Leone Tolstoj



RESURREZIONE

 

 

(Parte Prima)

 

 

 

Allora Pietro si fece avanti a dirgli: "Signore, sino a quante volte debbo perdonare al mio fratello, se egli pecca contro di me?

Fino a sette?". E Gesù a lui: "Non ti dico sino a sette, ma sino a settanta volte sette"

MATTEO, capitolo 18, versetti 21-22

 

A che poi osservi tu il fuscello nell'occhio del fratello tuo, e non scorgi la trave, che sta nel tuo occhio?

MATTEO, capitolo 7, versetto 3

 

Chi di voi è senza peccato scagli il primo una pietra contro di lei.

GIOVANNI, capitolo 8, versetto 7

 

Nessun discepolo è da più del maestro; ogni scolaro ben formato sarà come il suo maestro.

LUCA, capitolo 6, versetto 40S

 

 

 

PARTE PRIMA

 

1.

 

Invano gli uomini, ammucchiati a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, si sforzavano di isterilire la terra su cui vivevano, invano la ricoprivano di pietre affinché nulla vi crescesse; invano strappavano anche il più piccolo filo d'erba e affumicavano l'aria col carbon fossile e la nafta; invano tagliavano alberi e scacciavano animali e uccelli. La primavera era sempre primavera, anche tra le mura della città. Il sole scaldava, l'erba, dove non la raschiavano, cresceva d'un bel verde vivido; e cresceva non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietra. I pioppi, le betulle, i pruni stendevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli si gonfiavano di gemme pronte a schiudersi. Come sempre in primavera, le gracchie, i passeri e i colombi preparavano lietamente i loro nidi, e le mosche, riscaldate dal sole, ronzavano sulle pareti.

Le piante, gli uccelli, gli insetti e i bambini erano lieti.

Soltanto gli uomini - i grandi, gli adulti - continuavano a ingannare e a tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini, che non apprezzavano né quel mattino di primavera né quel divino splendore dell'universo creato per il bene dei viventi e per predisporli tutti alla pace, alla concordia e all'amore; gli uomini, che consideravano sacro e importante soltanto ciò che essi stessi avevano inventato per dominar gli uni sugli altri.

E così, nell'ufficio del carcere provinciale, il fatto ritenuto sacro e importante non era che a tutti, animali e uomini, fosse concessa la divina gioia della primavera; consisteva in questo, invece: la vigilia era giunta in quell'ufficio una carta bollata e numerata, con l'ordine di condurre in tribunale, la mattina del giorno successivo, 28 aprile, alle ore nove, tre detenuti - due donne e un uomo - che si trovavano in attesa di giudizio. Una, la principale imputata, doveva esservi condotta separatamente.

Appunto in osservanza a quell'avviso, il 28 aprile mattina, alle otto, un vecchio carceriere entrò nel corridoio oscuro e fetido del reparto femminile. Subito dopo comparve anche la carceriera della sezione, una donna dal viso affaticato e dai capelli grigi, che indossava una camicetta con le maniche ornate di galloni e una cintura filettata in azzurro.

- Cercate la Màslova? - domandò, e si avvicinò con lui a una delle porte che davano sul corridoio.

Il carceriere, con un rumore di ferracci, introdusse una chiave nella serratura della porta, che nell'aprirsi lasciò uscire un lezzo ancor più fetido di quello del corridoio; poi gridò: - Màslova, in tribunale! - E, richiusa la porta, rimase ad aspettare.

Persino nel cortile della prigione si respirava l'aria fresca e vivificante dei campi, portata dal vento in città. Ma in quel corridoio l'aria era opprimente, mefitica, impregnata dell'odore di escrementi, di catrame e di marcio. Nessuno poteva respirarla senz'essere subito preso da un senso di scoraggiamento e di tristezza. Anche la sorvegliante, per quanto ci fosse abituata, ne rimase colpita. Era venuta dal cortile e, appena entrata nel corridoio, s'era sentita stanca e sonnolenta.

Nella camerata s'udiva un gran tramestio: voci di donne e passi di piedi scalzi.

- Su, fa' in fretta, Màslova, spicciati! - gridò il vecchio carceriere attraverso la porta.

Poco dopo, una donna giovane, non alta, e dal petto rigoglioso, uscì dalla camerata con passo deciso; sotto una casacca grigia indossava una camicetta e una gonna bianche.

Aveva calze di tela e scarpe grossolane da detenuti; un fazzoletto bianco, annodato intorno al capo, lasciava sfuggire, evidentemente a bella posta, ciocche ondulate di capelli neri. Il volto della donna aveva quel pallore caratteristico di chi è vissuto a lungo in reclusione, che ricorda i germogli delle patate in cantina.

Avevano lo stesso colore anche le mani, piccole e larghe, e il collo bianco e pieno che usciva dall'ampio colletto della casacca.

Spiccavano su quel volto, soprattutto in contrasto col pallore opaco del viso, gli occhi nerissimi, splendenti, un po' gonfi ma molto vivaci, uno dei quali leggermente strabico. La donna si teneva eretta, sporgendo il petto pieno.

Uscita nel corridoio guardò dritto il carceriere negli occhi, piegando un poco il capo, e si fermò pronta a ubbidire a ogni richiesta. Il carceriere stava per richiudere l'uscio, quando sulla soglia si affacciò il volto pallido cupo e rugoso di una vecchia dai capelli bianchi e a testa scoperta. Questa cominciò a dir qualcosa alla Màslova; ma il carceriere le sbatté la porta in faccia e chiuse con rumore. Nella camera scoppiò una risata di donna.

Anche la Màslova sorrise e si voltò verso un finestrino a sbarre praticato nella porta. La vecchia, dall'interno aveva appiccicato il viso all'apertura e diceva con voce rauca:

- Soprattutto non parlar troppo, tieni duro su un punto e basta!

- Uno o due, che importa? Peggio di così non può andare! - rispose la Màslova, scuotendo la testa.

- Ma se è uno, non è due, - osservò il vecchio carceriere, con autoritaria fiducia nella propria arguzia. Seguimi. Avanti.

L'occhio della vecchia scomparve dal finestrino, e la Màslova avanzò nel corridoio, seguendo il vecchio guardiano a passi piccoli e rapidi.

Scesero la scala di pietra, passarono davanti alle camerate degli uomini, ancor più fetide e rumorose di quelle delle donne, seguiti ovunque da occhi curiosi che spiavano attraverso i portelli.

Giunsero infine nell'ufficio della prigione.

Due soldati di scorta, armati di fucili, erano già li ad attendere la detenuta. Uno scrivano consegnò a uno dei soldati una carta impregnata di fumo di tabacco e additando la detenuta disse: - Prendi. - Il soldato, un contadino di Nizni-Nòvgorod dal viso rosso segnato dal vaiolo, introdusse la carta nel risvolto della manica del cappotto e ammiccò maliziosamente al compagno, un ciuvasci dai larghi zigomi, guardando la detenuta. I soldati e la prigioniera scesero la scala e uscirono da un portello dell'ingresso principale. Attraversarono il cortile, varcarono il recinto e si trovarono sul selciato delle vie della città. I cocchieri, i bottegai, le cuoche, gli operai, gli impiegati si fermavano a guardare con curiosità la detenuta; qualcuno scuoteva il capo pensando: - Ecco a che cosa conduce una cattiva condotta!

A me non capiterebbe di certo -. I bambini guardavano la delinquente con orrore, ma li rassicurava la vista dei due soldati, i quali le avrebbero impedito di nuocere.

Un contadino dei sobborghi, che vendeva carbone, uscì dalla trattoria dove aveva bevuto il tè, si avvicinò alla donna e le porse una copeca, segnandosi.

La detenuta arrossì, chinò il capo e mormorò qualcosa.

Sentendo gli sguardi fissi su di sé, ella, senza voltarsi, osservava con la coda dell'occhio la gente che la guardava passare, lieta di richiamare tutta quell'attenzione. Assaporava la dolcezza dell'aria primaverile, dopo l'atmosfera malsana della prigione, ma le era penoso camminare sui sassi, poiché i suoi piedi si erano disabituati al moto ed erano appesantiti dalle scarpe grosse della prigione. Guardava dove metteva i piedi e cercava di muoversi più leggermente che poteva. Davanti a una bottega di farine, alcuni colombi si dondolavano indisturbati; nel passare, la detenuta sfiorò col piede un bel piccione turchino.

L'uccello volò via e rasentò l'orecchio della detenuta, muovendo l'aria attorno. Lei sorrise, e poi sospirò profondamente, ricordandosi della sua condizione.

 

 

 

2.

 

Una storia delle più comuni, quella della detenuta Màslova. Era figlia di una contadina che viveva aiutando sua madre a custodire le vacche di una fattoria, di proprietà di due sorelle nubili.

Quella contadina, non maritata, ogni anno partoriva un figlio.

Come succede spesso nelle campagne, i neonati ricevevano il battesimo, ma poi la madre non li nutriva, con la scusa che non li aveva desiderati, che erano inutili e la impacciavano nel lavoro.

Sicché alla fine morivano di fame. Già cinque figli se n'erano andati a quel modo. Avevano tutti ricevuto il battesimo, poi la madre non li aveva nutriti, ed erano morti. Il sesto neonato, concepito da uno zingaro di passaggio, fu una femmina, e la sua sorte sarebbe stata la medesima, se per caso una delle due vecchie signorine non fosse andata nella stalla a rimproverare le mungitrici perché la panna sapeva di mucca. Nella stalla giaceva la puerpera, e aveva al fianco una creaturina bellissima e piena di salute. La vecchia signorina sgridò le domestiche, sia per la panna, sia per aver permesso alla donna di partorire nella stalla.

Ma sul punto di uscire, scorgendo la neonata, il suo cuore si intenerì, tanto che essa si offrì di farle da madrina.

Tenne dunque a battesimo la piccola, e poi, mossa a pietà dalla figlioccia, fece dare alla madre del latte e qualche soldo. La bambina rimase in vita, e le vecchie signorine la chiamarono "la salvata".

Quando la bimba ebbe tre anni, sua madre si ammalò e morì. E siccome per la nonna la nipotina era un gran peso, le vecchie signorine raccolsero l'orfanella. Coi suoi occhi neri, la bambina era straordinariamente vivace e graziosa: una consolazione per le due vecchie.

La più giovane delle due, la madrina, si chiamava Sòfia Ivànovna, ed era anche la più indulgente, mentre l'altra, Mària Ivànovna, era più severa. Sòfia Ivànovna vestiva bene la bambina, le insegnava a leggere, e avrebbe voluto adottarla. Mària Ivànovna diceva invece che bisognava insegnarle un mestiere; voleva farne una cameriera, e si mostrava esigente. Puniva la bambina, e talvolta, nei momenti di cattivo umore, la batteva.

Cresciuta fra questi due influssi, la bimba divenne qualcosa di mezzo fra la domestica e la pupilla. Il nome stesso che le diedero corrispondeva al suo stato: non la chiamavano Katka e neppure Kàtienka, ma Katiuscia (1). Cuciva, rassettava le camere, puliva col gesso le immagini sacre, friggeva, macinava, serviva il caffè, faceva piccoli bucati, e qualche volta teneva compagnia alle signorine e leggeva ad alta voce. Era stata chiesta più volte in matrimonio, ma lei aveva sempre rifiutato. Sentiva che l'esistenza le sarebbe stata difficile, sposando un operaio qualsiasi, abituata com'era agli agi di un'esistenza signorile.

Arrivò così ai sedici anni. Li aveva appena compiuti quando le due signorine ricevettero la visita di un loro nipote studente, un principe assai ricco. Katiuscia s'innamorò di lui, ma non l'avrebbe mai confessato a nessuno, nemmeno a se stessa. Trascorsi altri due anni, il medesimo giovane, di passaggio per andare alla guerra, si fermò nuovamente in casa delle zie. Il terzo giorno, alla vigilia della sua partenza, sedusse Katiuscia. Partì dopo averle fatto scivolare in mano un biglietto da cento rubli. Cinque mesi dopo, lei sapeva per certo di essere incinta. Da quel momento la vita le divenne uggiosa. Non pensava ad altro che al modo di sottrarsi alla vergogna che l'aspettava. Serviva le signorine male, svogliatamente; a volte perdeva il controllo, diceva sgarberie di cui poi si pentiva, chiese che le regolassero il salario.

Le signorine, assai scontente di lei, la licenziarono.

Lasciatele, si alloggiò come domestica in casa di un commissario, ma non vi poté restare più di tre mesi, perché il suo padrone, un vecchio cinquantenne, cominciò ad importunarla. Un giorno, in cui egli si mostrò particolarmente intraprendente, Katiuscia si senti ribollire di collera, lo chiamò stupido e vecchio demonio e gli diede un tale spintone nel petto da farlo cadere. A causa di ciò la scacciarono. Ormai non era più il caso di trovare un altro posto, giacché presto avrebbe dovuto partorire.

Si stabilì in casa di una vedova, che teneva una bettola e faceva la levatrice. Il parto fu facile. Ma la levatrice, curando una contadina in un villaggio vicino, contagiò Katiuscia di febbre puerperale. Il neonato, un maschio, fu portato all'ospizio dove morì subito, come raccontò la vecchia che ve l'aveva portato.

Katiuscia, prima di ammalarsi, possedeva centoventisette rubli:

ventisette guadagnati, e cento che le aveva dato il suo seduttore.

Quando lasciò la casa della levatrice, gliene rimanevano soltanto sei. Non sapeva conservare il denaro, sia che ne spendesse per sé, sia che ne desse a chi glielo chiedeva. La levatrice le aveva preso quaranta rubli per due mesi di pensione, altri quaranta glieli aveva chiesti in prestito per comprarsi una mucca, venticinque se n'erano andati per il bambino. In quanto al resto, le era sfumato così, senza che ella se ne accorgesse, in vestiti e in regali. Quando Katiuscia fu guarita, si trovò senza un centesimo, e dovette cercarsi un posto. Le capitò di collocarsi presso un guardiaboschi. Costui era sposato, ma fin dal primo giorno, come già il commissario, cominciò ad importunare Katiuscia. Sebbene questa non lo potesse soffrire e facesse di tutto per sfuggirgli, l'uomo era più esperto e più furbo di lei; soprattutto era il padrone, e poteva comandarle qualunque cosa.

Riuscì a cogliere il momento opportuno, e le usò violenza. La moglie non tardò ad accorgersene, e un giorno che sorprese il marito solo in una camera con Katiuscia, la coprì di botte.

Katiuscia si ribellò, ne nacque un putiferio, e come conseguenza la ragazza fu scacciata senza neppure ricevere il salario.

Katiuscia andò in città e si stabilì presso una zia. Il marito della zia faceva il rilegatore e aveva visto tempi buoni. Ma poi, andati male gli affari, s'era buttato al bere, tanto che spendeva all'osteria tutto il denaro che gli capitava fra le mani.

La zia teneva una piccola lavanderia, che dava da vivere a lei, ai suoi figli e al marito ubriacone. Propose alla Màslova di entrare nell'azienda. Ma osservando quanto fosse dura la vita delle donne che lavoravano per la zia, la ragazza esitò e preferì rivolgersi ad una agenzia per procurarsi un posto di domestica. E infatti lo trovò, questo posto, presso una signora con due figli che frequentavano il ginnasio. Ma una settimana dopo, il maggiore, uno studentello di sesta ginnasiale che aveva già i baffi, trascurò lo studio per farle la corte. Non le dava requie. La madre riversò tutte le colpe sulla Màslova e la scacciò. Altri posti non le capitarono.

Un giorno, nell'ufficio di collocamento, la Màslova incontrò una signora con le braccia nude e grasse cariche di anelli e di braccialetti. Costei, quando ebbe saputo che la Màslova cercava un posto e non riusciva a trovarlo, le diede il proprio indirizzo e la invitò ad andarla a visitare. La Màslova vi andò. La signora l'accolse affabilmente, le offrì pasticcini e vino dolce, e spedì via la sua domestica con un biglietto.

La sera Katiuscia vide entrare nella camera un uomo alto, coi capelli lunghi e brizzolati e con la barba grigia, il quale subito le si sedette vicino. La guardava con gli occhi lustri e sorridenti, e scherzava con lei. La signora lo chiamò nella camera attigua, e la Màslova udì che gli diceva: "E' fresca, viene dalla campagna". Poi la signora chiamò lei, e spiegò che quel vecchio era uno scrittore, una persona molto ricca che non avrebbe badato a spese, se l'avesse trovata di suo gradimento. Infatti essa gli piacque, ed ebbe dallo scrittore venticinque rubli e la promessa di nuovi convegni. I denari sfumarono in un baleno; Katiuscia pagò la pensione alla zia e si comprò un nuovo vestito, un cappello e dei nastri. Pochi giorni dopo lo scrittore la fece chiamare ancora. Lei ci andò. Il vecchio le diede altri venticinque rubli e la invitò a prendersi un appartamento ammobiliato.

Trasferitasi in questo nuovo alloggio, la Màslova s'innamorò di un commesso, un giovanotto allegro che abitava nella medesima casa.

Dopo aver confessato lei stessa la cosa allo scrittore, lasciò l'appartamento e si trasferì in un altro più piccolo. Ma il commesso, che le aveva promesso di sposarla, partì improvvisamente per Nizni senza dirle nulla, con l'intenzione palese di piantarla.

La Màslova rimase sola. Avrebbe voluto tenere ancora quell'alloggio per conto suo, ma non glielo permisero. Il commissario di polizia le disse che avrebbe potuto vivere a quel modo solo facendosi dare il biglietto giallo (2) e assoggettandosi alla visita medica.

Allora ritornò di nuovo dalla zia. Costei, vedendole indosso un abito elegante, mantellina e cappello, l'accolse con rispetto, e non ebbe più il coraggio di offrirle lavoro nella lavanderia:

riteneva che la nipote fosse salita un gradino più in su nella scala sociale. D'altra parte la Màslova non pensava neppure più alla possibilità di entrare nella lavanderia. Commiserava con tutto il cuore le operaie della zia, costrette a condurre quella vita da galera: pallide donne dalle mani magre, alcune delle quali già tisiche, a furia di strofinare e di stirare, col vapore di sapone a trenta gradi e con le finestre aperte d'inverno e d'estate. Inorridiva solo all'idea di poter entrare anche lei in quell'inferno.

E fu proprio allora che la Màslova, ridotta quasi alla miseria per mancanza di protettori, capitò fra gli artigli di una mezzana che collocava ragazze nelle case di tolleranza.

Già da un pezzo la Màslova fumava, ma negli ultimi tempi della sua relazione col commesso, e dopo che lui l'aveva lasciata, s'era data sempre più al vizio del bere. Il vino l'attirava non soltanto perché le sembrava buono, ma soprattutto perché le offriva la possibilità di dimenticare i suoi guai, perché la rendeva spigliata e le dava la sensazione di valer qualcosa. Sensazione che normalmente non aveva: senza vino si sentiva triste e piena di vergogna. La mezzana, dunque, la invitò a pranzo con la zia, e dopo averla un po' ubriacata, le propose di farla entrare in una bella casa, la migliore che ci fosse in città, e le fece balenare davanti agli occhi tutti i vantaggi e i privilegi che vi avrebbe trovato. La Màslova doveva scegliere; da una parte la condizione umiliante di serva, in cui di sicuro sarebbe stata esposta agli assalti degli uomini e ai pericoli di una prostituzione segreta e precaria; dall'altra una posizione sicura, tranquilla e legale:

soprattutto, una prostituzione favorita dalla legge e ben remunerata. Scelse la seconda via. Le pareva di render così la pariglia all'uomo che l'aveva sedotta, al commesso e a tutti gli altri che le avevano fatto male. Ma l'argomento che valse a deciderla fu quello dei vestiti, quando la mezzana le disse che avrebbe potuto ordinarsi tutti quelli che voleva. Abiti di velluto, di "faille", di seta. Abiti da ballo, di quelli che lasciano scoperte le spalle e le braccia. E quando s'immaginò in un vestito di seta giallina, scollato e guarnito di velluto nero, non seppe più resistere e consegnò il passaporto (2).

Quella sera stessa la mezzana prese una vettura pubblica e l'accompagnò in una casa molto nota, la casa della Kitàieva.

Da allora cominciò per la Màslova una vita di violazione incessante dei comandamenti divini e umani; una vita che migliaia di donne conducono, non solo con l'autorizzazione, ma persino sotto la protezione del potere governativo, il quale si preoccupa del benessere dei suoi cittadini; vita che per nove donne su dieci termina con malattie tormentose, con la vecchiaia precoce e con la morte.

Di mattina e durante il giorno il sonno pesante, dopo le orge della notte. Poi, fra le tre e le quattro del pomeriggio, il risveglio stanco fra le coltri sozze; i lunghi sorsi di selz e di caffè, il pigro ciondolare per le stanze, in accappatoio o in vestaglia; poi, il bagno, le applicazioni di unguenti e di profumi sul corpo e sui capelli, la scelta d'un abito e le discussioni con la padrona, lo studio delle pose davanti allo specchio, la truccatura del viso e delle sopracciglia, i cibi grassi e dolci.

Poi l'abito di seta chiara, che mette a nudo il corpo, e l'ingresso in una sala carica di ornamenti e abbagliante di luce.

Poi l'arrivo dei clienti, la musica, le danze, i dolci, il vino, il fumo e il commercio d'amore con giovanotti e uomini maturi, coi quasi fanciulli e i vecchi cadenti; con gli scapoli, i coniugati, i mercanti, i commessi, gli armeni, gli ebrei, i tartari, i ricchi, o poveri, i sani, gli ubriaconi, i sobri, i rudi, i teneri, i militari, i civili, gli studenti universitari, gli scolari... Gente di ogni età, ceto e carattere. E poi grida, burle, baruffe, musica, tabacco e vino, vino, tabacco e musica fino allo spuntar dell'alba. E solo al mattino la liberazione e un sonno di piombo. Sempre così ogni giorno, per tutta la settimana.

E alla fine della settimana la visita, imposta dalla legge, alla sezione di polizia, dove altri uomini, funzionari dello Stato in veste di medici, a volte son seri e severi, a volte invece si divertono allegramente a calpestare quel pudore che è dato dalla natura come una difesa contro il male non solo agli uomini, ma anche alle bestie.

I medici visitavano le donne e poi rilasciavano un certificato che le autorizzava a continuare per un'altra settimana la stessa vita di colpa, in compagnia dei loro complici. E le settimane si susseguivano uguali, d'estate come d'inverno, nei giorni feriali come in quelli festivi.

Così visse la Màslova per sette anni. Due volte cambiò casa e una volta andò all'ospedale. Nel settimo anno aveva allora ventisei anni, e ne erano trascorsi otto dal giorno della sua prima caduta - accadde il fatto che determinò il suo arresto, e che la conduceva ora davanti alla Corte dopo sei mesi di detenzione fra ladre ed assassine.

 

 

 

NOTE:

  1. Katka è lo spregiativo di Caterina; Kàtienka ne è il vezzeggiativo; Katiuscia, il diminutivo.
  2. Documento personale delle prostitute, alle quali veniva ritirato il passaporto vigente all'interno della Russia.

 

 

 

3.

 

Mentre la Màslova, sfinita dalla lunga marcia, si avvicinava con la sua scorta al palazzo del tribunale, il principe Dmitri Ivànovic' Necliudov, quello stesso nipote delle sue tutrici che l'aveva sedotta, si svegliava nel suo gran letto elastico dal soffice materasso di piume. Si sbottonò il bavero della camicia da notte di candida tela di Olanda a piegoline ben stirate sul petto, e accese una sigaretta. Guardava assorto davanti a sé, pensando a ciò che avrebbe fatto nella giornata e agli avvenimenti del giorno precedente.

Ricordò la serata trascorsa in casa dei Korciaghin, una famiglia ricca e conosciuta, di cui tutti dicevano che avrebbe sposato la figliola. A quel ricordo trasse un sospiro, e gettato il mozzicone di sigaretta allungò la mano a un portasigari d'argento per prenderne un'altra, ma improvvisamente cambiò idea. Infilò nelle pantofole i piedi bianchi e lisci, si gettò sulle larghe spalle una vestaglia di seta, e con passo rapido e pesante entrò nello spogliatoio attiguo alla camera, che era tutto impregnato dell'odore di lozioni, di acque di Colonia, di pomate, di profumi.

Usando una polverina speciale si spazzolò i denti, parecchi dei quali erano piombati, si sciacquò la bocca con un liquido profumato, poi si lavò accuratamente in ogni parte del corpo e si strofinò ben bene con molti asciugamani.

Dopo essersi lavate le mani con una saponetta profumata, si spazzolò a lungo le unghie che teneva molto lunghe.

In un grande lavabo di marmo si lavò la faccia e il collo, e poi passò in un'altra stanza dove lo aspettava la doccia. Lo zampillo d'acqua fredda irrorò il suo corpo bianco e muscoloso, già un po' pingue. Strofinatosi per bene con un lenzuolo da bagno, indossò biancheria di bucato e infilò scarpe lucide come uno specchio.

Sedette alla toeletta e si pettinò con due spazzole la barbetta nera e ricciuta e i capelli ondulati, già molto radi sulla sommità del cranio.

Tutti gli oggetti di cui si serviva per la toeletta, la biancheria, i vestiti, le scarpe, le cravatte, le spille, i bottoni, erano di primissima qualità: cose non appariscenti, semplici, solide e costose.

Dopo aver preso fra una dozzina di cravatte e di spille, le prime che gli capitarono fra le mani - una volta si divertiva a scegliere, ma ora ci aveva fatto l'abitudine - Necliudov indossò un abito che gli avevano preparato sulla sedia, e tutto profumato e lindo, sebbene avesse l'aria un po' sciupata, passò nella sala da pranzo, una stanza oblunga dal pavimento di legno che tre uomini avevano lustrato il giorno prima. Vi torreggiavano una enorme credenza di quercia e un tavolo non meno grande e allungabile che aveva un certo che di solenne, con le sue gambe a forma di zampe di leone, solidamente piantate. Sulla tavola, coperta da una tovaglia fine e inamidata e con un gran monogramma, si vedevano una caffettiera d'argento piena di caffè profumatissimo, una zuccheriera pure d'argento, un vaso di panna bollita e un cestino con panini freschi, fette tostate e biscotti.

Accanto alla tazza c'era la corrispondenza del mattino i giornali e l'ultima "Revue des Deux Mondes". Necliudov stava per aprire le lettere quando dalla porta che dava sul corridoio entrò una donna grossa e anziana, in lutto, col capo coperto da una acconciatura di pizzo che le nascondeva la scriminatura un poco irregolare. Era Agrafena Petrovna, la cameriera della madre di Necliudov, morta da poco in quel medesimo appartamento. Ora svolgeva presso il figlio le mansioni di governante. Agrafena Petrovna aveva trascorso con la madre di Necliudov dieci anni all'estero, in periodi diversi, e aveva l'aspetto e i modi di una signora. Era sempre stata, fin da piccola, in casa di Necliudov e aveva conosciuto Dmitri Ivànovic' quando ancora lo chiamavano Mìtienka.

- Buongiorno, Dmitri Ivànovic'!

- Buongiorno, Agrafena Petrovna. Che c'è di nuovo? - domandò scherzando Necliudov.

- Una lettera non so se della principessa o della principessina.

L'ha portata la cameriera già da un pezzo, - disse Agrafena Petrovna, porgendo la lettera e sorridendo con aria d'intesa.

- Va bene, subito, - rispose Necliudov prendendo la lettera, ma quando vide il sorriso di Agrafena Petrovna si accigliò.

Il sorriso di Agrafena Petrovna era molto chiaro: sapeva benissimo, lei, che la lettera era della principessina Korciàghina che, secondo il suo parere, Necliudov aveva l'intenzione di sposare. Quella supposizione, espressa dal sorriso di Agrafena Petrovna, gli riusciva sgradevole.

- Le dirò di aspettare. - E Agrafena Petrovna, dopo aver messo al suo posto una spazzola rimasta sul tavolo, uscì maestosamente dalla sala da pranzo.

Necliudov aprì la busta profumata che gli aveva portato Agrafena Petrovna e lesse la lettera, scritta su un foglio di carta grossa e grigia, con una scrittura angolosa e irregolare ma ben spaziata.

"Adempiendo al dovere che mi sono imposta di sostituire la vostra memoria, vi ricordo che oggi 28 aprile dovete far parte della giuria alla Corte d'Assise. Vi sarà perciò assolutamente impossibile venire con noi e con Kolossòv a visitare la mostra dei quadri, come ci prometteste ieri sera con la vostra solita leggerezza.

'A moins que vous ne soyez disposé a payer à la Cour d'Assise les 300 roubles d'amende que vous vous refusez pour votre cheval' (1) per essere arrivato in ritardo. Me ne sono ricordata ieri sera che eravate appena uscito. Cercate di non dimenticarvi.

Pr. M. Korciàghina

L'altra parte del foglio recava un poscritto:

"Maman vous fait dire que votre couvert vous attendra jusqu'à la nuit. Venez absolument a quelle heure que cela soit (2). M. K"

Necliudov si rannuvolò. Quel biglietto era il seguito dell'abile trama che già da due mesi la principessina stava tessendo intorno a lui, allo scopo di impegnarlo definitivamente. E poi Necliudov, oltre all'indecisione che provano di solito di fronte al matrimonio gli uomini non più giovanissimi né appassionatamente innamorati, aveva un altro motivo che gli impediva di impegnarsi.

Questo motivo naturalmente non aveva nulla a che vedere col fatto che dieci anni prima aveva sedotto e abbandonato Katiuscia. Di quel fatto si era scordato completamente: e certo non avrebbe mai pensato che potesse costituire un impedimento alle sue nozze.

Si trattava invece d'un vecchio legame con una donna maritata, che egli non poteva ancora considerare sciolto per l'opposizione di lei.

Necliudov era molto timido con le donne. E appunto questa timidezza aveva fatto nascere nel cuore della donna il desiderio di conquistarlo.

Moglie del maresciallo della nobiltà del distretto elettorale di Necliudov, di giorno in giorno lo aveva irretito in una relazione sempre più intima e odiosa. In un primo tempo Necliudov non aveva saputo resistere alla tentazione; poi, sentendosi colpevole verso l'amante, non poteva risolversi a rompere senza il suo consenso.

Questo era dunque il motivo per cui Necliudov non si considerava in diritto, anche se lo avesse desiderato, di fare la sua dichiarazione alla principessina Korciàghina.

Sul tavolo c'era per l'appunto una lettera del marito di quella donna. Riconoscendo la scrittura e il sigillo, Necliudov arrossì.

Si sentì preso da un improvviso impeto di energia, come sempre all'avvicinarsi del pericolo. Ma la sua agitazione svanì subito.

Il marito della donna, maresciallo della nobiltà del distretto in cui erano i principali possedimenti di Necliudov, gli scriveva per informarlo che era stata fissata per la fine di maggio un'assemblea straordinaria del consiglio e lo pregava di non mancarvi, poiché aveva bisogno di un "coup d'épaule" in due problemi importanti che si dovevano discutere: il problema della scuola e quello dei binari secondari; e tanto nell'uno come nell'altro caso c'era da aspettarsi una forte opposizione del partito reazionario. Questo maresciallo della nobiltà aveva idee liberali, e con alcuni compagni di fede si batteva contro la reazione che imperversava sotto Alessandro Terzo. Tutto preso dalla lotta ideologica, non sapeva nulla della sua disgraziata vita familiare.

Necliudov ricordò le ansie sofferte; ricordò il giorno in cui, preso dal dubbio che il marito avesse scoperto la tresca, s'era preparato alla eventualità di un duello, e a sparare in aria.

Ricordò un'altra volta che la sua amante, dopo una scena terribile, era corsa disperata nel giardino per buttarsi nello stagno, ed egli l'aveva rincorsa.

"Non posso più andare dai Korciaghin e non posso prendere nessuna decisione finché lei non m'abbia risposto", pensò Necliudov.

Una settimana prima aveva scritto all'amante una lettera risoluta, in cui si dichiarava colpevole e pronto a qualsiasi sacrificio, ma fermamente deciso, anche per il bene di lei, a troncare per sempre la loro relazione. Necliudov aspettava per l'appunto una risposta a quella lettera. Il silenzio della donna era forse un buon segno.

Se non avesse acconsentito alla rottura avrebbe scritto senza indugio, oppure sarebbe venuta, come altre volte era accaduto.

Necliudov aveva sentito parlare di un certo ufficiale che le faceva la corte, e se da un lato questo pensiero stimolava la sua gelosia, dall'altro lo consolava dandogli la speranza di poter evadere da quella menzogna che gli pesava tanto.

C'era un'altra lettera nella posta: veniva dall'amministratore generale dei suoi beni. Egli scriveva a Necliudov che era assolutamente necessaria una sua visita in campagna, per la conferma dei diritti di successione e per risolvere il problema dell'amministrazione: se fosse meglio continuare col vecchio sistema, come quando viveva la defunta principessa, o non invece aumentare le scorte e riprendere tutte le terre che erano state affittate ai contadini. L'amministratore affermava che questa soluzione, permettendo di sfruttare maggiormente la terra, sarebbe stata assai più vantaggiosa, ed egli l'aveva, a suo tempo, già consigliata. L'amministratore si scusava poi di avere tardato alquanto a spedire i tremila rubli che spettavano al principe al primo di ogni mese. La somma sarebbe stata spedita senz'altro col prossimo corriere; non aveva potuto essere puntuale perché non gli era riuscito di farsi pagar prima dai contadini, così poco coscienziosi, che bisognava ricorrere alla forza per costringerli a fare il loro dovere. Questa lettera riuscì a Necliudov contemporaneamente gradita e sgradita; gli faceva piacere sentirsi il padrone di un patrimonio tanto vistoso, gli dava però fastidio ricordare che, ai tempi della sua prima giovinezza, era stato un seguace entusiasta di Herbert Spencer e, benché erede di un gran patrimonio terriero, aveva accolto con entusiasmo la tesi, sostenuta dallo Spencer nella "Statica sociale", secondo cui la terra non può essere oggetto di proprietà individuale.

Con la dirittura e lo slancio propri della gioventù, egli aveva fatto sua quella tesi, sulla quale s'era persino laureato. E per convalidare i suoi principi aveva donato ai contadini una piccola proprietà ereditata dal padre.

E ora che la morte della madre aveva fatto di lui un grande proprietario, doveva scegliere fra due alternative: o rinunciare ai suoi beni, come dieci anni avanti alle duecento "dessiatine" (3) di terra paterna, oppure accettare il patrimonio, riconoscendo con ciò tacitamente erronee e false tutte le sue antiche convinzioni.

La prima soluzione era impossibile poiché non avrebbe saputo di che vivere. Di entrare in servizio non se la sentiva assolutamente, ma neppure di rinunciare alla vita dispendiosa cui s'era abituato.

D'altronde il sacrificio non sarebbe valso a nulla: aveva perso ormai la forza della convinzione, la risolutezza, l'ambizione e il desiderio di stupire il mondo, propri della gioventù.

Ma la seconda soluzione, che consisteva nel rinnegare i principi della "Statica sociale" di Spencer, non avrebbe mai potuto accettarla. Quei principi, che Necliudov molto tempo dopo aveva visto brillantemente confermati nelle opere di Henry George, erano troppo evidenti e inconfutabili. Per questo, dunque, la lettera dell'amministratore gli riusciva spiacevole.

