riuscivo a essere semplice. Per non lasciarmi andare al desiderio di ucciderlo subito, dovevo mostrarmi affabile con lui. Durante la cena gli feci bere dei vini prelibati, mi entusiasmai del suo modo di suonare, gli parlai con un sorriso particolarmente affabile e lo invitai per la domenica successiva a pranzo e a suonare di nuovo con mia moglie. Dissi che avrei invitato alcuni conoscenti amatori di musica ad ascoltarlo. Si finì a questo modo.
E Pozdnyshev, fortemente agitato, cambiò posizione ed emise quel suo suono particolare.
- E' strano come agiva su di me la presenza di quell'uomo, egli ricominciò a dire, facendo evidentemente uno sforzo per essere calmo. - Ritorno a casa da un'esposizione, un giorno o due dopo, entro in anticamera, e a un tratto sento che qualcosa di pesante come un masso mi piomba sul cuore, e non riesco a rendermi conto che cosa sia. Questo qualcosa era che, attraversando l'anticamera, avevo notato qualcosa che ricordava lui. Solamente nel mio studio mi resi conto di quel che era, e tornai in anticamera per dare una conferma a me stesso. Sì, non m'ero sbagliato, era il suo cappotto. Sapete, un cappotto alla moda. (Tutto ciò che lo riguardava, lo osservavo, benché non me ne rendessi conto, con una straordinaria attenzione). Domando: è proprio così, c'è lui. Vado in sala, non attraverso il salotto, ma attraverso la camera di studio dei bambini. Liza, mia figlia, è intenta a un libro, e la balia asciutta è al tavolo con la piccola che fa girare un coperchio. La porta che dà in sala è chiusa. Di là sento un arpeggio uniforme e la voce di lui e di lei, mi metto in ascolto, ma non riesco a distinguere nulla: evidentemente i suoni del pianoforte sono emessi apposta per soffocare le loro parole, i loro baci... forse. Dio mio! che cosa si sollevò dentro di me in quel momento! Mi basta ricordare la belva che allora viveva in me, per esser preso dallo spavento. Il cuore a un tratto mi si strinse, si fermò e poi cominciò a martellarmi dentro. Il sentimento principale, come sempre in ogni irritazione, era la compassione di me stesso. Davanti ai bambini, davanti alla balia!
pensavo io. Dovevo essere terribile, perché anche Liza mi guardava con degli occhi tremendi. "Che cosa devo fare?" mi chiesi.
"Entrare? non posso. Dio sa che cosa farei. Ma non posso neppure andarmene. La balia mi guarda come se capisse la mia situazione".
"Ma non entrare è impossibile", mi dissi, e aprii rapidamente la porta. Lui era seduto al pianoforte e faceva quegli arpeggi con le sue lunghe dita bianche arcuate in su. Lei stava ritta in un angolo del pianoforte, curva su della musica aperta. Fu lei la prima che mi vide o mi sentì e mi gettò uno sguardo. Sia che si fosse spaventata e avesse finto di non essersi spaventata o che davvero non si fosse spaventata, non ebbe un fremito, non un movimento, e soltanto arrossì, e anche questo dopo.
"Come sono contenta che tu sia venuto; noi non abbiamo ancora stabilito che cosa suonare domenica", disse lei, con un tono col quale non mi avrebbe parlato se fossimo stati soli. Questo e il fatto che avesse detto "noi" di sé e di lui mi indignò. Lo salutai silenziosamente. Lui mi strinse la mano e subito, con un sorriso che mi sembrò addirittura di scherno, comincio a spiegare che aveva portato la musica che serviva a prepararsi per domenica e che adesso tra loro c'era disaccordo su quello che dovevano suonare, se qualcosa di più difficile e classico, cioè una sonata di Beethoven col violino, o dei piccoli pezzi. Tutto era così semplice e naturale che non si poteva trovare da ridire su nulla, eppure io ero sicuro che tutto questo non era vero, che stavano mettendosi d'accordo sul modo d'ingannarmi.
Una delle condizioni più tormentose per i gelosi (e gelosi sono tutti nella nostra vita sociale) sono certe determinate situazioni mondane in cui è ammesso il maggiore e più pericoloso contatto tra uomo e donna. C'è da rendersi il ludibrio della gente, a impedire il contatto ai balli, il contatto dei medici con la loro ammalata, il contatto nell'occuparsi dell'arte, di pittura e soprattutto di musica. Due persone si occupano insieme dell'arte più nobile, la musica; per questo è necessario un certo contatto, e questo contatto non ha nulla di biasimevole, e soltanto uno sciocco marito geloso può vederci qualcosa di poco desiderabile. Eppure tutti sanno che proprio attraverso queste attività, e in particolare attraverso quella musicale, avviene la maggior parte degli adulteri nel nostro ambiente.
Io li avevo evidentemente turbati col turbamento che si era manifestato in me: per un pezzo non riuscii a dire nulla. Ero come una bottiglia rovesciata, da cui l'acqua non esce perché è troppo piena. Volevo ingiuriarlo, scacciarlo, ma sentivo che dovevo di nuovo essere gentile e affabile con lui. Feci appunto così: feci finta di approvare tutto, e di nuovo per quello strano sentimento che mi aveva costretto a trattarlo con affabilità tanto maggiore, quanto più tormentosa mi era la sua presenza. Gli dissi che mi rimettevo al suo buon gusto e che questo consigliavo anche a lei.
Lui rimase ancora il tempo necessario per cancellare l'impressione spiacevole di quando ero entrato a un tratto nella stanza col viso spaventato ed ero rimasto zitto, e se ne andò, fingendo che ora avessero stabilito che cosa suonare l'indomani. Io, invece, ero pienamente convinto che, a paragone di ciò che li occupava, la questione di quello che dovevano suonare fosse loro del tutto indifferente. Lo accompagnai con particolare compitezza fino all'anticamera (come non accompagnare un uomo che è venuto col proposito di turbare la calma e rovinare la felicità di un'intera famiglia?). Con particolare affabilità strinsi la sua mano bianca e morbida.
- E per tutto quel giorno non le parlai, non potevo. La sua vicinanza suscitava in me un tale odio per lei che avevo paura di me stesso. A pranzo, mi chiese di fronte ai bambini quando sarei partito. La settimana dopo, dovevo recarmi all'assemblea, nel mio circondario. Dissi quando partivo. Lei domandò se avevo bisogno di qualcosa per il viaggio. Io non dissi nulla e, sempre in silenzio, me ne andai nel mio studio. Negli ultimi tempi lei non veniva mai nella mia stanza, particolarmente in quell'ora. Sono coricato nello studio e mi sto arrabbiando. A un tratto, ecco il noto passo. E mi viene in capo la strana, mostruosa idea che lei, come la moglie di Uria, voglia nascondere il peccato che ha già commesso e che con questo scopo venga da me in un'ora così insolita. Possibile che venga da me? pensavo, sentendo i suoi passi che si avvicinavano. Se viene da me, vuol dire che ho ragione... E nell'animo mio si solleva un odio inesprimibile per lei. I passi si avvicinano, si avvicinano: possibile che non vada oltre, in sala? No, la porta ha scricchiolato, e sulla porta sta la sua alta bella persona, e nel viso e negli occhi ha una timidezza e una cortigianeria che vuol nascondere, ma che io vedo e di cui so il significato. Sono quasi soffocato, tanto tempo ho trattenuto il respiro, e, continuando a guardarla ho preso il portasigarette e ho cominciato a fumare.
"Via, che cos'è questo? Si viene per stare un po' con te, e tu ti metti a fumare", fece lei, e si sedette vicino a me sul divano, appoggiandosi a me.
Io mi feci da parte, per non toccarla.
"Vedo che sei scontento che io voglia suonare domenica", disse lei.
"Non sono affatto scontento", dissi io.
"Non lo vedo forse?".