 

 

 

NOTE:

  1. A meno che non siate disposto a pagare alla Corte d'Assise i trecento rubli che avete rifiutato per il vostro cavallo.
  2. La mamma mi incarica di dirvi che la vostra posata vi aspetterà fino a notte. Venite assolutamente a qualunque ora.
  3. La dessiatina equivale a poco più di un ettaro.

 

 

 

4.

 

Dopo aver bevuto il caffè, Necliudov passò nello studio per vedere, nella citazione, a che ora avrebbe dovuto essere in tribunale, e per rispondere alla principessina. Passò prima in una camera che era il suo studio di pittore, dove si vedeva su un cavalletto un quadro incominciato. Alle pareti erano appesi parecchi schizzi. La vista del quadro al quale da due anni lavorava senza costrutto, gli schizzi e tutto l'ambiente acuirono in lui la sensazione sempre più profonda della sua impotenza, e benché l'attribuisse a una sensibilità estetica troppo acuta, era comunque un'impressione sgradevole.

Sette anni prima aveva lasciato l'esercito, convinto di possedere la vocazione per la pittura, e dall'alto della sua attività artistica aveva considerato con un certo disprezzo tutte le altre occupazioni. Ma ora capiva di aver peccato di presunzione e trovava spiacevole ricordarsene. Osservò con un senso di pena l'arredamento sontuoso della stanza ed entrò nello studio attiguo in uno stato d'animo tutt'altro che lieto.

Lo studio era una camera molto alta e spaziosa, ricca di ornamenti e di comodità.

In un cassetto d'una grande scrivania, nello scomparto delle citazioni, trovò subito l'avviso che cercava, e che lo convocava in tribunale per le undici. Necliudov sedette alla scrivania e scrisse un biglietto alla principessina per ringraziarla dell'invito a pranzo e per dirle che avrebbe fatto di tutto per andarci.

Ma subito lacerò il biglietto: gli sembrava troppo intimo. Ne scrisse un altro: era freddo, quasi offensivo. Strappò anche quello e premette un bottone nella parete. Comparve un domestico anziano dall'aspetto grave, la faccia rasa e le fedine, che indossava un grembiule grigio di calicò.

- Per favore, chiamate una carrozza.

- Sissignore.

- E dite, di là, alla cameriera dei Korciaghin, che ringrazio e che cercherò di andare.

- Sissignore.

"E' una scortesia, ma non riesco a scrivere. E poi la vedrò questa sera", pensò Necliudov, e si vestì per uscire.

Quando fu sul portone, la carrozza che prendeva sempre, una vettura dai cerchioni di gomma, lo stava già aspettando.

- Ieri sera eravate appena uscito da casa Korciaghin, quando arrivai io, - disse il cocchiere, girando a metà il collo grosso e abbronzato dentro il colletto bianco della camicia; - ma il portiere mi ha detto che eravate appena uscito.

"Persino i cocchieri sono al corrente dei miei rapporti coi Korciaghin", pensò Necliudov. E di nuovo gli si affacciò alla mente il problema che non aveva risolto, e che lo assillava di continuo negli ultimi tempi: doveva o no sposare la Korciàghina?

Ma, come per la maggior parte dei problemi che gli si presentavano in quel tempo, non riuscì ancora a prendere una decisione in un senso o nell'altro.

Due considerazioni lo facevano propendere per il matrimonio in generale. Anzitutto il matrimonio, oltre alle gioie del focolare domestico, avrebbe normalizzato la sua vita sessuale, permettendogli di condurre un'esistenza onesta. In secondo luogo - cosa assai importante - Necliudov sperava che la famiglia e i figli avrebbero dato uno scopo alla sua vita che non ne aveva alcuno. Rifuggiva, invece, dal matrimonio in generale, per altre due ragioni: l'una, comune a tutti gli scapoli non più giovani, la paura di perdere la libertà; l'altra, la paura istintiva davanti al mistero racchiuso in ogni donna.

Nel caso specifico del suo matrimonio con Missy - si chiamava Mària, ma le avevano dato quel vezzeggiativo perché così si usava nell'aristocrazia - valeva per Necliudov il fatto che la fanciulla era di buon lignaggio, e che in tutto si distingueva dalle ragazze comuni: non già per qualcosa di eccezionale, ma per LA SUA DISTINZIONE che si rivelava nel modo di vestirsi, di muoversi, di parlare, di ridere: egli non avrebbe saputo definire con altra parola quella dote che apprezzava assai. In secondo luogo, Missy lo riteneva superiore agli altri uomini, cioè secondo lui, lo capiva. E se lo capiva, vale a dire se riconosceva le sue alte qualità, per Necliudov era senz'altro intelligente e avveduta.

Ma c'erano anche argomenti contro il matrimonio con Missy.

Anzitutto, molto probabilmente gli sarebbe stato possibile trovare una ragazza ancora più distinta di Missy, e di conseguenza più degna. Inoltre, Missy aveva ventisette anni e si poteva presumere che avesse già avuto altri amori. Pensiero tutt'altro che piacevole per Necliudov. Il suo orgoglio si sentiva offeso, all'idea che Missy avesse potuto amare qualcun altro.

Certo non poteva esigere che Missy avesse preveduto d'incontrare proprio lui; ma la semplice supposizione che fosse stata innamorata d'un altro era per Necliudov un insulto.

Così gli argomenti in favore e quelli contro si presentavano in numero uguale, e Necliudov, ridendo di se stesso, si paragonava all'asino di Buridano. E come l'asino, anch'egli rimaneva lì, non sapendo verso quale dei due fasci d'erba voltarsi.

"D'altra parte, finché non avrò ricevuto una risposta da Mària Vassilievna, la moglie del maresciallo, e fra noi non sarà finito tutto, mi sarà impossibile prendere una decisione", diceva a se stesso.

E il pensiero che poteva, anzi doveva rimandare quella decisione, gli era gradevole.

"Del resto, ho tempo per pensarci", disse fra sé, mentre la sua carrozza si fermava silenziosamente nel cortile asfaltato del tribunale. "Ora devo pensare soltanto ad adempiere al compito che la società mi ha affidato, e al quale ritengo mio dovere dedicare la massima scrupolosità.

E poi, qualche volta è anche interessante", si disse, e, passando davanti al portiere, entrò nel vestibolo.

 

 

 

5.

 

Nei corridoi del tribunale c'era già una grande animazione, quando Necliudov entrò.

Gli uscieri andavano avanti e indietro, un po' correndo e un po' scivolando senza sollevare i piedi da terra, trafelati, con commissioni e incartamenti. Gli ufficiali giudiziari, gli avvocati e i giudici correvano di qua e di là, mentre i postulanti e gli imputati a piede libero giravano sconsolati nei corridoi o sedevano in attesa.

- Il tribunale del distretto? - domandò Necliudov a un usciere.

- Quale tribunale? Civile o penale?

- Sono un giurato.

- Allora la Corte d'Assise. Dovevate dirlo subito. Prendete a destra, poi a sinistra, la seconda porta.

Necliudov seguì le indicazioni.

Davanti alla camera che gli avevano indicato aspettavano due uomini: un mercante alto e grasso, dall'aspetto bonario, che evidentemente aveva mangiato bene ed era di ottimo umore, l'altro un commesso di origine ebraica. Stavano parlando del prezzo della lana. Necliudov si avvicinò loro e chiese se quella fosse la stanza dei giurati.

- Sissignore, è proprio qui. Siete un giurato anche voi? - domandò il mercante bonario, ammiccando allegramente. Bene, dunque!

lavoreremo insieme! - proseguì, dopo che Necliudov ebbe risposto affermativamente; - io sono Baklasciòv, mercante di seconda categoria, - disse, porgendo una mano molle, larga, difficile da stringere. - Con chi ho l'onore?

Necliudov si presentò ed entrò nella camera dei giurati.

Nella camera piuttosto piccola erano già riunite una decina di persone di ogni ceto. Tutti erano arrivati da poco; alcuni s'erano seduti, altri camminavano, chiacchierando da amici. C'era un pensionato in divisa; altri erano in redingote o in giacca, uno solo portava il giubbetto nazionale.

Nonostante che molti avessero dovuto interrompere il loro lavoro e se ne lamentassero, tuttavia sui volti di tutti si leggeva una specie di soddisfazione, data dalla coscienza di essere chiamati a compiere un importante lavoro sociale.

I giurati, chi presentandosi, e chi semplicemente così, tirando a indovinare l'identità dell'interlocutore, parlavano fra loro del tempo, della primavera precoce, degli affari in corso. Quelli che ancora non lo conoscevano, s'affrettavano a presentarsi a Necliudov. Evidentemente, lo consideravano un grande onore. E Necliudov, come sempre quando si trovava fra estranei, accettava l'omaggio come dovutogli.

Se qualcuno gli avesse chiesto perché si stimava superiore alla maggioranza degli altri uomini, non avrebbe saputo rispondere, non avendo mai dimostrato in tutta la sua vita di possedere meriti speciali. Il fatto di saper parlare perfettamente l'inglese, il francese e il tedesco, di portare biancheria, abiti, cravatte e gemelli da polso acquistati nei negozi migliori, non poteva costituire un motivo valido di superiorità, lo sapeva bene anche Necliudov. Eppure di questa sua superiorità egli aveva una coscienza profonda: accettava come dovute le attestazioni di rispetto, e si offendeva quando gli venivano meno. Una simile mancanza di riguardo l'aspettava appunto nella sala dei giurati.

Fra questi si trovava un suo conoscente, un certo Piotr Gherassimovic' di cui Necliudov si vantava di non aver mai saputo il cognome. Costui era stato il precettore dei figli di sua sorella, ed ora, dopo aver finito gli studi, insegnava al ginnasio. Necliudov non l'aveva mai potuto soffrire per i suoi modi confidenziali, per il suo sghignazzare sufficiente, e soprattutto per la sua volgarità, come diceva la sorella di Necliudov.

- Ah, ci siete capitato anche voi! - disse Piotr Gherassimovic' ridendo rumorosamente. - Non siete riuscito a svignarvela?

- Non avevo nessuna intenzione di svignarmela, - rispose Necliudov serio e seccato.

-Be', questa è una prova di civismo! Aspettate un po', quando vi verrà fame e sonno! allora cambierete musica! - replicò Piotr Gherassimovic' con una risata ancor più fragorosa.

"Questo figlio di prete adesso mi darà del tu", pensò Necliudov, e atteggiando il viso a un'espressione lugubre, come se gli fosse giunta proprio allora la notizia della morte di tutti i suoi cari, gli voltò le spalle e si avvicinò a un crocchio formatosi intorno a un signore alto, sbarbato e d'aspetto imponente, che stava raccontando qualcosa con molta animazione.

Questo signore parlava del processo che stava svolgendosi nella sezione civile, e ne parlava con competenza, chiamando i giudici e gli avvocati illustri confidenzialmente per nome e per patronimico. Raccontava la piega sbalorditiva che un noto avvocato era riuscito a dare alla causa, per cui una delle parti, una vecchia signora che aveva tutte le ragioni, sarebbe stata irrimediabilmente condannata a pagare una forte somma alla parte avversa.

- Che avvocato geniale! - diceva.

Tutti lo ascoltavano con deferenza; ma se qualcuno cercava di intercalare qualche osservazione, egli subito l'interrompeva, come se lui soltanto sapesse esattamente come stavano le cose.

Benché Necliudov fosse arrivato tardi, gli toccò di aspettare ancora un pezzo. La seduta non poteva cominciare, perché uno dei membri della Corte non si era ancora presentato.

 

 

 

6.

 

Il presidente era venuto in tribunale di buon'ora. Era un uomo alto e grosso, con le lunghe fedine brizzolate. Aveva moglie, ma tutti e due conducevano una vita allegra, nella quale si lasciavano reciprocamente piena libertà. La mattina aveva ricevuto un biglietto da una governante svizzera che era stata loro ospite l'estate precedente: di passaggio dal sud per recarsi a Pietroburgo gli scriveva che lo avrebbe aspettato tra le tre e le sei all'albergo Italia. Il presidente voleva quindi cominciare e finire presto la seduta, in modo da poter raggiungere per le sei la rossa Klara Vassilievna, con la quale, in campagna, aveva intrecciato un romanzo.

Entrò nel suo ufficio, chiuse la porta a chiave, trasse dallo scaffale inferiore dell'armadio due manubri, ed eseguì venti movimenti: in alto, in avanti, di fianco, in basso; poi tre piegamenti, alzando i pesi al di sopra della testa.

"Nulla giova tanto alla salute quanto la doccia e la ginnastica", pensava palpandosi il bicipite teso del braccio destro con la mano sinistra ornata all'anulare da un anello d'oro. Gli restava ancora da fare il mulinello - eseguiva sempre questi due esercizi prima di una seduta un po' lunga - quando la porta si mosse. Qualcuno voleva entrare. Il presidente si affrettò a mettere i manubri al loro posto e aprì la porta.

- Scusatemi - disse.

Nella stanza entrò un giudice basso di statura, con gli occhiali d'oro, le spalle angolose e il viso accigliato.

- Come al solito, Matvièi Nikitic' manca, - disse con aria scontenta.

- Non è ancora arrivato, - rispose il presidente, indossando l'uniforme. - Ritarda sempre.

- Ha una faccia tosta incredibile! - E il giudice, furibondo, si sedette e accese una sigaretta.

Questo magistrato, sempre puntualissimo, aveva avuto quel mattino uno scontro assai sgradevole con la moglie, perché questa aveva speso troppo rapidamente il mensile. La donna aveva chiesto un anticipo, e lui glielo aveva rifiutato. Così era nata la lite. La moglie aveva dichiarato che, se le cose stavano così, al suo ritorno non si aspettasse di trovare il pranzo pronto: lei non l'avrebbe preparato. Uscito di casa su questa dichiarazione, ora temeva che la moglie mantenesse la sua minaccia, ben sapendo che era capace di tutto.

"Bel guadagno si fa a vivere onestamente!", pensava fra sé, mentre osservava il presidente, che raggiante di salute, di buonumore e di bonarietà, si lisciava con le mani belle e bianche le fluenti fedine brizzolate, accomodandole ai due lati del colletto gallonato; "lui è sempre allegro e contento, mentre io mi rodo l'esistenza" .

Entrò il cancelliere con una pratica.

- Grazie! - disse il presidente, accendendo una sigaretta.

- Con che processo s'incomincia?

- Con l'avvelenamento, direi, - rispose il cancelliere con indifferenza.

- Benissimo, vada per l'avvelenamento, - rispose il presidente, pensando di sbrigare quel processo per le quattro, e poi andarsene subito.

- E Matvièi Nikitic' è arrivato?

- Non ancora.

- E Breve?

- Sì, - rispose il cancelliere.

- Ditegli allora, se lo vedete, che si comincia con l'avvelenamento.

Breve era il sostituto procuratore, che in quella sessione sosteneva la pubblica accusa. Il cancelliere lo in contrò nel corridoio.

Le spalle inarcate, la divisa sbottonata e la borsa sotto il braccio, camminava svelto, quasi di corsa, battendo i tacchi e agitando febbrilmente il braccio libero.

- Micail Petrovic' vuol sapere se siete pronto, - gli domandò il cancelliere.

- Certo! Io son sempre pronto, - rispose il sostituto procuratore.

Con che processo s'incomincia?

Con l'avvelenamento.

Benissimo, - disse il sostituto procuratore. Ma in realtà era tutt'altro che contento... La notte non s'era neppure coricato.

Dopo aver accompagnato un amico, lui ed altri avevano giocato a carte fino alle due e per finire la serata, erano andati in una casa di tolleranza: la stessa dove sei mesi prima si trovava la Màslova. Perciò gli era mancato il tempo di leggere l'incartamento di quel processo, e ora gli sarebbe piaciuto dargli almeno una scorsa. Ma il cancelliere lo sapeva e apposta aveva suggerito al presidente di cominciare proprio con quel processo.

Il cancelliere era un uomo di idee liberali, per non dire radicali. Breve, invece, un conservatore: e come tutti i tedeschi impiegati in Russia, di un'ortodossia intransigente. Il cancelliere non lo vedeva di buon occhio e gli invidiava il posto.

- E per gli "scopzì" (1) che si fa? - chiese il cancelliere.

- Ho detto che non posso, - disse il sostituto procuratore, - per mancanza di testimoni. E lo ripeterò al tribunale.

- Ma che importa? - domandò il cancelliere.

- Ho detto di no, - disse il sostituto procuratore, e dimenando il braccio più che mai, entrò nel suo ufficio.

Egli rinviava di continuo quel processo degli scopzì non già per la mancanza di un testimonio insignificante e inutile, ma perché il dibattimento, se avesse avuto luogo in una grande città, dove i giurati sono persone intelligenti, avrebbe potuto terminare con un'assoluzione. Si era perciò accordato col presidente di trasferire il processo al tribunale di una città di provincia, dove la giuria, composta in maggioranza di contadini, sarebbe stata più propensa a condannare.

Nel corridoio il movimento si faceva sempre più intenso. La gente si affollava soprattutto davanti all'aula della sezione civile, dove si discuteva la causa di cui aveva parlato con tanta competenza, nella sala dei giurati, il signore dall'aspetto imponente. Durante un intervallo del processo uscì nel corridoio la vecchietta che era stata abilmente raggirata e privata di ogni bene dal geniale avvocato a favore di un suo cliente, un affarista che non aveva alcun diritto a quel patrimonio. I giudici lo sapevano, e lo sapevano ancor meglio l'avvocato e il suo cliente.

Questa vecchietta era una donna grassa, vestita vistosamente e con un cappellino adorno di un gran mazzo di fiori.

Essa si fermò nel corridoio e torcendosi le mani grasse e corte continuava a ripetere al suo avvocato: "Che succederà adesso?

Ditemelo per carità!"... L'avvocato guardava i fiori del suo cappellino e l'ascoltava con aria distratta. Subito dopo si spalancò l'uscio della sala e ne uscì frettolosamente l'illustre avvocato con lo sparato abbagliante nell'ampia apertura del panciotto. Il suo viso era soddisfatto: aveva saputo ridurre alla miseria la vecchietta dai fiori sul cappello. Tutto merito suo se la vecchia era rimasta senza un soldo e il suo cliente, che gli aveva pagato diecimila rubli, ne guadagnava più di centomila. Gli sguardi della gente si appuntarono sull'avvocato. Egli se ne rendeva conto e tutta la sua persona sembrava dire: "Risparmiatemi la vostra ammirazione...". E passò via rapidamente.

 

 

 

NOTE:

  1. membri di una setta religiosa molto rigida.

 

 

 

7.

 

Finalmente arrivò anche Matvièi Nikitic' e l'usciere del tribunale, un uomo magro col collo lungo, l'andatura sbilenca, e il labbro inferiore storto, entrò nella stanza dei giurati.

Un onest'uomo quest'usciere; aveva studiato all'università, ma non poteva conservare a lungo nessun impiego perché aveva il vizio di bere. Tre mesi prima una certa contessa che s'interessava di sua moglie gli aveva procurato quel posto, ed egli si rallegrava di non averlo ancora perso.

- Dunque, signori, ci siete tutti? - domandò, mettendosi il pince- nez e guardando i giurati.

- Tutti, mi sembra, - disse il mercante gioviale.

- Verifichiamo, - disse l'usciere e, tratta di tasca una lista, fece l'appello, guardando le persone che chiamava, ora attraverso le lenti, ora al di sopra di esse.

- Il consigliere di Stato I. M. Nikiforov?

- Presente, - disse il signore imponente che la sapeva lunga in fatto di processi.

- Il colonnello a riposo Ivàn Semiònovic' Ivanov?

- Eccomi, - esclamò un uomo magro, in divisa di ufficiale in ritiro.

- Il commerciante della seconda categoria Piotr Baklasciòv?

- Presente, - disse il mercante gioviale, con un largo sorriso - pronto!

- Tenente della guardia, principe Dmitri Necliudov?

- Eccomi, - rispose Necliudov.

L'usciere s'inchinò con particolare deferenza, guardando Necliudov al di sopra del pince-nez, come per distinguerlo così dagli altri giurati.

- Il capitano Juri Dmitrievic' Dàncenco? Il mercante Grigori Efìmovic' Kulesciòv?...

E così via. Tutti, tranne due, risposero all'appello.

- E ora, signori, favorite passare nella sala, - disse l'usciere, additando la porta con un gesto cortese.

Tutti si mossero, e cedendosi l'un l'altro il passo, uscirono nel corridoio e passarono nella sala delle Assise. Era una sala grande e lunga. In fondo, tre gradini conducevano a un palco, nel mezzo del quale c'era un tavolo coperto di un panno verde, con una frangia di un verde più cupo. Dietro al tavolo erano poste tre poltrone dagli schienali molto alti di quercia scolpita. Dietro le poltrone spiccava sulla parete, in una cornice d'oro, un ritratto a colori dell'imperatore in divisa di generale, col gran cordone, una gamba più indietro dell'altra e la mano sull'elsa della sciabola. Nell'angolo di destra, un tabernacolo con l'immagine del Cristo incoronato di spine, ed un leggio. Pure a destra, la piccola cattedra del procuratore generale. In fondo a sinistra, di contro alla cattedra, il tavolino del cancelliere, e, più vicino al pubblico, un cancello di legno di quercia che circondava il banco ancora vuoto degli imputati. A destra, sul palco, c'erano due file di sedie con gli schienali alti, per i giurati, e più in basso, i tavoli per gli avvocati. Tutto questo si trovava nella parte anteriore della sala, divisa in due da una barriera. L'altra parte dell'aula era occupata da banchi disposti a gradinata, che arrivavano fino alla parete di fondo.

Nelle prime file dei banchi sedevano quattro donne, all'aspetto operaie o domestiche, e due uomini, anch'essi della classe operaia. Si capiva che erano impressionati dalla solennità dell'ambiente, poiché parlottavano a bassa voce, timidamente.

Poco dopo l'ingresso dei giurati, l'usciere si fece nel mezzo della sala e con voce stentorea, come se volesse intimorire il pubblico, gridò:

- Entra la Corte!

Tutti si alzarono, e sul pretorio comparvero i giudici: il presidente coi suoi muscoli e le sue splendide basette; poi il giudice dall'aria funebre e dagli occhiali d'oro. La sua tetraggine era aumentata ancora: poco prima di entrare nella sala, aveva incontrato suo cognato, un giovane legale, il quale gli aveva detto di aver saputo dalla sorella che non avrebbe preparato la cena.

- Pazienza! Si andrà all'osteria, - aveva osservato il cognato, ridendo.

- Non c'è niente da ridere, - aveva risposto il giudice cupamente, sempre più nero.

Il terzo giudice, era quel Matvièi Nikitic' che ritardava sempre.

Aveva una lunga barba e due occhi grandi e buoni con le palpebre cascanti; soffriva di catarro intestinale e proprio quel mattino, dietro consiglio del medico, aveva iniziato una nuova cura che l'aveva trattenuto a casa ancor più del solito. Salì sul pretorio con un'aria assorta. Aveva l'abitudine di ricorrere ad ogni genere di espedienti per indovinare se certe cose si sarebbero avverate o no, e adesso si era detto che se il numero dei passi dal suo ufficio alla poltrona nella sala d'udienza fosse stato divisibile per tre, la nuova cura l'avrebbe liberato dal catarro; no, in caso contrario. I passi erano ventisei, ma egli ci fece stare un passettino in più e giusto al ventisettesimo raggiunse la poltrona.

L'aspetto del presidente e dei giudici mentre salivano sul pretorio nelle loro divise coi colletti ricamati in oro, era assai imponente. Tutti e tre ne erano consci, e come imbarazzati della propria maestà, abbassando timidamente gli occhi s'affrettarono a sedersi nelle poltrone intagliate, dietro al tavolo ricoperto di panno verde. Sul tavolo si vedevano un oggetto triangolare con l'aquila (1), alcuni vasi di vetro simili a quelli che si tengono nelle credenze per i dolci, un calamaio, penne, fogli di carta bianca e matite di tutte le misure, appena temperate.

Coi giudici era entrato anche il sostituto del procuratore.

Camminando in fretta, con la busta sotto l'ascella e agitando il braccio, questi andò al suo posto vicino alla finestra e s'immerse subito nella lettura e nell'esame dei documenti, valendosi di ogni attimo per prepararsi alla causa. Era soltanto la quarta volta che sosteneva la pubblica accusa, ma da persona molto ambiziosa e decisissima a far carriera, riteneva indispensabile ottenere la condanna degli imputati in tutti i processi ai quali partecipava.

Conosceva quel processo nelle sue linee generali e aveva già combinato il piano della requisitoria, ma gli occorrevano ancora alcuni dati che stava ora desumendo in fretta dall'incartamento.

Il cancelliere s'era seduto all'estremità opposta del pretorio, e dopo aver disposto davanti a sé tutti i documenti da leggere, s'era messo a scorrere un articolo d'un giornale proibito che aveva ricevuto il giorno prima e che aveva già letto. Si proponeva di discorrerne col giudice barbuto, che condivideva il suo punto di vista; ma prima di discorrerne voleva farsene un'idea ben chiara.

 

 

 

NOTE:

  1. Lo specchio di giustizia, arnese prismatico di metallo, a tre facce, recante l'aquila e i decreti fondamentali di Pietro il Grande, che doveva trovarsi sul banco dei giudici in tutte le aule giudiziarie.

 

 

 

8.

 

Il presidente, consultati gli atti del processo, fece alcune domande all'usciere e al cancelliere, e alla loro risposta affermativa, ordinò che fossero introdotti gli accusati. Subito dietro alla sbarra si aprì una porta ed entrarono due gendarmi coi berretti di pelo e le sciabole sguainate.

Dopo di loro i tre imputati; prima un uomo rosso con le lentiggini, poi due donne. L'uomo indossava la divisa dei carcerati, troppo larga e troppo lunga per lui. Entrando nella sala, teneva le mani aperte coi pollici in fuori, e si sforzava di stare con le braccia aderenti al busto per trattenere le maniche troppo lunghe. Egli non guardava né i giudici né gli spettatori, ma osservava attentamente il banco dove doveva sedersi. Quando ne ebbe fatto il giro si accomodò tranquillamente in un angolo, facendo posto agli altri; e fissando gli occhi sul presidente, cominciò ad agitare i muscoli delle guance, come se mormorasse qualcosa.

Lo seguiva una donna non più giovane, anch'essa con l'uniforme del carcere. Un fazzoletto da detenuta le avvolgeva la testa, il viso era d'un pallore grigio, senza ciglia né sopracciglia, ma con gli occhi rossi. Sembrava calmissima. Nel recarsi al suo posto, la casacca le s'impigliò in qualcosa; essa la sganciò con cura, si rassettò senza fretta e poi sedette.

La terza accusata era la Màslova.

Al suo entrare gli sguardi di tutti gli uomini che si trovavano nella sala si volsero verso di lei, e rimasero fissi sul pallido viso dagli occhi neri e scintillanti, sul petto alto e sporgente.

Persino il gendarme, davanti al quale dovette passare, le tenne gli occhi addosso, finché non si fu seduta e solo allora, come se si fosse sentito colpevole, si riscosse e si voltò a guardare la finestra davanti a sé.

Il presidente aspettò che gli accusati fossero al loro posto e poi si volse al cancelliere.

Cominciò la solita procedura: l'appello dei giurati, l'imposizione di una penalità agli assenti, l'esame delle giustificazioni e la sostituzione degli assenti coi supplenti. Poi il presidente piegò alcuni bigliettini, li mise in un vaso di vetro, e rimboccando sulle braccia molto pelose le maniche ricamate della divisa, estrasse uno per uno i biglietti, con gesti da prestigiatore, svolgendoli e leggendoli. Poi si raccomodò le maniche, e pregò il prete di far prestare giuramento.

Il prete era un vecchietto dalla faccia gonfia d'un pallore giallastro. Indossava una veste marrone, una croce d'oro gli dondolava sul petto, dove era appuntata una piccola decorazione.

Muovendo lentamente le gambe gonfie, si avvicinò al leggio che era davanti all'immagine sacra.

I giurati si alzarono e si affrettarono a seguirlo.

- Accomodatevi, - disse il prete, tormentando con la mano gonfia la croce che aveva sul petto e aspettando che tutti i giurati si fossero avvicinati.

Quel sacerdote esercitava il suo ministero da quarantasei anni.

Fra tre anni avrebbe celebrato il suo giubileo come aveva fatto pochi giorni prima l'arciprete della cattedrale. Era addetto al tribunale distrettuale da quando era stato aperto e si vantava molto di aver fatto prestar giuramento decine di migliaia di persone e di continuare, anche in età avanzata, ad agire per il bene della Chiesa, della patria e della famiglia; a questa avrebbe lasciato in eredità, oltre alla casa un capitale di almeno trentamila rubli in titoli di rendita. Non aveva mai pensato che fosse un male far giurare sul Vangelo, quel Vangelo che vieta il giuramento; non si sentiva affatto a disagio, anzi amava quell'occupazione, che gli permetteva di conoscere persone distinte. S'era sentito onoratissimo, quel giorno, di conoscere il famoso avvocato per il quale provava un gran rispetto, da quando aveva saputo che la sola causa della vecchietta coi fiori gli aveva reso diecimila rubli.

Quando tutti i giurati furono sul pretorio, il prete piegò da un lato la testa calva e grigia, l'infilò nell'apertura tutta unta della stola, e ravviandosi i capelli grassi si rivolse ai giurati:

- Alzate la mano destra e mettete le dita a questo modo, - disse lentamente con voce da vecchio, alzando la mano paffuta con le fossette e raggruppando le dita come per prendere un pizzico di tabacco. - E ora ripetete quel che dico io, - proseguì. - Prometto e giuro davanti a Dio onnipotente, davanti al santo Vangelo e alla croce vivificante del Signore che nel processo in cui... - Parlava facendo una pausa dopo ogni frase. - Non abbassate la mano!

Tenetela così, - disse ad un giovanotto che aveva calato il braccio, - che nel processo in cui...

Il signore imponente con le basette, il colonnello, il mercante e alcuni altri tenevano le dita raggruppate come voleva il prete, alzando la mano con aria decisa, quasi ne godessero; altri invece eseguivano il gesto contro voglia e con incertezza. Alcuni ripetevano le parole fin troppo forte, quasi rabbiosamente, con l'aria di affermare: "Si, lo dico, lo dico fin in fondo". Altri perdevano il filo, e poi, come spaventati, raggiungevano il prete in ritardo; qualcuno teneva le dita strette come se temesse di lasciarsi sfuggire qualcosa; qualcuno, invece, continuava ad aprirle e a chiuderle. Tutti erano imbarazzati; solo il prete era convinto, senz'ombra di dubbio, di compiere un'opera molto utile e importante.

Fatto il giuramento, il presidente disse ai giurati di scegliersi un capo. Essi si alzarono ed entrarono tutti nella camera delle deliberazioni, dove la maggioranza si affrettò ad accendersi una sigaretta e a fumare. Qualcuno propose di eleggere il signore imponente. Tutti aderirono subito e, gettate le sigarette, rientrarono nella sala. Il signore imponente dichiarò al presidente di essere stato scelto, e i giurati, scavalcandosi a vicenda, tornarono a sedersi nelle due file di sedie con le spalliere alte.

La procedura seguiva il suo corso rapidamente, ma non senza solennità, e quella solennità, quella legalità e quel formalismo infondevano in tutti la piacevole sensazione che proviene dalla coscienza di adempiere ad un dovere sociale molto serio e importante.

Anche Necliudov condivideva quel sentimento.

Quando i giurati si furono seduti, il presidente li arringò intorno ai loro diritti, i loro obblighi e le loro responsabilità.

Parlando, il presidente non stava fermo un attimo: si appoggiava ora sul braccio destro, ora sul sinistro; ora livellava i margini dei fogli, ora lisciava il fermacarte, ora palpava una matita.

Secondo le sue parole, essi avevano il diritto di interrogare gli accusati per mezzo del presidente, di usare matita e carta e di esaminare i corpi del reato. I loro obblighi consistevano nel giudicare con giustizia, non arbitrariamente. Erano inoltre tenuti a mantenere il segreto sul voto e a non stabilire rapporti con gli estranei: in caso contrario si sarebbero esposti ai rigori della legge.

Tutti ascoltarono con rispettosa attenzione. Il mercante, che puzzava di vino e cercava di ruttare senza troppo rumore, approvava con un cenno del capo ogni parola del presidente.

 

 

 

9.

 

Finito il suo discorso, il presidente si rivolse agli accusati.

- Simòn Kartinkin, alzatevi!

Simòn scattò in piedi; i muscoli delle sue guance vibravano sempre più convulsamente.

- Come vi chiamate?

- Simòn Petrovic' Kartinkin, - rispose svelto con voce stridula l'imputato, che evidentemente aveva già preparate le sue risposte.

- Condizione?

- Contadino.

- Di che provincia e di che distretto?

- Provincia di Tula, distretto di Krapivo, comune di Kupianski, villaggio di Borki.

- Quanti anni avete?

- Trentaquattro. Nato nel milleottocento...

- Religione?

- Russa ortodossa.

- Sposato?

- Nossignore.

- Che mestiere fate?

- Inserviente di corridoio nell'albergo Mauritania.

- Siete stato processato altre volte?

- Mai, perché come vivevo prima...

- Avete avuto altri processi sì o no?

- Lo giuro davanti a Dio, no.

- Avete ricevuto copia dell'atto d'accusa?

- Sì.

- Sedete. Efimia Ivànovna Boc'kova, - si rivolse il presidente a una delle due donne.

Ma Simòn non si sedeva e nascondeva la Boc'kova.

- Kartinkin, sedete!

Il Kartinkin rimaneva ancora in piedi. Sedette soltanto quando accorse l'usciere, che con una mossa severa del capo e facendogli gli occhiacci, gli intimò sottovoce tragicamente: - Sù, sedetevi!

- Il Kartinkin sedette con la stessa rapidità con cui s'era alzato e, avviluppandosi nella casacca, cominciò di nuovo a muovere silenziosamente le guance.

- Come vi chiamate? - con un sospiro di stanchezza domandò il presidente alla seconda accusata, senza guardarla e continuando a consultare una carta che gli stava davanti. Quella procedura gli era diventata tanto abituale che, per guadagnare tempo, poteva fare benissimo due cose in una volta.

La Boc'kova, di condizione borghese, aveva quarantatré anni.

Faceva l'inserviente di corridoio nell'albergo Mauritania. Non era mai stata processata. Aveva ricevuto copia dell'atto di accusa.

Rispondeva alle domande del presidente con sicurezza sfacciata, e con l'aria di dire: "Sì, sono la Boc'kova. Ho ricevuto la copia e me ne vanto, e non permetto a nessuno di ridere di me!". Terminato l'interrogatorio, sedette senza neppure aspettare che glielo dicessero.

- Come vi chiamate? - proseguì il presidente donnaiolo, rivolgendosi con aria particolarmente gentile alla terza imputata.

- Dovete alzarvi, - soggiunse con voce dolce e affabile, notando che la Màslova rimaneva seduta.

La Màslova si alzò di scatto con un'espressione premurosa, e protendendo il seno colmo non rispose, ma fissò dritto negli occhi il presidente coi suoi occhi neri, sorridenti e lievemente strabici. Il nome? Liubòv (1), - mormorò rapidamente.

Intanto Necliudov, che si era messo il pince-nez osservava gli accusati man mano che li interrogavano.

"Ma è impossibile!", pensava, guardando fissamente l'ultima imputata. "Come mai, Liubòv?", pensava nell'udire la sua risposta.

Il presidente stava per fare un'altra domanda, ma il giudice con gli occhiali lo interruppe incollerito, dicendogli qualcosa sottovoce. Il presidente fece con la testa un segno d'assenso e si rivolse all'imputata.

- Come, Liubòv? - egli disse. - Ma qui c'è un nome diverso!

L'imputata taceva.

- Vi domando il vostro nome vero. - Qual è il vostro nome di battesimo? - domandò il giudice con gli occhiali.

- Prima mi chiamavano Jekatierina.

"E' impossibile", continuava a dirsi Necliudov. Ma già sapeva senza ombra di dubbio che quella era proprio lei, la protetta delle sue zie, la fanciulla che un tempo egli aveva amato di vero amore, e in un momento di follia aveva prima sedotto e poi abbandonato, dimenticandone persino il ricordo. Infatti quel ricordo gli era troppo penoso, lo denunciava troppo apertamente, facendogli sentire che, mentre era tanto orgoglioso della propria correttezza, aveva agito verso quella donna in un modo addirittura abietto.

Si, era proprio lei. Ora distingueva chiaramente sul suo volto l'impronta particolare e misteriosa che differenzia un viso da tutti gli altri, rendendolo unico, speciale, irripetibile.

Nonostante il pallore innaturale e l'ingrossamento del viso, egli ritrovava nei suoi lineamenti quella traccia inconfondibile di una grazia che era tutta sua: la ritrovava nelle labbra, negli occhi leggermente strabici, e soprattutto nello sguardo ingenuo, sorridente, e nell'espressione premurosa del viso e di tutta la persona.

- Avreste dovuto dirlo subito, - osservò il presidente anche questa volta con molta dolcezza. - E il vostro patronimico?

- Sono figlia naturale, - rispose la Màslova.

- Il nome del vostro padrino, allora?

- Micail.

"Che cosa avrà fatto?", si domandava intanto Necliudov, trattenendo il respiro.

- Il vostro cognome? che soprannome avete? - proseguì il presidente.

- Mi chiamo Màslova, dal nome di mia madre.

- Condizione?

- Borghese.

- Religione? Ortodossa?

- Ortodossa.

- Professione? Che mestiere facevate?

La Màslova non rispose.

- Che mestiere facevate? - ripeté il presidente.

- Ero in una casa, - disse lei.

- In che casa? - domandò severamente il giudice con gli occhiali.

- Lo sapete bene anche voi! - rispose la Màslova; poi sorrise, e dopo aver lanciato una rapida occhiata per la sala, fissò di nuovo gli occhi sul presidente.

C'era qualcosa di così insolito nell'espressione di quel viso, di così terribilmente patetico nel significato delle sue parole, nel suo sorriso e nella rapida occhiata, che il presidente chinò il capo e nella sala regnò per un momento un silenzio assoluto. Quel silenzio fu rotto da una risata improvvisa che veniva dal pubblico. Qualcuno zittì. Il presidente sollevò la testa e riprese l'interrogatorio.

- Non siete mai stata sotto processo?

- No, - rispose piano la Màslova, sospirando.

- Avete ricevuto la copia dell'atto di accusa?

- Sissignore.

- Sedete, - disse il presidente.

L'imputata rialzò la gonna con lo stesso gesto con cui le signore eleganti sollevano lo strascico e sedette, introducendo le mani piccole e bianche nelle maniche della casacca, senza distogliere lo sguardo dal presidente.

Seguì l'appello dei testimoni, che poi furono fatti uscire dall'aula; fu chiamato il perito medico che a sua volta si ritirò nella sala delle deliberazioni. Si alzò infine il cancelliere e incominciò a leggere l'atto d'accusa. Leggeva con voce alta e chiara, ma così rapidamente che la sua voce, per un difetto di pronuncia, si confondeva in un brusio sordo, continuo e soporifero. I giudici si agitavano nelle poltrone, appoggiandosi ora su un bracciolo ora sull'altro, ora sulla tavola, ora contro lo schienale. Socchiudevano gli occhi, li tornavano ad aprire e parlavano tra loro a bassa voce. Un gendarme represse più di una volta lo spasimo di uno sbadiglio.

Tra gli imputati, il Kartinkin muoveva incessantemente le guance.

La Boc'kova sedeva impassibile e dritta, grattandosi di tanto in tanto con un dito la testa sotto lo scialletto.

La Màslova, immobile, ascoltava il cancelliere con gli occhi fissi su di lui; a volte sussultava e avrebbe voluto dire qualcosa; arrossiva e sospirava profondamente, cambiava la posizione delle mani, si guardava intorno e tornava a fissare il cancelliere.

Necliudov sedeva sul suo seggiolone, il primo nella prima fila dei giurati, e guardava la Màslova senza il pince-nez, mentre nel suo animo si svolgeva un lavorio complesso e tormentoso.

L'atto di accusa era il seguente:

 

 

 

10.

 

"Il 17 gennaio milleottocento... il titolare dell'albergo Mauritania, sito in questa città, denunciò alla polizia la morte improvvisa di un ospite dell'albergo, Ferapònt Smielkòv, mercante siberiano di seconda categoria. Il medico della quarta divisione rilasciò il certificato che la morte dello Smielkòv era dovuta ad un aneurisma provocato dall'abuso di bevande alcooliche; e il cadavere venne inumato.

"Ma alcuni giorni dopo, un compaesano e amico dello Smielkòv, il mercante siberiano Timochin, arrivato da Pietroburgo, informatosi sulle circostanze in cui il decesso era avvenuto, enunciò il sospetto che lo Smielkòv fosse stato avvelenato a scopo di rapina.

Fu perciò aperta un'inchiesta dalla quale risultò quanto segue:

"1) Che lo Smielkòv, poco prima di morire, aveva ritirato dalla banca la somma di 3800 rubli d'argento, mentre dopo la sua morte risultarono in suo possesso soltanto 312 rubli e 16 copeche.

2) Che lo Smielkòv aveva trascorso tutto il giorno e tutta la notte antecedenti al suo decesso, in compagnia della prostituta Liubka, alias Jekatierina Màslova, parte nella casa di tolleranza e parte nell'albergo Mauritania; che per incarico dello Smielkòv, la Màslova s'era recata dalla casa di tolleranza nella camera di lui all'albergo per ritirarvi una somma di denaro che, in presenza della cameriera Efimia Boc'kova e di Simòn Kartinkin, inservienti di corridoio nell'albergo Mauritania, la Màslova aveva aperto la valigia dello Smielkòv, adoperando all'uopo la chiave che egli le aveva dato. Nella valigia che la Màslova aveva aperto, la Boc'kova e il Kartinkin avevano visto un fascio di biglietti da cento.

3) Che lo Smielkòv, uscito dalla casa di tolleranza in compagnia della prostituta Liubka, era rientrato con lei all'albergo, e che la suddetta Liubka, consigliata dall'inserviente Kartinkin, aveva versato in un bicchiere di cognac destinato al mercante una polverina bianca datale dal Kartinkin stesso.

4) Che il mattino successivo la prostituta Liubka aveva venduto alla tenitrice della casa di tolleranza in cui viveva un anello di brillanti, già appartenente allo Smielkòv.

5) Che la cameriera Efimia Boc'kova, inserviente di corridoio all'albergo Mauritania, il giorno successivo alla morte dello Smielkòv, aveva depositato alla Banca del Commercio, in conto corrente, la somma di 1800 rubli. L'autopsia medico-legale del mercante Smielkòv e l'esame dei suoi visceri rivelò la presenza di veleno nell'organismo del defunto e permise perciò di concludere che il decesso era avvenuto per avvelenamento. Interrogati in qualità d'imputati, la Màslova, la Boc'kova e il Kartinkin si protestarono innocenti.

La Màslova dichiarò che lo Smielkòv, trovandosi nella casa di tolleranza dov'essa, secondo la sua espressione, lavorava, l'aveva mandata all'albergo Mauritania per prendere una certa somma di denaro; che aveva aperto con la chiave, da lui datale, la valigia del mercante, e vi aveva tolto 40 rubli, secondo l'ordine ricevuto, non un rublo di più, come potevano testimoniare Simòn Kartinkin ed Efimia Boc'kova, in presenza dei quali aveva aperto e richiuso la valigia. Dichiarò inoltre che, ritornata una seconda volta nella camera dello Smielkòv aveva realmente versato in un bicchiere di cognac destinato al mercante una polverina datale da Simòn Kartinkin, ma affermò che aveva creduto trattarsi di un sonnifero e che l'aveva fatto unicamente perchè il mercante si addormentasse e la lasciasse libera più presto. Dichiarò che lo stesso Smielkòv le aveva regalato l'anello dopo averla picchiata per trattenerla ancora, giacché lei piangendo voleva andarsene.

Efimia Boc'kova dichiarò che non sapeva nulla del denaro scomparso, che nella camera dello Smielkòv era entrata a spadroneggiare soltanto la Liubka; che se il mercante era stato derubato, doveva averlo fatto la Liubka, quando era venuta all'albergo con la chiave per prendere il denaro".

A questo punto la Màslova sussultò e guardò la Boc'kova a bocca aperta.

"Interrogata sulla provenienza dei 1800 rubli depositati alla banca in conto corrente", riprese a leggere il cancelliere, "essa dichiarò che quella somma era stata risparmiata negli ultimi dodici anni da lei e da Simòn, col quale era in procinto di maritarsi.

Simon Kartinkin, interrogato una prima volta, ammise che lui e la Boc'kova, istigati dalla Màslova venuta all'albergo con la chiave, avevano rubato il denaro, dividendolo poi in tre parti uguali".

La Màslova diede un altro sussulto, balzò in piedi, si fece di fiamma e disse qualcosa. Ma l'usciere la interruppe.

"Ammise anche di aver dato alla Màslova la polverina per addormentare il mercante. Nella seconda deposizione, invece, negò sia di aver partecipato al furto del denaro, sia di aver dato le polveri alla Màslova, e riversò ogni colpa su quest'ultima.

Interrogato in merito alla somma depositata alla banca dalla Boc'kova, il Kartinkin dichiarò anch'egli che quel denaro era stato risparmiato da loro due in dodici anni di lavoro, accumulando le mance ricevute dai clienti dell'albergo".

L'atto di accusa continuava col resoconto dei confronti e con le deposizioni dei testimoni, e terminava così:

"In riferimento a quanto sopra, il contadino del villaggio Borki Simòn Kartinkin di 34 anni, la borghese Efimia Ivànovna Boc'kova di 43 anni e la borghese Jekatierina Micàilova Màslova, di 27 anni, sono imputati di avere, il 17 gennaio milleottocento...

sottratto di comune accordo al mercante Smelkòv la somma di 2500 rubli e un anello, e di avere deliberatamente attentato alla vita del suddetto mercante, propinandogli un veleno che ne causò la morte.

"Questo delitto è contemplato dall'articolo 1455 del Codice penale e perciò, anche in base all'articolo 201 del Codice di procedura penale, il contadino Simòn Kartinkin e le borghesi Efimia Boc'kova e Jekatierina Màslova sono deferiti al giudizio del tribunale distrettuale costituito in Corte d'Assise con la collaborazione dei giurati".

Finita la lettura del lungo atto di accusa, il cancelliere raccolse i fogli e sedette al suo posto, lisciandosi con tutte e due le mani i lunghi capelli. Tutti trassero un sospiro di sollievo, per la piacevole sensazione che l'inchiesta fosse ormai aperta: presto ogni cosa sarebbe stata chiarita e la giustizia soddisfatta. Il solo Necliudov non condivideva questo sentimento.

Era tutto preso dall'orrore di quanto aveva potuto commettere quella Màslova che dieci anni prima era stata l'innocente e deliziosa fanciulla che egli aveva conosciuto.

 

 

 

11.

 

Terminata la lettura dell'atto di accusa, il presidente, dopo essersi consigliato coi membri della Corte, si rivolse al Kartinkin con un'espressione che diceva chiaramente: "Ora di sicuro sapremo tutto fin nei minimi particolari".

- Contadino Simòn Kartinkin! - cominciò, piegandosi a sinistra.

Simòn Kartinkin, senza interrompere il movimento silenzioso delle guance, si alzò con le braccia rigidamente aderenti al busto e il corpo proteso in avanti.

- Siete imputato di avere, il 17 gennaio milleottocento..., rubato dalla valigia del mercante Smielkòv una somma di denaro e un anello, complici Jekatierina Màslova e Efimia Boc'kova; di esservi procurato dell'arsenico e di aver indotto la Màslova a versarlo nel vino destinato allo Smielkòv che ne morì. Vi riconoscete colpevole? - pronunciò il presidente, e si piegò a destra.

- E' assolutamente impossibile, perché il mio mestiere è di servire i clienti...

- Lo direte dopo. Vi riconoscete colpevole?

- Niente affatto. Io soltanto...

- Lo direte dopo. Vi riconoscete colpevole? - ripeté il presidente, calmo ma fermo.

- Non posso perché...

L'usciere si precipitò nuovamente verso Simòn Kartinkin e lo zittì con aria drammatica.

Il presidente, come per significare che l'interrogatorio era terminato, spostò il gomito del braccio su cui si appoggiava per leggere il foglio che aveva in mano, e si rivolse alla Efimia Boc'kova.

- Efimia Boc'kova, siete accusata di avere, il 17 gennaio milleottocento... rubato dalla valigia del mercante Smielkòv in una camera dell'albergo Mauritania, complici Simòn Kartinkin e Jekatierina Màslova, una somma di denaro e un anello, dividendo fra voi la refurtiva, e per occultare il furto di aver propinato del veleno al mercante Smielkòv che ne morì. Vi riconoscete colpevole?

- Non sono colpevole di niente! - rispose l'imputata con un tono sfrontato e duro. - Non ho nemmeno messo i piedi nella camera, io... Avrà fatto tutto questa sgualdrina quando vi è entrata.

- Lo direte dopo, - disse il presidente con la stessa voce morbida e ferma.

- Dunque non vi riconoscete colpevole?

- Io non ho preso il denaro, io non ho dato il veleno al mercante, io non sono neppure entrata nella camera. Se ci fossi entrata, l'avrei cacciata via.

- Non vi riconoscete colpevole?

- No.

- Benissimo.

- Jekatierina Màslova, - cominciò il presidente, volgendosi alla terza imputata, - siete accusata di essere entrata nella camera del mercante Smielkòv all'albergo Mauritania e di aver rubato del denaro e un anello, sottraendoli dalla valigia di cui il mercante vi aveva dato la chiave nella casa di tolleranza.

Il presidente parlava come se recitasse una lezione imparata a memoria, e, intanto, porgeva orecchio al giudice di sinistra, il quale gli faceva notare che nell'elenco dei corpi del reato mancava una boccettina.

- Avete sottratto dalla valigia dei denari e un anello, - riprese il presidente; - avete diviso la refurtiva coi vostri complici; e quando più tardi siete ritornata col mercante Smielkòv all'albergo Mauritania, gli avete fatto bere del vino avvelenato, che ne causò la morte. Vi riconoscete colpevole?

- Sono innocente, - rispose lei in fretta, - quello che ho detto allora lo ripeto anche adesso: non ho rubato niente, niente, niente, e l'anello me l'ha regalato lui.

- Non vi riconoscete colpevole di aver rubato duemilacinquecento rubli? - disse il presidente.

- Dico che non ho preso nulla tranne quaranta rubli.

- E di aver versato una polverina nel vino del mercante Smielkòv, vi riconoscete colpevole?

- Sì. Ma credevo che fosse un sonnifero, come mi avevano detto.

Che fosse innocua... Non l'ho fatto apposta. Davanti a Dio lo giuro che non l'ho fatto apposta, - disse.

- Dunque, non vi riconoscete colpevole di aver rubato il denaro e l'anello del mercante Smielkòv, - riprese il presidente. - Ma riconoscete d'avergli dato la polverina.

- Questo lo riconosco. Solo pensavo si trattasse di un sonnifero.

Gliel'ho dato soltanto perché si addormentasse... Non l'ho fatto apposta - rispose lei.

- Benissimo, - disse il presidente, evidentemente soddisfatto dei risultati raggiunti. - E adesso raccontate come è avvenuto il fatto, - proseguì, appoggiandosi alla spalliera e mettendo le mani sulla tavola. - Dite tutto quello che è successo. Una confessione sincera può migliorare la vostra posizione.

La Màslova taceva, senza distogliere gli occhi dal presidente.

- Dite com'è stato.

- Com'è stato? - a un tratto cominciò la Màslova precipitosamente.

"Quando entrai nell'albergo mi accompagnarono alla sua camera. LUI era già molto ubriaco. - Pronunciò la parola "lui" con voce terrorizzata, spalancando gli occhi. - Volevo andarmene via, ma lui non mi lasciò.

Tacque, quasi avesse perso il filo o si fosse ricordata di qualcosa.

- Bene, e poi?

- Come poi? Mi sono fermata un po' e me ne sono ritornata a casa.

A questo punto il sostituto procuratore si alzò a metà, appoggiandosi con affettazione su un gomito.

- Desiderate fare una domanda? - disse il presidente, e alla risposta affermativa del sostituto procuratore gli fece segno che poteva parlare.

- Vorrei chiedere all'imputata se conosceva già prima Simòn Kartinkin, - disse il sostituto senza guardare la Màslova.

E fatta la sua domanda strinse le labbra e si accigliò.

Il presidente ripeté la domanda. La Màslova guardò spaventata il sostituto procuratore.

- Sì, lo conoscevo, - rispose.

- Vorrei ora sapere di che genere erano i rapporti, dell'imputata col Kartinkin. Si vedevano spesso?

- Che rapporti? Mi faceva andare dagli ospiti dell'albergo. Questi erano i nostri rapporti, - rispose la Màslova, girando inquieta lo sguardo dal sostituto procuratore al presidente e viceversa.

- Vorrei sapere perché il Kartinkin faceva andare dai clienti dell'albergo la Màslova e non le altre ragazze, - disse il sostituto procuratore con una strizzatina d'occhi e con un lieve e scaltro sorriso mefistofelico.

- Non lo so. Come posso saperlo? - rispose la Màslova, guardandosi in giro spaventata e soffermando per un istante gli occhi su Necliudov; - faceva andare chi voleva.

"Che m'abbia riconosciuto?", pensò Necliudov con orrore, sentendosi avvampare; ma la Màslova, senza distinguerlo dagli altri, si voltò subito e tornò a fissare spaurita il sostituto procuratore.

- L'imputata nega dunque di aver avuto rapporti intimi col Kartinkin. Benissimo. Non ho più nulla da chiedere.

Il sostituto procuratore abbassò subito il gomito dal banco e si mise a scrivere. In realtà egli non scriveva nulla, si limitava a passare la penna sulle lettere dei suoi appunti: aveva notato che gli avvocati e i procuratori, dopo una domanda abile, si affrettavano sempre a inserire nella loro arringa una nota che avrebbe poi schiacciato l'avversario.

Il presidente non si rivolse subito all'imputata, prima domandò al giudice con gli occhiali se approvava l'impostazione delle domande, già in precedenza preparate e trascritte.

- E poi che cosa è accaduto? - domandò il presidente, riprendendo l'interrogatorio. - Tornai a casa, proseguì la Màslova, guardando rinfrancata il presidente, - diedi il denaro alla padrona e andai a letto. Mi ero appena addormentata quando Berta, la nostra ragazza, mi svegliò. "Muoviti, c'è qua ancora il tuo mercante". Io non volevo andarci, ma madame me lo impose. Lui, - e pronunciò di nuovo questa parola con visibile orrore, - lui continuava ad offrire da bere a tutte le nostre ragazze, e voleva mandar a prendere dell'altro vino, ma non aveva più soldi. La padrona non gli volle far credito. Allora mi mandò nella sua camera, all'albergo. E mi disse dove era il denaro e quanto dovevo prendere. E io andai...

Il presidente, che stava parlando sottovoce col giudice di sinistra, non aveva sentito le parole della Màslova ma per dimostrare che aveva udito tutto, ripeté le sue ultime parole.

- Andaste. Bene, e poi? - domandò.

- Andai e feci come mi aveva ordinato. Entrai nella camera. Non vi entrai sola, ma chiamai Simòn Kartinkin e lei, - disse additando la Boc'kova.

- Non è vero, io non sono entrata... - cominciò a dire la Boc'kova, ma fu fatta tacere subito.

- Davanti a loro presi quattro biglietti rossi, proseguì la Màslova aggrottando la fronte e senza guardare la Boc'kova.

- E non ha visto l'imputata, mentre prendeva i quaranta rubli, quanto denaro c'era nella valigia? - domandò di nuovo il procuratore.

La Màslova sussultò. Senza rendersene conto, intuiva che egli le voleva male.

- Non l'ho contato, ho soltanto visto dei biglietti da cento.

- L'imputata ha visto dei biglietti da cento... Non ho altro da domandare.

- Bene. E i denari li avete portati? - continuò il presidente, guardando l'orologio.

- Li portai.

- E poi? - domandò il presidente.

- Poi mi portò di nuovo con sé, - rispose la Màslova.

- E come avete fatto a mettere la polverina nel suo vino? - domandò il presidente.

- Come ho fatto? L'ho sciolta in un bicchiere di vino e gliel'ho dato da bere.

- Perché l'avete fatto?

Essa non rispose, ma sospirò profondamente, con pena. - Non voleva lasciarmi andare via, - disse dopo una pausa. - Non ne potevo più di stare con lui. Uscii nel corridoio e dissi a Simòn Micàilovic:

"Oh se mi lasciasse andare via! Sono stanca". E Simòn Micàilovic mi rispose: "Siamo stufi anche noi. Diamogli un sonnifero, si addormenterà e tu te ne andrai". Io gli dissi. "Bene". Credevo che si trattasse di una polvere innocua, e presi la cartina che egli mi dette. Entrai in camera. Lui era coricato nell'alcova e subito mi ordinò di dargli del cognac. Sulla tavola c'era una bottiglia di acquavite; ne riempii due bicchieri, uno per me, e uno per lui.

Nel suo versai la polverina e glielo porsi. Non glielo avrei mica dato, se l'avessi saputo...

- E come mai l'anello è capitato nelle vostre mani? - domandò il presidente.

- Me lo regalò lui stesso.

- Quando?

- Quando rientrammo nella camera. Io volevo andarmene, lui mi picchiò sulla testa e mi ruppe il pettine. Mi arrabbiai, non volevo starci più. Lui si tolse l'anello dal dito e me lo donò perché non me ne andassi, - disse. A questo punto il sostituito procuratore si alzò di nuovo a metà e con la sua solita aria di finta innocenza chiese il permesso di fare ancora qualche domanda.

Ricevuta l'autorizzazione, domandò, piegando la testa sul colletto ricamato:

- Vorrei sapere quanto tempo l'imputata rimase nella camera del mercante.

La Màslova fu ripresa dalla paura e girando inquieta lo sguardo dal procuratore al presidente, disse in fretta:

- Non ricordo.

- Bene, ma non ricorda l'imputata se, uscendo dalla camera del mercante, non è entrata in qualche altro locale dell'albergo?

La Màslova rifletté.

- Nella camera accanto che era vuota, entrai, - rispose.

- Perché? - disse il sostituto con foga rivolgendosi direttamente a lei.

- Per mettermi in ordine e per aspettare la carrozza.

- E il Kartinkin era in camera con l'imputata?

- Sì.

- E per qual motivo?

- Era rimasta dell'acquavite nella bottiglia; la bevemmo insieme.

- Ah! la beveste insieme. Benissimo. E l'imputata ha parlato con Simòn Kartinkin? E di che cosa ha parlato?

Ad un tratto la Màslova si accigliò, arrossì tutta e disse precipitosamente:

- Se ho parlato? Io non ho detto nulla. Quel che è stato, l'ho detto. Altro non so. Fate di me quel che volete. Sono innocente, ecco tutto.

- Non ho altro da chiedere, - disse il procuratore al presidente, e alzando le spalle con affettazione annotò rapidamente sui suoi fogli che l'imputata aveva confessato di essersi intrattenuta con Simon in una camera vuota.

Si fece silenzio.

- Non avete altro da dire?

- Ho detto tutto, - essa pronunciò sospirando e si sedette.

Il presidente scrisse qualcosa su un foglio e dopo aver ascoltato il giudice di sinistra che gli parlava a bassa voce, dichiarò sospesa la seduta per dieci minuti, s'alzò in fretta e uscì dalla sala. Il giudice di sinistra, l'omone barbuto dagli occhi grandi e buoni, aveva detto al presidente che si sentiva male allo stomaco; voleva farsi un massaggio e prendere le sue gocce. Questa era la causa che aveva indotto il presidente a sospendere l'udienza.

Subito dopo i giudici si alzarono anche i giurati, gli avvocati, i testimoni e, con la gradevole sensazione di aver compiuto una parte del loro sacro dovere, tutti si sparsero chi qua, chi là.

Necliudov entrò nella stanza dei giurati e sedette presso la finestra.

 

 

 

12.

 

Sì, era proprio Katiuscia. Necliudov riandò alla storia della loro relazione.

L'aveva vista per la prima volta quando, studente del terzo anno di università, dovendo preparare la tesi di laurea sulla proprietà terriera, aveva trascorso l'estate presso le zie. Di solito passava l'estate con la madre e la sorella nella grande tenuta che sua madre possedeva nei dintorni di Mosca.

Ma quell'anno sua sorella s'era maritata e sua madre era andata all'estero, per una cura termale. Perciò Necliudov, che doveva preparare la tesi, aveva deciso di passare l'estate dalle zie. Nel loro eremo si viveva tranquilli, senza distrazioni; le zie amavano teneramente quel nipote che doveva essere il loro erede, ed egli amava le zie e amava pure il loro modo di vivere antiquato e semplice.

Necliudov, quell'estate, era in una felice disposizione di spirito, entusiasta come tutti i giovani che scoprono per la prima volta coi propri occhi, e non per indicazione altrui, la bellezza e il valore della vita e l'importanza del compito assegnato all'uomo; essi credono nella possibilità di un perfezionamento di se stessi e di tutta l'umanità, e si dedicano alla realizzazione di quest'opera con la speranza, anzi con la certezza assoluta di raggiungere l'ideale vagheggiato. All'università, quell'anno, aveva letto uno scritto sociologico dello Spencer, le cui considerazioni sulla proprietà fondiaria gli avevano fatto una forte impressione: sua madre, infatti, era padrona di vastissime terre. Suo padre non era ricco, ma la moglie gli aveva portato in dote diecimila dessiatine di terreno. Allora, per la prima volta, Necliudov aveva compreso tutta la crudeltà e l'ingiustizia del sistema sociale basato sulla proprietà fondiaria privata. Egli era uno di coloro per i quali il sacrificio in nome di un'esigenza morale costituisce il massimo godimento dello spirito; risolse perciò subito di rinunciare ai propri diritti, cedendo ai contadini la campagna che suo padre gli aveva lasciato in eredità.

La sua giornata in casa delle zie si svolgeva così: la mattina si alzava molto presto, talvolta alle tre, e fino al sorger del sole restava a bagnarsi nel fiume che scorreva sotto il monte, spesso avvolto nella nebbia dell'alba. Quando tornava, l'erba e i fiori erano ancora cosparsi di rugiada.

Dopo aver bevuto il caffè, qualche volta lavorava alla sua tesi o consultava le fonti; ma più spesso, invece di leggere e di studiare, usciva di casa e vagabondava per i campi e per i boschi.

Prima del desinare si assopiva in un angolo del giardino e a tavola teneva allegre le zie e le faceva ridere. Poi andava a cavallo o in barca e la sera leggeva di nuovo o stava con le zie a fare un solitario.

Spesso di notte, soprattutto nelle notti di luna, non gli riusciva di prender sonno. Era agitato dalla troppa gioia di vivere; allora passeggiava in giardino, talvolta fino all'alba, fantasticando in compagnia dei propri pensieri, In questo modo felice e tranquillo egli trascorse il primo mese del suo soggiorno presso le zie, senza prestar la minima attenzione a Katiuscia, la svelta fanciulla dagli occhi neri, una via di mezzo tra la pupilla e la cameriera.

In quel tempo Necliudov, educato sotto l'ala materna, era un ragazzo di diciannove anni, innocente come un bambino. Nella donna vedeva soltanto la moglie. Tutte le donne che pensava di non poter sposare, non suscitavano in lui alcun interesse. Ma per la festa dell'Ascensione venne in visita dalle zie una loro vicina con la famiglia: due signorine, un ragazzo che frequentava il ginnasio e un giovane pittore di origine contadina, loro ospite. Dopo il tè, i ragazzi si misero a giocare a gorielki (1) su un prato falciato davanti alla casa. Anche Katiuscia fu invitata. A Necliudov, dopo qualche scambio, capitò di correre con lei. Egli vedeva sempre con piacere Katiuscia, ma non gli era mai passato per la mente che fra di loro potessero stabilirsi dei rapporti speciali.

- Be', questi due non li acchiappi più, - disse allegramente il pittore che doveva raggiungerli, correndo veloce sulle sue gambe corte e storte ma forti, da contadino.

- Forse inciamperanno!

- Ma voi non li prenderete!

- Uno, due, tre!

Batterono tre volte le mani. Trattenendo a stento le risa, Katiuscia cambiò svelta il posto con Necliudov, e stringendo con la sua manina forte e ruvida quella grande di lui, si lanciò di corsa verso sinistra. Si sentiva il fruscio della sua gonna inamidata.

Necliudov correva in fretta e poiché non voleva lasciarsi raggiungere dal pittore, si era lanciato a tutta forza.

Voltandosi, vide il pittore che inseguiva Katiuscia. Ma questa, muovendo agilmente le gambe giovani ed elastiche, non si lasciava acchiappare e si allontanava verso sinistra. Nel fondo c'era un fitto cespuglio di lillà dietro il quale nessuno si spingeva; e Katiuscia, con una occhiata d'intesa a Necliudov, gli fece segno di raggiungerla là. Egli capì e si lanciò in direzione dei cespugli. Ma dietro il cespuglio c'era un fossatello che non conosceva, pieno di ortiche; egli inciampò e cadde, pungendosi le mani e bagnandosi nella rugiada della sera.

Si rialzò subito ridendo di se stesso, e corse fuori sul terreno piano. Katiuscia con un sorriso raggiante negli occhi neri come le more umide, gli volò incontro. Si presero per le mani.

- Vi siete punto? - essa gli domandò, aggiustandosi con la mano destra libera la treccia scomposta. Sorrideva ansimante e lo guardava dritto negli occhi, dal sotto in sù.

- Non sapevo che ci fosse un fossato, - rispose, anch'egli sorridendo e trattenendole la mano.

Essa si avvicinò ed egli, senza sapere come, tese il suo viso verso quello di lei: Katiuscia non si scostò, egli le strinse più forte la mano e la baciò sulle labbra.

- Ohè, dico! - esclamò la fanciulla e liberando la mano con un movimento rapidissimo, si allontanò di corsa.

Giunta a un cespuglio di serenella bianca, ne spezzò due rametti fioriti e battendoseli sulle gote infuocate, si voltò a guardarlo; poi agitando vivacemente le braccia davanti a sé, ritornò tra i compagni.

Da quel giorno i rapporti tra Katiuscia e Necliudov si modificarono. Essi si trovarono nella condizione speciale di un giovane ingenuo e di una ragazza non meno ingenua, reciprocamente attratti l'uno verso l'altra.

Bastava che Katiuscia entrasse in una camera o che Necliudov ne vedesse il grembiule bianco, perché il mondo s'illuminasse di sole, per lui. Tutto gli sembrava più interessante, più allegro, più importante. La vita gli divenne più lieta. E le stesse sensazioni provava Katiuscia. Ma non soltanto la presenza e la vicinanza di Katiuscia agivano a quel modo su Necliudov: per sentirsi felice gli bastava anche solo ricordarsi dell'esistenza di Katiuscia, come a Katiuscia dell'esistenza di Necliudov. Se si sentiva contrariato da una lettera di sua madre, o se il suo lavoro non procedeva bene, o se era preso da quella vaga tristezza che è propria dei giovani, pensava a Katiuscia e che l'avrebbe vista, e subito si rasserenava.

Katiuscia aveva molto da fare in casa, ma le riusciva sempre di sbrigarsi in fretta e, nei momenti di libertà, leggeva. Necliudov le passò Dostoievski e Turgheniev che egli stesso aveva appena finito di leggere. Le piacque moltissimo "La calma" di Turgheniev.

Essi discorrevano nei ritagli di tempo, quando s'incontravano nel corridoio, sul balcone, nel cortile e qualche volta nella stanza di Matriona Pàvlovna, la vecchia cameriera delle zie.

Katiuscia dormiva con lei e qualche volta Necliudov andava a prendere il tè nella loro cameretta. E queste conversazioni in presenza di Matriona Pàvlovna erano le più piacevoli. I colloqui a due erano invece assai difficili. I loro occhi cominciavano subito a parlare un linguaggio tutto speciale, molto più espressivo delle parole, le labbra s'inaridivano ed essi, presi da uno strano imbarazzo, si affrettavano a separarsi.

Questi rapporti tra Necliudov e Katiuscia si prolungarono per tutto il tempo che egli trascorse in casa delle zie. Le zie se ne accorsero, si spaventarono e ne scrissero in proposito alla madre di Necliudov, la principessa Eliena Ivànovna, che si trovava all'estero.

La zia Mària Ivànovna temeva che Dmitri stringesse una relazione con Katiuscia. Timore vano, giacché Necliudov, senza neppure saperlo, amava Katiuscia come sanno amare gli animi ingenui e il suo amore era la principale salvaguardia contro una caduta di lui o di lei. Non desiderava di possedere la fanciulla: e non avrebbe mai ammesso una simile possibilità. Assai più fondate erano le apprensioni della romantica Sòfia Ivànovna, la quale temeva che Dmitri, col suo carattere integro e deciso, si fosse innamorato della ragazza e pensasse di sposarla nonostante la sua origine e la sua condizione. Se allora Necliudov si fosse reso chiaramente conto del suo amore per Katiuscia, e se, soprattutto, qualcuno avesse cercato di convincerlo che egli non poteva unire il suo destino a quello della fanciulla, avrebbe potuto accadere con tutta probabilità che, nella sua rettitudine, egli la sposasse davvero, sostenendo che non v'era alcun motivo di non sposare una ragazza qualunque fosse la sua condizione, se egli l'amava. Ma le zie non gli comunicarono i loro timori ed egli partì senza essersi accorto di amare Katiuscia.

Credeva che il suo sentimento per Katiuscia fosse soltanto una manifestazione della gioia di vivere che riempiva allora tutto il suo essere, e di cui era pervasa anche quella cara e allegra fanciulla. Quando partì, e Katiuscia, immobile sulla scalinata accanto alle vecchie zie, posò su di lui i suoi occhi neri pieni di lacrime e lievemente strabici, egli capì di perdere qualcosa di molto bello e caro che non si sarebbe ripetuto mai più. E si sentì assai triste.