"Ebbene, me ne congratulo con te, se lo vedi. Io, invece, non vedo nulla, se non che ti conduci come una civetta... Solo che a te ogni obiezione fa piacere, mentre a me fa orrore!".
"Sì, se vuoi dire insolenze come un vetturino, me ne vado".
"Vattene, ma sappi che, se non hai caro l'onore della famiglia, non sei tu che mi sei cara (che il diavolo ti porti), ma l'onore della famiglia".
"Ma come, come?".
"Fila, per amor di Dio, fila!".
Sia che fingesse di non capire di che cosa parlavo, o che effettivamente non lo capisse, il fatto è che si offese e si arrabbiò e non se ne andò, ma si fermò in mezzo alla stanza.
"Sei proprio diventato impossibile", cominciò, "è un carattere, il tuo, che non ci durerebbe un angelo"; e, come sempre, cercando di ferirmi nel modo più doloroso possibile, mi ricordò come avevo agito con mia sorella (era un caso avvenuto con mia sorella, quando io avevo perso la pazienza e avevo detto delle villanie a mia sorella). Lei sapeva che questo mi faceva soffrire, e mi aveva colpito in quel punto.
"Dopo questo, nulla potrà più meravigliarmi", disse lei.
"Sì, offendermi, umiliarmi, disonorarmi e mettermi tra i colpevoli", mi dissi, e a un tratto mi prese un rancore così tremendo contro di lei, come non l'avevo ancora mai sperimentato.
Per la prima volta, ebbi voglia di esprimere fisicamente questo rancore. Balzai su e mossi verso di lei, ma, nel momento stesso che balzavo su, ricordo che mi resi conto del mio rancore e mi chiesi se fosse bene abbandonarsi a questo sentimento, e subito mi risposi che era bene, che questo l'avrebbe spaventata, e subito, invece di oppormi a questo rancore, cominciai ad alimentarlo ancora di più in me e a rallegrarmi che divampasse in me sempre maggiormente.
"Fila, o ti ammazzo!" gridai, avvicinandomi a lei, e la presi per un braccio. Dicendo questo, rafforzavo coscientemente l'intonazione di rabbia della mia voce. E dovevo essere terribile, perché lei rimase così intimidita che non ebbe neppure la forza di andarsene, e non faceva che dire:
"Vasja, che fai! che ti è successo?".
"Vattene", ruggii ancora più forte, "non ci sei che tu che puoi mettermi in furore. Non rispondo di me".
Avendo messo in movimento il mio furore, me ne inebriavo, e avevo voglia di fare ancora qualcosa di straordinario, che mostrasse l'alto grado di questo mio furore. Avevo una voglia tremenda di picchiarla, di ucciderla, ma sapevo che questo non si poteva fare, e perciò, per dar campo al mio furore, presi dal tavolo un fermacarte, gridai ancora una volta: "Vattene!" e lo scagliai a terra vicino a lei. Avevo mirato molto esattamente vicino a lei.
Allora lei si mosse per uscire dalla stanza ma si fermò sulla porta. E subito, mentre lei mi vedeva ancora (lo feci perché mi vedesse), cominciai a prendere dal tavolo varie cose, il candeliere, il calamaio, e a gettarle a terra, continuando a gridare: "Vattene, fila, non rispondo di me!".
Lei se ne andò, e io smisi subito. Un'ora dopo venne da me la balia e disse che mia moglie aveva un attacco isterico. Ci andai:
singhiozzava, rideva, non riusciva a dire nulla e sussultava in tutto il corpo. Non fingeva, ma era malata davvero.
Alla mattina, quando, dopo la riconciliazione, le ebbi confessato che ero geloso di Truchacevskij, non si turbò affatto, e scoppiò a ridere nel modo più naturale: tanto strana addirittura le sembrava, a quel che diceva lei, la possibilità di sentire attrazione per un uomo simile.
"E' mai possibile che per un uomo simile una donna per bene senta qualcosa, a parte il piacere offerto dalla musica? Ma, se vuoi, sono pronta a non vederlo più. Perfino domenica, benché tutti siano già invitati, scrivigli che non sto bene, e sarà finita. Una cosa sola è spiacevole: che qualcuno, e soprattutto lui, possa pensare che è pericoloso. E io sono troppo orgogliosa per permettere che si pensi questo".
E non mentiva mica, credeva a quello che diceva, sperava con queste parole di suscitare del disprezzo verso di lui e di difendersene con esso, ma non ci riuscì. Tutto era rivolto contro di lei, e in particolar modo quella maledetta musica.
E così finì tutto, e la domenica si radunarono gli invitati, e loro suonarono di nuovo.
- Penso che sia inutile dire che ero molto vanitoso. A non essere vanitosi, nella nostra solita vita, non c'è di che vivere. Sicché la domenica mi occupai con gusto della preparazione del pranzo e della serata musicale. Comprai io stesso molte cose per il pranzo e dissi agli invitati di venire. Verso le sei si radunarono gli invitati, e comparve lui in marsina con dei gemelli di brillanti di cattivo gusto. Si comportava spigliatamente, rispondeva in fretta a tutto con un sorriso di consenso e di comprensione, sapete, con quella particolare espressione per cui tutto ciò che potete fare o dire appare proprio ciò che si aspettava lui. Tutto quello che c'era in lui di poco per bene, tutto ciò lo notavo adesso con particolare piacere, perché tutto ciò doveva tranquillizzarmi e mostrare che per mia moglie lui era su un gradino così basso che lei, a quel che diceva, non poteva abbassarcisi. Ora non mi permettevo più d'essere geloso. In primo luogo, mi ero già spossato abbastanza con questo tormento, e avevo bisogno di riposarmi; in secondo luogo, volevo credere alle assicurazioni di mia moglie e ci credevo. Ma, benché non fossi geloso, fui tuttavia poco naturale con lui e con lei, e per tutto il tempo del pranzo e nella prima metà della serata, finché non fu cominciata la musica, continuai a seguire i movimenti, gli sguardi di entrambi. Il pranzo fu come tutti i pranzi, noioso, pieno d'ipocrisia. La musica cominciò abbastanza presto.
Ah, come ricordo tutti i particolari di quella serata: ricordo come lui portò il violino, strofinò la custodia, tolse la fodera ricamatagli da una signora, trasse fuori lo strumento e cominciò ad accordarlo. Ricordo come mia moglie si sedette con un'aria fintamente indifferente, sotto la quale vedevo che nascondeva una grande timidezza, timidezza soprattutto di fronte alla propria capacità, si sedette al pianoforte, e cominciarono i soliti arpeggiamenti sul pianoforte, il pizzicato del violino, il collocamento della musica. Ricordo poi come si guardarono tra loro, e cominciò. Lui prese i primi accordi. Gli era venuto un viso serio, severo, simpatico, e con dita attente pizzicò le corde. Il pianoforte gli rispose. E cominciò.
Pozdnyshev si fermò e mise fuori, parecchie volte di seguito, quei suoi suoni; voleva cominciare a parlare, ma soffiò col naso e si fermò di nuovo.
- Suonavano la sonata a Kreutzer di Beethoven, - egli continuò. - Conoscete il primo "presto"? Lo conoscete? Uh! Uh! E' una cosa terribile quella sonata. E appunto quella parte. E la musica in genere è una cosa terribile! Che cosa fa? E come mai fa quello che fa? Dicono che la musica agisca in modo da elevare l'anima: sono sciocchezze, non è vero. Agisce, agisce terribilmente, parlo di me stesso, ma niente affatto in modo da elevare l'anima; non agisce in modo né da elevare, né da abbassare l'anima, ma in modo da eccitare l'anima. Come dirvi? La musica mi costringe a dimenticarmi di me, della mia vera situazione, mi trasporta in una situazione nuova, e che non è la mia sotto l'influsso della musica mi pare di sentire quello che in realtà non provo, di capire quello che non capisco, di potere quello che non posso. Io lo spiego dicendo che la musica ha la stessa azione dello sbadiglio, del riso: non ho sonno, ma sbadiglio, guardando della gente che sbadiglia; non c'è ragione di ridere, ma rido, sentendo della gente che ride. Essa, la musica, mi trasporta d'un colpo, immediatamente, nello stato d'animo in cui si trovava colui che ha scritto la musica. Mi fondo spiritualmente con lui e insieme a lui passo da uno stato d'animo all'altro. Ma perché lo faccio, non so.