- Addio Katiuscia, grazie di tutto! - le disse al di sopra della cuffietta di Sòfia Ivànovna, al momento di salire in carrozza.

- Addio, Dmitri Ivànovic! - rispose lei con la sua voce dolce e carezzevole, e trattenendo a stento le lacrime che le riempivano gli occhi, si rifugiò nell'andito, dove avrebbe potuto piangere liberamente.

 

 

 

NOTE:

  1. Gioco a rincorrersi eseguito a coppie.

 

 

 

13.

 

Nei tre anni successivi Necliudov non rivide Katiuscia. Quando la rivide, durante una breve visita che fece alle zie, di passaggio per raggiungere il reggimento di cui era stato appena promosso ufficiale, era un uomo completamente diverso.

Allora era un giovane leale, disinteressato, pronto a sacrificarsi per compiere una buona azione; adesso un gaudente, un egoista raffinato, amante soltanto del proprio piacere. Allora il mondo era per lui un mistero, che egli cercava di penetrare con gioia ed entusiasmo, adesso tutto gli sembrava semplice e chiaro, subordinato alle condizioni di vita in cui si trovava.

Allora considerava cosa importante e necessaria comunicare con la natura e con gli uomini - filosofi e poeti che avevano vissuto, pensato e sentito prima di lui; adesso, rispettare le convenzioni sociali e intrattenere buone relazioni con gli amici. Prima vedeva nella donna una creatura misteriosa e seducente, seducente appunto per questo suo mistero; adesso ogni donna, tranne le parenti e le mogli degli amici, significava per lui qualcosa di ben definito:

uno dei migliori strumenti di piacere. Allora non aveva bisogno di denaro: spendeva meno di un terzo di quanto gli passava sua madre e aveva potuto rinunciare alla proprietà paterna per cederla ai contadini: adesso non gli bastavano neppure i millecinquecento rubli che sua madre gli passava ogni mese, per questioni di denaro. Prima credeva che il suo io fosse di natura spirituale, adesso credeva soltanto nel suo io animale, sano e vigoroso.

Una trasformazione così spaventosa nasceva dal fatto che egli aveva cessato di credere a se stesso per credere agli altri.

Il vivere credendo a se stesso gli sembrava troppo difficile, giacché doveva risolvere ogni problema quasi sempre a scapito del suo io fisico, bramoso di piaceri facili; credendo agli altri, non gli toccava prendere nessuna decisione, poiché tutto era già deciso sempre contro l'io spirituale, a vantaggio di quello fisico. E poi, credendo a se stesso, si esponeva sempre alle critiche altrui, mentre credendo agli altri riceveva l'approvazione delle persone che lo attorniavano.

Quando Necliudov pensava, leggeva, parlava di Dio, della verità, della povertà, della ricchezza, le persone del suo mondo ritenevano tutto ciò inopportuno e persino ridicolo; sua madre e sua zia lo chiamavano, con bonaria ironia, notre cher philosophe (1). Quando leggeva i romanzi, raccontava aneddoti scabrosi e andava al teatro francese a vedere comici vaudevilles, di cui poi dava brillanti resoconti, tutti lo applaudivano e lo incitavano.

Ma quando, pensando fosse suo dovere limitare le proprie esigenze, portava un vecchio cappotto e non beveva vino, tutti ritenevano che fosse un po' strambo e che facesse l'originale per darsi delle arie. Se invece spendeva forti somme per la caccia o per arredare sontuosamente il suo studio, tutti lodavano il suo buon gusto e gli regalavano oggetti di pregio. Quando era casto e manifestava il proposito di rimanere tale fino al matrimonio, i familiari temevano per la sua salute; e la madre si rallegrò, invece di esserne rattristata, quando venne a sapere che era diventato un vero uomo e aveva portato via una certa signora francese a un suo amico. All'episodio di Katiuscia, e all'idea che egli avrebbe potuto sposarla, la principessa non poteva pensare senza orrore.

Quando Necliudov, divenuto maggiorenne, cedette ai contadini il piccolo fondo ereditato dal padre perché considerava ingiusto il possesso della terra, quel gesto atterrì sua madre e tutta la famiglia e costituì il loro argomento preferito per rimproverarlo e per deriderlo. Gli ripetevano su tutti i toni che i contadini ai quali aveva ceduto la terra invece di arricchirsi erano diventati più poveri, poiché avevano aperto tre bettole e smesso di lavorare. Ma quando invece, entrato nella guardia, spese in bagordi e perse al gioco coi suoi compagni altolocati una tale somma che Eliena Ivànovna dovette intaccare il capitale, essa se ne dolse pochissimo: era naturale, era anzi una bella cosa che quel vaiolo venisse innestato in gioventù e in buona compagnia.

Dapprincipio Necliudov lottò, ma era una lotta impari, poiché tutto ciò che gli sembrava buono quando credeva a se stesso, era disprezzato dagli altri, e viceversa. La lotta finì con la resa di Necliudov, che smise di credere a se stesso per credere agli altri. In un primo tempo quella rinuncia alla propria personalità gli fu penosa, ma l'impressione sgradevolissima durò assai poco; ben presto Necliudov cominciò a bere e a fumare, non si sentì più oppresso e anzi provò un gran sollievo. Col suo temperamento appassionato, s'abbandonò interamente a quel nuovo genere di vita che riscuoteva l'approvazione di quanti lo circondavano, e soffocò in sé quella voce che reclamava qualcosa di ben diverso. Questa trasformazione, cominciata dopo il suo arrivo a Pietroburgo, culminò col suo ingresso nella guardia.

La vita militare in genere guasta gli uomini; li abitua all'ozio assoluto o meglio alla mancanza di un'attività sensata e utile; li esenta dai doveri comuni; e in cambio esalta valori convenzionali quali l'onore del reggimento, dell'uniforme, della bandiera, mentre all'autorità illimitata degli uni opporre la servile sottomissione degli altri.

Ma quando all'opera di corruzione compiuta dal militarismo col suo onore della divisa e della bandiera, e col consenso dato alla violenza e all'assassinio, si unisce anche la corruzione prodotta dalla ricchezza e dalla facilità dei rapporti con la famiglia imperiale, come è il caso dei reggimenti scelti della guardia, composti soltanto di ufficiali ricchi e nobili, allora questa corruzione porta le persone che vi incorrono ad un grado di egoismo addirittura parossistico.

In queste condizioni si trovava Necliudov, da quando era entrato nella carriera militare ed aveva cominciato a vivere come i suoi compagni.

Non aveva nulla da fare, se non indossare una divisa di fattura impeccabile, che altri si preoccupavano di tenergli in ordine, mettersi un casco e un'arme anch'essa fabbricata, lustrata e presentata a lui da altri, e su un cavallo splendido, ammaestrato, allenato e curato da altri, andarsene alle esercitazioni o alla rivista insieme con compagni simili a lui, che caracollavano e agitavano la spada e sparavano e insegnavano a sparare. Queste erano le sue uniche occupazioni, che i personaggi più illustri, giovani e vecchi, compreso lo zar con la sua Corte, approvavano, non lesinando lodi e ringraziamenti.

Un'altra occupazione considerata degna e importante era quella di riunirsi a gozzovigliare nei circoli degli ufficiali o nelle trattorie di lusso, sperperando denaro ricevuto non si sa da dove.

Poi teatri, balli, donne, e di nuovo cavalli, rotear di sciabole, galoppate, denari al vento, e vino, carte, donne.

Questo genere di vita è particolarmente deleterio per i militari, poiché qualsiasi civile, nel suo intimo, si vergognerebbe di vivere a quel modo. I militari invece credono di compiere un dovere, se ne vantano e ne sono orgogliosi, specialmente in tempo di guerra, come capitò a Necliudov, entrato nell'esercito dopo la dichiarazione di guerra della Turchia.

"Noi rischiamo la vita in guerra e perciò questa esistenza spensierata e allegra non soltanto è scusabile, ma ci è necessaria. E noi la conduciamo".

Così pensava Necliudov in quel torpido periodo della sua vita; aveva la sensazione piacevole di essersi sciolto da tutti i vincoli morali cui prima era soggetto, e viveva in uno stato cronico di folle egoismo. Si trovava appunto in questo stato d'animo quando, dopo tre anni, ritornò dalle zie.

 

 

 

14.

 

Necliudov si era fermato dalle zie sia perché la loro proprietà si trovava sulla strada che doveva percorrere per raggiungere il suo reggimento, sia perché le due vecchie l'avevano insistentemente pregato; ma soprattutto perché aveva voglia di rivedere Katiuscia.

Forse, in fondo al suo animo, covava già, nei riguardi della fanciulla, un proposito malvagio, suggeritogli dal suo io fisico, ormai privo di freni. Ma egli non se ne rendeva conto, e desiderava semplicemente di rivedere quei luoghi in cui si era trovato così bene, di riabbracciare quelle due zie tanto buone e care sebbene un po' buffe, che, senza opprimerlo, lo avevano sempre circondato di un'atmosfera di amore e di ammirazione, desiderava anche rivedere la gentile Katiuscia, di cui aveva conservato un ricordo così bello.

Arrivò alla fine di marzo, il venerdì santo, in pieno disgelo e sotto una pioggia torrenziale; era bagnato fradicio e intirizzito, ma pieno di vita e di animazione, come sempre in quel periodo.

"Chissà se è ancora da loro!", pensò, entrando nel vecchio e noto cortile, recinto da un muricciuolo di mattoni, e ingombro di neve caduta dal tetto.

Si aspettava di vederla accorrere fuori, al suono della campanella, ma sulla scala di servizio apparvero soltanto due contadine scalze, con le gonne succinte e i secchi in mano; evidentemente stavano lavando i pavimenti. Katiuscia non si fece vedere neppure sulla scala principale. C'era soltanto Ticòn, il cameriere, in grembiule, anche egli probabilmente occupato nelle pulizie.

In anticamera gli si fece incontro Sòfia Ivànovna, vestita di seta, con una cuffietta.

- Come sei stato gentile a venire! - esclamò baciandolo. - La zia Mascia (1) è un po' indisposta, si è stancata in chiesa. Abbiamo fatto la comunione.

- Tanti auguri, zia Sonia (2), - disse Necliudov, baciandole le mani, - ma scusatemi, vi ho bagnato!

- Va in camera tua. Sei tutto inzuppato. Che bei baffi ti sono cresciuti... Katiuscia! Katiuscia! Il caffè, in fretta!

- Subito! - rispose dal corridoio una voce nota e piacevole. Il cuore di Necliudov si mise a battere di gioia. "E' qui!". E fu come se il sole si mostrasse fra le nuvole.

Necliudov seguì allegramente Ticòn fino alla sua vecchia camera, dove entrò per cambiarsi d'abito.

Avrebbe voluto interrogare il vecchio servo, domandargli di Katiuscia, se stava bene, che cosa faceva e se era fidanzata. Ma Ticòn era così ossequioso e nello stesso tempo austero, insisteva con tanta fermezza per versargli lui stesso l'acqua della brocca sulle mani, che Necliudov non osò chiedergli nulla. Si limitò a domandargli notizie dei suoi nipoti, del vecchio cavallo, del cane da guardia Polkàn. Tutti stavano bene, tranne Polkàn, che l'anno prima era diventato idrofobo.

Si era appena tolto di dosso gli abiti bagnati e stava rivestendosi, quando Necliudov udì un rumore di passi frettolosi e qualcuno bussò. Egli riconobbe i passi e il modo di bussare. Lei sola camminava così, lei sola bussava così...

Si buttò sulle spalle il cappotto fradicio e si avvicinò alla porta.

- Avanti!

Era lei, Katiuscia. Sempre la stessa, ma ancora più graziosa di prima. I suoi occhi neri, ingenui e leggermente strabici, guardavano sorridenti dal sotto in sù. Come allora... E come allora indossava un candido grembiule bianco. Gli aveva portato, da parte delle zie, un pezzo di sapone profumato, appena tolto dalla carta, e due asciugamani, uno grande di tela russa, l'altro di spugna. E la saponetta nuova con le lettere stampate e gli asciugamani e lei stessa, avevano il medesimo aspetto pulito, fresco, intatto, piacevole.

Le sue labbra rosse, dolci e ferme, s'incresparono come allora alla vista di lui, per la gioia irresistibile...

- Benvenuto, Dmitri Ivànovic'! - disse timidamente, arrossendo tutta.

- Come stai... Come state? - Non sapeva se darle del tu o del voi, e anche egli arrossi. - Come va? bene?

- Sì, grazie a Dio! La zia vi manda il vostro sapone preferito, quello alla rosa, - rispose Katiuscia, mettendo il sapone sulla tavola e gli asciugamani sul bracciolo della poltrona.

- Ha il suo, - disse Ticòn, per difendere l'indipendenza dell'ospite, mostrando con fierezza il grosso nécessaire con le borchie d'argento aperto sulla tavola e pieno di boccette, spazzole, pomate, profumi e oggetti da toeletta d'ogni genere e specie.

- Ringraziate la zia. Come son contento d'essere venuto! - disse Necliudov, e sentiva che la sua anima si riempiva di luce e di tenerezza. Come una volta.

Lei rispose con un sorriso e usci.

Le zie, che amavano molto Necliudov, lo accolsero anche più affettuosamente del solito. Dmitri andava in guerra, avrebbe potuto esser ferito, ucciso. Questo pensiero turbava le due vecchie.

Necliudov aveva stabilito di fermarsi presso le zie non più di un giorno, ma quando ebbe visto Katiuscia, accettò di trattenersi altri due giorni per fare la Pasqua con loro. Telegrafò al suo compagno e amico Scembòk, col quale aveva appuntamento a Odessa, di venire anche lui dalle zie.

Dal primo momento che rivide Katiuscia, Necliudov provò nuovamente per lei il sentimento di un tempo. Come una volta, anche adesso gli bastava scorgere il grembiule bianco di Katiuscia per sentirsi turbato; era felice quando udiva i suoi passi, la sua voce, il suo riso; non poteva guardare senza tenerezza i suoi occhioni neri come le more umide, soprattutto quando sorrideva; gli era impossibile, poi, vedere senza confondersi come essa arrossiva, incontrandolo. Capiva d'essere innamorato, ma non più come prima, quando l'amore era per lui un mistero che non osava confessare neppure a se stesso. Allora era convinto che si potesse amare una volta sola nella vita. Adesso sapeva d'essere innamorato e ne gioiva, ma sapeva anche torbidamente, sebbene cercasse di nasconderselo, in che consisteva il suo amore, e quale ne sarebbe stata la conclusione.

In Necliudov, come in tutti, c'erano due uomini: uno spirituale, che cercava il bene proprio in accordo con quello altrui, e un altro animale, che cercava il bene proprio soltanto in senso egoistico, e che per ottenerlo era disposto a sacrificare il bene del mondo intero. Nello stato di folle egoismo in cui si trovava allora, dopo la vita militare e quella di Pietroburgo, l'uomo animale aveva preso in lui il sopravvento e soffocato quello spirituale.

Ma rivedendo Katiuscia e sentendosi rinascere in cuore il sentimento di un tempo, l'uomo spirituale sollevò la testa, proclamando i suoi diritti. E in Necliudov, durante quei due giorni prima di Pasqua, si svolse una lotta ininterrotta e inconfessata.

Nell'intimo suo egli sapeva che avrebbe dovuto andarsene, che non era il caso di trattenersi ancora dalle zie. Sapeva che non ne sarebbe derivato nulla di buono. Ma d'altronde provava tanta gioia e tanto piacere che non ascoltò la voce del dovere e rimase.

Il sabato sera, la vigilia di Pasqua, il prete e il diacono vennero in slitta a servire il mattutino, percorrendo con molta fatica - così dissero - le tre verste di strada fangosa che separavano la chiesa dalla proprietà delle zie. Necliudov assistette alla funzione con le zie e la servitù. Non poteva distogliere lo sguardo da Katiuscia, ritta presso la porta con l'incensiere fra le mani. Egli scambiò il bacio pasquale col prete e con le zie, e stava per ritirarsi nella sua camera, quando udì in corridoio la voce di Matriona Pàvlovna, la vecchia cameriera di Maria Ivànovna, che si preparava per recarsi in chiesa con Katiuscia a far benedire i kulicì (3) e le pasque (4).

"Vado anch'io", egli pensò. La strada per la chiesa era impraticabile, sia in carrozza sia in slitta, sicché Necliudov, che dalle zie si sentiva come a casa propria, ordinò che gli sellassero il vecchio stallone. Invece di andare a letto, indossò la sua brillante divisa coi calzoni attillati, infilò il cappotto, e montato sul vecchio cavallo troppo nutrito, troppo pesante e che continuava a nitrire, si recò in chiesa attraverso i campi pieni di fango, di neve e di oscurità.

 

 

 

NOTE:

  1. Diminutivo di Maria.
  2. Diminutivo di sòfia.
  3. Focacce pasquali.
  4. Dolci pasquali fatti con latte cagliato.

 

 

 

15.

 

Quella funzione notturna rimase per Necliudov uno dei ricordi più vivi e luminosi di tutta la sua vita.

La funzione era già cominciata quando, sguazzando nel fango e nel buio pesto, solo qua e là rischiarato dal biancore della neve, egli entrò nel cortile della chiesa in sella allo stallone che drizzava le orecchie alla vista dei luminari accesi tutt'intorno.

I contadini, riconosciuto il nipote di Mària Ivànovna, lo condussero all'asciutto per farlo scendere, legarono il cavallo e accompagnarono Necliudov in chiesa. La chiesa era piena di una folla festosa.

A destra gli uomini, coi "caftani" di fattura casalinga, i "lapti" (1) e le onùci(2) bianche e pulite; i giovani, coi "caftani" nuovi di panno, le fusciacche a colori vivaci e gli stivali.

A sinistra le donne coi fazzoletti rossi di seta, i giubbetti di felpa dalle maniche scarlatte, le gonne azzurre, verdi, rosse, d'ogni colore, e le scarpe coi tacchi ferrati. Un gruppo di vecchiette coi fazzoletti bianchi, i "caftani" grigi, le gonne di tela all'antica e le scarpe o i "lapti" nuovi, si tenevano modestamente più in fondo. Tra le giovani e le vecchie, i bambini in abito da festa, coi capelli lustri di grasso.

Gli uomini si facevano continuamente il segno della croce e s'inchinavano buttando indietro i capelli. Le donne, soprattutto le più vecchie, fissando con gli occhi scoloriti l'icona circondata di ceri, si premevano forte con le dita raggruppate la fronte, le spalle e il ventre: e bisbigliando sommessamente, si curvavano o s'inginocchiavano.

I bambini, ad imitazione dei grandi, pregavano con fervore se si sentivano osservati. L'iconostasi d'oro splendeva di candele accese tutt'attorno a grossi ceri dorati. Il candelabro era pieno di candele e dai cori giungevano le arie esultanti dei cantori volontari, coi bassi cavernosi e i soprani acuti dei fanciulli.

Necliudov si portò avanti. Nel mezzo v'era l'aristocrazia: un possidente con la moglie e il figlio in giacca alla marinara, il commissario, il telegrafista, un mercante con un paio di stivaloni a soffietto, il decano con la sua medaglia. A destra dell'ambone, dietro alla moglie del possidente, Matriona Pàvlovna, con un abito lilla cangiante e uno scialle bianco, e Katiuscia vestita di bianco col corpetto pieghettato, la cintura azzurra e un nastro rosso sui capelli neri.

Tutto aveva un'aria di festa, era solenne, gaio e bello:

l'officiante con la lucida pianeta d'argento su cui spiccavano le croci d'oro, il diacono e i sagrestani con le stole d'oro e d'argento delle grandi solennità, i cantori volontari coi vestiti della festa e i capelli unti di grasso, le liete arie danzerecce dei canti pasquali, l'incessante gesto di benedizione che il prete rivolgeva ai fedeli con tre candele ornate di fiori, e le esclamazioni di giubilo sempre più frequenti: "Cristo è risorto!

Cristo è risorto!".

Tutto era deliziosamente bello, ma più di tutto era bella Katiuscia, col suo vestito bianco, la cintura azzurra, il nastrino rosso nei capelli neri e gli occhi splendenti d'estasi. Necliudov s'accorse che Katiuscia, senza voltarsi l'aveva visto. Se ne accorse mentre le passava davanti per avvicinarsi all'altare. Non aveva nulla da dirle; ma inventò qualche cosa li per li e le sussurrò:

- La zia ha detto che cenerà dopo l'ultima messa.

Come sempre quando alzava gli occhi su di lui, il sangue giovanile imporporò quel grazioso visetto e gli occhi neri ridenti di gioia si fissarono su Necliudov, guardandolo ingenuamente da sotto in su.

- Lo so, - rispose la fanciulla sorridendo.

In quel momento il sagrestano, aprendosi un varco tra i fedeli con una caffettiera di rame, passò accanto a Katiuscia, e senza guardarla la urtò col lembo della stola, evidentemente per voler scansare Necliudov; ma Necliudov si meravigliò che quell'uomo non capisse che ogni cosa, lì e altrove, esisteva soltanto per onorare Katiuscia: tutto si poteva trascurare al mondo, fuorché lei che ne era il centro. In onor suo splendeva l'oro dell'iconostasi, e ardevano tutte quelle candele, per lei era il canto di letizia:

"E' la Pasqua del Signore, rallegratevi o uomini!", per lei era tutto ciò che esisteva di buono al mondo. Gli sembrava che lo capisse anche Katiuscia. Necliudov guardava la figuretta slanciata nella veste bianca a piegoline, il viso intensamente radioso, e l'espressione di quel volto gli diceva che quanto cantava a lui nell'anima cantava anche nell'anima di lei.

Nell'intervallo tra la prima e la seconda messa Necliudov uscì di chiesa. La folla si apriva per lasciarlo passare e lo salutava.

Alcuni lo riconoscevano, altri s'informavano chi era. In fondo si fermò. I mendicanti lo attorniarono: distribuì gli spiccioli che aveva nel borsellino e scese la scalinata.

Faceva abbastanza chiaro per vederci, ma il sole doveva ancora sorgere. La folla s'era sparsa tra le tombe tutt'attorno alla chiesa. Katiuscia era sempre in chiesa e Necliudov si fermò ad aspettarla.

I fedeli continuavano ad uscire, e battendo con gli stivali ferrati sul selciato, scendevano i gradini della chiesa e si disperdevano per il sagrato e per il cimitero.

Un vegliardo dalla testa tremante, il pasticcere di Mària Ivànovna, fermò Necliudov e lo baciò tre volte, mentre sua moglie, una vecchietta con un doppio mento rugoso sotto allo sciallino di seta, gli porgeva un uovo giallo zafferano che aveva tolto da un fazzoletto. In quel momento si avvicinò sorridendo un giovane contadino robusto, col giubbetto nuovo e la fusciacca verde.

- Cristo è risorto! - egli disse con gli occhi ridenti, e avvicinatosi a Necliudov lo baciò tre volte sulla bocca con le sue labbra sode e fresche, solleticandogli il viso con la barbetta ricciuta e diffondendo intorno a sé un buon odore di contadino.

Mentre Necliudov scambiava il bacio pasquale col giovane e ne accettava in dono un uovo marrone scuro apparvero il vestito cangiante di Matriona Pàvlovna e la cara testolina nera col nastro rosso. Katiuscia lo scorse subito attraverso la folla che li separava, e il suo viso si illuminò di gioia.

Davanti alla porta della chiesa la fanciulla si fermò con Matriona Pàvlovna per offrire l'elemosina ai poveri. Un mendicante, con una piaga rossa al posto del naso, si accostò a Katiuscia. Essa cercò qualcosa nel fazzoletto e gliela diede; poi gli si fece dappresso e senza mostrare la minima ripugnanza, anzi con gli occhi sempre raggianti, scambiò con lui tre baci. In quel momento il suo sguardo s'incontrò con quello di Necliudov. Sembrava domandare:

"Va bene ciò che faccio?".

"Si, sì, cara! tutto è bene, tutto è bello, ti amo!".

Esse scesero la scalinata e Necliudov andò loro incontro. Non aveva l'intenzione di scambiare baci, voleva solo esserle più vicino.

- Cristo è risorto! - esclamò Matriona Pàvlovna, chinando la testa e sorridendo, con l'aria di dire che in quel giorno erano tutti eguali; e asciugatasi la bocca col fazzoletto che teneva sotto l'ascella, gli protese le labbra.

- In verità è risorto! - rispose Necliudov scambiando i baci. E guardò verso Katiuscia. Essa si fece di fuoco e subito si avvicinò a lui.

- Cristo è risorto, Dmitri Ivànovic'!

- In verità è risorto, - ripeté lui. Si baciarono due volte, e si fermarono incerti; poi quasi avessero deciso che era necessario proseguire, si diedero il terzo bacio e sorrisero.

- Non andate dal prete? - domandò Necliudov.

- No, Dmitri Ivànovic', ci fermeremo qui, - rispose Katiuscia respirando profondamente, a pieni polmoni, come dopo una fatica piacevole, e guardandolo dritto negli occhi coi suoi lievemente strabici, colmi d'innocenza, di devozione e di amore. Quando un uomo e una donna si amano, c'è sempre un momento in cui l'amore si sublima al punto di non avere più in sé nulla di cosciente, di razionale e neppure di sensuale. Così amava Necliudov in quella santa notte di Pasqua.

Ora, mentre riandava col pensiero a Katiuscia, quel ricordo offuscava tutti gli altri che egli conservava di lei.

Una testolina nera di capelli lisci e lucenti, un abito bianco pieghettato, che fasciava castamente la figuretta snella, il piccolo seno, e quel rossore e quegli occhi neri, teneri, brillanti, lievemente strabici... E quei due tratti salienti di tutto il suo essere: la purezza, l'amore innocente non soltanto per lui, Necliudov, ma per tutti e per tutto, per le cose belle di questo mondo e per le altre che non sono belle, come il mendico che aveva baciato.

Quest'amore egli l'aveva sentito in lei, poiché l'aveva riconosciuto anche nel proprio cuore, in quella notte di Pasqua, quando aveva capito che le loro due anime si fondevano, per virtù d'amore, in un'anima sola.

Ah, se tutto si fosse fermato al sentimento provato allora!

"Sì! Tutto il male è successo soltanto dopo la notte di Pasqua!", pensava ora Necliudov, seduto davanti alla finestra nella camera dei giurati.

 

 

 

NOTE:

  1. Calzature contadinesche di corteccia di betulla.
  2. Pezze da piedi.

 

 

 

16.

 

Di ritorno dalla chiesa, Necliudov aveva rotto il digiuno con le zie e per ristorarsi, secondo un'abitudine presa al reggimento, aveva bevuto vodca e vino. Ritiratosi poi nella sua camera si era addormentato di colpo, senza svestirsi. Fu risvegliato da un picchio alla porta, e dal modo di bussare capì che era Katiuscia.

Subito si alzò stropicciandosi gli occhi e stirandosi.

- Katiuscia, sei tu? Entra, - disse alzandosi.

Essa socchiuse l'uscio.

- La colazione è pronta. - disse.

Aveva lo stesso vestito bianco, ma senza il nastro nei capelli.

Guardandolo negli occhi, splendeva tutta di gioia, come se gli avesse annunciato qualcosa di straordinariamente bello.

- Vengo subito, - rispose lui, prendendo il pettine per ravviarsi i capelli.

Katiuscia esitò un attimo. Egli se ne accorse e, buttato il pettine, si mosse verso di lei. Ma in quello stesso istante essa si voltò rapidamente, e col suo passo lieve e rapido fuggì via lungo la passatoia del corridoio.

"Che scemo!", si disse Necliudov, "perché non l'ho trattenuta?".

E uscì di corsa nel corridoio per raggiungerla.

Neppure lui sapeva quel che volesse da lei. Ma gli sembrava che quando la fanciulla era entrata nella sua camera, egli avrebbe dovuto fare qualche cosa che in circostanze simili tutti gli uomini fanno.

- Katiuscia, fermati! - disse.

Essa si voltò.

- Che c'è? - domandò, rallentando il passo.

- Niente, soltanto...

Facendo uno sforzo su se stesso, e pensando all'atteggiamento che in generale assumono gli uomini in simili casi, abbracciò Katiuscia per la vita.

Lei si fermò e lo guardò negli occhi:

- Non sta bene, Dmitri Ivànovic', non sta bene - mormorò arrossendo fino alle lacrime, e con la mano ruvida e forte allontanò il braccio che la cingeva. Necliudov la lasciò. Per un attimo fu assalito da un senso di disagio e di vergogna, e provò persino ripugnanza di sé. Se avesse avuto fiducia in se stesso avrebbe capito che quell'imbarazzo e quella vergogna erano i migliori sentimenti dell'animo suo che chiedevano d'essere ascoltati. Egli pensò invece che sarebbe stata una sciocchezza non agire come chiunque altro avrebbe fatto. La rincorse ancora, l'abbracciò e la baciò sul collo. Un bacio ben diverso dagli altri che le aveva già dato, la prima volta, inconsciamente, dietro i cespugli di lillà, e poi quella mattina, in chiesa. Questo bacio era terribile e Katiuscia lo sentì.

- Ma che fate? - gridò, come se egli avesse spezzato senza rimedio qualcosa di infinitamente prezioso. E scappò via di corsa.

Necliudov entrò nella sala da pranzo. Le zie in abito elegante, il dottore e una vicina stavano davanti alla tavola degli antipasti.

Tutto si svolgeva nel modo consueto, ma l'animo di Necliudov era in tempesta.

Non capiva una parola di ciò che gli dicevano, rispondeva a casaccio. Pensava solo a Katiuscia e alla sensazione di quell'ultimo bacio in corridoio. Non poteva pensare ad altro.

Quando lei entrò, sentì con tutto il suo essere, senza guardarla, la sua presenza; doveva imporsi uno sforzo per non alzare gli occhi su di lei.

Dopo il pranzo, salì subito nella sua camera. Turbato, agitatissimo, camminò a lungo in sù e in giù, tendendo l'orecchio ai suoni della casa e aspettando di udire il suo passo. L'uomo animale che viveva in lui non solo aveva rialzato la testa ma s'era messo sotto ai piedi l'uomo spirituale che egli era stato tempo addietro e quella stessa mattina in chiesa. Ora l'uomo animale spadroneggiava, solo, nel suo animo.

Nonostante che avesse continuato tutto il giorno a farle la posta, non gli riuscì di trovarsi a tu per tu con Katiuscia neppure una volta. Probabilmente lo evitava. Però, verso sera, essa fu costretta ad entrare nella camera attigua a quella occupata da lui; doveva preparare il letto al dottore che avrebbe passato lì la notte. All'udire i suoi passi, Necliudov, camminando in punta di piedi e trattenendo il fiato come se si accingesse a commettere un delitto, la seguì nella camera.

Tenendo aperta con le mani l'imboccatura di una fodera di bucato per infilarvi un cuscino, essa si voltò e gli sorrise.

Non era più il sorriso lieto e radioso di prima; era un sorriso spaventato e commovente; sembrava dirgli che quanto egli faceva era male... Per un attimo esitò. In quel momento avrebbe ancora potuto lottare con se stesso. Sebbene fievole, sentiva ancora la voce del vero amore che gli parlava di lei, dei sentimenti di lei, della vita di lei.

L'altra voce diceva: bada, ti lascerai sfuggire il tuo piacere, la tua felicità. E quella voce soffocò la prima. Le si avvicinò risolutamente. Un istinto bestiale, orribilmente sfrenato, si impadronì di lui. Tenendola stretta fra le braccia, Necliudov la fece sedere sul letto e con la sensazione di dover fare qualcosa ancora, le sedette accanto.

- Dmitri Ivànovic', caro, lasciatemi, ve ne prego! - disse lei con voce supplichevole. - Matriona Pàvlovna sta venendo! - gridò svincolandosi; e veramente qualcuno si avvicinava.

- Allora verrò da te stanotte, - mormorò Necliudov, - sei sola, non è vero?

- Che dite? No assolutamente! E' male! - essa protestò, ma solo con le labbra, poiché tutto l'essere suo tumultuosamente turbato, parlava un altro linguaggio.

Matriona Pàvlovna stava realmente sopraggiungendo. Essa entrò nella camera con una coperta sul braccio e lanciato a Necliudov uno sguardo di rimprovero, sgridò aspramente Katiuscia perché non aveva preso la coperta giusta. Necliudov uscì in silenzio. Non provava neppure vergogna. Dall'espressione del suo volto aveva capito che Matriona Pàvlovna lo biasimava, e sapeva che aveva ragione di biasimarlo poiché ciò che egli stava facendo era male.

Ma l'istinto bruto che si era sostituito all'amore buono di prima per Katiuscia, s'era impadronito di lui e lo dominava incontrastato, sordo a qualsiasi voce. Egli adesso sapeva che cosa bisognava fare per appagare quell'istinto e pensava soltanto ai mezzi per soddisfarlo.

Tutta la serata fu inquieto; ora dalle zie, ora in camera sua o fuori nell'ingresso, non pensando ad altro che al modo di vederla sola. Ma essa lo evitava e Matriona Pàvlovna faceva del suo meglio per non perderla di vista.

 

 

 

17.

 

Così passò tutta la sera e venne la notte. Il dottore andò a letto, le zie si ritirarono. Necliudov sapeva che Matriona Pàvlovna si trovava nella camera delle zie e che Katiuscia era sola nella stanza della servitù. Uscì di nuovo sulla scalinata. La notte era buia, umida, calda, e l'aria impregnata di quella nebbia bianca che in primavera disperde l'ultima neve o si solleva dall'ultima neve che si scioglie. Dal fiume che scorreva a un centinaio di passi, sotto la scarpata davanti alla casa, giungevano strani rumori: era il ghiaccio in disgelo.

Necliudov scese la scala d'ingresso e scavalcando le pozzanghere di neve sciolta, fece il giro della casa fino alla finestra delle stanze di servizio. Il cuore gli martellava nel petto tanto forte che ne udiva i battiti; il suo respiro ora si fermava, ora erompeva più profondo e pesante. Nella stanza ardeva una piccola lampada; Katiuscia, sola, sedeva soprappensiero davanti alla tavola, con lo sguardo fisso nel vuoto. Necliudov, immobile, la osservò lungamente, curioso di vedere che cosa avrebbe fatto, non sapendo di essere osservata. Per qualche minuto rimase immobile, poi alzò lo sguardo, sorrise, tentennò il capo quasi per rimproverarsi; infine si riscosse, appoggiò bruscamente le due mani sulla tavola e fissò gli occhi nel buio che le stava davanti.

Egli continuava a guardarla e involontariamente ascoltava il battito del proprio cuore e i rumori strani che giungevano dal fiume. Laggiù, nella nebbia, si compiva un lavorio lento, incessante: s'udivano soffi, scricchiolii, schianti; e il tintinnio dei sottili blocchi di ghiaccio che risuonavano come vetro.

Necliudov, immobile, osservava il volto pensieroso di Katiuscia, angustiato da una pena interiore. Aveva compassione di lei, ma, cosa strana, questa pietà non faceva che acuire la sua brama di possesso. Bruciava per il desiderio di lei. Bussò alla finestra.