Perché colui che ha scritto, per esempio, la sonata a Kreutzer, Beethoven, lo sapeva bene come mai si trovava in quello stato d'animo: quello stato d'animo l'aveva indotto a determinate azioni, e perciò quello stato d'animo per lui aveva un senso, per me invece non ne ha nessuno. Ed è perciò che la musica eccita soltanto, non conclude. Magari suonano una marcia marziale, i soldati passano al suono di questa marcia, e la musica ha raggiunto il suo scopo; hanno suonato un'aria di danza, io ho ballato, e la musica ha raggiunto il suo scopo; magari hanno cantato una messa, io mi sono comunicato, e anche stavolta la musica ha raggiunto il suo scopo; se no non c'è che l'irritazione, e quello che bisogna fare in questa irritazione non c'è. Ed è per questo che la musica a volte ha un'azione così terribile, così orrenda. In Cina la musica è un affare di Stato. E così deve essere. Si può forse ammettere che chiunque vuole ipnotizzi un'altra o molte persone e poi ne faccia quello che vuole? E, soprattutto, che questo ipnotizzatore sia la prima persona immorale che càpita?
Se no un mezzo terribile rimane nelle mani di chiunque càpiti.
Prendiamo come esempio magari questa sonata a Kreutzer, il primo "presto": si può forse suonarlo in un salotto, in mezzo alle signore scollate, questo "presto"? Suonarlo e poi applaudire e poi mangiare un gelato e parlare dell'ultimo pettegolezzo? Queste cose si possono suonare in determinate circostanze importanti, ragguardevoli e quando si devono compiere determinati atti importanti, conformi a questa musica. Suonare e fare ciò a cui ci ha predisposto questa musica. Se no l'evocazione fuori tempo e fuori luogo di un'energia sentimentale che non riesce a manifestarsi in nessun modo non può non avere un'azione deleteria.
Su di me, almeno, questo pezzo ebbe un'azione tremenda: fu come se mi si scoprissero dei sentimenti che mi sembravano nuovi, delle nuove possibilità che fino allora non conoscevo. "Sì, ecco com'è, tutto diverso da come pensavo e vivevo prima, ecco invece com'è", era come se dicesse una voce nell'animo mio. Che cosa fossero queste novità che avevo imparato a conoscere, non potevo rendermene conto, ma la coscienza di questo nuovo stato era molto gioiosa. Tutte quelle persone, e nel loro novero anche mia moglie e lui, mi apparvero in una luce interamente diversa. Dopo questo "presto" essi suonarono ancora il bellissimo, ma usuale e non nuovo "andante" con le sue volgari variazioni e il debolissimo "finale". Poi suonarono ancora, a richiesta degli invitati, sia un'elegia di Ernst, sia varie altre cosette ancora; tutto questo era bello, ma tutto questo non suscitò in me neppure la centesima parte dell'impressione che m'aveva suscitato il primo pezzo. Tutto questo avveniva ormai sullo sfondo dell'impressione che aveva suscitato quel primo pezzo. Fui disinvolto e allegro tutta la sera. E mia moglie non l'avevo mai vista come era quella sera.
Quegli occhi scintillanti, quella severità e importanza nell'espressione mentre suonava, e quell'assoluto liquefarsi e un debole, pietoso e beato sorriso dopo che ebbero finito. Io vedevo tutto, ma non vi attribuivo nessun altro significato tranne questo: che lei aveva le mie stesse esperienze, che anche a lei come a me si scoprivano, ed era come se ritornassero alla memoria, nuovi sentimenti non mai provati. La serata terminò felicemente, e tutti se ne andarono. Sapendo che io due giorni dopo dovevo partire per andare all'assemblea, Truchacevskij, salutando, disse che sperava di poter rinnovare in un altro suo viaggio il piacere avuto quella sera. Da ciò potevo concludere che non riteneva possibile frequentare la mia casa senza che io ci fossi, e questo mi faceva piacere. Dato che io non sarei tornato prima della sua partenza, ne risultava che non ci saremmo più visti. Per la prima volta gli strinsi la mano con vero piacere e lo ringraziai del piacere arrecato. Lui salutò definitivamente anche mia moglie.
Anche il loro commiato mi parve il più naturale e decente possibile. Tutto andava benissimo. Io e mia moglie eravamo entrambi contenti della serata.
- Due giorni dopo partii per il mio circondario, dopo aver salutato mia moglie con l'umore migliore e più tranquillo. Nel capoluogo di circondario c'era sempre una quantità di lavoro e una vita tutta speciale, uno speciale miraggio. Per due giorni passai fino a dieci ore in ufficio. Il giorno dopo mi portarono in ufficio una lettera di mia moglie. La lessi subito. Scriveva dei bambini, dello zio, della balia, delle sue compere, e tra l'altro, come del fatto più normale, che era passato da casa Truchacevskij, aveva portato la musica promessa e le aveva promesso di venire di nuovo a suonare, ma lei aveva detto di no. Io non ricordavo che lui avesse promesso di portare della musica; mi sembrava che allora avesse salutato definitivamente e perciò questo mi colpì in modo spiacevole. Ma c'era tanto da fare che non c'era tempo di pensare, e solo alla sera, tornato nel mio alloggio, rilessi la lettera. Oltre al fatto che Truchacevskij era venuto ancora una volta senza che ci fossi io, tutto il tono della lettera mi parve incomprensibile. La belva furiosa della gelosia si era messa a ruggire nella sua tana e voleva balzar fuori, ma io avevo paura di questa belva e la rinchiusi al più presto. "Che brutto sentimento questa gelosia", mi dissi, "e che cosa ci può essere di più naturale di quanto lei mi scrive!". E mi misi a letto e cominciai a pensare agli affari che mi attendevano l'indomani. Tardavo sempre molto ad addormentarmi, al tempo di queste assemblee, per la novità del luogo, ma questa volta mi addormentai molto presto.
E, come capita, sapete, a un tratto una scossa elettrica, e ti svegli. Così mi svegliai, e mi svegliai col pensiero di lei, del mio amore carnale per lei, e di Truchacevskij, e che tra lui e lei tutto era consumato. L'orrore e il rancore mi serrarono il cuore.
Ma mi misi a farmi la predica. "Che sciocchezze", mi dicevo, "non esiste nessun fondamento, non c'è e non c'è stato nulla. E come posso umiliare così lei e me, supponendo di questi orrori. Una specie di violinista mercenario, noto come persona poco per bene, e insieme a lui, tutt'a un tratto, una donna onorevole, rispettata, una madre di famiglia, mia moglie. Che assurdità!" mi immaginavo da un lato. "Come potrebbe non essere così?" mi immaginavo dall'altro. "Come potrebbe non essere, quella stessa cosa semplice e comprensibile in nome della quale l'ho sposata, quella stessa cosa in nome della quale io ho vissuto con lei, che unica mi era necessaria in lei e che perciò era necessaria anche ad altri, a quel musicista? E un uomo non ammogliato, sano (ricordo come faceva scricchiolare la cartilagine della costoletta e stringeva avidamente tra le labbra rosse il bicchiere col vino), ben pasciuto, liscio, e non solo senza princìpi, ma evidentemente con dei princìpi che gli dicono di approfittare dei piaceri che si offrono. E tra loro il legame della musica, la più raffinata lussuria dei sensi. Che cosa mai può trattenerlo? Nulla. Tutto, al contrario, lo attrae. Lei? ma lei chi è? Lei è un mistero: tale era prima, e così è adesso. Io non la conosco. La conosco solamente come animale. E un animale nulla può, né deve trattenerlo". Soltanto adesso m'ero ricordato i loro visi come erano quella sera, quando dopo la sonata a Kreutzer avevano suonato una cosetta appassionata, non so di chi, un pezzo sensuale fino all'oscenità. Come ho potuto partire? mi dicevo, ricordando i loro visi; non era chiaro, forse, che tra loro tutto s'era concluso quella sera e non si vedeva che già quella sera tra loro non c'era nessuna barriera, ma che entrambi, e soprattutto lei, provavano una certa vergogna dopo ciò che era loro accaduto?