Katiuscia, come colpita da una scossa elettrica, sussultò violentemente in tutto il corpo, e un'espressione di terrore le si dipinse sul viso. Ma poi balzò in piedi, si avvicinò alla finestra e accostò la faccia al vetro. L'espressione sgomenta perdurò sul suo viso anche quando, facendosi schermo agli occhi con le palme, l'ebbe riconosciuto. Il suo aspetto era insolitamente serio. Mai egli l'aveva vista così. Essa sorrise solo in risposta al sorriso di lui, come in segno di sottomissione, ma l'anima sua non sorrideva, era piena di terrore. Egli le fece un segno con la mano per invitarla ad uscire fuori con lui. Katiuscia scosse il capo negativamente, e rimase alla finestra. Egli accostò di nuovo il viso al vetro e voleva gridarle di uscire, ma in quel momento lei si voltò verso la porta: qualcuno doveva averla chiamata.

Necliudov si scostò dalla finestra. La nebbia era così fitta che a cinque passi di distanza non si distinguevano le finestre della casa; s'intravvedeva soltanto una massa oscura in cui brillava la luce rossa, che sembrava enorme, della lampada.

Sul fiume sempre lo stesso frusciare e brontolare, lo stesso scricchiolare sonoro del ghiaccio. Nel cortile un gallo cantò; i più vicini gli fecero eco, poi si udirono quelli delle campagne più lontane, e i loro richiami si incrociavano e si fondevano in un solo chicchirichì. Ma tutto all'intorno, ad eccezione del fiume, regnava il silenzio. I secondi galli avevano cantato.

Dopo aver passeggiato un poco in sù e in giù oltre l'angolo della casa, inciampando nelle pozzanghere, Necliudov si avvicinò nuovamente alla camera di servizio. La lampada era sempre accesa, e Katiuscia, sola, s'era tornata a sedere davanti al tavolo e sembrava indecisa. Appena si fu avvicinato alla finestra, alzò gli occhi su di lui. Egli bussò. Senza neppure guardare chi aveva picchiato, uscì di corsa dalla camera ed egli udì la porta d'entrata aprirsi e cigolare. Necliudov corse ad aspettarla sull'ingresso e subito, senza parlarle, l'abbracciò. Essa si strinse a lui e incontrò con le labbra il suo bacio. Erano in piedi in un angolo asciutto vicino all'ingresso, ed egli ardeva tutto di un desiderio tormentoso, insoddisfatto. Improvvisamente la porta d'ingresso si aprì di nuovo con lo stesso cigolio di prima e Matriona Pàvlovna gridò:

- Katiuscia!

La ragazza si strappò dalle sue braccia e rientrò in camera, ed egli udì il rumore secco del paletto. Poi tutto tacque, l'occhio rosso alla finestra scomparve, non rimase che la nebbia e lo strepito del fiume. Necliudov ritornò alla finestra. Non si vedeva nessuno. Bussò, nulla gli rispose. Ritornò in casa dall'ingresso principale, ma non si coricò.

Si tolse gli stivali e a piedi scalzi percorse il corridoio fino alla camera di Matriona Pàvlovna attigua a quella di Katiuscia.

Stette in ascolto: la udì russare tranquillamente. Stava per proseguire quando la donna si mise improvvisamente a tossire e si rivoltò facendo scricchiolare il letto. Egli trattenne il respiro e non si mosse per qualche minuto. Quando ritornò la calma e di nuovo udì russare tranquillamente, si rimise in moto cercando di non far scricchiolare le assi del pavimento, e raggiunse la porta della camera di Katiuscia. Tutto era tranquillo, ma evidentemente essa non dormiva, giacché non si udiva il suo respiro. Appena egli ebbe sussurrato "Katiuscia" essa balzò in piedi, corse alla porta e con una voce che gli sembrò adirata, lo pregò di andarsene. - Ma che vi piglia? Che è forse possibile? Le zie sentiranno... - dicevano le sue labbra, ma tutto il suo essere diceva: "Sono tua, tua!". E questo soltanto capì Necliudov.

- Via, solo un momento aprimi, te ne supplico... - mormorava parole insensate.

Essa tacque. Poi egli udì le sue mani che annaspavano in cerca del paletto. Il gancio scattò e Necliudov varcò la porta aperta.

La ghermì, così com'era, nella camicia di ruvida tela greggia senza maniche, la prese fra le braccia e la portò via.

- Ah! che fate? - essa mormorava. Ma lui, senza badare alle sue parole, se la portava nella sua camera.

- Ah! non dovete farlo, lasciatemi! - diceva, e intanto si stringeva a lui.

Quando, tremante e taciturna, senza rispondere alle sue parole, essa l'ebbe lasciato, Necliudov uscì all'aperto. Si fermò sulla scalinata, sforzandosi di afferrare il senso di quanto era avvenuto.

Cominciava ad albeggiare: giù al fiume, il crepitio, il tintinnio e l'ansito dei ghiacci s'era fatto più forte, e ai rumori di prima s'era aggiunto il mormorio dell'acqua. La nebbia cominciò a diradarsi, e dietro al suo velo apparve la luna calante, illuminando cupamente qualcosa di nero e di terribile.

"Che è dunque questo? Una grande felicità o una grande disgrazia?", si chiedeva. "Succede sempre così... Tutti sono così!", si disse, e andò a dormire.

 

 

 

18.

 

L'indomani il brillante e allegro Scembòk venne a raggiungere Necliudov in casa delle zie. Con la sua eleganza, i modi gentili e giovanili, la generosità e l'affetto che dimostrava a Dmitri, seppe cattivarsi tutta la simpatia delle due vecchiette. La sua munificenza, sebbene alle zie fosse piaciuta, le lasciò tuttavia un po' perplesse, poiché sembrava loro esagerata. Ad alcuni mendicanti ciechi aveva dato un rublo; alla servitù in mance ne aveva distribuiti quindici: e quando Susètka, la cagnolina di Sòfia Ivànovna, s'era fatta male a una zampina, non aveva esitato un attimo a strappare il suo fazzoletto di batista finemente orlato per farle una fasciatura. E Sòfia Ivànovna sapeva che fazzoletti di quel genere costavano non meno di quindici rubli la dozzina.

Le zie non avevano mai conosciuto tipi simili; ignoravano che quello Scèmbok aveva duecentomila rubli di debiti, che non avrebbe mai pagato.

Perciò venticinque rubli in più o in meno per lui non contavano nulla.

Scembòk si trattenne un giorno soltanto, e la notte successiva partì con Necliudov. Non potevano prolungare il loro soggiorno giacché scadeva il termine per presentarsi al reggimento.

Nell'animo di Necliudov in quell'ultimo giorno che passò in casa delle zie, ancor fresco del ricordo della notte, lottarono senza tregua due sentimenti. Uno, a parte l'orgoglio di aver raggiunto la meta, era fatto di sensazioni brucianti, sensuali, che gli rievocavano un piacere in realtà assai inferiore a quello che s'era ripromesso. L'altro gli veniva dalla coscienza di aver commesso un'azione molto brutta, alla quale doveva rimediare, non tanto per lei, quanto per se stesso. Nello stato di folle egoismo in cui si trovava, Necliudov pensava soltanto a sé: si domandava se il mondo lo avrebbe condannato e fino a che punto, qualora si fosse venuto a sapere come s'era condotto con Katiuscia. Non si preoccupava di quanto la fanciulla poteva provare, né di ciò che sarebbe stato di lei.

Pensava che forse Scembòk aveva indovinato i suoi rapporti con Katiuscia, e ciò lusingava il suo amor proprio.

- Ecco perché tutt'a un tratto ti sei tanto affezionato alle zie, - gli disse Scembòk, quand'ebbe visto Katiuscia, - e perché da una settimana te ne stai qua. Anch'io al tuo posto non me ne sarei andato! Incantevole!

Pensava inoltre che, sebbene gli dispiacesse di andarsene prima di aver potuto saziare il suo desiderio, quella partenza obbligatoria aveva il vantaggio di troncar netto una relazione che sarebbe stato difficile mantenere. E poi pensava ancora che doveva darle del denaro: non perché le potesse servire, ma perché tutti facevano sempre così, ed egli sarebbe stato considerato un disonesto se, dopo averne approfittato, non l'avesse pagata. Le diede dunque del denaro: quanto riteneva decoroso per la sua condizione e per quella di lei.

Il giorno della partenza, dopo il pranzo, l'aspettò nell'ingresso.

Vedendolo, essa divenne di brace e fece per proseguire, accennando con lo sguardo la porta aperta della camera di servizio, ma egli la trattenne.

- Volevo salutarti,- disse, spiegazzando fra le dita la busta con un biglietto da cento rubli. - Ecco, io...

Essa presentì, si oscurò in volto e scuotendo la testa respinse la sua mano.

- No, prendi, - egli balbettò e le infilò la busta nel corsetto.

Poi, con una smorfia di dolore e gemendo come se si fosse scottato, corse nella sua camera.

Per un pezzo continuò a camminare avanti e indietro, e al ricordo di quella scena si contorceva, faceva salti e si lamentava forte, come per un dolore fisico.

Ma che fare? Sempre così succedeva... Così aveva fatto Scembòk con quella governante di cui gli aveva parlato, così lo zio Griscia, così suo padre, al tempo in cui viveva in campagna, quando aveva avuto un figlio illegittimo, quel Mitienka che viveva tuttora. E se tutti facevano così, voleva dire che così era giusto fare...

Con questi ragionamenti egli cercava di confortarsi, ma non ci riusciva. Il ricordo gli bruciava la coscienza.

In fondo in fondo all'animo sapeva di aver agito in un modo così indegno, abietto, crudele che, essendone conscio, perdeva non soltanto il diritto di giudicare gli altri, ma persino di guardare in faccia la gente.

Come avrebbe potuto ancora considerarsi un bravissimo giovane, d'animo elevato e generoso? Ma siccome quell'alto concetto di sé gli era indispensabile per continuare a vivere allegro e baldanzoso, per conservarlo non gli rimaneva che un mezzo: non pensarci più. E così fece.

La nuova esistenza che s'iniziava per lui - i paesi diversi, i compagni, la guerra - l'aiutarono a dimenticare.

E più viveva e più dimenticava. Sicché finì col dimenticare veramente tutto.

Una volta sola s'era sentito stringere il cuore, quando, finita la guerra, era passato dalle zie con la speranza di vederla, e aveva saputo che Katiuscia non c'era più, che se n'era andata poco dopo la sua partenza per partorire... In qualche posto aveva messo al mondo un bambino e poi, a quanto avevano sentito dire, s'era guastata del tutto. Dalle date, il bambino poteva essere il suo.

Ma avrebbe potuto anche non esserlo. Le zie dicevano che s'era rovinata, che aveva una natura corrotta come la madre: E questo giudizio gli aveva fatto piacere, poiché in certo qual modo valeva ad assolverlo.

In principio, tuttavia, avrebbe voluto rintracciare lei e il bambino, ma siccome nell'intimo suo si vergognava e soffriva troppo a quel ricordo, aveva condotto le ricerche con scarso impegno, s'era dimenticato ancor più la sua colpa e alla fine aveva cessato di pensarci.

Ed ora, per una fatale combinazione, tutti i ricordi si risvegliavano ed egli si trovava costretto ad ammettere la propria mancanza di cuore, la crudeltà e la viltà che gli avevano permesso di vivere tranquillamente dieci anni con un peccato simile sulla coscienza. Ma ancora lontano da una simile ammissione, egli adesso si preoccupava soltanto del pericolo che il fatto si risapesse e che lei o il suo difensore raccontassero ogni cosa e lo svergognassero davanti a tutti.

 

 

 

19.

 

In questo stato d'animo si trovava Necliudov quando uscì dall'aula del processo per entrare nella stanza dei giurati. Seduto accanto alla finestra ascoltava i discorsi che si svolgevano attorno a lui e fumava senza tregua.

L'allegro mercante evidentemente approvava con tutto il cuore il modo di passare il tempo dello Smielkòv.

- Eh! mio caro, se la spassava sul serio, alla siberiana. Non aveva mica cattivo gusto... Che bel pezzo di ragazza!

Il capo dei giurati osservava che, secondo lui, tutto dipendeva dalla perizia medica. Piotr Gherassimovic scherzava col commesso ebreo. Ridevano tutti e due. Necliudov rispondeva a monosillabi alle domande che gli facevano; desiderava solo d'esser lasciato in pace. Quando l'usciere dall'andatura zoppicante richiamò di nuovo i giurati nella sala delle udienze, Necliudov provò un senso di terrore, come se fosse chiamato non per giudicare ma per essere giudicato. In fondo all'anima sentiva di essere un miserabile, indegno di guardare in faccia la gente. Ma per forza d'abitudine salì sul pretorio con le movenze disinvolte che gli erano consuete e sedette al suo posto, il secondo dopo il capo, accavallando le gambe e gingillandosi col pince-nez.

Gli imputati, che erano stati condotti via, furono fatti rientrare.

In sala facce nuove, i testimoni. Necliudov notò che la Màslova aveva guardato più volte, come affascinata, una donna grassa, vestita vistosamente di seta e di velluto, con un cappello alto adorno di un gran nastro e un elegante "ridicule" (1) sul braccio nudo fino al gomito seduta in prima fila davanti alla sbarra. Una testimone: come seppe poi, la padrona della casa di tolleranza della Màslova.

Incominciò l'escussione dei testi: nome, religione, eccetera.

Il presidente domandò alle parti se volevano interrogare sotto giuramento o no, e subito dopo entrò di nuovo il solito vecchio prete, che trascinando i piedi e toccandosi la croce d'oro sul petto, con la solita imperturbabile certezza di compiere un'opera quanto mai utile ed importante, fece prestare giuramento ai testimoni e al perito. Terminato il giuramento, tutti i testimoni furono fatti uscire, tranne uno, che era appunto la Kitàieva, la padrona della casa di tolleranza. Le fu domandato che cosa sapeva del delitto.

La Kitàieva, con un sorriso affettato, affondando ad ogni frase la testa nel cappello, fece con accento spiccatamente tedesco un racconto particolareggiato e preciso.

Un giorno era venuto da lei il cameriere d'albergo Simòn, che già conosceva, a cercare una ragazza per un ricco mercante siberiano.

Lei aveva mandato la Liubascia (2). Dopo un po', la Liubascia era ritornata col mercante.

- Il mercante era già in estasi, - disse la Kitàieva sorridendo lievemente - e da noi continuò a bere e a offrire da bere alle ragazze. Ma siccome era rimasto senza denaro, mandò nella sua camera all'albergo la Liubascia che era divenuta la sua prediletta, voltandosi a guardare l'imputata.

Sembrò a Necliudov che la Màslova sorridesse a quelle parole e quel sorriso gli parve ripugnante. Una sensazione strana, indefinibile, di disgusto e di pietà si sollevò in lui.

- Che opinione avevate della Màslova? - domandò tutto rosso e timido il difensore d'ufficio della Màslova, un giovane candidato alla magistratura.

- Ottima, - rispose la Kitàieva, - una ragazza istruita, elegante.

E' cresciuta in una buona famiglia e sapeva leggere anche il francese. Qualche volta beveva un po' troppo, ma non si è mai lasciata andare. Proprio una brava ragazza.

Katiuscia guardava la padrona. Poi ad un tratto, girò gli occhi sui giurati fermandosi su Necliudov, mentre il suo viso si faceva serio e quasi duro. Quei due occhi dall'espressione strana indugiarono abbastanza a lungo su Necliudov, ed egli, nonostante il terrore che l'aveva invaso, non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi strabici dal bianco luminosamente chiaro.

Rivide la notte terribile col ghiaccio che si spezzava, la nebbia, e quella falce di luna calante che s'era levata sul mattino a illuminare qualcosa di cupo e di spaventoso. Quei due occhi neri che guardavano lui e oltre lui, gli riportavano il ricordo di quella cosa nera e spaventosa.

"Mi ha riconosciuto!", pensò. E si fece piccino, in attesa del colpo.

Ma essa non l'aveva riconosciuto. Sospirò tranquilla e riportò lo sguardo sul presidente. Anche Necliudov sospirò.

"Ah, se finisse in fretta", pensò. Provava la stessa sensazione di quando a caccia doveva dare il colpo di grazia a un uccello ferito; ribrezzo, pietà e rammarico... L'uccello ferito si dibatte nel carniere, è disgustoso, fa pena e si desidera di finirlo in fretta per non pensarci più.

Un simile miscuglio di sentimenti provava ora Necliudov ascoltando l'interrogatorio dei testi.

 

 

 

NOTE:

  1. Sta per reticule, borsetta per signora.
  2. Altro diminutivo di Liubòv.

 

 

 

20.

 

Ma, quasi a farlo apposta, le cose andavano per le lunghe. Dopo l'escussione dei singoli testi e del perito, dopo le molte domande inutili fatte con aria d'importanza dal sostituto procuratore e dai difensori, il presidente invitò i giurati ad esaminare i corpi del reato: un grosso anello con una rosetta di brillanti che evidentemente doveva aver ornato un indice gigantesco, e il filtro attraverso il quale s'era esaminato il veleno. Ogni oggetto era sigillato e portava l'etichetta.

I giurati si disponevano a seguire l'invito del presidente, quando il sostituto procuratore si sollevò di nuovo e richiese che prima di procedere all'esame dei corpi del reato, fosse data lettura della perizia medico-necroscopica.

Il presidente, che conduceva il processo a ritmo accelerato per poter correre dalla sua svizzera, sapeva perfettamente che la lettura di quel documento non avrebbe avuto altro effetto che di annoiare tutti e di ritardare l'ora del pranzo; ma non osò opporsi e dette il suo consenso, ben sapendo che il sostituto procuratore esigeva quella lettura solo perché ne aveva il diritto.

Il cancelliere prese un foglio e con la sua voce blesa e monotona incominciò a leggere.

- "Dall'esame esterno è risultato che:

1) La statura di Terapònt Smielkòv era di due arscìni (1) e dodici verskì" (2).

- Un bel pezzo d'uomo! - sussurrò impensierito il mercante all'orecchio di Necliudov.

- "2) A giudicare dall'aspetto, doveva avere circa quarant'anni.

3) Il cadavere era tumefatto; 4) Il colore della pelle verdastro, qua e là chiazzato di macchie scure; 5) L'epidermide formava vesciche di differente grandezza e in certi punti si era staccata cascando a brandelli; 6) I capelli bruni e folti, al minimo tocco si staccavano dal cuoio capelluto; 7) Gli occhi uscivano dalle orbite e la cornea era opaca; 8) Dalle narici, dalle orecchie e dalla cavità orale semiaperta, colava un liquido schiumoso e fetido; 9) Il collo era quasi scomparso, in seguito al gonfiore della faccia e del petto".

E così via di seguito.

Per quattro pagine e ventisette paragrafi, continuava la descrizione di tutti i particolari notati sul cadavere raccapricciante, enorme, grasso e per giunta gonfio e in decomposizione, di quel mercante che era venuto in città a far bisboccia. La sensazione di indefinibile disgusto che già provava Necliudov, si accresceva sempre più alla lettura di quella macabra descrizione. Gli parve allora che la vita di Katiuscia e il pus che colava dalle narici, gli occhi che uscivano dalle orbite e il male che egli le aveva fatto fossero tutte sozzure dello stesso genere; e da ogni parte se ne sentiva circondato e inghiottito.

Quando finalmente terminò la lettura dell'esame esteriore, il presidente trasse un sospiro di sollievo e alzò la testa. Sperava che fosse finita. Ma il cancelliere riprese subito la lettura dell'esame interno.

Il presidente riabbassò la testa e appoggiatola sul braccio, chiuse gli occhi. Il mercante seduto accanto a Necliudov faceva fatica a rimanere sveglio e di tanto in tanto ciondolava; gli imputati, come i gendarmi che li sorvegliavano, sedevano immobili.

Dall'esame interno risultava che:

1) I tegumenti del cranio si staccavano facilmente dalle ossa e non vi si notavano ecchimosi.

2) Le ossa del cranio erano di media grossezza e intatte.

3) Nella dura madre si notavano due piccole macchie pigmentate della grandezza di circa quattro diùimi (3), la meninge si presentava di un colore biancastro.

E così via, per altri tredici paragrafi.

Seguivano i nomi dei testimoni all'autopsia, le firme e infine le conclusioni del perito settore, dalle quali risultava evidente che le alterazioni nello stomaco e in parte negli intestini e nei reni, riscontrate durante l'autopsia e descritte nel verbale, davano ragione di concludere, con la massima probabilità, che la morte dello Smielkòv era avvenuta per effetto di un veleno introdotto nello stomaco insieme col vino. Era difficile dire, dalle alterazioni riscontrate nello stomaco e negli intestini, di che veleno esattamente si trattasse; ma che il veleno fosse stato introdotto nello stomaco col vino, lo si poteva dedurre dal fatto che nello stomaco dello Smielkòv di vino se ne era trovato molto.

- Si capisce che sapeva bere! - sussurrò di nuovo il mercante che s'era risvegliato.

La lettura di questo verbale era durata circa un'ora, e tuttavia non bastò al sostituto procuratore. Quando fu letto tutto, il presidente si rivolse a lui. - Ritengo superfluo leggere gli atti dell'analisi dei visceri.

- Io chiederei di darne lettura, - disse severamente il sostituto procuratore senza guardare il presidente, sollevandosi un poco su un fianco e facendo sentire col tono della voce che esigere quella lettura era un suo diritto al quale non avrebbe mai rinunciato, e che un rifiuto sarebbe stato motivo di ricorso in Cassazione.

Il giudice con la barba lunga e le borse sotto gli occhi buoni, sentendosi molto debole per il catarro di cui soffriva, si rivolse al presidente.

- Ma perché leggere questa roba? Non serve che a tirare in lungo.

Queste nuove scope non puliscono meglio ma più lentamente.

Il giudice con gli occhiali d'oro non disse nulla. Guardava cupo e risoluto davanti a sé, non aspettandosi niente di buono né da sua moglie ne dalla vita.

La lettura del verbale cominciò.

- "Il 15 febbraio milleottocento... io sottoscritto, per incarico della sezione medica n. 638", - cominciò deciso il cancelliere alzando il tono della voce quasi volesse vincere il sonno che opprimeva tutti, - "in presenza dell'assistente dell'ispettore medico, ho proceduto all'analisi delle seguenti viscere:

"1) Il polmone destro e il cuore (in un vaso di vetro di sei funti (4).

"2) Il contenuto dello stomaco (in un vaso di vetro di sei funti).

"3) Lo stomaco (in un vaso di vetro di sei funti).

"4) Il fegato, la milza e i reni (in un vaso di vetro di sei funti).

"5) Gli intestini (in un vaso d'argilla di sei funti).

All'inizio della lettura il presidente sussurrò qualcosa, prima all'orecchio di un giudice, poi a quello dell'altro, e alla loro risposta affermativa interruppe il cancelliere.

- La Corte ritiene superflua la lettura dell'atto, - disse.

Il cancelliere tacque e raccolse i fogli. Il sostituto procuratore annotò qualcosa rabbiosamente.

- I signori giurati possono esaminare i corpi del reato, - soggiunse il presidente.

Il capo e alcuni giurati si alzarono impacciati, non sapendo come muovere o dove mettere le mani; si avvicinarono al tavolo, e l'uno dopo l'altro osservarono l'anello, la boccetta, il filtro. Il mercante si provò persino l'anello.

- Be', aveva un bel dito! - disse ritornando al suo posto. - Come un bel cetriolo, - soggiunse, evidentemente divertito dall'idea del colosso che doveva esser stato il defunto mercante.

 

 

 

NOTE:

  1. L'arscin equivale a settantun centimetri.
  2. Il versòk è pari a quattro centimetri e mezzo.
  3. Il diùim equivale a circa due centimetri e mezzo.
  4. Il funt è pari a quarantun grammi.

 

 

 

21.

 

Finito l'esame dei corpi di reato, il presidente dichiarò chiusa l'inchiesta, e senza intervalli, ansioso com'era di sbrigarsela, diede la parola al pubblico ministero. Sperava di avere a che fare con un uomo come tutti gli altri, che avesse voglia di fumare, di andare a pranzo e che avrebbe avuto pietà di loro.

Ma il sostituto procuratore non ebbe pietà né di sé né degli altri. Assai ottuso per natura, aveva avuto inoltre la disgrazia di finire il liceo con la medaglia d'oro e di esser stato premiato all'università per la sua tesi sulla servitù nel diritto romano.

Era perciò tronfio e soddisfatto al massimo grado, al che contribuiva anche il suo successo con le signore; era, insomma, superlativamente stupido.

Quando gli fu data la parola, si alzò lentamente, mettendo in mostra la sua figura elegante nell'uniforme ricamata, e posate sul banco le mani, la testa un poco reclinata, girò gli occhi sulla sala, evitando di guardare gli imputati, poi cominciò a parlare:

- Il fatto, signori giurati, sul quale siete chiamati a pronunciarvi, - cominciò il suo discorso che aveva preparato durante la lettura dei verbali - è, se così mi è concesso di esprimermi, un delitto caratteristico.

A parer suo, la requisitoria del sostituto procuratore, doveva sempre avere una portata sociale, come le arringhe degli avvocati più celebri. Tutto il suo auditorio, veramente, era formato soltanto da un vetturino e da tre donne: una cucitrice, una cuoca e la sorella di Simòn; ma ciò non aveva importanza alcuna. Anche quei luminari del foro avevano cominciato così. Il sostituto procuratore, per principio, doveva essere sempre all'altezza della sua posizione, che gli imponeva di penetrare l'intimo significato psicologico di un delitto, mettendo a nudo le piaghe della società.

- Voi avete davanti, signori giurati, un delitto caratteristico, se così posso esprimermi, di fine secolo, un delitto che racchiude in sé, per così dire, gli elementi specifici del doloroso fenomeno di decomposizione cui sono soggetti, nella nostra epoca, quegli elementi della nostra società che vediamo esposti qui, per così dire più direttamente, ai raggi scottanti di questo processo...

Il sostituto procuratore parlò assai a lungo, cercando da un lato di non dimenticare nessuna delle cose intelligenti che aveva pensato, e dall'altro, ed era l'essenziale, di non fermarsi neppure un istante, di modo che la sua arringa filasse senza interruzioni per un'ora e un quarto. Una volta sola si fermò, e inghiottì la saliva parecchie volte, ma si riprese in fretta e ricuperò il ritardo con un rincalzo di eloquenza.

Ora parlava con voce dolce, insinuante, appoggiandosi un po' su un piede un po' sull'altro e guardando i giurati, ora con tono calmo e professionale, consultando i suoi appunti, ora con voce tonante, accusatrice, volgendo lo sguardo dagli spettatori ai giurati.

Ma non degnò mai di uno sguardo gli imputati che, con gli occhi fissi su di lui, pendevano dalle sue labbra.

In quell'arringa c'eran tutte le teorie più recenti in voga nella società alla quale egli apparteneva, che le considerava e le considera come l'ultima parola della scienza. Vi era l'ereditarietà, la delinquenza congenita, Lombroso e Tarde, l'evoluzione, la lotta per l'esistenza, l'ipnotismo, la suggestione, Charcot, il decadentismo.

Il mercante Smielkòv, come egli lo definì, era il vero tipo del russo vigoroso e primitivo, una natura aperta, che per il suo carattere credulo e generoso era diventato la vittima degli individui profondamente corrotti in balia dei quali era caduto.

Simòn Kartinkin era il prodotto atavico del servaggio secolare: un bruto, senza istruzione, senza principi né religione.

Efìmia, la sua amante, una vittima dell'ereditarietà, nella quale erano evidenti i segni della degenerazione.

Ma il vero perno del delitto era la Màslova, che rappresentava il fenomeno della decadenza morale nelle sue più abiette manifestazioni.

- Questa donna,- disse il sostituto procuratore senza guardarla in faccia,- ha ricevuto un'istruzione: l'abbiamo udito affermare in quest'aula dalla sua padrona. Non solo sa leggere e scrivere, ma conosce anche il francese. E' orfana, e probabilmente porta in sé i germi della criminalità. Educata in una famiglia nobile e colta, avrebbe potuto vivere di un lavoro onesto. Invece lascia i benefattori per abbandonarsi ai suoi istinti; e per poterli soddisfare meglio, entra in una casa di tolleranza, dove si distingue dalle altre compagne per la sua educazione e, soprattutto, come avete qui udito, signori giurati, dalla sua padrona, per l'influsso che sapeva esercitare sui frequentatori della casa; influsso di cui si è occupata ultimamente la scienza e in particolare la scuola di Charcot, e che è noto sotto il nome di suggestione. Con questo sistema essa sa impossessarsi di un ricco cliente, un vero Sadkò (1), un gigante bonaccione e credulo, e approfittando della fiducia che egli le dimostra, prima lo deruba e poi spietatamente lo uccide.

- Mi pare che stia divagando, - disse sorridendo il presidente, piegandosi verso il giudice arcigno.

- Un vero babbeo! - rispose l'altro. - Signori giurati! - seguitava intanto il sostituto, piegando graziosamente la figura sottile. - La sorte di costoro è nelle vostre mani, ma pure nelle vostre mani è almeno in parte il destino della società, su cui potete influire col vostro verdetto. Penetrando a fondo il significato di questo delitto, il pericolo che individui, per così dire, patologici come la Màslova rappresentano per la società, la proteggerete dal contagio e salverete dalla rovina gli elementi sani e puri del nostro paese.

E come se anch'egli fosse schiacciato dal peso del prossimo verdetto, il sostituto procuratore, visibilmente entusiasmato del suo discorso. si lasciò cadere sulla seggiola.

A parte i fiori retorici, il senso della sua arringa era questo:

la Màslova aveva ipnotizzato il mercante riuscendo a carpirne la fiducia, era andata con la chiave nella camera dell'albergo per prendere i soldi, e aveva tentato di appropriarsi di tutto, ma colta sul fatto dal Simòn e dall'Efìmia era stata costretta a dividere con loro il bottino. Poi, per nascondere le tracce del furto, era ritornata col mercante all'albergo e l'aveva avvelenato.

Dopo la requisitoria del sostituto procuratore, si alzò dal banco degli avvocati un uomo di mezza età, in frac, con un vistoso sparato bianco inamidato, e pronunciò un'arringa molto disinvolta in difesa del Kartinkin e della Boc'kova. Era il loro difensore, assunto per trecento rubli. Li giustificò tutti e due e riversò ogni colpa sulla Màslova.

Egli respinse l'affermazione della Màslova che la Boc'kova e il Kartinkin fossero presenti nella camera quando aveva preso il denaro, insistendo sul fatto che la testimonianza di lei, rea confessa di avvelenamento, non aveva alcun peso. Quei duemilacinquecento rubli, diceva l'avvocato, potevano rappresentare benissimo il guadagno di due persone oneste e lavoratrici, che spesso ricevevano dai clienti dell'albergo dai tre ai cinque rubli di mancia al giorno. Il denaro del mercante era stato certamente sottratto dalla Màslova e consegnato a qualcuno, o forse anche smarrito, giacché la donna non si trovava in condizioni normali. L'avvelenamento era stato commesso dalla sola Màslova.

Egli chiedeva perciò ai giurati di assolvere il Kartinkin e la Boc'kova dall'imputazione di furto, e in caso contrario di escluderne la complicità nell'avvelenamento e nella premeditazione.

Concludendo, l'avvocato, per picca contro il sostituto procuratore, fece notare che le brillanti considerazioni del sostituto procuratore sulla legge dell'ereditarietà, sebbene chiarissero le questioni scientifiche in merito all'argomento, erano in quel caso fuor di luogo, dato che la Boc'kova era figlia di ignoti.

Il sostituto procuratore, rodendosi dalla stizza, annotò qualche cosa sui suoi fogli e con uno stupore colmo di disprezzo alzò le spalle.

A sua volta si alzò il difensore della Màslova che balbettando timidamente, cominciò la sua arringa. Egli non negava che la Màslova avesse preso parte al furto del denaro e si limitava a insistere sul fatto che non aveva avuto l'intenzione di avvelenare lo Smielkòv, e che gli aveva dato la polverina per farlo addormentare. In un tentativo di eloquenza cercò anche di spiegare le ragioni che avevano trascinato la Màslova alla prostituzione, e osservò che forse essa era stata sedotta da un uomo rimasto tuttora impunito, mentre lei sola aveva dovuto portare il peso della sua caduta; ma questa scorribanda nel campo della psicologia fu un vero insuccesso e mise tutti a disagio. Quindi biascicò qualcosa sulla malvagità degli uomini e la debolezza delle donne, e il presidente, per venirgli in aiuto, lo pregò di attenersi alla sostanza del fatto.

Dopo l'arringa del difensore della Màslova, si alzò di nuovo il sostituto procuratore, e per difendere la tesi sull'ereditarietà contro le critiche dell'altro difensore fece osservare che, se anche la Boc'kova era figlia di ignoti, ciò non diminuiva affatto il valore della dottrina sull'ereditarietà, che aveva un fondamento scientifico tale da permetterci non soltanto di dedurre il delitto dall'ereditarietà, ma persino l'ereditarietà dal delitto. In quanto poi alla supposizione del difensore della Màslova che costei fosse stata messa sulla cattiva strada da un seduttore immaginario - e pronunciò la parola "immaginario" con un accento particolarmente velenoso - tutti i dati di fatto stavano a dimostrare che lei, piuttosto, era stata la seduttrice delle molte e molte vittime passate tra le sue mani. Detto ciò, sedette trionfante.

Il presidente allora domandò agli accusati se avevano qualcosa da dire a loro discolpa.

Simòn si limitò a ripetere più volte: Fate quel che volete, ma io non ho colpa, è ingiusto. La Màslova non disse nulla. All'invito rivoltole dal presidente di dire quel che sapeva a sua discolpa, alzò semplicemente gli occhi su di lui e si guardò in giro come una bestia braccata. Poi abbassò la testa e pianse singhiozzando forte.

- Che avete? - domandò il mercante al suo vicino Necliudov, udendo il suono strano che gli era sfuggito. Il suono di un singhiozzo contenuto...

Necliudov non s'era reso ancor ben conto della gravità della sua posizione e attribuiva a debolezza dei nervi il singhiozzo malamente trattenuto e le lacrime che gli bagnavano gli occhi. Per nasconderle si mise il pince-nez, poi tirò fuori il fazzoletto e si soffiò il naso.

Il terrore della vergogna di cui si sarebbe coperto se in quella sala di tribunale si fosse venuto a sapere ciò che aveva fatto, soffocò il lavorio spirituale che stava compiendosi in lui. E la paura, in quel primo momento, fu più forte di tutto.

 

 

 

NOTE:

  1. Eroe di antichi canti epici russi.

 

 

 

22.

 

Dopo l'ultima parola degli imputati e un lungo consulto delle parti sul modo d'impostare le domande da sottoporre ai giurati, queste furono formulate e il presidente iniziò il riassunto del processo.

Prima di venire al fatto, spiegò molto lungamente ai giurati, in tono simpatico e familiare, che la rapina è diversa dal furto e che il furto con scasso non va confuso col furto semplice. Mentre spiegava questo, guardava insistentemente Necliudov, forse sperando che afferrasse meglio degli altri l'importanza di quella distinzione e dopo averla compresa la spiegasse ai suoi colleghi.

Poi, quando ritenne che i giurati fossero sufficientemente compenetrati di quella verità, passò a spiegarne un'altra: che si dice assassinio quell'azione da cui consegue la morte di un uomo e che perciò anche l'avvelenamento è un assassinio. E quando quest'altra verità gli parve sufficientemente assimilata, spiegò ancora ai giurati che, se il furto e l'assassinio vengono commessi insieme, il reato risulta composto dai due fattori furto e assassinio.

Nonostante la smania di sbrigarsi in fretta per andare dalla svizzera che lo stava già aspettando, aveva talmente fatto l'abitudine al suo mestiere che, una volta preso l'aire, non gli riusciva più di smettere. Così egli spiegò minutamente ai giurati che se ritenevano gli imputati colpevoli, avevano il diritto di dichiararli tali, come, in caso contrario, avevano il diritto di dichiararli innocenti. Se li ritenevano colpevoli di un reato ma innocenti dell'altro, potevano dichiararli colpevoli del primo e innocenti del secondo, ma di questo diritto loro concesso dovevano usare ragionevolmente. Voleva poi spiegare che il rispondere affermativamente a una data domanda, significava accettarne implicitamente tutto il contenuto, mentre per accettare con riserva, dovevano dichiarare su che cosa non erano d'accordo. Ma data un'occhiata all'orologio e visto che erano già le tre meno cinque, risolse di passare subito all'esposizione dei fatti.

- Le circostanze del delitto sono le seguenti, cominciò, e ripeté le cose già dette più volte dai difensori, dal sostituto procuratore e dai testimoni.

Il presidente parlava, e ai suoi fianchi i due giudici l'ascoltavano con aria concentrata, sbirciando di tratto in tratto l'orologio: trovavano il suo discorso molto bello, proprio come doveva essere, ma un po' lungo. Dello stesso parere era anche il sostituto procuratore e in complesso i giudici e quanti erano nell'aula. Il presidente terminò la sua relazione.

Sembrava che tutto fosse stato detto. Ma il presidente non sapeva rinunciare al suo diritto di parlare, tanto gli piacevano le intonazioni suadenti della propria voce, e ritenne necessario dire qualche altra parola sull'importanza del diritto concesso ai giurati e sulla circospezione con cui dovevano valersi di quel diritto, cercando di non abusarne; li ammonì che avevano prestato giuramento, che rappresentavano la coscienza sociale, che il segreto della camera di deliberazione doveva essere sacro... E così via.

Da quando il presidente aveva cominciato a parlare, la Màslova non gli aveva tolto gli occhi di dosso, come avesse paura di perdere una sola parola. Perciò Necliudov non temeva di incontrare i suoi occhi e la guardava a suo agio. Nella sua immaginazione avveniva quel comune fenomeno per cui un caro viso, che da un pezzo non s'è visto, dopo averci dapprima stupito per i cambiamenti esteriori prodottisi durante l'assenza, a poco per volta ridiventa quello di molti anni prima: i cambiamenti scompaiono e agli occhi dell'anima si rivela soltanto l'espressione essenziale della personalità spirituale, che è esclusiva e irripetibile.

Ciò avveniva anche in Necliudov. Nonostante la casacca dei detenuti, il corpo appesantito e il seno forte, nonostante l'ingrossamento alla parte inferiore del viso, le rughe sottili sulla fronte o sulle tempie e intorno agli occhi un po' gonfi, quella era senza dubbio Katiuscia: la stessa Katiuscia che un giorno di Pasqua aveva ingenuamente rivolto su di lui, l'uomo amato, i suoi occhi innamorati, ardenti di gioia e di vita.

"Che caso sorprendente! Bisognava proprio che questo processo capitasse nella mia sessione, perché io, che non la vedevo da dieci anni, la incontrassi qui sul banco degli imputati. E ora?

Ah, se finisse presto, se almeno finisse presto!".

Non si arrendeva ancora a quel senso di rimorso che cominciava a parlare in lui. Considerava il caso come un incidente che sarebbe passato senza turbare la sua vita.

Si sentiva nello stato di un cucciolo che s'è comportato male in casa, e il padrone lo prende per la collottola per immergergli il muso nella porcheria che ha fatto. Il cucciolo uggiola, si tira più indietro che può dalle conseguenze del suo misfatto per dimenticarsene, ma il padrone, inflessibile, lo stringe come in una morsa. Anche Necliudov sentiva ormai la bassezza del suo operato e la mano possente del padrone, ma non capiva ancora la gravità di ciò che aveva fatto e non sapeva riconoscere il padrone. Voleva continuare ad illudersi che quanto avveniva davanti a lui non fosse opera sua. Ma la mano inesorabile e invisibile lo stringeva ed egli aveva il presentimento di non poterle sfuggire.

Faceva ancora il disinvolto, e sedeva imperturbabile nella seconda seggiola della prima fila con le gambe accavallate secondo il solito, mentre giocava distrattamente col pince-nez. Ma nell'intimo suo sentiva già tutta la crudeltà, la bassezza e l'infamia non solo di quella colpa, ma di tutta la sua vita oziosa, depravata, crudele e spensierata: e il terribile velo che per una specie d'incantesimo per ben dodici anni aveva celato ai suoi occhi quella colpa e quella vita, ora cominciava a sollevarsi, lasciandogli intravedere ciò che v'era dietro.

 

 

 

23.

 

Finalmente il presidente terminò il suo discorso, e alzato con un gesto grazioso il foglio delle domande, lo consegnò al capo dei giurati che gli si era avvicinato.

I giurati si alzarono in piedi, contenti di potersi muovere, e con gesti impacciati, come se si vergognassero di qualcosa, entrarono uno dopo l'altro nella camera delle deliberazioni.

Non appena l'uscio si fu richiuso alle loro spalle, un gendarme si avvicinò e sguainata la sciabola vi si mise di sentinella. I giudici si alzarono e uscirono. Gli imputati furono condotti via.

Entrati nella sala delle deliberazioni, i giurati, come l'altra volta, tirarono fuori le sigarette e si misero a fumare. La sensazione che nell'aula tutti più o meno avevano provato di essere in una posizione falsa e antipatica, svanì non appena ebbero varcata la soglia della camera di consiglio e si furono messi a fumare; tutti si accomodarono con un senso di sollievo e subito cominciò una conversazione animata.

La ragazza non è colpevole, l'hanno imbrogliata, - disse il mercante bonaccione; - dobbiamo mostrarci indulgenti.

E' proprio quello che s'ha da decidere! - rispose il capo. - Non dobbiamo abbandonarci alle nostre impressioni personali.

- Bella la relazione del presidente, - osservò il colonnello.

- Bella davvero! Per poco non mi addormentavo.

- La cosa più importante è che i due inservienti non avrebbero potuto sapere nulla del denaro, se la Màslova non fosse stata d'accordo con loro, - disse il commesso dal tipo ebraico.

- E allora, secondo voi, ha rubato? - domandò un altro.

- Non ci credo assolutamente - gridò il mercante bonaccione. - E' stata quella canaglia dagli occhi rossi che ha combinato tutto.

- Tutti buoni! - disse il colonnello.

- Ma se ha dichiarato che non è entrata in camera...

- E potete crederle? A una carogna simile non crederei per tutto l'oro del mondo.

- Ma non basta che non ci crediate voi, - osservò il commesso.

- La chiave l'aveva lei.

- E che conta se l'aveva lei? - obiettò il mercante.

- E l'anello?

- Ma se l'ha detto, - gridò di nuovo il mercante. - Un originale era, e poi era sbronzo! Gliele ha date. E poi, naturalmente, s'è pentito. To' prendi e non piangere... Sapete bene che pezzo d'uomo era: due arscìni e dodici vierskì di altezza e otto pudi (1) di peso!

- Questo non c'entra, - interruppe Piotr Gherassìmovic, - la questione è un'altra: chi ha istigato e macchinato il delitto, lei o i domestici?

- I domestici non potevano far da soli, la chiave l'aveva lei.

Questa discussione inconcludente durò assai.

- Ma scusate, signori! - disse il capo. - Mettiamoci a tavolino e ragioniamo. Prego! - disse sedendosi al posto presidenziale.

- Belle canaglie, queste sgualdrine! - esclamò il commesso. E per avvalorare la tesi secondo cui la principale colpevole era la Màslova, raccontò come un suo amico fosse stato derubato, su un viale, da una di quelle donne, che gli aveva portato via l'orologio.

Il colonnello prese la palla al balzo e raccontò un altro caso ancor più sorprendente, il furto di un samovàr d'argento.

- Signori, vi prego di seguire l'ordine dei quesiti! disse il capo picchiando con la matita sul tavolo.

Tutti tacquero. Le domande erano le seguenti:

1) E' colpevole il contadino Simòn Petrov Kartinkin di anni 33, del villaggio Borki, distretto di Krapivo, di avere il 17 gennaio milleottocento... nella città di N... in complicità con altre persone, attentato alla vita del mercante Smielkòv allo scopo di derubarlo, propinandogli nel cognac del veleno che ne causò la morte, e di aver poi rubato la somma di 2500 rubli e un anello di brillanti?

2) E' colpevole del delitto di cui al primo quesito, la borghese Efìmia Boc'kova, di 43 anni?

3) E colpevole del delitto di cui al primo quesito, la borghese Jekatierina Micailova Màslova, di 27 anni?

4) Se l'imputata Efìmia Boc'kova non è colpevole del delitto di cui al primo quesito, è forse colpevole di avere, il 17 gennaio milleottocento... nella città di N., trovandosi a servizio nell'albergo Mauritania, sottratto di nascosto da una valigia chiusa appartenente al mercante Smielkòv ospite di detto albergo, la somma di 2500 rubli, aprendo all'uopo la valigia sul posto con chiave falsa?

Il capo lesse il primo quesito.

- Ebbene, signori?

A questa domanda la risposta fu trovata subito. Tutti concordemente risposero che il Kartinkin era colpevole dell'avvelenamento e del furto.

Solo un vecchio artigiano che propendeva sempre per l'assoluzione, si mostrò di parere contrario.

Il capo credeva che egli non avesse capito, e gli spiegò che il Kartinkin e la Boc'kova erano indubbiamente colpevoli. L'artigiano rispose che lo capiva benissimo, ma che era sempre meglio mostrarsi compassionevoli. - Anche noi non siamo santi! - disse e non volle saperne di cambiar parere.

Al secondo quesito, relativo alla Boc'kova, dopo lunghe discussioni e spiegazioni, si decise che non era colpevole di avvelenamento giacché mancavano le prove evidenti della sua partecipazione, tasto sul quale aveva insistentemente battuto il difensore.

Il mercante, ansioso di assolvere la Màslova, continuava ad insistere che la Boc'kova era il perno di tutto il delitto. Molti giurati si mostrarono della sua opinione, ma il capo, volendo mantenersi rigorosamente ligio alla legge, disse che mancavano le prove per ritenerla partecipe dell'avvelenamento, e dopo molte discussioni il suo parere finì col trionfare.

Al quarto quesito risposero che la Boc'kova era colpevole, ma per l'insistenza dell'artigiano aggiunsero: Le si concedono però le attenuanti.

Il terzo quesito, quello relativo alla Màslova, suscitò discussioni veramente accanite. Il capo insisteva ch'essa era colpevole tanto di avvelenamento quanto di furto; il mercante invece, e insieme con lui il colonnello, il commesso e l'artigiano, sosteneva la tesi contraria, ma l'opinione del capo cominciava a prevalere. Ormai tutti i giurati erano stanchi e propensi a seguire quell'opinione che prometteva di metterli più presto d'accordo e di dar loro la libertà. Necliudov, sia da ciò che aveva udito durante l'lstruttoria, sia da quanto sapeva della Màslova, era certo che non fosse colpevole né del furto né dell'avvelenamento, e in principio aveva creduto fermamente che tutti sarebbero stati del suo parere. Ma quando si accorse che, un po' per la difesa maldestra del mercante, troppo evidentemente basata sul fatto che la Màslova gli piaceva, un po' per l'opposizione del capo, dovuta appunto a quella palese parzialità, ma soprattutto per la stanchezza generale, tutti cominciavano a propendere per l'accusa, voleva intervenire, benché si sentisse sgomento all'idea di parlare in difesa della Màslova, immaginando che tutti avrebbero immediatamente indovinato i suoi rapporti con lei. E frattanto capiva che non poteva lasciare le cose così, che doveva replicare. Arrossiva, diventava pallido... e stava per parlare quando Piotr Gherassimovic', rimasto silenzioso fino a quel momento e visibilmente irritato dal tono autoritario del capo, intervenne ad un tratto nella discussione e disse proprio le cose che avrebbe voluto dichiarare Necliudov.

- Ma scusate, - egli osservò, - voi dite che lei ha rubato perché aveva la chiave. Non potrebbero essere invece entrati i due inservienti dopo di lei ed aver aperto la valigia con una chiave falsa?

- Giusto, giustissimo, - approvò il mercante.

Lei non può aver preso denari, perché nella sua condizione non avrebbe saputo dove nasconderli.

- Quel che dico anch'io, - rincalzò il mercante.

- E' più probabile che la sua venuta all'albergo abbia suggerito ai domestici l'idea del furto. Approfittarono dell'occasione e poi addossarono a lei tutta la colpa.

Piotr Gherassimovic' parlava con tono concitato. La sua asprezza si comunicò al capo, che per reazione si mise ad insistere sempre più energicamente sulla tesi opposta. Ma Piotr Gherassimovic' parlava in un modo così persuasivo che la maggioranza fu d'accordo con lui nel riconoscere che la Màslova non aveva preso parte al furto dei denari e dell'anello, e che questo le era stato donato.

Quando poi il discorso cadde sulla partecipazione della Màslova al delitto, il mercante, suo ardente paladino, sostenne che dovevano proclamarla innocente, perché non aveva avuto alcuna ragione per avvelenarlo. Ma il capo gli replicò che ciò era inammissibile, dato che lei stessa aveva confessato di avergli dato la polverina.

- Sì, è vero, ma pensava che fosse oppio, - disse il mercante.

- Anche l'oppio avrebbe potuto ucciderlo, - osservò il colonnello che amava le digressioni. E narrò l'avventura della moglie di un suo cognato che s'era avvelenata con l'oppio e che sarebbe morta, senza l'intervento immediato di un medico che le aveva prodigato in tempo le cure del caso.

Il tono del colonnello era così ispirato, sicuro e dignitoso, che nessuno aveva l'animo d'interromperlo. Soltanto il commesso, contagiato dall'esempio, osò togliergli la parola per raccontare un'altra storia.

- Certe persone ci fanno talmente l'abitudine che possono arrivare fino a quaranta gocce. Un mio parente...

Ma il colonnello non si lasciò sopraffare e continuò a descrivere le conseguenze dell'oppio sulla moglie del cognato.

- Badate, signori, che sono già le quattro passate, disse un giurato.

- E allora, signori, - domandò il capo, - la dichiariamo colpevole ma senza intenzione di furto? e che non ha rubato? Va bene così?

Piotr Gherassimovic', contento della sua vittoria, assentì.

- Diamole anche le circostanze attenuanti, soggiunse il mercante.

Tutti approvarono, solo l'artigiano insisteva perché si rispondesse: "No, non è colpevole".

- Ma se è la stessa cosa! - spiegò il capo. - Mettendo: "senza intenzione di furto e che non ha rubato", è come se dicessimo che è innocente.

- Aggiungici anche: merita le attenuanti; servirà a scopar via quel che rimane... - aggiunse allegramente il mercante.

Tutti erano così stanchi, e ingarbugliati nella discussione, che nessuno pensò di aggiungere nel verdetto la frase: senza l'intenzione di uccidere.

Necliudov era tanto turbato che neppure lui ci badò. In questa forma il verdetto fu scritto e portato nell'aula d'udienza.

Rabelais scrive che un giurista, chiamato a risolvere un problema giudiziario, dopo aver enumerato tutte le leggi possibili e immaginabili e letto una ventina di pagine di un assurdo latino giuridico, propose di gettare un dado: pari o dispari... Se pari, aveva ragione il querelante, se dispari, il querelato.

Così avvenne anche questa volta. Fu adottata quella deliberazione invece di un'altra non perché tutti i giurati fossero d'accordo, ma anzitutto perché il presidente, nella sua lunga relazione, aveva trascurato di dire proprio la frase di cui non si scordava mai: che cioè i giurati avevano la facoltà di scrivere colpevole, ma senza l'intenzione di uccidere; in secondo luogo perché il colonnello aveva fatto un racconto troppo lungo e noioso sulla moglie di suo cognato; in terzo luogo perché Necliudov, nel suo turbamento, non s'era accorto che era stata omessa la formula relativa alla mancata intenzione di uccidere e credeva sufficiente l'altra: ma senza intenzione di furto; in quarto luogo perché Piotr Gherassimovic' era uscito dalla sala proprio nel momento in cui il capo dava la lettura delle domande e delle risposte; e finalmente perché i giurati erano stanchi, e nella fretta di finire, si sentivano disposti ad accettare qualsiasi deliberazione.

I giurati suonarono il campanello. Il gendarme che era di guardia alla porta con la sciabola sguainata, la rimise nel fodero e si fece da parte. I giudici ripresero i loro posti, e uno dietro l'altro rientrarono i giurati.

Il capo portava il foglio con aria trionfante. Si avvicinò al presidente della Corte e glielo porse. Il presidente lesse e con un gesto di meraviglia allargò le braccia e si volse ai giudici, consultandoli. Era stupito che i giurati dopo aver scritto la prima formula: ma senza intenzione di furto, avessero omesso l'altra: ma senza intenzione di uccidere.

Dal verdetto dei giurati risultava che la Màslova non aveva rubato, ma aveva ucciso un uomo senza un movente plausibile.

- Guardate che controsenso ci han portato qua, disse al giudice di sinistra. - Si tratta di lavori forzati, e lei è innocente.

- Ma via, come innocente! - rispose il giudice arcigno.

- Ma sicuro che è innocente. Secondo me sarebbe il caso di applicare l'articolo 818.

L'articolo 818 stabilisce che la Corte può annullare il verdetto dei giurati qualora lo ritenga ingiusto, - Che ve ne sembra? - si rivolse il presidente al giudice dall'aria buona.

Il giudice non rispose subito: diede un'occhiata al numero del foglio che gli stava davanti e ne sommò le cifre pensando che se il numero risultante era divisibile per tre, avrebbe accettato; l'operazione non gli riuscì, ma poiché era buono, acconsentì ugualmente.

- Penso anch'io che converrebbe, - rispose.

-E voi? - domanda il presidente al giudice arcigno.

- Per nessuna ragione, - rispose questi recisamente. - I giornali dicono già che i giurati assolvono i delinquenti. Che direbbero poi se anche la Corte li assolvesse? Mi rifiuto di acconsentire.

Il presidente guardò l'orologio, - Peccato, ma che farci? - e consegnò le risposte al capo della giuria perché ne desse lettura.

Tutti si alzarono e il presidente, appoggiandosi ora su un piede ora sull'altro, si schiarì la voce e lesse forte le domande e le risposte. I giudici, il cancelliere, gli avvocati, persino il procuratore generale palesarono il loro stupore.

Gli imputati sedevano imperturbabili, evidentemente senza capire il significato di quelle risposte. Tornarono a sedere tutti, e il presidente domandò al procuratore quale pena intendesse richiedere per gli imputati. Il procuratore, contento del successo inatteso riguardo alla Màslova, e attribuendolo alla propria eloquenza, consultò le sue scartoffie, si sollevò un poco e disse:

- Per Simòn Kartinkin chiedo l'applicazione dell'articolo 1452 nonché del paragrafo 4 del 1453, per Efimia Boc'kova dell'articolo 1659 e per Jekatierina Màslova dell'articolo 1454.

Erano queste le pene più severe che si potessero infliggere.

- La Corte si ritira per deliberare, - disse il presidente alzandosi.

Tutti seguirono il suo esempio e col piacevole senso di sollievo che si prova dopo aver compiuto un'azione lodevole, uscirono dall'aula o si sparsero qua e là per la sala. - Eh sì mio caro!

bell'affare abbiamo combinato! disse Piotr Gherassimovic' avvicinandosi a Necliudov che stava ascoltando ciò che gli diceva il capo. - Abbiamo mandato quella disgraziata ai lavori forzati!

- Che dite? - gridò Necliudov, non rilevando affatto, per una volta tanto, la familiarità antipatica del maestro.

- Ma sicuro, - egli rispose. - Nella risposta non abbiamo messo:

colpevole ma senza intenzione di uccidere. Mi ha detto or ora il cancelliere che il procuratore generale ha chiesto per lei quindici anni di lavori forzati.

- Ma abbiamo ben deliberato così! - replicò il capo. Piotr Gherassimovic' lo rimbeccò subito e gli fece osservare che se la Màslova non aveva preso i soldi, non poteva ovviamente aver avuto l'intenzione di uccidere.

- Ma io vi ho letto le risposte prima di uscire dalla camera di consiglio, nessuno ha fatto obiezioni!

- Ero uscito dalla stanza proprio in quel momento, - disse Piotr Gherassimovic'. - Ma voi come avete fatto a lasciarvi sfuggire una cosa simile?

- Non avrei mai pensato che... - disse Necliudov.

- Ecco, a non averci pensato!

- Ma ci si può rimediare! - ribatté Necliudov.

- Eh no, ormai è fatta!

Necliudov guardò gli imputati. Mentre si decideva la loro sorte, essi sedevano sempre immobili dietro la sbarra, custoditi dai soldati.

La Màslova sorrideva vagamente. E nell'animo di Necliudov s'insinuò un sentimento cattivo. Poco prima, quando ne prevedeva l'assoluzione e pensava che sarebbe rimasta in città, non sapeva bene che atteggiamento avrebbe assunto di fronte a lei. In qualsiasi modo, sarebbe stato difficile. Ed ecco che i lavori forzati e la Siberia distruggevano a un tratto la possibilità di ogni rapporto.

L'uccellino ferito a morte avrebbe finito ben presto di dibattersi nel carniere, e chi ci avrebbe pensato più?

 

 

 

NOTE:

  1. Il pud equivale a sedici chili e trentotto grammi.

 

 

 

24.

 

Le previsioni di Piotr Gherassimovic' erano esatte.

Rientrando dalla camera di consiglio, il presidente prese un foglio e lesse:

- "Il 28 aprile dell'anno milleottocento... per ordine di Sua Maestà Imperiale, la Corte d'Assise del tribunale distrettuale, visto il verdetto dei signori giurati, a norma dell'articolo 771, paragrafo 3, dell'articolo 776, paragrafo 3, e dell'articolo 777 del Codice di procedura penale, ha condannato il contadino Simòn Kartinkin di 33 anni e la borghese Jekatierina Màslova di 27 anni, ai lavori forzati, e alla perdita dei diritti civili: il Kartinkin ad anni 8, la Màslova ad anni 4, con le conseguenze per entrambi di cui all'articolo 25 del Codice penale.

"La borghese Efimia Boc'lcova, di anni 43, è condannata a 3 anni di reclusione con la perdita dei diritti civili e dei privilegi speciali acquisiti personalmente e per il suo stato, con le conseguenze di cui all'articolo 49 del Codice penale. Le spese del processo saranno ripartite in parti uguali fra gli imputati e in caso di insolvenza andranno a carico dell'erario.

"I corpi del reato devono essere venduti, l'anello restituito, i filtri distrutti.

Kartinkin stava in piedi irrigidito, con le braccia strette al busto e le dita allargate, e muoveva rapidamente le guance. La Boc'kova sembrava perfettamente tranquilla.

Nell'udire la sentenza, la Màslova si fece di fiamma.

- Sono innocente io, innocente! - ad un tratto risuonò la sua voce in tutta l'aula. - Vi sbagliate! Non sono colpevole, io. Non volevo uccidere, non ci pensavo. Dico la verità, la verità!

E lasciandosi cadere sulla panca, si mise a singhiozzare forte.

Il Kartinkin e la Boc'kova uscirono, ma la Màslova sedeva sempre nello stesso posto e piangeva; tanto che il gendarme dovette tirarla per la manica della casacca.

- No, non è possibile lasciar le cose così! - si disse Necliudov, dimenticando completamente il brutto sentimento di poco prima, e senza rendersene conto s'affrettò ad uscire nel corridoio per vederla ancora una volta. Sulla porta si stipava un gruppo animato di giurati e di avvocati, contenti che il processo fosse finito, sicché egli perdette un po' di tempo prima di poter uscire. Quando si trovò infine nel corridoio, la Màslova era già lontana. A passi affrettati incurante dell'attenzione che richiamava su di sé, egli la raggiunse, le passò davanti e si fermò.

Ormai essa non piangeva più. Solo singhiozzava ogni tanto, e si asciugava il viso arrossato con una cocca dello scialletto. Gli passò accanto senza guardarlo e Necliudov non fece nulla per fermarla.

In fretta tornò indietro per parlare al presidente. Ma questi era già andato e Necliudov lo raggiunse soltanto in portineria.

- Signor presidente, - disse Necliudov, avvicinandosi a lui che aveva già indossato il cappotto chiaro e stava prendendo dalle mani del portiere il bastone col pomo d'argento. - Potrei scambiare con voi qualche parola a proposito del processo che è finito or ora? Sono uno dei giurati.

- Ma come no, principe Necliudov! Felicissimo, ci siamo già incontrati, - rispose il presidente, stringendogli la mano e ricordando con piacere con che animazione e con che brio aveva ballato la sera che si era incontrato con Necliudov: meglio di tutti i giovanotti. - In che posso esservi utile?

- Nel verdetto c'è stato un malinteso relativo alla Màslova. E' innocente del delitto, eppure l'hanno condannata ai lavori forzati, - disse Necliudov con aria cupamente assorta.

- La Corte ha emesso il verdetto in base alle risposte che voi stessi avete dato, - rispose il presidente avviandosi all'uscita; - sebbene anche alla Corte le risposte siano sembrate non corrispondenti alla realtà dei fatti.

E si rammentò che aveva avuto l'idea di spiegare ai giurati come un loro eventuale responso di colpevolezza avrebbe implicitamente affermato la premeditazione, se non fosse stato seguito dalla clausola relativa alla mancata intenzione di uccidere:

avvertimento che nella fretta di finire egli non aveva dato.

- E' vero: ma non è proprio possibile rimediare all'errore?

- Si può sempre trovare un motivo per ricorrere in Cassazione.

Dovete rivolgervi a un avvocato, - disse il presidente mettendosi il cappello un po' di sghembo e continuando a muoversi verso l'uscita.

- Ma è una cosa terribile!

- Vedete, per la Màslova i casi erano due, - spiegò il presidente, cercando di essere il più possibile gentile e garbato; e lisciatosi le basette sopra al colletto del cappotto, prese leggermente Necliudov per il gomito e spingendolo verso l'uscita, gli domandò: - Venite anche voi, nevvero?

- Sì, - rispose Necliudov vestendosi in fretta. E lo seguì.

Fuori splendeva un bel sole gaio e fu subito necessario alzare la voce per farsi udire attraverso lo strepito delle ruote sul selciato.

- Una situazione strana, come vedete, - continuò il presidente alzando la voce; - per questa Màslova i casi erano due: o l'assoluzione quasi piena, con una condanna a pochi mesi di prigione in cui si sarebbe tenuto conto della detenzione preventiva, in tutto forse un semplice arresto, oppure i lavori forzati. Niente vie di mezzo. Se voi aveste aggiunto le parole ma senza intenzione di uccidere, sarebbe stata assolta.

- Non mi perdonerò mai questa dimenticanza! - esclamò Necliudov.

- Sicuro; il guaio è tutto qui, - disse sorridendo il presidente.

E guardò l'orologio.

Rimanevano soltanto tre quarti d'ora per l'ultimo termine fissato da Klara.

- Adesso, se credete, rivolgetevi a un avvocato. Bisogna trovare un motivo per ricorrere in Cassazione. Se ne può sempre trovare uno... Dvoriànskaia, - disse al vetturino, - trenta copeche, non ne dò mai di più.

- Accomodatevi, Eccellenza!

- I miei rispetti. Se potrò esservi utile, abito in via Dvoriànskaia, casa Dvòrnikov. E' facile da ricordare.

E, inchinatosi con cortesia, se ne andò.

 

 

 

25.

 

Le parole del presidente e l'aria fresca calmarono alquanto Necliudov. Gli sembrava d'aver dato troppa importanza ai propri sentimenti, e ciò a causa della mattinata trascorsa in modo così diverso dal solito.

"Però, che coincidenza strana e impressionante! Bisogna assolutamente che faccia tutto il possibile per alleggerire la sua sorte... e al più presto! Subito, anzi. Bisogna che mi informi immediatamente qui in tribunale dove stanno Fanarin o Mikiscin...

Erano due avvocati celebri, di cui ricordava i nomi.

Necliudov tornò al tribunale, si tolse il cappotto e salì al primo piano. All'imbocco del corridoio incontrò Fanarin in persona. Lo fermò e gli disse che aveva bisogno di parlargli. Fanarin lo conosceva di vista e di nome e gli rispose che sarebbe stato lieto di essergli utile.

Sono un po' stanco... Ma se non è una cosa lunga, ditemi di che si tratta. Mettiamoci qua.

Fanarin condusse Necliudov in una camera, probabilmente lo studio di qualche giudice. Si sedettero al tavolo .

- Di che si tratta?

- Anzitutto vorrei pregarvi di una cosa, - disse Necliudov, - che nessuno sappia che io m'interesso di questa faccenda.

- Ma è sottinteso. Dunque...

- Oggi facevo parte della giuria. Abbiamo condannato una donna ai lavori forzati... un'innocente. Ciò mi rimorde la coscienza.

Necliudov arrossì involontariamente e si confuse. Fanarin gli lanciò un'occhiata penetrante e poi abbassò lo sguardo, ascoltando.

- Ebbene? - si limitò a dire.

- Abbiamo condannato un'innocente, e io vorrei ricorrere a un tribunale superiore per far annullare la sentenza.

- Alla Corte di Cassazione, - precisò Fanarin.

- Vorrei pregarvi di occuparvene voi.

Necliudov aveva una gran fretta di sbrigare la parte più difficile e perciò disse subito:

- Onorari e spese di causa sono a mio carico, qualunque esse siano. - E arrossì.

- Be', su questo ci metteremo d'accordo, - rispose l'avvocato sorridendo indulgente a tanta inesperienza. Di che si tratta, dunque?

Necliudov raccontò.

- Benissimo. Domani prenderò la pratica e l'esaminerò. Dopodomani, anzi giovedì, venite da me verso le sei di sera e vi darò una risposta. Va bene? E adesso, scusatemi, ho qui ancora da sbrigare alcune pratiche.

Necliudov lo salutò e uscì.

Il colloquio con l'avvocato e il fatto di aver già fatto qualcosa per la Màslova calmarono il suo spirito. Uscì all'aperto. Il tempo era splendido, ed egli aspirò con delizia l'aria primaverile. I cocchieri gli offrirono i loro servigi, ma egli s'incamminò a piedi. Subito tutto uno sciame di pensieri e di ricordi su Katiuscia e su ciò che le aveva fatto cominciò a ronzargli nella testa. Si sentì sconfortato, e il mondo gli parve senza luce. "No, ci penserò dopo..." si disse; "ora ho proprio bisogno di distrarmi dai pensieri penosi".

Si ricordò del pranzo dei Korciaghin e guardò l'orologio. Non era troppo tardi, avrebbe fatto ancora in tempo... Un tram a cavalli scampanellò lì vicino. Si mise a correre e ci saltò sù. In piazza discese, noleggiò una bella carrozza e dieci minuti dopo era davanti al portone del palazzo Korciaghin.

 

 

 

26.

 

- Prego, Eccellenza! Vi aspettano, - disse affabilmente il grasso portiere di casa Korciaghin, aprendo la porta di quercia che girò silenziosamente sui cardini inglesi. - I signori sono a tavola, ma ho l'ordine di farvi salire.

Il portiere si avvicinò alla scala e suonò di sopra.

- C'è qualcuno? - domandò Necliudov, togliendosi il cappotto.

- Il signor Kolossòv e Micàil Serghèievic'. Gli altri sono tutti di casa, - rispose il portiere.

In cima alla scala s'affacciò un imponente domestico in frac e guanti bianchi. - Accomodatevi, Eccellenza, disse - siete pregato di passare.

Necliudov salì la scalinata e, attraverso un ampio e splendente salone a lui familiare, entrò nella sala da pranzo.

Intorno alla tavola sedeva tutta la famiglia, eccettuata la madre, la principessa Sòfia Vassilievna, che non usciva mai dal suo salotto. A capo tavola stava il vecchio Korciaghin, alla sua sinistra il dottore, alla sua destra l'ospite Ivàn Ivànovic' Kolossòv, ex maresciallo di provincia e attualmente membro del consiglio di amministrazione d'una banca, collega liberale di Korciaghin. Più in là, a sinistra, miss Reder, l'istitutrice della sorellina di Missy, e la piccola, una bambina di quattro anni. Di fronte, a destra, il fratello di Missy, Petia, l'unico maschio dei Korciaghin, studente di sesta ginnasiale che per colpa dei suoi esami tratteneva tutta la famiglia in città; vicino a lui uno studente che gli faceva da ripetitore, poi Jekatierina Aleksèievna, una zitella di quarant'anni, slavofila. Di fronte Micàil Sergheievic', ossia Miscia Teleghin, cugino di Missy. In fondo alla tavola Missy, e accanto a lei un posto vuoto.

- Oh, benissimo! Sedete, siamo soltanto al pesce, disse il vecchio Korciaghin masticando a fatica e cautamente coi denti falsi, e fissando Necliudov con gli occhi iniettati di sangue, che sembravano senza palpebre. - Stiepàn, - si rivolse con la bocca piena al grasso e imponente maggiordomo, indicandogli con gli occhi il posto vuoto.

Benché Necliudov conoscesse bene il vecchio e l'avesse visto mangiare parecchie volte, quel viso rosso con le labbra sensuali e ghiotte che spuntava dal tovagliolo infilato nel panciotto, quel collo adiposo e soprattutto l'aria ben pasciuta e militaresca del generale lo colpirono questa volta in modo particolarmente sgradevole.

Necliudov ripensò senza volerlo a tutto ciò che sapeva sulla crudeltà di quell'uomo: ricco, di famiglia illustre, non avrebbe avuto bisogno di acquistarsi meriti speciali, eppure, Dio sa perché, al tempo in cui era stato governatore di provincia, aveva fatto frustare e persino impiccare molta gente...

- Vostra Eccellenza sarà servita subito, - disse Stiepàn, prendendo un cucchiaione dalla credenza su cui erano disposti alcuni vasi d'argento, e facendo un cenno al bel cameriere con le basette, che si mise immediatamente a preparare la Posata accanto a Missy, dove il posto vuoto era segnato da un tovagliolo inamidato, piegato con arte e con lo stemma in vista.

Necliudov fece il giro della tavola, stringendo la mano a tutti.

Ogni commensale si alzò per salutarlo, all'infuori del vecchio Korciaghin e delle signore.

E quel girare intorno alla tavola e quello stringer la mano a persone per la maggior parte sconosciute, gli sembrarono, quella sera, cose assai ridicole e seccanti.

Egli si scusò del ritardo e fece per sedersi al posto vuoto in fondo alla tavola, tra Missy e Jekatierina Aleksèievna. Ma il vecchio Korciaghin volle assolutamente che andasse a prendersi qualche antipasto o un bicchierino di vodca dalla tavola su cui erano disposte aragoste, caviale, formaggio, aringhe.