Ricordo il suo debole, lamentoso, beato sorriso, mentre si asciugava il sudore sul viso fattosi rosso, quando mi sono avvicinato al pianoforte. Allora evitavano già di guardarsi, e soltanto a cena, quando lui le versava dell'acqua, si sono guardati, sorridendo appena. Adesso ricordavo con orrore quel loro sguardo da me sorpreso insieme al sorriso appena percettibile.
"Sì, tutto è consumato", mi diceva una voce, e subito un'altra voce diceva un'altra cosa: "Ti ha preso qualcosa". "Non è possibile ", diceva quest'altra voce. Cominciai a sentire l'angoscia di stare coricato al buio, accesi la candela, e cominciai a sentire una certa paura, in quella piccola stanza dalle tappezzerie gialle. Accesi una sigaretta e, come càpita quando ci si aggira in un medesimo cerchio di contraddizioni insolubili, che si fuma, fumavo una sigaretta dopo l'altra per annebbiarmi la vista e non scorgere le contraddizioni. Non dormii tutta la notte, e alle cinque, avendo concluso che non potevo più rimanere in quella tensione e sarei partito subito, mi alzai, svegliai il custode che mi faceva i servizi e lo mandai a procurarsi dei cavalli. Alla seduta mandai un biglietto, dicendo che ero chiamato a Mosca per un affare urgente e che perciò pregavo che mi sostituisse uno dei membri. Alle otto salii su una vettura da viaggio e partii.
Entrò il capotreno e, avendo notato che la nostra candela era finita, la spense, senza metterne una nuova. Fuori cominciava a far giorno. Pozdnyshev tacque sospirando profondamente, per tutto il tempo che il capotreno rimase nel vagone. Continuò il suo racconto solamente quando il capotreno fu andato via e nel vagone immerso nella semioscurità non si sentì più che il tintinnare dei cristalli del vagone in moto e il russare uniforme del commesso.
Nella mezza luce dell'alba ormai non riuscivo a vedere affatto Pozdnyshev. Si sentiva soltanto la sua voce sempre più agitata e dolente.
- Dovevo viaggiare per trentacinque miglia con i cavalli e otto ore in treno. Il viaggio con i cavalli era stupendo. Era un tempo autunnale gelato con un sole splendente. Sapete, è il tempo in cui i cerchioni s'imprimono sulla strada sporca. Le strade sono lisce, la luce è viva e l'aria tonificante. Si viaggiava bene in vettura.
Quando si fece giorno e partii, mi sentii meglio. Guardando i cavalli, i campi, la gente che incontravo, dimenticavo dove ero diretto. A volte mi pareva d'essere semplicemente in viaggio, che di quello che m'aveva richiamato non esistesse nulla. E mi dava una gioia particolare abbandonarmi così. Quando poi mi ricordavo dov'ero diretto, mi dicevo: "Allora si vedrà, non ci pensare". Per di più a mezza strada accadde un fatto che mi trattenne per la strada e mi distrasse ancora di più: la vettura si ruppe e si dovette ripararla. Questa rottura ebbe una grande importanza, perché fece sì che io arrivassi a Mosca non alle cinque, come calcolavo, ma a mezzanotte, e a casa verso l'una, giacché non riuscii a prendere il direttissimo e dovetti ormai viaggiare con l'omnibus. Il cammino fatto per andare a prendere un carro, la riparazione, il pagamento, il tè alla locanda, la conversazione col locandiere, tutto questo mi distrasse ancora maggiormente. Al crepuscolo tutto era pronto, e mi misi di nuovo in cammino, e di notte si viaggiava ancora meglio che di giorno. C'era la luna nuova, una piccola gelata, per di più una strada bellissima, i cavalli, un vetturale allegro; e io viaggiavo e me la godevo, non pensando quasi affatto a ciò che mi aspettava, o me la godevo appunto perché sapevo quel che mi aspettava, e prendevo commiato dalle gioie della vita. Ma questo mio stato d'animo tranquillo, la possibilità di soffocare il sentimento, terminò col viaggio in vettura. Non appena fui entrato nel vagone, cominciò qualcosa di assolutamente diverso. Questo percorso di otto ore in treno fu per me una cosa orribile, che non dimenticherò in tutta la vita. Forse perché, salito in treno, mi immaginavo con vivezza il mio arrivo, o perché la ferrovia ha un'azione così eccitante sulle persone, ma da quando ero salito in treno non potevo più dominare la mia immaginazione, ed essa cominciò a dipingermi senza interruzione, con straordinaria vivacità, dei quadri che infiammavano la mia gelosia, dei quadri che si susseguivano l'uno all'altro ed erano uno più cinico dell'altro e rappresentavano sempre la stessa cosa, quello che accadeva là in mia assenza, il modo come lei m'aveva tradito. Ardevo d'indignazione, di rabbia e inoltre d'un particolare senso d'inebriamento della mia propria umiliazione, contemplando quei quadri, e non potevo staccarmene, non potevo non guardarli, non potevo cancellarli o non suscitarli. Anzi, quanto più contemplavo questi quadri immaginari, tanto più credevo alla loro realtà. La vivacità con cui mi apparivano questi quadri pareva servisse a dimostrare che quanto avevo immaginato era realtà. Era come se un diavolo escogitasse e mi suggerisse contro la mia volontà le considerazioni più orribili. Mi ritornò in mente una vecchia conversazione col fratello di Truchacevskij, e mi facevo dilaniare l'anima con una specie d'entusiasmo da quella conversazione, riferendola a Truchacevskij e a mia moglie. Era una cosa avvenuta molto tempo fa, ma me la ricordai. Una volta, ricordo, il fratello di Truchacevskij, alla domanda se frequentasse i postriboli aveva risposto che una persona per bene non si sarebbe messa ad andare in luoghi dove si potevano prendere delle malattie, ed erano anche sporchi e disgustevoli, quando si poteva sempre trovare una donna per bene. Ed ecco che lui, suo fratello, aveva trovato mia moglie. E' vero che non è più nella sua prima giovinezza, le manca un dente da una parte ed è un po' ingrossata, pensavo io dal punto di vista di lei, ma che fare?
bisogna approfittare di quello che c'è. Sì, è un favore che le fa, a prenderla come sua amante; intanto, era sicura per lui dal punto di vista della sua preziosa salute. No, è impossibile, mi dicevo inorridendo. Non c'è nulla, nulla di simile! E non esiste neppure alcuna ragione per presupporre qualcosa di simile. Lei non mi ha forse detto che era perfino umiliante per lei l'idea che io potessi essere geloso di lui? Sì, ma lei non fa che mentire, esclamavo, e ricominciava un'altra volta. I viaggiatori nel nostro vagone non erano che due, una vecchietta col marito, entrambi molto poco loquaci, e anche loro scesero a una delle stazioni, e io rimasi solo. Ero come una belva in gabbia: ora balzavo su, mi avvicinavo al finestrino, ora cominciavo a camminare barcollando, e cercavo di spingere innanzi il vagone; ma il vagone tremava con tutti i suoi sedili e i suoi cristalli, proprio come il nostro.