Nec]iudov non credeva di essere tanto affamato, ma dopo il primo boccone di formaggio e di pane, non poté più fermarsi e si mise a divorare avidamente.

- Ebbene dunque, avete minato le basi? - disse Kolossòv, ripetendo con ironia l'espressione di un giornale reazionario che aveva attaccato l'istituzione dei giurati. Assolto i colpevoli e condannato gli innocenti, nevvero?

- Minato le basi... minato le basi, - ripeté ridendo il principe, che nutriva una fiducia illimitata nell'intelligenza e nel sapere del suo collega ed amico liberale.

Necliudov, a costo di sembrar scortese, non rispose e, sedutosi davanti alla minestra fumante che gli era stata servita, continuò a mangiare.

- Lasciatelo mangiare! - disse sorridendo Missy, come per ricordare a tutti, con l'uso di quel pronome, la sua intimità con lui.

Kolossòv, intanto, esponeva a voce alta e battagliera il contenuto dell'articolo, che l'aveva tanto indignato, sulla giuria popolare.

Gli faceva eco Micail Serghèievic, il nipote, che riferì il contenuto di un altro articolo dello stesso giornale.

Missy era, come sempre, assai "distinguée" e ben vestita: elegante senz'essere chiassosa.

- Dovete essere molto stanco e affamato, - disse a Necliudov, dopo che questi ebbe finito di mangiare. No, non moltissimo. E voi?

Siete state alla mostra? - domandò.

- No, abbiamo rimandato. Siamo invece andati al lawn tennis dai Salamatov. A onor del vero, Krooks gioca meravigliosamente.

Necliudov era andato dai Korciaghin per distrarsi, in quella casa s'era sempre trovato a suo agio non soltanto per il lusso raffinato che agiva piacevolmente sui suoi sensi, ma anche per l'atmosfera adulatrice che impercettibilmente lo avviluppava.

Ma quella sera, per un caso singolare, tutto in quella casa lo infastidiva. Tutto, e il portiere, e l'ampio scalone, e i fiori, e i domestici, e la tavola imbandita e perfino Missy, che gli sembrava artificiosa e poco attraente. Lo urtavano il liberalismo e il tono arrogante e volgare di Kolossòv, la figura taurina e sensuale del vecchio Korciaghin, le facce imbarazzate dell'istitutrice e del ripetitore, le frasi francesi di Jekatierina Aleksèievna la slavofila. Ma più di tutto lo aveva urtato l'uso del pronome "lo" riferito a lui.

Necliudov oscillava sempre fra due modi di giudicare Missy. Ora scopriva in lei tutte le perfezioni, come se la guardasse con gli occhi socchiusi o al chiaro di luna: la vedeva fresca, bella, intelligente, e piena di naturalezza. Ora invece, come in piena luce, era costretto a notare tutti i suoi difetti.

Così quel giorno vedeva fin le più piccole rughe del suo viso, rilevava benissimo che s'era arricciata i capelli, notava l'angolosità dei suoi gomiti e, soprattutto l'unghia larga del pollice, identica a quella del padre.

- Un gioco noiosissimo, - disse Kolossav a proposito del tennis: - era molto più divertente la laptà (1) della nostra infanzia.

- Perché non avete mai provato. E' terribilmente appassionante! - replicò Missy. E sembrò a Necliudov che avesse pronunciato la parola terribilmente con un'affettazione insopportabile.

Ne nacque una discussione a cui presero parte anche Micail Serghèievic' e Jekatierina Aleksèievna. Soltanto l'istitutrice, il ripetitore e i bambini tacevano, visibilmente annoiati.

- Discutono sempre! - disse il vecchio Korgianghin ridendo forte.

Si sfilò il tovagliolo dal panciotto e scostando rumorosamente la seggiola che il cameriere prese a volo, si alzò da tavola. Tutti seguirono il suo esempio e avvicinandosi al tavolino su cui erano allineate molte coppe d'acqua tiepida e profumata, si sciacquarono la bocca e ripresero una conversazione che non interessava nessuno.

- Non è vero? - domandò Missy a Necliudov, chiamandolo a confermare la sua affermazione che nel gioco, più che in qualsiasi altra cosa, si rivela il carattere delle persone. Aveva notato sul volto di lui quell'espressione tesa e accusatrice che le faceva paura, e voleva saperne la causa.

- Davvero non lo so. Non ci avevo mai pensato! - rispose Necliudov.

- Volete andare dalla mamma? - domandò Missy.

- Sì, sì, - rispose lui, accendendo una sigaretta, con un tono che indicava chiaramente il suo scarso entusiasmo per quella visita.

Missy, senza dir nulla, lo guardò con aria interrogativa, ed egli ne provò rimorso. "Veramente andar in casa altrui per mettere la gente di cattivo umore...", pensò di se stesso, e sforzandosi di essere gentile, disse che ci sarebbe andato con piacere se la principessa acconsentiva a riceverlo.

- Sì, si! La mamma ne sarà lietissima. Potrete fumare anche di là.

C'è anche Ivàn Ivànovic'.

La padrona di casa, la principessa Sòfia Vassilievna, era una signora che viveva su una poltrona a sdraio. Da otto anni i suoi ospiti la vedevano così, avvolta in trine e gale, fra i velluti, le dorature, gli avori, i bronzi, le lacche e i fiori; essa non andava mai da nessuna parte e riceveva soltanto i suoi amici, cioè le persone che, a parer suo, si distinguevano dalla massa.

Necliudov era tra gli eletti, sia perché passava per un giovanotto intelligente, sia perché sua madre era stata un'intima amica della famiglia, sia perché sarebbe stato bello che Missy lo sposasse.

La camera della principessa Sòfia Vassilievna era preceduta da due salotti, uno grande e uno piccolo. Nel salotto grande Missy, che faceva strada a Necliudov, si fermò risoluta e appoggiando le mani sulla spalliera di una seggiolina dorata, lo guardò.

Missy aveva una gran voglia di sposarsi, e Necliudov era un buon partito. E poi le piaceva, e s'era talmente abituata a considerarlo suo - lui di lei, non lei di lui - che tendeva al suo scopo con una scaltrezza inconsapevole ma tenace, quasi da maniaca.

Ora gli voleva appunto parlare per indurlo a spiegarsi.

- Mi sono accorta che vi è accaduto qualcosa, - disse. - Che avete?

Egli si ricordò dell'incontro alle Assise, si oscurò in volto e arrossì.

- Sì, avete ragione, - rispose, volendo esser sincero: - mi è accaduto un caso strano, veramente insolito e grave.

- Che cosa? Non potete dirmelo?

- Per ora no. Permettetemi di non parlarne. Non ho ancora potuto analizzarlo a fondo, - disse, e arrossì ancor di più.

- Non me lo volete dire? - Il suo viso si contrasse mentre con la mano scostava nervosamente la seggiolina che le serviva d'appoggio.

- No, non posso, - egli rispose. Capiva che con quelle parole rispondeva a se stesso, riconoscendo che gli era veramente accaduto qualcosa di assai grave.

- Be', allora andiamo.

essa scosse il capo come per scacciare i pensieri inutili, e proseguì. Il suo passo era più rapido del solito.

Gli parve che essa avesse stretto le labbra nello sforzo di trattenere le lacrime. Sentì rimorso e gli spiacque di averla afflitta, ma capì che la più piccola debolezza da parte sua l'avrebbe rovinato per sempre. L'avrebbe legato. E in quel momento temeva ciò più di tutto. In silenzio la seguì fino al salottino della principessa.

 

 

 

NOTE:

  1. Pallacorda.

 

 

 

27.

 

La principessa Sòfia Vassìlievna aveva terminato il suo pranzo composto di cibi molto delicati e nutrienti. Mangiava sempre sola perché nessuno la vedesse in una funzione così poco poetica.

Accanto alla sua poltrona a sdraio vi era un tavolinetto col caffè, ed essa fumava una sigaretta profumata. Bruna, allampanata, coi denti lunghi e gli occhi grandi e neri, la principessa Sòfia Vassilievna aveva ancora pretese giovanili. Correvan voci sui suoi rapporti col dottore. Necliudov, che non se ne era mai curato, quella sera non poté fare a meno di ricordarsene, e vedendole accanto il dottore con la sua barba biforcuta e lustra, provò un terribile senso di ribrezzo. Vicino a Sòfia Vassìlievna, sprofondato in una poltrona bassa e soffice accanto al tavolino, Kolossav mescolava il caffè. Sul tavolino era appoggiato un bicchiere di liquore.

Missy accompagnò Necliudov nella stanza della madre, ma non vi si trattenne.

- Quando la mamma sarà stanca e vi manderà via, venite da me, - disse a Kolossav e a Necliudov, volgendosi a quest'ultimo con un tono di voce naturalissimo, come se nulla fosse passato tra loro; e con un gaio sorriso, sfiorando leggera il tappeto spesso, uscì dalla camera.

- Oh! buongiorno, amico mio, sedete e raccontatemi, - disse la principessa Sòfia Vassìlievna col suo sorriso artificioso e falso ma apparentemente sincero, e scoprendo i magnifici denti lunghi, eseguiti tanto bene, da sembrar veri.

- Mi dicono che siete arrivato dal tribunale di pessimo umore. Io credo che per una persona di cuore sia molto penoso, - disse in francese.

- Sì, questo è vero, - rispose Necliudov: - spesso senti che la tua... senti che non hai il diritto di giudicare...

- Comme c'est vrai! (1) - esclamò lei, come colpita dalla giustezza dell'osservazione, adulando abilmente, come sempre, il suo interlocutore. - Ebbene, che ne è del vostro quadro? Mi interessa molto! - soggiunse; - se non fossi l'invalida che sapete, sarei venuta a trovarvi già da un pezzo.

- L'ho abbandonato del tutto, - rispose asciutto Necliudov che in quel momento vedeva chiaramente tanto la falsità di quelle lodi quanto l'età che essa cercava di nascondere. Non riusciva assolutamente ad essere cortese...

- Peccato! Sapete che Riepin in persona m'ha detto che ha un vero talento? - essa disse, rivolgendosi a Kolossòv.

"Come può non vergognarsi di mentire così?", pensò Necliudov accigliato.

Ma visto che Necliudov non era del solito umore e che era impossibile attirarlo in una conversazione piacevole e intelligente, Sòfia Vassìlievna si rivolse a Kolossòv e gli domandò che cosa ne pensasse dell'ultimo dramma teatrale. Dal tono della domanda sembrava che il giudizio di Kolossòv avrebbe dissipato qualunque dubbio, e che ogni parola di quel giudizio avrebbe avuto il valore di un oracolo. Kolossòv criticò il dramma e colse l'occasione per esporre le sue idee sull'arte. La principessa, trasecolando per l'esattezza di quei giudizi, cercava di difendere l'autore del dramma ma poi si arrendeva subito o ricorreva al compromesso.

Necliudov osservava e ascoltava. Ma vedeva e udiva cose ben diverse da quelle che gli stavano davanti.

Ascoltando ora Sòfia Vassìlievna ora Kolossòv, egli notò che a nessuno dei due importava nulla del dramma, come non importava nulla all'una dell'altro. Parlavano soltanto per appagare il bisogno fisiologico di mettere in movimento dopo il pasto i muscoli della lingua e della gola. Notò inoltre che Kolossòv era un po' brillo, per tutta la vodca, il vino e il liquore che aveva bevuto: la sua ebbrezza, però, diversamente da ciò che succede ai contadini che bevendo di rado s'ubriacano molto, era quella di chi ha fatto l'abitudine al vino. Senza traballare o dire sciocchezze, era in uno stato anormale di esaltata vanità. In terzo luogo, Necliudov osservò che la principessa, durante la conversazione, guardava inquieta la finestra: un raggio obliquo di sole stava per arrivare fino a lei, minacciando di illuminare troppo la sua vecchiaia.

- Com'è vero quel che dite! - essa esclamò a proposito di un'osservazione di Kolossòv, e premette sulla parete accanto alla poltrona il bottone del campanello.

Il dottore si alzò e, come uno di casa, uscì dalla camera senza dir nulla. Sòfia Vassìlievna l'accompagnò con lo sguardo continuando a discorrere.

- Per favore, Filìp, abbassate quella tendina, disse indicando con gli occhi la finestra al bel cameriere accorso alla sua chiamata.

- No, checché ne diciate, in lui c'è qualcosa di mistico, e senza misticismo non c'è poesia, - continuò la principessa seguendo con occhio corrucciato le mosse del cameriere che calava la tendina.

- Il misticismo senza poesia è superstizione, e la poesia senza misticismo, prosa... - disse sorridendo languidamente, senza distogliere lo sguardo dal cameriere che accomodava la tenda.

- Filìp, non quella tenda lì... l'altra alla finestra grande! - esclamò con voce sofferente, evidentemente compassionandosi per lo sforzo che le era costato il pronunciare quelle parole; e per calmarsi si portò alle labbra con la mano carica di anelli una sigaretta profumata.

Il bel Filìp, largo di spalle, atletico, le accennò un inchino come per scusarsi, e appoggiando delicatamente sul tappeto le sue gambe robuste dai forti polpacci, si avvicinò obbediente e silenzioso all'altra finestra; e mentre con lo sguardo attento seguiva la principessa, aggiustava la tenda in modo che neppure un raggio osasse cadere su di lei. Ma ancora non andava bene. Sòfia Vassìlievna, spossata, fu costretta a interrompere una seconda volta il suo discorso sul misticismo per correggere quel Filìp che non capiva nulla e la tormentava senza pietà. Per un attimo negli occhi di Filìp s'accese una fiammella. "Dentro di sé la manderà di certo al diavolo", pensò Necliudov osservando la scena. Ma il bel Filìp dissimulò subito il moto d'impazienza e obbedì rispettosamente all'ordine della padrona, la spossata, debolissima, tutta falsa principessa Sòfia Vassilievna.

- Naturalmente nella teoria di Darwin c'è una gran parte di vero, - diceva Kolossòv, sdraiandosi scompostamente nella poltrona bassa e guardando con occhi assonnati la principessa. - Però oltrepassa i limiti. Sì.

- E voi ci credete all'ereditarietà? - domandò a Necliudov Sòfia Vassilievna, imbarazzata dal suo silenzio.

- Nell'ereditarietà? - ripeté Necliudov. - No, non ci credo! - rispose distratto, tutto preso com'era da fantasie bizzarre, sorte, chissà perché, nella sua mente. Accanto all'erculeo bellissimo Filìp, che egli si raffigurava come modello, gli pareva di vedere Kolossòv nudo, col suo ventre a cocomero, la testa calva e le braccia flaccide, simili a due fruste.

In quella torbida fantasia vedeva anche quali dovevano essere in realtà le spalle ora ricoperte di seta e di velluto di Sòfia Vassilievna: immagine, questa, tanto orribile, che s'affrettò a scacciarla. Sòfia Vassilievna lo misurò con gli occhi.

- Ma Missy vi starà aspettando, - disse. - Andate da lei. Voleva suonarvi una nuova cosa di Grieg... molto interessante.

"Non voleva suonar niente. Se l'è inventato lei per un qualche suo scopo", pensò Necliudov alzandosi e stringendo la mano diafana, ossuta, ricoperta di anelli di Sòfia Vassilievna.

Nel salotto gli venne incontro Jekatierina Aleksèievna e subito gli disse, come sempre in francese: - Vedo proprio che le funzioni di giurato hanno su di voi un'azione deprimente.

- Sì, scusatemi, oggi sono di cattivo umore e non ho il diritto di seccare gli altri, - rispose Necliudov.

- Perché siete di cattivo umore?

- Permettetemi di non dirlo, - e Necliudov cercò il suo cappello.

- Vi ricordate quando avete detto che bisogna essere sempre sinceri? tutte le verità scottanti che diceste a tutti noi? Perché adesso non volete parlare? Te ne ricordi, Missy? domandò Jekatierina Aleksèievna a Missy che s'avvicinava.

- Perché quello era un gioco, - rispose Necliudov serio. - Nel gioco si può. Nella realtà invece siamo cattivi; io, anzi, sono così cattivo che, perlomeno a me, è impossibile di dire la verità.

- Non cercate di aggiustarla e diteci piuttosto perché siamo così cattivi, - ribatté Jekatierina Aleksèievna scherzando con le parole e come se non si accorgesse della serietà di Necliudov.

- Non c'è niente di peggio che l'ammettere il proprio cattivo umore, - disse Missy. - Io non lo confesso mai neppure a me stessa, e per questo son sempre allegra. Su, andiamo in camera mia. Cercheremo di cacciar via "votre mauvaise humeur" (2).

La sensazione di Necliudov era simile a quella che deve provare un cavallo quando lo accarezzano prima di mettergli il morso e di attaccarlo. E quel giorno gli riusciva più che mai sgradevole l'idea di essere aggiogato. Si scusò di dover ritornare a casa, e cominciò a salutare.

Missy trattenne la sua mano più a lungo del solito. - Non dimenticate che quanto è importante per voi lo è anche per i vostri amici, - disse. - Verrete domani?

- Sarà difficile, - rispose Necliudov e, assalito dalla vergogna, non sapeva se per sé o per lei, arrossì e si affrettò a uscire.

- Che gli succede? "Comme cela m'intrigue!" (3) - esclamò Jekatierina Aleksèievna, quand'egli fu uscito. - Lo saprò senz'altro. Qualche "affaire d'amour propre, il est très susceptible, notre cher Mitja" (4).

- "Plutôt une affaire d'amour sale", (5) - voleva dire Missy, ma si astenne, guardando davanti a sé con un'espressione spenta, assai diversa da quella con cui aveva poco prima guardato Necliudov. Si tenne per sé quel gioco di parole di cattivo gusto, e a Jekatierina Aleksèievna disse soltanto: Tutti abbiamo dei momenti cattivi e dei momenti buoni...

"E' mai possibile che anche lui m'inganni? Dopo quanto c'è stato fra noi, sarebbe una brutta azione da parte sua".

Se Missy avesse dovuto spiegare che cosa intendeva con le parole "dopo quanto c'è stato fra noi", non avrebbe saputo dire nulla di preciso. Eppure sentiva con certezza che egli non soltanto le aveva dato delle speranze, ma quasi le aveva fatto una promessa, non con parole definite ma con sguardi, sorrisi, allusioni, sottintesi... A lei ciò era bastato per considerarlo suo. E ora l'idea di doverlo perdere le riusciva assai dura.

 

 

 

NOTE:

  1. com'è vero!
  2. Il vostro cattivo umore.
  3. Come ciò mi incuriosisce!
  4. Qualche faccenda d'amor proprio; è molto suscettibile, il nostro Mitja.
  5. Qualche d'amore sporco, piuttosto.

 

 

 

28.

 

"Vergogna e schifo, schifo e vergogna", pensava Necliudov mentre ritornava a casa a piedi, per strade che gli erano familiari. La sensazione penosa provata durante la conversazione con Missy non lo abbandonava. Egli sentiva che formalmente, per così dire, era dalla parte della ragione, poiché non si era dichiarato e non le aveva mai detto niente di impegnativo. Eppure capiva che in sostanza s'era legato a lei, che le aveva fatto una promessa. E, d'altra parte, quella sera aveva sentito con tutto l'essere suo di non poterla sposare.

"Vergogna e schifo, schifo e vergogna", continuava a ripetersi pensando non solo al contegno verso Missy, ma a tutto in generale.

"Tutto è vergognoso e schifoso, tutto", ripeteva a se stesso entrando in casa sua.

- Non ceno stasera, - disse a Kornèi, entrato dopo di lui nella sala da pranzo, dove aveva preparato la tavola e l'occorrente per il tè. - Andate pure.

- Bene, signore, - rispose Kornei, ma non uscì e cominciò a sparecchiare. Necliudov osservava Kornèi con malanimo. Avrebbe tanto voluto essere lasciato in pace e invece gli sembrava che tutti, quasi a farlo apposta, si divertissero a importunarlo.

Quando Kornèi portò via le stoviglie, Necliudov si avvicinò al samovàr per versarsi una tazza di tè; ma udì i passi di Agrafena Petrovna e per evitare di vederla si ritirò precipitosamente nel salotto chiudendo dietro di sé la porta.

Proprio in quel salotto tre mesi prima era morta sua madre.

Ed ora, entrando nella camera illuminata da due lampade a riflettore, davanti al ritratto del padre e della madre, Necliudov si ricordò come s'era comportato con la madre negli ultimi tempi, e gli sembrò d'aver tenuto un contegno artificioso e ripugnante.

Anche in questo, che vergogna e che schifo!

Rammentava che, verso la fine della malattia, le aveva proprio augurato la morte. Si era detto che voleva vederla liberata dalle sofferenze, ma in realtà voleva essere liberato lui dalla vista di tutto quel patire. Spinto dal desiderio di risvegliare in sé un buon ricordo di lei guardò il suo ritratto, che un noto pittore aveva eseguito per cinquemila rubli. Ella vi appariva in abito di velluto nero, col seno scoperto. Il pittore, evidentemente, aveva dipinto con cura particolare il seno, l'incavo tra le due mammelle, le spalle d'una bellezza abbagliante e il collo.

Questo poi era il colmo della vergogna e dello schifo... V'era un che di ripugnante e di sacrilego in quella raffigurazione della madre sotto l'aspetto d'una bellezza seminuda; tanto più ripugnante, in quanto proprio nella stessa stanza tre mesi prima quella stessa donna giaceva rinsecchita come una mummia, mentre un odore insopportabile si diffondeva dalla camera per tutta la casa.

Necliudov aveva ancora nelle nari quell'odore. Ricordò che il giorno prima di spirare sua madre gli aveva stretto la mano bianca e forte con la sua manina scarna, già un po' livida, l'aveva guardato negli occhi e aveva detto: "Non giudicarmi, Mitja, se non ho fatto quel che dovevo", e negli occhi sfioriti dalla sofferenza eran spuntate le lacrime... "Che vergogna!", egli si disse ancora una volta, alzando lo sguardo alla figura seminuda: le spalle e le braccia erano marmoree, splendide, e il sorriso pieno di trionfo.

La nudità di quel petto gli rammentò un'altra giovane donna, che qualche giorno prima aveva visto scollata allo stesso modo. Una sera Missy l'aveva invitato con un pretesto a casa sua per farsi vedere da lui in abito da ballo, prima di recarsi a una festa.

Ricordò con disgusto le sue spalle e le braccia bellissime. E quel padre rozzo e bestiale, col suo passato di crudeltà, e quel "bel esprit" della madre, dalla reputazione sospetta... Tutte cose ripugnanti e vergognose.

Tutto ispirava vergogna e disgusto, disgusto e vergogna.

"No, no", egli pensava, "bisogna che me ne liberi; che mi svincoli da tutte queste relazioni coi Korciaghin e con Mària Vassilievna e con l'eredità e con tutto il resto... Sì, respirare liberamente.

Andare all'estero... a Roma, e finire il mio quadro". Ricordò i suoi dubbi relativi al proprio talento... "Be', non importa, l'essenziale è di respirare liberamente".

Prima a Costantinopoli, poi a Roma, ma finirla al più presto con la storia della giuria. E per quella cosa mettersi d'accordo con l'avvocato. D'un tratto nella sua mente sorse straordinariamente vivida l'immagine della detenuta coi suoi occhi neri, lievemente strabici. Come aveva pianto dopo aver finito di parlare.

Nervosamente egli schiacciò nel portacenere la sigaretta che stava fumando, ne accese un'altra e si mise a camminare sù e giù per la stanza. E uno dietro l'altro presero forma nel suo ricordo i momenti trascorsi con lei. Rammentò l'ultimo appuntamento, la passione che s'era impossessata di lui e la disillusione provata dopo aver soddisfatto i sensi. Rivide l'abito bianco col nastro azzurro, ricordò la funzione in chiesa. "Ma io l'amavo, quella notte, l'amavo sinceramente, d'un amore buono, puro! e l'avevo amata anche prima, e quanto, la prima volta che andai dalle zie a scrivere la mia tesi!.....

Ritrovò la propria immagine d'un tempo. Si sentì avvolto da un soffio profumato di freschezza, di gioventù, di vita piena, e si sentì sconsolatamente triste.

Enorme la differenza tra l'uomo che era stato allora e quello di adesso: se non maggiore, certo uguale alla differenza tra la Katiuscia della funzione in chiesa e la prostituta che si ubriacava col mercante, e che avevano condannato quella mattina.

Allora egli era un uomo forte e libero, davanti al quale si aprivano possibilità infinite. Ora si sentiva impigliato ovunque nella rete di una vita sciocca, vuota, senza scopo, insulsa.

Irretito com'era, non vedeva alcuna via di uscita e gli mancava quasi completamente la volontà di trovarne una. Si ricordò com'era fiero una volta della propria dirittura, come s'era fatto una norma di dir sempre la verità. E la diceva sempre. Ora invece era immerso completamente nella menzogna; nella più tremenda delle menzogne: quella che tutti gli uomini del suo ambiente prendevano per verità. Da questa menzogna non c'era, o almeno egli non la vedeva, alcuna via di uscita; si era impegolato e assuefatto; ci si crogiolava tutto.

Come poteva rompere i rapporti con Mària Vassìlievna e con suo marito senza doversi vergognare di guardar in faccia lui ed i suoi figli? Come sbrogliare senza menzogna la relazione con Missy? Come uscire dalla contraddizione che esisteva tra l'aver denunciato l'ingiustizia della proprietà terriera e il continuare a vivere sull'eredità della madre? Come avrebbe riparato la sua colpa verso Katiuscia? Impossibile lasciar le cose così! "Non si può abbandonare una donna che si è amata contentandosi di pagare l'avvocato e di evitarle la galera, che non merita affatto.

Riparare una colpa col denaro come feci allora, pensando che coi soldi ci si possa sdebitare!".

Ricordò lucidamente quando l'aveva rincorsa nel corridoio, le aveva rifilato i soldi e poi era scappato. "Ah! quel denaro!" E al ricordo riprovò l'orrore e il ribrezzo d'allora.

- Ohi, ohi! che schifo! - disse ad alta voce come allora, - soltanto un pessimo soggetto, un mascalzone poteva agire così! E io, io sono quel pessimo soggetto, quel mascalzone! - disse sempre ad alta voce. - Ma è mai possibile, - e si fermò di colpo, - che io sia davvero un pessimo soggetto? E che altro sarei? - rispose a se stesso.- Epoi fosse soltanto questo, - continuava ad accusarsi. - Non è forse uno schifo, una sozzura la tua relazione con Mària Vassilievna e suo marito? E il tuo atteggiamento verso la proprietà? Col pretesto che son danari di tua madre, sfruttare una ricchezza che hai dichiarato illegale? E tutta la tua vita, oziosa, sporca? Bel coronamento dell'opera quel tuo atto con Katiuscia! Miserabile mascalzone! Che la gente mi giudichi pure come vuole. Posso ingannare gli altri, non me stesso.

Ad un tratto Necliudov comprese che l'avversione da lui provata negli ultimi tempi e quel giorno soprattutto per il principe, per Sòfia Vassilievna, per Missy e per Kornèi, era avversione per se stesso. E, cosa strana, quell'ammettere la propria bassezza gli dava una sensazione di dolore ma anche di gioia e di calma.

A Necliudov era già capitato più di una volta di fare quella che egli chiamava la purificazione dell'anima. Intendeva con ciò quel determinato stato d'animo per cui ad un tratto, talvolta dopo un lungo intervallo, sentendo in sé un rallentamento, un arresto persino della vita interiore, si decideva a far piazza pulita di tutte le sozzure che, accumulate nella sua anima, avevano provocato la crisi.

Dopo tali risvegli Necliudov s'imponeva sempre delle regole, che questa volta intendeva seguire fedelmente: scrivere il diario e cominciare una vita nuova, che sperava di non cambiare mai più.

Turning a new leaf (1), come diceva a se stesso. Ma ogni volta le lusinghe del mondo l'afferravano ed egli, senza accorgersene, cadeva di nuovo, e spesso più in basso di prima.

Parecchie volte s'era purificato e s'era rialzato. La prima volta, nell'estate trascorsa dalle zie: risveglio vivissimo, quello, pieno di entusiasmi e i cui effetti eran durati a lungo. Un'altra crisi simile era avvenuta quando aveva lasciato la carriera civile e animato da spirito di sacrificio era entrato nell'esercito, durante la guerra. Ma questa volta l'ingorgo si era formato prestissimo... Aveva avuto la terza ed ultima crisi quando s'era dimesso dall'esercito ed era andato all'estero per dedicarsi alla pittura. Da allora era passato molto tempo. Mai s'era accumulata in lui tanta sozzura, mai egli aveva sentito un contrasto così stridente fra le esigenze della sua coscienza e la vita che conduceva. E al pensiero della distanza da colmare, inorridì.

Questa distanza era così grande e l'insozzamento così profondo che in un primo momento disperò di potervi rimediare. "Ho già tentato di perfezionarmi, di diventare migliore, e non ci son riuscito...", gli sussurrava nell'anima la voce del tentatore, "a che scopo fare un'altra prova? Non sei tu solo così! Tutti lo sono... è la vita", diceva la voce. Ma l'essere libero, spirituale, che è il solo vero, il solo possente, il solo eterno, cominciava a risvegliarsi in Necliudov ed egli non poteva non prestargli fede. Per quanto grande fosse la distanza tra quello che egli era e quello che avrebbe voluto essere, tutto appariva possibile all'essere spirituale che si era ridestato in lui.

"Spezzerò i lacci di questa menzogna, a qualunque costo, dirò sempre la verità, a tutti, e agirò secondo coscienza", egli si disse risolutamente e ad alta voce.

"Dirò la verità a Missy: che sono un dissoluto e non posso sposarla e le domanderò perdono di averla turbata. Lo dirò a Mària Vassilievna. Anzi a lei non ho nulla da dire, dirò a suo marito che sono un miserabile, che l'ho ingannato. Per l'eredità cercherò di agire con giustizia. A lei, a Katiuscia, dirò che sono un mascalzone, che riconosco la mia colpa, e farò tutto il possibile per alleggerire la sua sorte. Sì, la vedrò e le chiederò perdono come fanno i bambini". Si fermò. "E la sposerò, se sarà necessario".

Si fermò ancora, congiunse le mani sul petto come faceva da piccolo, alzò gli occhi al cielo e rivolgendosi a Lui pregò:

"Signore, aiutami, insegnami. Penetra, dimora in me e purificami da ogni colpa".

Pregava, supplicava Dio che lo aiutasse, che penetrasse in lui e lo purificasse e intanto il miracolo che implorava era già avvenuto. Dio, che viveva in lui, s'era destato nella sua coscienza. Si sentì Dio: sentì non soltanto la libertà, il coraggio e la gioia di vivere, ma anche l'enorme potenza del bene.

Si sentì capace di fare tutto ciò che di bello e di buono può compiere un uomo.

Aveva le lacrime agli occhi, mentre parlava a se stesso: lacrime buone e lacrime cattive. Buone, perché di gioia per il risveglio dell'essere spirituale che per tanti anni aveva dormito in lui, cattive, perché lacrime d'intenerimento sopra se stesso e la propria virtù.

Sentì caldo. S'avvicinò alla finestra e l'aprì. La finestra dava sul giardino. Era una notte di luna, calma, fresca; sulla strada cigolarono delle ruote e poi tutto tacque. Proprio sotto alla finestra s'intravedeva l'ombra dei rami d'un alto pioppo nudo, riflesso con tutte le sue biforcazioni sulla sabbia di un piazzaletto. A sinistra, il tetto della rimessa, sotto il chiaro di luna, sembrava bianco; più in là s'intrecciavano i rami degli alberi, oltre i quali si profilava l'ombra nera del muro di cinta.

Necliudov contemplava il giardino illuminato dalla luna, il tetto e l'ombra del pioppo, ascoltava e aspirava l'aria fresca, balsamica. "Come si sta bene, Dio mio, come si sta bene".

Parlava di ciò che era nato nell'anima sua.

 

 

 

NOTE:

  1. Voltando pagina.

 

 

 

29.

 

La Màslova rientrò nella sua camerata solo alle sei di sera, stanca e con le gambe che le facevano male per aver camminato quindici verste sui sassi, senza averne più l'abitudine. La severità imprevista della sentenza l'aveva prostrata e poi aveva fame.

Al tribunale, durante un intervallo, vedendo i suoi custodi che mangiavano pane e uova sode, le era venuta l'acquolina in bocca e s'era accorta d'aver fame. Ma chieder loro qualcosa le sarebbe sembrato umiliante. Eran poi passate tre ore, la fame le era scomparsa, ed essa sentiva soltanto una gran debolezza. In questo stato aveva udito la lettura della sentenza.

Al primo momento pensò d'aver capito male: non poteva credere a ciò che aveva udito; non sapeva concepire l'idea dei lavori forzati. Ma vedendo le facce tranquille, impassibili dei giudici e dei giurati che avevano accolto la notizia come la cosa più naturale del mondo, si era rivoltata e aveva gridato a tutta la sala la propria innocenza.

Vedendo che anche il suo grido era stato accolto come una cosa molto naturale, attesa e impotente a mutare gli eventi, s'era messa a piangere e aveva capito di doversi sottomettere a quella crudele e strana ingiustizia commessa contro di lei. Non riusciva soprattutto a capacitarsi d'essere stata giudicata con tanta durezza proprio dagli uomini, da quegli uomini giovani e nel fiore degli anni, che avevano continuato a guardarla con tanta simpatia.

Uno soltanto, il sostituto procuratore, le era sembrato d'umore completamente diverso. Mentre sedeva in camera di sicurezza aspettando la Corte, e durante gli intervalli del processo, aveva notato che tutti, chi per una ragione chi per l'altra, passavano davanti alla sua porta o entravano nella camera con l'unico scopo di darle un'occhiata.

E all'improvviso quei medesimi uomini, per una ragione incomprensibile, l'avevano condannata ai lavori forzati, sebbene innocente del fatto che le veniva imputato. Aveva pianto, ma poi s'era calmata, e in uno stato di completa prostrazione s'era seduta in guardina aspettando che la venissero a prendere. Non aveva che un unico desiderio: fumare. Così la trovarono la Boc'kova e il Kartinkin, che dopo la sentenza eran stati condotti in quella stessa camera. La Boc'kova cominciò subito ad ingiuriare la Màslova, a chiamarla pezzo da galera.

- Hai incassato il colpo? Le hai prese, eh? Credevi forse di cavartela, vigliacca! Hai avuto quel che ti meritavi. In galera, almeno, la pianterai di far la civetta.

La Màslova sedeva con le mani infilate nelle maniche della casacca e con la testa bassa guardava fissamente a due passi più in là, il pavimento sudicio. Si limitò a rispondere: - Vi dò noia, io?

Lasciatemi anche voi in pace. Non vi dico niente, io! - ripeté parecchie volte, poi tacque del tutto. Si rianimò un poco solo quando portarono via la Boc'kova e il Kartinkin, ed entrò un custode con tre rubli per lei.

- Sei la Màslova? - le domandò. - To', prendi, te li manda una signora, - disse, porgendole i denari.

- Che signora?

- Sù, prendi! Non ho altro da fare che perdere il tempo con voi!