E Pozdnyshev balzò su, fece qualche passo e si sedette di nuovo.
- Oh, io ho paura dei vagoni ferroviari, mi mettono orrore. Sì, è orribile, - egli continuò. - Mi dicevo: penserò ad altro. Su, mettiamo al padrone della locanda dal quale ho preso il tè.
Ebbene, ecco che nell'immaginazione sorge il locandiere dalla lunga barba e il suo nipotino, un ragazzo della stessa età del mio Vasja. Il mio Vasja! Vedrà come il musicista bacia sua madre. Che cosa accadrà nella sua povera anima? Ma a lei che cosa importa?
Lei ama... E di nuovo si sollevava la stessa cosa. No, no! su, penserò alla visita compiuta all'ospedale. Sì, al malato che ieri reclamava contro il medico. E il medico ha i baffi, come Truchacevskij. E come m'ingannava, come m'ingannavano entrambi spudoratamente quando lui diceva che partiva. E cominciava di nuovo. Tutto quello a cui pensavo aveva un legame con lui.
Soffrivo orribilmente. La sofferenza principale consisteva nell'ignoranza, nei dubbi, nello sdoppiamento, nell'incertezza se era proprio lei che bisognava amare o odiare. Le sofferenze erano così forti che, ricordo, mi era venuta l'idea, che mi era piaciuta molto, di scendere sulla strada ferrata, coricarmi sulle rotaie per farmi passare sopra il treno, e finirla. Allora, almeno, non ci sarebbe stato più da dubitare. L'unica cosa che m'impediva di farlo era la pietà per me stesso, che subito portava con sé un immediato odio per lei. Per lui, invece, provavo uno strano sentimento di odio, che era coscienza del mio annientamento e della sua vittoria, ma per lei provavo un odio tremendo. E' impossibile uccidersi e lasciarla; bisogna che lei soffra almeno un po', che capisca almeno che io ho sofferto, mi dicevo. Scendevo a tutte le stazioni, per distrarmi. In una stazione vidi che al caffè si beveva, e subito bevvi io pure dell'acquavite. Accanto a me stava un ebreo e anche lui beveva. Si mise a parlare, e io, pur di non rimanere solo nel mio vagone, andai con lui nel suo vagone di terza classe, sporco, pieno di fumo e inzaccherato di gusci di semi. Là mi sedetti accanto a lui, e mi pare che mi raccontasse molte storielle. Io lo ascoltavo, ma non riuscivo a capire quello che diceva, perché continuavo a pensare alle mie cose. Lui se ne accorse e cominciò a pretendere d'essere ascoltato con attenzione; allora io mi alzai e me ne andai di nuovo nel mio vagone. Bisogna riflettere, mi dicevo, se è vero quello che penso e se ho ragione di tormentarmi. Mi sedetti, col desiderio di riflettere tranquillamente, ma subito, invece della tranquilla riflessione, cominciò di nuovo la stessa cosa: invece di ragionamenti, quadri e immagini.
Quante volte mi sono tormentato così, mi dicevo (ricordavo i precedenti accessi di gelosia simili a quello), e poi tutto è finito in niente. Così anche ora, forse, e anzi certamente, la troverò tranquillamente addormentata: si sveglierà, si rallegrerà nel vedermi e dalle sue parole, dal suo sguardo sentirò che non è successo nulla e che queste sono tutte sciocchezze. Oh, come sarebbe bello questo! Ma no, è accaduto troppo spesso, e ora non accadrà, mi diceva una voce, e ricominciò di nuovo. Sì, ecco dove stava la pena! Non in un ospedale di sifilitici avrei condotto un giovane per togliergli l'inclinazione per le donne, ma nella mia anima, perché vedesse i diavoli che la dilaniavano! L'orribile, infatti, era che io mi riconoscevo un indubitabile pieno diritto sul suo corpo, come se fosse stato il mio corpo, e nello stesso tempo sentivo che possederlo, questo corpo, non potevo, che non era mio, e che lei poteva disporne come voleva, e voleva disporne diversamente da come volevo io. E io non potevo fare nulla né a lui, né a lei. Lui, come Van'ka il credenziere davanti alla forca, avrebbe cantato di come erano state baciate le labbra zuccherine, e così via. E la vittoria sarebbe stata sua. A lei, poi, ancora meno avrei potuto fare qualcosa. Se non l'aveva fatto, e voleva farlo (e io sapevo che voleva farlo), era ancora peggio; sarebbe stato perfino meglio se l'avesse fatto, perché io lo sapessi, perché non ci fosse incertezza. Non avrei potuto dire che cosa desideravo. Desideravo che lei non desiderasse quello che doveva desiderare. Era pazzia piena.
- Alla penultima stazione, quando venne il capotreno a ritirare i biglietti, io, dopo aver raccolto le cose mie, uscii sulla piattaforma, e la consapevolezza che era prossima, imminente la soluzione accrebbe ancora la mia agitazione. Cominciai a sentir freddo, e le mascelle cominciarono a tremarmi in modo tale, che battevo i denti. Uscii macchinalmente dalla stazione insieme alla folla, presi una vettura di piazza, vi salii e ci mettemmo in moto. Mi facevo portare, osservando i rari passanti e i portinai e le ombre che i fanali e la mia carrozzella gettavano ora avanti, ora indietro, senza pensare a nulla. Dopo aver fatto un mezzo miglio, cominciai a sentire freddo ai piedi, e pensai che in treno mi ero tolto le calze e le avevo messe nella valigetta. Dov'era la valigetta? Era lì? Sì; e dov'era la cesta? Mi ricordai che avevo interamente dimenticato il bagaglio, ma, ricordatomene e tratto fuori lo scontrino, conclusi che non valeva la pena di tornare a prenderlo, e proseguii. Per quanto abbia cercato di ricordare adesso, non riesco in nessun modo a ricordare il mio stato d'animo di allora. Che cosa pensavo? Che cosa desideravo? Non so nulla.
Ricordo soltanto che avevo la consapevolezza che nella mia vita stava preparandosi qualcosa di tremendo e di molto importante Se questa cosa importante sia accaduta perché pensavo così o perché lo presentivo, non so. Può anche essere che dopo quello che è successo tutti i momenti precedenti abbiano assunto una tinta cupa nel mio ricordo.
Ero arrivato all'ingresso. Era quasi l'una. Alcuni vetturini erano fermi davanti all'ingresso, in attesa di clienti per via delle finestre illuminate (le finestre illuminate erano nel nostro alloggio, in sala e in salotto). Senza rendermi conto della ragione per cui le nostre finestre erano ancora illuminate così tardi, sempre nello stesso stato d'animo di attesa di qualcosa di tremendo, salii le scale e suonai. Il domestico, il buon Egor, premuroso e molto sciocco, mi aprì. La prima cosa che mi saltò agli occhi in anticamera fu, all'attaccapanni accanto agli altri indumenti, il cappotto. Avrei dovuto stupirmi, ma non mi stupii, perché me l'aspettavo. Proprio così, mi dissi, quando ebbi chiesto a Egor chi c'era e lui mi ebbe fatto il nome di Truchacevskij.
Chiesi se c'era ancora qualcun altro. Lui disse: "Nossignore, nessuno". Ricordo che mi rispose questo con l'intonazione di volermi rallegrare, dissipando il dubbio che ci fosse qualcun altro. Bene, bene, sembrava che mi dicessi: "E i bambini?" "Grazie a Dio stanno bene. Dormono da un pezzo".
Non riuscivo a emettere il respiro e non riuscivo a fermare le mie mascelle che tremavano. Sì, voleva dire che non era come pensavo io: era prima che pensavo che ci fosse una sventura, e risultava che tutto andava bene come al solito. Ecco che invece adesso le cose non andavano come al solito, ma c'era tutto quello che mi ero immaginato e che pensavo di essermi soltanto immaginato, mentre ecco che era tutto realtà. Ecco tutto.