Quel denaro l'aveva mandato la Kitàieva. Prima di lasciare il tribunale, aveva chiesto all'usciere se poteva mandare una piccola somma alla Màslova. L'usciere aveva detto di sì. Ricevuto il permesso, la donna s'era sfilata dalla mano bianca e paffuta il guanto scamosciato a tre bottoni, aveva tirato fuori dalle pieghe posteriori della gonna di seta un portafogli alla moda e scelto tra un bel mucchio di cedole appena staccate - frutto dei proventi della sua casa - un biglietto da due rubli e cinquanta, l'aveva porto all'usciere, aggiungendovi altre due monete da venti copeche e una da dieci. Costui, chiamato il custode, gli aveva consegnato il denaro in presenza della donatrice.

- Per favore non mancate di darglieli, - aveva detto Karolina Albèrtovna al custode.

Il custode s'era offeso del sospetto e per questo aveva trattato tanto male la Màslova.

La Màslova ricevette il denaro con gioia, giacché le avrebbe permesso di procurarsi l'unica cosa che desiderava in quel momento.

"Potessi soltanto avere una sigaretta e stendermi!", essa pensava, tutta presa dal desiderio di fumare. Ne aveva una voglia tale, che aspirava avidamente l'aria impregnata di odor di tabacco che usciva nel corridoio dalla porta di un ufficio. Ma le toccò aspettare ancora un pezzo poiché il cancelliere, cui spettava di farla ricondurre, s'era dimenticato degli imputati e stava discutendo animatamente con un avvocato a proposito dell'articolo clandestino.

Finalmente alle quattro passate la lasciarono andare e i soldati di scorta, quello di Nizni-Nòvgorod e il ciuvasci, la fecero uscire dalla porta posteriore del tribunale. Ancora sulla soglia dell'edificio, essa aveva dato loro venti copeche perché le comprassero due panini e le sigarette. Il ciuvasci s'era messo a ridere, ma aveva preso i soldi dicendo: Bene, compreremo, - e onestamente aveva comprato i due panini e le sigarette, riportando anche il resto.

Per strada era impossibile fumare, sicché la Màslova quando giunse alla prigione non aveva ancora soddisfatto la sua voglia. Mentre stava per entrare sotto il portone, un centinaio di detenuti condotti lì dalla stazione dove erano appena arrivati, le vennero incontro. C'erano uomini con la barba e altri con la faccia rasa; c'erano giovani e vecchi, russi e allogeni, e molti avevano la testa rasata a metà. Trascinandosi con fracasso le catene ai piedi, i detenuti riempirono l'ingresso di polvere, di rumore di passi, di voci e di un lezzo acre di sudore.

Passando accanto alla Màslova, si voltavano a guardarla. Alcuni le si avvicinarono e la toccarono.

- Ah, che bella ragazza! - disse uno. - Zietta, i miei rispetti! - esclamò un altro ammiccando. Un bruno con la nuca azzurra per la rasatura e con un paio di baffi sul viso rasato, inciampando nelle catene con gran rumore le si gettò addosso e l'abbracciò.

- O che non lo riconosci, il tuo tesoro? Sù, non darti delle arie!

- egli gridò, mostrando i denti e con un lampo negli occhi, quand'essa lo respinse.

- Mascalzone, che cosa fai? - urlò il vice direttore sopraggiungendo dal fondo.

Il detenuto si raggomitolò tutto e balzò via in fretta. Il vice direttore aggredì la Màslova: - E tu perché sei qui?

La Màslova voleva spiegare che l'avevano ricondotta dal tribunale, ma era tanto stanca che non si sentiva di parlare.

- Dal tribunale, Eccellenza, - disse il soldato più anziano, facendosi strada fra i detenuti e portando la mano al berretto.

- E allora consegnala al capo custode. E' una vera indecenza.

- Ai vostri ordini, Eccellenza.

- Sokolòv! Portala via! - urlò il vice direttore.

Il capo custode si avanzò, spinse rabbiosamente la Màslova per una spalla e fattole un cenno con la testa l'accompagnò fino al corridoio delle donne.

Qui la palparono, la perquisirono bene e non avendo trovato nulla (il pacchetto delle sigarette era nascosto in un panino) la spinsero nella camerata da cui era uscita quella mattina.

 

 

 

30.

 

La camerata della Màslova era un locale lungo nove arscini e largo sette, con due finestre, una stufa ingombrante e scalcinata e il tavolaccio di assi sconnesse che occupava i due terzi della superficie. Sulla parete di fronte alla porta era appesa un'icona scura, cui era incollata una candela di cera, mentre un mazzo polveroso di semprevivi vi penzolava sotto. A sinistra della porta, dove il pavimento appariva tutto annerito, poggiava il bigoncio degli escrementi. Il controllo era appena passato e le donne erano già rinchiuse per la notte.

Le abitatrici di quella camerata erano quindici: dodici donne e tre bambini. Faceva ancora molto chiaro, due donne soltanto erano sdraiate sulle cuccette. Una, con la casacca tirata sulla testa, era una povera scema, arrestata per vagabondaggio: dormiva quasi sempre. L'altra, una tisica, era stata condannata per furto.

Costei non dormiva, ma stava coricata con la gabbana sotto la testa e gli occhi spalancati; per non tossire, si sforzava di trattenere il catarro che le faceva un groppo in gola.

Le altre donne erano tutte a capo scoperto e in camicia di tela grezza; alcune sedevano sul tavolaccio intente a cucire, altre stavano alla finestra e guardavano passare i detenuti. Delle tre che cucivano, una, la Korabliòva, era la vecchia che al mattino aveva accompagnato la Màslova alla porta: una donna dalla faccia rugosa, cupa, imbronciata, con una borsa di pelle vizza sotto il mento; alta e forte, aveva i capelli castani, brizzolati alle tempie, raccolti in una trecciolina corta, e un porro peloso sulla guancia. L'avevan condannata ai lavori forzati per aver ucciso il marito con una scure. Ed essa l'aveva ucciso perché importunava la figlia. La Korablòva era la decana della camerata e vendeva il vino. Cuciva con gli occhiali e fra le grosse mani di lavoratrice teneva l'ago alla maniera delle contadine, con tre dita e con la punta rivolta verso di sé. Le sedeva accanto, intenta a cucire dei sacchi di canapa, una donna piuttosto piccola, di colorito scuro, con due occhietti neri e il naso camuso, bonacciona e loquace.

Guardiana di un casello ferroviario doveva scontare tre mesi di pena per aver trascurato di sventolare la bandierina al passaggio di un treno, causando perciò un sinistro.

La terza donna che cuciva si chiamava Fedossia: Fènic'ka per le sue camerate. Bianca e rossa, con due occhi azzurri luminosi e infantili, e due lunghe trecce castane avvolte intorno alla piccola testa, era giovanissima e assai graziosa. Si trovava in prigione perché aveva tentato di avvelenare il marito.

Il fatto era avvenuto subito dopo il matrimonio, che le avevano fatto contrarre quand'era una ragazzetta di sedici anni. Ma negli otto mesi successivi che, in attesa del processo, aveva trascorso a casa in libertà provvisoria, non solo s'era riconciliata col marito, ma se n'era tanto innamorata che l'annuncio del giudizio li aveva sorpresi in perfetta armonia d'animo e di corpo. Durante il processo il marito, il suocero e specialmente la suocera che le si era affezionata molto, l'avevano difesa strenuamente, ma nonostante tutti i loro sforzi essa era stata condannata ai lavori forzati in Siberia. Buona, sempre allegra e spesso sorridente, Fedòssia non solo s'era affezionata alla Màslova, ma si riteneva in obbligo di prodigarle cure e attenzioni. Sul tavolaccio sedevano senza far niente altre due donne: una sulla quarantina, dal viso smunto, emaciato. Benché magra e pallida, si capiva che doveva esser stata molto bella. Teneva fra le braccia un bambino e gli dava il latte da una mammella bianca e cadente. Nel suo villaggio, quando il commissario era venuto per condur via un giovane che doveva prestar servizio militare, i contadini, ritenendola un'azione contraria alla legge, si erano opposti, e quella donna, zia del giovane coscritto, era stata la prima a trattenere per la briglia il cavallo sul quale lo portavano via.

Per questo l'avevano condannata.

L'altra donna seduta sul tavolaccio senza far nulla era una vecchietta piccola, bonaria, tutte rughe, coi capelli grigi e la schiena curva. Seduta accanto alla stufa, fingeva di acchiappare un bambino di quattro anni dai capelli tagliati cortissimi che le correva davanti col suo pancino rotondo scoppiando in allegre risate. Il bimbetto in sola camiciola le passava accanto di corsa e continuava a ripetere: - Lo vedi che non mi hai preso?

Questa vecchina, accusata insieme col figlio d'incendio doloso, sopportava la sua reclusione con la massima pazienza e aveva soltanto due crucci, il figlio che si trovava anch'egli in carcere e il suo vecchio che senza di lei si sarebbe certamente riempito di pidocchi, giacché la nuora se n'era andata e in casa non c'era nessuno che lo lavasse.

Oltre a queste sette donne, altre quattro stavano davanti alla finestra aperta, e aggrappate alle sbarre di ferro, scambiavano segni e grida coi detenuti che attraversavano il cortile, gli stessi in cui s'era imbattuta la Màslova. Una di costoro, in prigione per furto, era una rossa, un donnone dal corpo sfatto, con la faccia, le mani, e il collo grasso che usciva dal colletto slacciato, di un colore giallastro e ricoperti di lentiggini. Con voce roca gridava parolacce dalla finestra. Accanto a lei stava una donna non più alta di una bambina di dieci anni, scura di pelle, sgraziata, col tronco lungo e le gambe cortissime. Aveva la faccia rossa e chiazzata, gli occhi neri distanti, le labbra grosse e corte che lasciavano scoperti i denti bianchi e sporgenti. Con voce stridula, a scatti, rideva alle scene del cortile. Questa detenuta, soprannominata Corosciavka (1) per i suoi sfoggi di eleganza, era stata condannata per furto e incendio doloso.

Dietro a loro si vedeva una donna incinta, magra, con le vene sporgenti e un ventre enorme; aveva un camicia grigia sporchissima e un aspetto da muovere a pietà. Era stata condannata per ricettazione. Taceva, ma sorrideva in segno di approvazione e di compiacimento per ciò che avveniva nel cortile. La quarta in piedi presso la finestra, in carcere per contrabbando di acquavite, era una contadina piuttosto piccola, tarchiata, con gli occhi molto sporgenti e la faccia bonaria. Era la madre del bambino che giocava con la vecchia e di una bambina di sette anni, tutti e due in prigione con lei perché fuori non aveva a chi affidarli.

Guardava come le altre dalla finestra, ma senza smettere un istante di fare la calza, aggrottava la fronte con aria di disapprovazione e chiudeva gli occhi alle parole che giungevano dal cortile. La sua bambina, coi capelli chiarissimi sciolti e indosso soltanto la camicina, stava accanto alla rossa e, aggrappandosi con la manina magra alla sua gonna, ascoltava attenta con gli occhi sbarrati gli improperi che si scambiavano fra di loro uomini e donne e poi li ripeteva sottovoce per imprimerseli nella memoria. La dodicesima carcerata era la figlia di un sagrestano che aveva affogato in un pozzo la sua creatura.

Era una ragazza alta e ben fatta, con i capelli arruffati che sfuggivano da una treccia grossa e bionda e con gli occhi sporgenti e fissi. Senza prestare alcuna attenzione a ciò che le succedeva d'intorno, e con indosso una camicia grigia e sporca, camminava scalza avanti e indietro per lo spazio libero della camerata, voltandosi con uno scatto improvviso quando arrivava alla parete.

 

 

 

NOTE:

  1. La bellona.

 

 

 

31.

 

Quando la serratura stridette, e la Màslova entrò nel camerone, tutte si voltarono a guardarla. Persino la figlia del sagrestano interruppe per un momento la sua passeggiata, guardò la nuova venuta inarcando le sopracciglia, poi senza aprir bocca si rimise a camminare coi suoi passi lunghi e risoluti. La Korabliòva puntò l'ago nella tela greggia e guardò la Màslova attraverso gli occhiali, con aria interrogativa.

- Eh, ohimè! Sei tornata. E io che credevo nella tua assoluzione, - disse con la sua voce roca, bassa, quasi maschile. - Te l'han fatta, allora!

Si levò gli occhiali e depose il cucito accanto a sé sul tavolaccio.

- Noi, tesoro, si diceva appunto ora con la zia, che forse ti avrebbero liberata subito. A volte succede, si diceva. Danno anche dei denari se capiti al momento giusto, - disse la cantoniera con la sua voce cantante. - Mah! che volete! Si vede che non siamo fortunate... Il Signore, si vede, vuole il suo, tesoro mio! - disse tutto d'un fiato con la sua voce carezzevole e armoniosa.

- Ti hanno proprio condannata? - domandò Fedossia con affettuosa commiserazione, guardando la Màslova coi suoi occhi celesti e infantili; e il suo viso allegro e giovane s'offuscò tutto, come se essa fosse sul punto di piangere.

La Màslova non rispose, si avviò silenziosa al suo posto, il secondo dal fondo, vicino alla Korabliòva, e sedette sul tavolaccio.

- Scommetto che non hai mangiato, - disse Fedossia, alzandosi e andandole vicino.

La Màslova, senza rispondere, mise i panini sul tavolaccio e cominciò a spogliarsi. Si tolse la casacca polverosa e il fazzoletto che le copriva i riccioli neri e sedette.

La vecchietta gobba che all'altro estremo del tavolaccio giocava col bambino, si avvicinò anch'essa e si fermò di fronte alla Màslova.

-Tz, tz, tz... - schioccò con la lingua, scuotendo impietosita la testa.

Il bambino che aveva seguito la vecchia guardava i panini della Màslova con gli occhi sgranati e con una mossuccia della bocca.

Dopo tutto quello che aveva passato nella giornata, la Màslova, vedendosi d'attorno tutte quelle facce compassionevoli, fu presa da una gran voglia di piangere. Le labbra le tremarono, ma cercò di trattenersi, e si trattenne fino al momento in cui si avvicinarono la vecchia e il bambino. E quando udì lo tz tz, amorevole e pietoso della vecchietta e incontrò lo sguardo del bambino che scorreva serio serio dai panini a lei, non poté più frenarsi. Il viso le tremò tutto ed essa scoppiò in singhiozzi.

- Te lo dicevo io, di trovarti un bravo difensore, - disse la Korabliòva. - Che ti han dato, l'esilio? - domandò.

La Màslova avrebbe voluto rispondere, ma non poteva.

Singhiozzando, tolse dal panino il pacchetto di sigarette, sul quale si vedeva una signora con guance rosse, una pettinatura molto alta, e una scollatura a punta e lo porse alla Korabliòva.

Questa osservò la figura, crollò il capo, disapprovando soprattutto che la Màslova avesse speso così male i denari; poi presa una sigaretta, l'accese alla lampada, ne aspirò una boccata, e gliela mise tra le labbra. La Màslova, senza smettere di piangere, cominciò a fumare con avidità una boccata dietro l'altra.

- Lavori forzati, - proruppe fra i singhiozzi.

- Non temono Dio, sanguisughe, vampiri maledetti! esclamò la Korabliòva. - Condannare una ragazza che non ha fatto nulla!

Fra le donne alla finestra risuonò uno scoppio di risa. Rideva anche la bambina, e la sua risata sottile, fanciullesca, si confondeva con quella roca e stridula delle detenute. Nel cortile qualcuno aveva fatto un gesto che aveva provocato l'ilarità delle donne.

- Ah! cane tosato! Che fa? - sbottò la rossa e dondolandosi in tutto il corpo grasso, col viso schiacciato contro le sbarre, urlò parole oscene e senza senso.

- Ve', quella pelle di tamburo! Che cos'ha da gracchiare? - disse la Korabliòva, scuotendo la testa in direzione della rossa, e si rivolse di nuovo alla Màslova. - Quanti anni?

- Quattro, - rispose la Màslova, e le lacrime le sgorgarono così abbondanti che una bagnò la sigaretta. La Màslova la schiacciò con rabbia, la gettò via e ne prese un'altra.

Sebbene non fumasse, la cantoniera si affrettò subito a raccattare il mozzicone e lo lisciò, sempre continuando a parlare.

- Si vede proprio, tesoro, - diceva, - che la giustizia se l'è pappata il porco. Fanno quel che vogliono. E noi che s'era predetto che ti avrebbero fatta uscire! La Matvèjevna diceva di sì, ma io, tesoro, dicevo: "Ho il presentimento che la rovineranno", e così è stato... - Evidentemente si compiaceva molto al suono della propria voce.

Frattanto i detenuti avevano lasciato il cortile e le donne s'erano scostate dalla finestra e avvicinate alla Màslova. La prima ad arrivare fu la contrabbandiera di acquavite dagli occhi a fior di testa con la sua bambina.

- E allora, sono stati molto severi? - domandò, sedendosi vicino alla Màslova e continuando a sferruzzare in fretta.

- Sono stati severi perché non ci sono denari. Ci fossero stati i quattrini per prendere un avvocato in gamba, forse l'avrebbero assolta, - disse la Korabliòva. - Quello... come si chiama... quel nasone tutto peli, quello, cara mia, vi tirerebbe fuori dall'acqua asciutte. Avesse potuto prender lui...

- Come faceva a prenderlo, - disse scoprendo i denti la Corosciavka, che s'era seduta vicino a loro: - Quello per meno di mille non ti sputa nemmeno in faccia.

- Già, si vede che ognuno ha il suo destino, - interloquì la vecchietta condannata per incendio doloso. - Vi par roba da niente? Al mio ragazzo gli han portato via la moglie e per giunta l'han mandato in prigione a nutrire i pidocchi. E io, cacciata qua dentro, vecchia come sono? - cominciò per la centesima volta a raccontare la sua storia. - Si vede che alla prigione e alla miseria non si sfugge. Se non è la miseria è la prigione.

- Fanno così con tutti, - disse la contrabbandiera, e, osservata la testa della bambina, appoggiò la calza vicino a sé, si prese la figlia tra le ginocchia e con le dita svelte cominciò a cercarle in testa. - "Perché vendi l'acquavite?". "E i bambini come li nutro?", - diceva, continuando l'operazione che le era familiare.

Le parole della donna ricordarono alla Màslova l'acquavite.

- Ne berrei un goccio! - disse alla Korabliòva, asciugandosi le lacrime con la manica della camicia. Ormai non singhiozzava quasi più.

- E perché no? Sù, dammi i soldi, - rispose la Korabliòva.

 

 

 

32.

 

La Màslova levò dal panino i denari e diede la banconota alla Korabliòva. Questa la prese, la guardò e sebbene non sapesse leggere, credette alla conferma della Corosciavka, informatissima su tutto, che quel biglietto valeva due rubli e cinquanta, e si accostò furtivamente alla bocca della stufa, dove teneva nascosta la bottiglia di acquavite. Vedendo ciò, le donne che non avevano la cuccetta vicino alla Maslova, se ne andarono ai loro posti. La Màslova intanto scosse la polvere dal fazzoletto e dalla casacca, montò sulla cuccetta e si mise a mangiare un panino.

- Ti ho tenuto da parte il tè, ma si sarà raffreddato - le disse Fedossia, prendendo da un palchetto una teiera di latta, avvolta in una pezza da piedi, e un boccale.

La bevanda era completamente fredda e sapeva più di latta che di tè, ma la Màslova se ne riempì il boccale e lo sorseggiò col pane.

- To', Finascka, - chiamò forte e, spezzato il pane, ne diede un po' al bambino che la guardava mangiare.

La Korabliòva, intanto, aveva portato la bottiglia d'acquavite e un boccale e la Màslova offrì da bere alla Korabliòva e alla Corosciavka. Queste tre detenute costituivano l'aristocrazia della camerata perché avevano del denaro e si dividevano i loro beni.

Dopo qualche minuto la Màslova si rianimò e si mise a raccontare con spigliatezza gli avvenimenti del processo, facendo il verso al sostituto procuratore e a tutto ciò che l'aveva maggiormente colpita.

In tribunale tutti si voltavano a guardarla e nella camera di sicurezza era un andirivieni continuo di uomini che volevano vederla... - Anche il soldato di scorta lo diceva, che venivano tutti per me. Ne entra uno e si mette a cercare una carta o che so io. Ma si capisce benissimo che è tutta una scusa, lo vedo che mi divora con gli occhi, - diceva sorridendo e scrollando il capo perplessa. - Anche loro, che artisti!

- Tutti così, sono, - riprese a dire la casellante con la sua voce che fluiva melodiosa. - Come mosche sullo zucchero. Sul resto non volano, ma qui li prendi. Il pane non lo vogliono...

- E anche qui, - l'interruppe la Màslova. - Anche qui ci sono cascata. Stavo giusto entrando, quando mi imbatto in uno scaglione che arriva dal treno. Non sapevo come cavarmela, tanto li avevo addosso. Fortuna che il vice direttore li ha cacciati via. Uno poi era tanto sfacciato che ho faticato a liberarmene.

Com'era? - domandò la Corosciavka.

- Bruno, coi baffi.

- Dev'essere lui.

- Chi lui?

- Ma S'ceglòv! Quello che è passato adesso.

- E chi è?

- Come non sai chi è S'ceglòv? E' evaso due volte dalla galera.

Adesso l'han preso, ma scapperà. Anche i custodi lo temono, - disse la Corosciavka, che faceva passare i bigliettini ai detenuti ed era al corrente di tutto ciò che succedeva nella prigione. - Scapperà senza dubbio.

- Se scapperà, non prenderà con sé né te né me, - disse la Korabliòva.

- Ma tu, piuttosto, dimmi, - si rivolse alla Màslova; - che cosa ti ha detto l'avvocato per il ricorso? Bisognerà ben presentarlo!

La Màslova rispose che non ne sapeva nulla. Intanto la rossa alzando le mani lentigginose ai capelli folti e arruffati e grattandosi la testa con le unghie, si avvicinò alle aristocratiche che bevevano l'acquavite.

- Te lo dirò io, Jekatierina, - cominciò. - Prima di tutto, devi scrivere che non sei contenta del verdetto e poi dichiararlo al procuratore.

- Ma tu che cosa vuoi? - le si rivolse stizzita con la sua voce di basso la Korabliòva: - hai fiutato l'acquavite, lascia pur stare di parlar tanto. Sappiamo anche senza di te ciò che si deve fare, non abbiamo bisogno del tuo aiuto.

- Non parlo con te, perché ci ficchi il naso?

- Hai voglia di acquavite? Per questo ti avvicini!

- Suvvia, dagliene, - disse la Màslova, che divideva sempre con tutti quel che aveva.

- So ben io che cosa le darò...

- Su su, dunque, - si mise a dire la rossa, avvicinandosi alla Korabliòva. - Non ho paura di te.

- Pelle da galera!

- Chi me lo dice...

- Vecchio budello!

- Io, budello? Pezzo da galera, assassina! - urlò la rossa.

- Vattene, ti dico, - minacciò la Korabliòva con aria cupa.

Ma la rossa continuava ad avvicinarsi e la Korabliòva le dette uno spintone nel seno grasso, scoperto. La rossa non sembrava aspettar altro e con un gesto subitaneo afferrò con una mano la Korabliòva per i capelli, mentre con l'altra cercava di schiaffeggiarla, ma la Korabliòva gliela strinse come in una morsa. La Màslova e la Corasciavka presero la rossa per le braccia, cercando di allontanarla, ma la mano di costei aggrappata alla treccia non mollava la presa. Se allentò per un istante la stretta, fu soltanto per avvolgersi i capelli intorno al pugno. La Korabliòva, con la testa piegata, martellava il corpo della rossa e cercava di morderle la mano.

Le donne si erano raggruppate intorno alle due litiganti, e cercavano di separarle e gridavano. Persino la tisica, scossa dalla tosse, s'era avvicinata e guardava la rissa. I bambini si stringevano paurosamente fra di loro e piangevano. A quel chiasso accorsero i carcerieri. Le due donne furono separate e la Korabliòva si sciolse la treccia grigia per togliersi le ciocche strappate, mentre la rossa si stringeva sul petto giallastro la camicia a brandelli. Gridavano tutte e due, volevano spiegarsi e si lagnavano.

- Lo so ben io di che si tratta; acquavite. Domani lo dirò al direttore e penserà lui a punirvi. Sento l'odore, - disse la carceriera, - badate bene: via tutto o finirà male. Non ho tempo da perdere con voi. A posto e silenzio!

Ma il silenzio stentava a ristabilirsi. Le donne continuarono a insultarsi ancora per un pezzo, a raccontarsi com'era andata e di chi era la colpa. Finalmente i carcerieri si ritirarono e le donne a poco per volta si calmarono e andarono a dormire. La vecchietta si mise a pregare davanti all'icona.

- Due donnacce da galera si son messe insieme, proruppe d'un tratto la voce roca della rossa all'altra estremità delle cuccette, accompagnando ad ogni parola improperi bizzarramente raffinati.

- Bada che non ti voli ancora qualcosa in testa, rispose subito la Korabliòva, con una raccolta di ingiurie dello stesso genere. Poi tutte e due tacquero.

- Se non me lo impedivano, ti cavavo gli occhi... - ricominciò la rossa e la risposta della Korabliòva non si fece aspettare.

Seguì una pausa più lunga, poi un nuovo scambio di imprecazioni.

Gli intervalli si facevano sempre più prolungati e alla fine regnò il silenzio assoluto.

Tutte le donne erano coricate e alcune russavano. Solo la vecchietta, che pregava sempre a lungo, continuava a inchinarsi davanti all'icona, mentre la figlia del sagrestano, appena uscita la guardiana, s'era alzata e aveva ripreso a camminare in sù e in giù per la camerata.

La Màslova non dormiva, oppressa dal pensiero dei lavori forzati.

Era ormai una donnaccia da galera, come già due volte l'avevano chiamata, prima la Boc'kova, poi la rossa e a quell'idea non poteva adattarsi. La Korabliòva, che le voltava la schiena, si rigirò.

- Non me lo sarei mai sognato, - disse piano la Màslova. - Certi che le fanno grosse la passano liscia e io devo soffrire senza nessuna colpa.

- Non affliggerti, ragazza mia. Anche in Siberia si vive. E tu te la caverai anche là! - la consolava la Korabliòva.

- Lo so che me la caverò, ma non è giusto... Non è un destino per me. Abituata come sono alla bella vita...

- Nessuno può opporsi ai voleri di Dio! - esclamò la Korabliòva. - Nessuno...

- Lo so, zietta; ma è difficile lo stesso. - Esse tacquero.

- La senti quella donnaccia? - riprese la Korabliòva, richiamando l'attenzione della Màslova sui suoni strani che provenivano dall'altra estremità delle cuccette.

La rossa singhiozzava sommessamente. Piangeva perché l'avevano insultata, picchiata e lasciata senza acquavite, mentre ne aveva tanta voglia; e perché in tutta la sua vita non aveva conosciuto altro che insulti, beffe, offese e busse. Per consolarsi, aveva cercato di rievocare il suo primo amore per Fedia Molodionkov, un operaio di fabbrica, ma subito le si era affacciato alla mente anche la fine di quell'amore, quando questo Molodionkov, ubriaco, per farle uno scherzo, l'aveva cosparsa di vetriolo nel punto più sensibile e poi s'era messo a sghignazzare coi compagni, mentre lei si contorceva dal dolore. A quel ricordo la donna aveva sentito pietà di se stessa e pensando che nessuno l'avrebbe udita s'era messa a piangere. Piangeva come i bambini, gemendo, tirando su col naso e inghiottendo le lacrime salate.

- Fa pena, - disse la Màslova.

- Fa pena, si sa, ma che non scocci!

 

 

 

33.

 

Il giorno seguente, quando si risvegliò, Necliudov provò subito la sensazione che qualcosa gli fosse accaduto; e ancor prima di ricordarsene, sapeva già che si trattava di un avvenimento buono e importante.

"Katiuscia, il processo". Sicuro, e la risoluzione presa di non mentire più, di dir sempre tutta la verità. Per una strana combinazione, quella stessa mattina arrivò finalmente la lettera tanto attesa di Mària Vassìlievna, la moglie del maresciallo, proprio la lettera che Necliudov aveva ora più che mai bisogno di ricevere. Essa gli rendeva la sua libertà, e gli augurava di essere felice nel suo prossimo matrimonio.

"Matrimonio!", disse egli fra sé con ironia. "Come son lontano da questo". Rammentò la promessa che si era fatta il giorno avanti di raccontare tutto al marito di lei, di chiedergli perdono e di mettersi a sua disposizione per qualsiasi soddisfazione gli avesse richiesto. Ma di mattina la cosa non gli sembrava più tanto facile come la sera prima.

"E poi perché rendere infelice un uomo, rivelandogli ciò che egli ignora? Se me lo chiederà, gli racconterò tutto. Ma andar proprio io a dirglielo... No, non è necessario".

Altrettanto difficile gli sembrava quel mattino dir tutta la verità a Missy. Anche in questo caso non era possibile intavolare l'argomento: sarebbe stato offensivo. Come in molte relazioni mondane, meglio lasciar le cose sottintese... Ed egli decise senz'altro che non sarebbe più andato da lei e che avrebbe detto la verità soltanto se gliel'avessero chiesta. Ma, per quanto riguardava i suoi rapporti con Katiuscia, nulla doveva rimanere sottaciuto. "Andrò in prigione, a parlarle, e la pregherò di perdonarmi. E se sarà necessario, sì... se sarà necessario, la sposerò!", egli pensava. Il pensiero di sacrificarsi per una riparazione morale e di sposarla, quel mattino lo commuoveva moltissimo.

Da un pezzo non aveva iniziato la sua giornata con tanta energia.

Ad Agrafena Petrovna che era entrata in camera dichiarò subito con una fermezza di cui egli stesso si meravigliò, che non aveva più bisogno né dell'appartamento né dei suoi servigi. Per un tacito accordo era stato deciso che egli avrebbe conservato quella casa così grande e costosa per portarvi la moglie. La cessione della casa, quindi, assumeva un significato speciale. Agrafena Petrovna lo guardò sorpresa.

- Vi sono molto grato, Agrafena Petrovna, per le cure che mi avete prodigato, ma a me ora non serve un appartamento così grande e tanta servitù. Se però volete aiutarmi, siate così gentile da occuparvi della roba, e riporla per ora come quando era viva la mamma. Mia sorella Natascia, poi, provvederà per il meglio.

Agrafena Petrovna scosse la testa.

- Come? Ma vi occorrerà certamente! - osservò.

- No, non mi occorrerà, Agrafena Petrovna, sono sicuro che non mi occorrerà, - replicò Necliudov, rispondendo a quel che essa aveva voluto dire tentennando la testa.

- Dite per favore a Kornèi che gli pagherò due mesi anticipati, ma che non ho più bisogno di lui.

- Fate male, Dmitri Ivànovic', a far così, - essa mormorò. - Be', anche se andrete all'estero, vi occorrerà sempre una casa.

- Non è come pensate, Agrafena Petrovna. Non vado all'estero, e se mai partirò, sarà per tutt'altro paese.

Ad un tratto si fece di porpora.

"Si, bisogna che glielo dica", pensò, "non c'è niente da nascondere. Bisogna dir tutto a tutti".

- Ieri mi è successa una cosa molto strana e grave. Ricordate la Katiuscia della zia Mària Ivànovna?

- Certo! Le ho insegnato a cucire...

- Be', proprio ieri c'è stato in tribunale il processo di questa Katiuscia e io ero giurato.

- Ah, mio Dio che pena! - disse Agrafena Petrovna. - E di che cosa era accusata?

- Di omicidio... e tutto questo l'ho fatto io.

- E come potete averlo fatto voi? Parlate in modo molto strano, - esclamò Agrafena Petrovna e nei suoi vecchi occhi s'accese una scintilla.

Essa conosceva la storia di Katiuscia.

- Sì, la colpa è soltanto mia. E questo cambia tutti i miei piani.

- Ma in che modo, cambia i vostri piani? - disse Agrafena Petrovna, trattenendo un sorriso.

- Se lei si è messa su quella strada per colpa mia, tocca a me cercar di aiutarla...

- Bontà vostra... Però voi non ci avete una colpa speciale in questo. Succede a tutti, e se si fanno le cose con giudizio, tutto s'aggiusta e si dimentica e la vita continua, disse Agrafena Petrovna in tono austero e serio; - non è poi il caso che vi prendiate voi la responsabilità. Anche prima avevo sentito dire che s'era allontanata dalla retta via, e allora chi ne ha colpa?

- Io. E voglio rimediare.

- Be', ormai è difficile...

- Questo è affar mio. E se è a voi che pensate, quello che la mamma desiderava...

- Non è a me che penso. La defunta mi ha colmato di tanti benefici che non desidero nulla. La Lisanka mi vuol con sé, - era una sua nipote maritata, - e se qui non sarò più necessaria, andrò a stare con lei. Ma fate male a prendervela tanto a cuore, son cose che capitano a tutti.

- Be', io la penso diversamente. E se mi aiuterete ad affittare la casa e ad imballare la roba, ve ne sarò grato. Non prendetevela con me! Io vi sono molto, molto grato di tutto.

Cosa strana: da quando Necliudov aveva cominciato a disprezzare se stesso e a considerarsi un poco di buono, aveva cessato di odiare gli altri, e persino per Agrafena Petrovna e per Kornèi provava un sentimento di affetto e di considerazione. Avrebbe voluto far ammenda anche davanti a Kornèi, ma il suo aspetto era così rispettoso e allontanante che non ne ebbe il coraggio.

Recandosi in tribunale, mentre con la solita carrozza percorreva le solite strade, Necliudov si stupiva di se stesso, tanto gli pareva di essere un altro uomo.

Il matrimonio con Missy, che fino al giorno prima gli era sembrato così prossimo, gli appariva ora addirittura impossibile. E ieri egli pensava che senza alcun dubbio la ragazza sarebbe stata felice di sposare un uomo come lui; oggi si sentiva indegno non solo di sposarla, ma persino di starle vicino. "Se soltanto sapesse chi sono, non mi riceverebbe più. E io che mi arrogavo di biasimarla perché aveva civettato con un altro! E poi, anche ammettendo che mi sposasse, potrei forse essere felice, od anche soltanto tranquillo sapendo che quella è qui in prigione e che domani o dopodomani partirà a tappe per la galera? La donna che io ho rovinato andrà ai lavori forzati, e io qui riceverò le congratulazioni e porterò in visita la giovane moglie... Oppure accompagnerò al Consiglio provinciale il maresciallo che ho indegnamente tradito, e dopo averlo aiutato a contare i voti pro e contro il regolamento dell'ispettorato scolastico, eccetera eccetera, fisserò un appuntamento a sua moglie... Che orrore!

Oppure riprenderò il quadro che evidentemente non finirò mai perché non è il caso che io mi occupi di simili bazzecole, e ho ben altro da fare, ora, che questo!", diceva fra sé, sempre più rallegrandosi del cambiamento che sentiva avvenire in se stesso.

"Anzitutto", pensava, "bisogna che veda l'avvocato e senta il suo parere e poi... poi andrò in carcere da lei, la detenuta di ieri, e le dirò ogni cosa".

E al solo pensiero che l'avrebbe riveduta, che le avrebbe confessato tutto, e la sua colpa e il suo desiderio di riscattarla ad ogni costo, fosse anche col matrimonio, si sentiva preso dall'entusiasmo e gli venivano le lacrime agli occhi.

 

 