Stavo quasi per scoppiare in singhiozzi, ma il diavolo subito suggerì: "Piangi, fa' il sentimentale, e loro si separeranno tranquillamente, prove non ce ne saranno, e tu dubiterai e ti tormenterai sempre". E subito quei sentimentalismi su me stesso scomparvero e si manifestò un sentimento nuovo - non ci crederete -, un sentimento di gioia perché adesso il mio tormento sarebbe finito, perché adesso avrei potuto punirla, avrei potuto liberarmi di lei, avrei potuto dare libero corso al mio rancore. E io diedi libero corso al mio rancore, e diventai una belva. "Non importa, non importa", dissi a Egor, che voleva andare in salotto; "piuttosto, ecco qua: corri a prendere una vettura e va', ecco lo scontrino, a farti consegnare la roba. Muoviti!". Lui s'incamminò per il corridoio per andare a prendere il suo paltò. Temendo che li facesse scappare, lo accompagnai fino alla sua cameretta e aspettai finché si fu vestito. In salotto, a una camera di distanza, si sentiva un rumore di conversazione e un suono di coltelli e di piatti. Essi mangiavano e non avevano sentito il campanello. Purché non vengano fuori adesso, pensavo io. Egor mise il paltò e uscì. Lo accompagnai e gli chiusi la porta dietro, e cominciai a sentirmi angosciato quando ebbi la sensazione che ero rimasto solo e che dovevo agire subito. Come, non sapevo ancora.
Sapevo solamente che adesso tutto era finito, che non ci potevano essere dubbi sulla sua colpevolezza e che stavo per punirla e dare una conclusione ai miei rapporti con lei. Prima avevo ancora delle esitazioni, e mi dicevo: "Ma forse non è vero, forse mi sbaglio".
Questo adesso non c'era più. Tutto era irrevocabilmente deciso. Di nascosto da me, sta sola di notte con lui. E' ormai un dimenticare interamente ogni cosa. O ancora peggio: c'è apposta una tale temerarietà, un tale coraggio nel delitto, perché questa temerarietà sia un segno d'innocenza. Tutto è chiaro. Non ci sono dubbi. Io temevo una sola cosa, che scappassero via, che escogitassero ancora un nuovo inganno e così mi privassero dell'evidenza delle prove, della possibilità di dimostrare la cosa.
E allo scopo di coglierli più facilmente, andai in punta di piedi in sala, dove stavano, non attraverso il salotto, ma attraverso il corridoio e le camere dei bambini. Nella prima camera i ragazzi dormivano. Nella seconda la balia si mosse, stava per svegliarsi, e io m'immaginai tutto quello che avrebbe pensato quando avesse saputo tutto, e una tale pietà per me stesso mi prese a quest'idea che non potei trattenermi dalle lacrime, e, per non svegliare i bambini, corsi in punta di piedi nel corridoio e nel mio studio, mi lasciai cadere sul mio divano e scoppiai in singhiozzi.
Io sono una persona onesta, sono figlio dei miei genitori e tutta la vita ho sognato la felicità nella vita di famiglia, sono un uomo che non l'ha mai tradita. Ed ecco qua! Ha cinque figli, e abbraccia un musicista perché ha le labbra rosse! No, non è un essere umano. E' una cagna, una schifosa cagna... Accanto alla camera dei bambini, per i quali ha finto amore tutta la vita. E scrivermi quello che mi ha scritto. E gettarsi al collo d'un uomo così spudoratamente! Ma che ne so io? forse è sempre stato così.
Forse da un pezzo ha procreato con dei camerieri i figli che vengono considerati miei. E se fossi arrivato domani, lei, con la sua pettinatura, col suo vitino e i pigri e graziosi movimenti (vidi tutto il suo attraente e odiato viso), mi sarebbe venuta incontro, e questa belva della gelosia mi sarebbe rimasta per sempre nel cuore a dilaniarlo. Che penserà la balia, Egor? E la povera Lizoschka? Lei capiva già qualche cosa. E questa spudoratezza! E questa menzogna! E questa animalesca sensualità, che io conosco così bene, mi dicevo.
Volevo alzarmi, ma non ci riuscivo. Il cuore mi batteva talmente che non riuscivo a stare in piedi. Sì, morirò di un colpo. Lei mi uccide. Di questo appunto ha bisogno. E perché dovrebbe uccidere?
Ma no, le sarebbe troppo utile, e questo piacere non glielo procuro. Sì, io sono qui, e loro sono là che mangiano e ridono e... E perché non l'ho strangolata allora, mi dissi, ricordando il momento in cui, una settimana prima, l'avevo scacciata dal mio studio e poi m'ero messo a rompere la roba. Mi ritornò alla memoria con vivezza lo stato d'animo in cui ero allora; non soltanto mi tornò alla memoria, ma provai il medesimo bisogno di rompere, di distruggere che provavo allora. Ricordo come mi venne il desiderio di agire, e ogni considerazione, tranne quelle che erano necessarie per l'azione, mi uscì dal capo: ero entrato nello stato d'animo della belva e dell'uomo che è sotto l'influsso dell'eccitazione fisica, sotto l'influsso del pericolo, quando l'uomo agisce con esattezza, senza fretta, ma anche senza perdere un minuto, e sempre unicamente a quel solo determinato fine.
- La prima cosa che feci fu di togliermi le scarpe; rimasto con le calze, mi avvicinai al muro, sopra il divano, dove tenevo appesi dei fucili e dei pugnali, e presi un pugnale damascato ricurvo, che non era mai stato usato ed era molto tagliente. Lo tirai fuori dal fodero. Il fodero, ricordo, cadde dietro il divano, e ricordo che mi dissi: poi bisogna ritrovarlo, se no si perde. Quindi mi tolsi il paltò, che avevo sempre tenuto indosso, e, con passo leggero, andai là senza scarpe. E, avvicinatomi pian piano, tutt'a un tratto aprii la porta.
Ricordo l'espressione dei loro visi. Ricordo quell'espressione, perché quell'espressione mi dava una gioia tormentosa. Era un'espressione di terrore. Questo appunto desideravo io. Non dimenticherò mai l'espressione di disperato terrore che comparve nel primo istante su tutt'e due i loro volti, quando mi videro.
Lui mi pare che fosse seduto a tavola, ma, avendomi veduto o sentito, saltò in piedi e si fermò con le spalle rivolte a un armadio. Sul suo viso non c'era che un'espressione, molto poco dubbia, di terrore. Anche sul viso di lei c'era un'espressione di terrore, ma insieme a esso c'era anche qualcos'altro. Se non ci fosse stato altro che l'espressione di terrore, forse non sarebbe accaduto quello che è accaduto, ma nell'espressione del viso di lei c'era nel primo istante, o almeno così mi parve, anche il dolore, il disappunto che avessero interrotto il suo trasporto d'amore, la sua felicità con lui. Era come se lei non avesse bisogno d'altro se non che non le impedissero d'essere felice adesso. L'una e l'altra espressione non rimasero che un attimo sui loro visi. L'espressione di terrore sul viso di lui fu subito sostituita da un'espressione interrogativa: si poteva mentire o no? Se si poteva mentire, bisognava cominciare. Se non si poteva, sarebbe cominciato qualcos'altro ancora. Ma che cosa? e lui la guardò interrogativamente. Sul viso di lei l'espressione di stizza e di dolore era stata sostituita, a quel che m'era parso, da un'espressione di preoccupazione per lui quando lei lo aveva guardato. Per un attimo mi fermai sulla porta, tenendo il pugnale dietro la schiena. In quell'attimo lui sorrise e, con un tono indifferente fino al ridicolo, cominciò: "E noi, ecco, facevamo musica". "Non ti aspettavo proprio", osservò lei contemporaneamente, sottomettendosi al tono di lui. Né l'uno, né l'altra finì il discorso. Il medesimo furore che s'era impadronito di me una settimana prima, lo provavo pure adesso. Provai di nuovo quel bisogno di distruzione, di violenza e di entusiastico furore e mi ci abbandonai.
Entrambi non finirono il discorso. Cominciò quell'altra cosa, di cui lui aveva paura e che infrangeva d'un tratto tutto ciò che essi stavano dicendo. Mi gettai verso di lei, nascondendo ancor sempre il pugnale perché lui non m'impedisse di colpirla al fianco sotto la mammella. (Avevo scelto quel punto fin dal principio).
Nel momento in cui mi gettai verso di lei, lui vide e, cosa che non mi aspettavo affatto da lui, mi prese per un braccio e gridò:
"Ritornate in voi, che fate?! Gente!".
Io liberai il braccio e mi gettai senza far parola verso di lui. I suoi occhi s'incontrarono con i miei. Lui impallidì a un tratto come un cencio fino alle labbra, i suoi occhi ebbero un lampo particolare e, cosa che pure non mi aspettavo affatto, scivolò sotto il pianoforte verso la porta. Io stavo precipitandomi dietro di lui, ma al mio braccio sinistro si era attaccato un peso. Era lei. Io mi slanciai. Lei mi si attaccò ancora più fortemente, e non mi lasciava andare. Questo impedimento inaspettato, il peso e il suo contatto per me disgustoso mi infiammarono ancora di più.
Sentivo d'essere assolutamente frenetico e dovevo essere terribile e ne ero lieto. Sollevai il braccio sinistro con tutta la mia forza e col gomito la colpii proprio in viso. Lei diede un grido e lasciò andare il mio braccio. Io volevo correre dietro a lui, ma mi ricordai che sarebbe stato ridicolo correre appresso senza scarpe all'amante della propria moglie, e io non volevo essere ridicolo, ma volevo essere terribile. Nonostante il tremendo furore in cui ero, avevo sempre presente l'impressione che suscitavo negli altri. Ed ero perfino guidato in parte da quest'impressione. Mi volsi verso di lei. Era caduta su una sedia a sdraio e, con le mani sugli occhi da me percossi, mi guardava.
Nel suo viso c'erano paura e odio per me, il suo nemico, come ce l'ha il topo, quando si solleva la trappola in cui è rimasto preso. Io, almeno, non vedevo nulla in lei, tranne la paura e l'odio per me, che dovevano essere suscitati dall'amore per un altro. Ma forse mi sarei ancora trattenuto e non avrei fatto quello che ho fatto se lei avesse taciuto. Ma lei a un tratto cominciò a parlare e ad afferrare con la mano la mia mano che teneva il pugnale. "Ritorna in te! che fai! che cosa ti capita?
Non c'è nulla, nulla, nulla. Lo giuro!". Io avrei aspettato ancora, ma queste sue ultime parole, che mi fecero concludere il contrario, cioè che tutto era accaduto, volevano una risposta. E la risposta doveva essere conforme allo stato d'animo in cui mi ero messo, che andava sempre crescendo e doveva continuare a svilupparsi allo stesso modo. Anche la frenesia ha una sua legge.
"Non mentire, schifosa!" gridai, e con la mano sinistra la presi per un braccio, ma lei si svincolò. Allora io, pur sempre senza lasciar andare il pugnale, con la mano sinistra la afferrai per la gola, la rovesciai supina, e la stavo strangolando. Come era ruvido quel collo. Lei si afferrò con entrambe le mani alle mie mani, strappandosele via dalla gola, e io, come se non avessi aspettato altro, la colpii con tutta la mia forza al fianco sinistro sotto il costato col pugnale...
Quando la gente dice che in un accesso di furore non ci si ricorda di quello che si fa, è una sciocchezza, non è vero niente. Io ricordavo tutto e neppure per un attimo cessai di ricordare.
Quanto più forte accendevo in me stesso il fuoco del mio furore, tanto più chiara si accendeva in me la luce della coscienza, con la quale non potevo non vedere tutto ciò che facevo. Non posso dire che sapessi prima quello che stavo per fare, ma nell'attimo in cui lo facevo, e credo perfino un po' prima, sapevo quello che avrei fatto, quasi perché ci fosse la possibilità di pentirsi, perché io mi potessi dire che mi potevo fermare. Sapevo di colpire sotto il costato e che il pugnale sarebbe penetrato. Nel momento in cui lo facevo, sapevo di fare qualcosa di orribile, qualcosa che non avevo mai fatto e che avrebbe avuto conseguenze orribili.
Ma questa coscienza balenò come un lampo, e dopo la coscienza venne subito l'atto. Dell'atto fui conscio inmodo straordinariamente chiaro. Sentii e ricordo la resistenza opposta per un attimo dal busto e da qualcosa ancora, e poi l'immersione del coltello nella parte molle. Lei si aggrappò con le mani al pugnale, se le tagliò, ma non riuscì a trattenerlo. Poi, in prigione, dopo che si fu prodotto in me un rivolgimento morale, pensai a lungo a quel momento, ricordai quello che potevo e ci pensai su. Ricordo per un attimo, soltanto per l'attimo precedente al fatto, la tremenda coscienza di avere ucciso e ucciso una donna, mia moglie. L'orrore di questa coscienza lo ricordo, e perciò ne concludo e perfino mi rammento confusamente che, conficcato il pugnale, lo trassi fuori subito, desiderando riparare quanto avevo fatto e fermarlo. Per un secondo stetti lì immobile aspettando quello che sarebbe avvenuto: la cosa si poteva rimediare o no? Lei si alzò bruscamente in piedi e gridò: "Balia, mi ha ucciso".
La balia, che aveva sentito del rumore, era sulla porta. Io continuavo a star lì, aspettando incredulo. Ma in quel momento di sotto al suo busto sprizzò il sangue. Soltanto allora capii che rimediare non si poteva, e conclusi subito che non si doveva neppure, che proprio questo io volevo e proprio questo dovevo fare. Aspettai finché lei non cadde e la balia non accorse verso di lei gridando "padri santi!", e soltanto allora gettai lontano il pugnale e me ne andai dalla stanza. "Non bisogna agitarsi, bisogna che io sappia quello che faccio", mi dissi, senza guardare lei né la balia. La balia gridava, chiamava la cameriera.
Io passai dal corridoio e, dopo aver mandato là la cameriera, andai in camera mia. Che cos'è che bisogna fare adesso? mi chiesi, e capii subito che cos'era. Entrato nel mio studio, mi avvicinai subito al muro, ne staccai un revolver, lo esaminai - era carico - e lo misi sulla tavola. Poi tirai su il fodero da dietro il divano e mi sedetti sul divano. Sedetti a lungo così. Non pensavo nulla, non rievocavo nulla. Sentii che là si davano da fare. Sentii come giunse qualcuno, poi ancora qualcuno. Poi sentii e vidi come Egor portò nello studio la cesta che era andato a prendere. Come se questo servisse a qualcuno.
"Hai sentito quello che è successo?" dissi io: "di' al portinaio che avvertano la polizia". Lui non disse nulla e se ne andò. Io mi alzai, chiusi la porta e trassi fuori una sigaretta e i fiammiferi e mi misi a fumare. Non avevo finito di fumare la sigaretta che m'aveva preso e vinto il sonno. Dormii probabilmente un paio d'ore. Ricordo che vidi in sogno che con lei eravamo in amicizia, c'eravamo riconciliati, ma ci stavamo riconciliando e qualcosa ci dava noia, ma eravamo amici. Mi svegliò un picchio alla porta. E' la polizia, pensai io svegliandomi, mi pare infatti di avere ucciso. Ma forse è lei, e non è accaduto nulla. Picchiarono ancora alla porta. Io non risposi nulla, e stavo risolvendo il problema se quello era accaduto o no. Sì, era accaduto. Ricordai la resistenza del busto e l'immersione del coltello, e un brivido mi percorse la schiena... Sì, è accaduto. Sì, è accaduto. Sì, adesso anche me, mi dissi. Ma io dicevo questo e sapevo che non mi sarei ucciso. Tuttavia mi alzai e presi di nuovo in mano il revolver.
Ma, fatto strano, ricordo come, prima, io sia stato molte volte vicino al suicidio, come quel giorno perfino in ferrovia la cosa mi sembrasse facile, facile proprio perché pensavo che colpo le avrei dato così. Adesso non potevo in nessun modo non solo uccidermi, ma neppure pensarci. Perché lo farei? mi domandai. E non venne nessuna risposta. Picchiarono ancora una volta alla porta. Sì, prima bisogna sapere chi è che picchia. Farò ancora in tempo. Deposi il revolver e lo coprii con un giornale. Mi avvicinai alla porta e levai il paletto. Era la sorella di mia moglie, una buona e sciocca vedova. "Vasja, che cos'è mai?" disse, e le lacrime che aveva sempre pronte cominciarono a scorrere. "Che cosa serve?" chiesi io villanamente. Vedevo che non occorreva affatto né c'era ragione d'essere villano con lei, ma non sapevo trovare nessun altro tono. "Vasja, sta morendo. L'ha detto Ivan Zacharyc'". Ivan Zacharyc' era il medico, il suo medico e consigliere. "Perché lui è qui?" chiesi io, e tutta l'animosità verso di lei si sollevò di nuovo. "Ebbene, e allora?" "Vasja, va' da lei. Ah che orrore!" disse. Devo andare da lei? fu la domanda che mi rivolsi, e risposi subito che bisognava andare da lei, che probabilmente usava sempre fare così, che, quando un marito aveva ucciso la moglie come me, doveva assolutamente andare da lei. Se usa così, bisogna andare, mi dissi. Sì, se sarà necessario, farò sempre in tempo, pensai, a proposito della mia intenzione di spararmi, e andai da lei. Adesso ci saranno delle frasi, delle smorfie, ma io non mi lascerò piegare. "Aspetta", dissi a sua sorella, "è sciocco andare senza scarpe, lascia che m'infili almeno le pantofole".
- Ed è un fatto curioso: di nuovo, quando uscii dalla stanza e m'incamminai per le stanze consuete, di nuovo si manifestò in me la speranza che nulla fosse accaduto, ma l'odore di quella porcheria dei medici, di cloroformio, di acido fenico, mi colpì.
No, tutto era accaduto. Passando per il corridoio accanto alle camere dei bambini, vidi Lizan'ka. Mi guardava con occhi spaventati. Mi parve perfino che fossero lì tutti e cinque, e mi guardassero. Mi avvicinai alla porta, e la cameriera mi aprì dal di dentro e uscì. La prima cosa che mi saltò agli occhi fu il suo vestito grigio chiaro su una seggiola, tutto nero di sangue. Sul nostro letto a due piazze, anzi dalla mia parte (a cui era più facile accostarsi) era coricata lei, con le ginocchia sollevate.
Era coricata molto in pendenza, soltanto su dei cuscini, in un copribusto sbottonato. Sul punto della ferita era stato messo qualcosa. Nella stanza c'era uno spiacevole odore di iodoformio.
Prima e più di tutto mi colpì il suo viso enfiato e fatto turchino dalle lividure, che erano anche su una parte del naso e sotto gli occhi. Era la conseguenza della mia gomitata, quando aveva voluto trattenermi. Bellezza non ce n'era affatto, e invece mi apparve qualcosa di disgustoso: mi fermai sulla soglia. "Avvicinati, avvicinati a lei , mi diceva la sorella. Sì, si vede che vuol mostrare il suo pentimento, pensai io. La perdonerai? Sì, sta morendo, e si può perdonarle, pensavo io, cercando d'essere generoso. Le giunsi proprio a fianco. Lei sollevò su di me con fatica i suoi occhi, uno dei quali era ammaccato, e a fatica articolò con delle pause: "Hai raggiunto il tuo scopo, mi hai uccisa", e sul suo viso, attraverso le sofferenze fisiche e perfino attraverso la vicinanza della morte, si espresse il medesimo vecchio odio freddo, animale che io conoscevo. "I bambini... però... non te li... lascio. Li prenderà... lei (la sorella)". Di quello invece che per me era la cosa principale, la sua colpa, il tradimento, era come se ritenesse che non valeva la pena di parlarne. "Sì, ammira quel che hai fatto", disse lei, guardando la porta, e si mise a singhiozzare. Sulla porta stava la sorella con i bambini. "Sì, ecco che cosa hai fatto". Io guardai i bambini, il suo viso tumefatto pieno di lividure, e per la prima volta mi dimenticai di me stesso, dei miei diritti, del mio orgoglio, per la prima volta vidi in lei un essere umano. E così insignificante mi apparve tutto ciò che mi offendeva, tutta la mia gelosia, e così importante ciò che avevo fatto, che volevo reclinare il viso sulle sue mani e dire "perdona", ma non osavo.
Lei taceva, con gli occhi chiusi, evidentemente senza avere la forza di parlare oltre. Poi il suo viso sfigurato si mise a tremare, si corrugò. Mi respinse debolmente. "Perché è accaduto tutto questo?" "Perdonami ", dissi io. "Perdonami, sono tutte sciocchezze". "Pur di non morire! " esclamò lei, sollevandosi e i suoi occhi scintillanti di febbre si fissarono su di me. "Sì, hai raggiunto il tuo scopo. Ti odio. Ahi! Ah!" gridò, evidentemente delirando, spaventata di qualcosa. "Su, ammazza, ammazza, io non ho paura... Tutti, tutti però, anche lui. Se n'è andato, se n'è andato!". Il delirio continuò per tutto il tempo. Non riconosceva nessuno. Quello stesso giorno verso mezzogiorno morì.
Io ancor prima, alle otto, ero stato portato in sezione e di là in carcere. E lì, negli undici mesi che ci stetti in attesa del processo, ho meditato su di me e sul mio passato e l'ho capito; cominciai a capire dopo due giorni. Dopo due giorni mi condussero "laggiù".
Egli voleva dire qualcosa e, non avendo la forza di trattenere i singhiozzi, si fermò. Raccogliendo le proprie forze, continuò:
- Cominciai a capire solamente quando la vidi nella bara -. Ebbe un singhiozzo, ma continuò subito frettolosamente: - Solamente quando vidi il suo viso morto, capii tutto quello che avevo fatto.
Capii che io, io l'avevo uccisa, che per causa mia era accaduto che lei prima era viva, si muoveva, era calda, mentre adesso era diventata immobile, cerea, fredda, e che a questo non si poteva rimediare mai, in nessun luogo, in nessun modo. Chi non l'ha passato non può capire. Uh! uh! uh! - egli esclamò varie volte, e tacque.
Sedemmo a lungo in silenzio. Lui singhiozzava e tremava in silenzio davanti a me.
- Via, perdonatemi -. Mi volse le spalle e si coricò sul sedile, coprendosi con un plaid.
Alla stazione dove dovevo scendere (erano le otto del mattino) mi avvicinai a lui per salutarlo. Dormisse o facesse finta, certo è che non si muoveva. Lo toccai con una mano. Si scoperse, e si vedeva che non stava dormendo.
- Addio, - dissi io, dandogli la mano.
Egli mi diede la mano e sorrise appena, ma così pietosamente che mi venne da piangere.
- Sì, perdonatemi, - fece, ripetendo la stessa parola con cui aveva concluso anche tutto il racconto.
(1889)
NOTE: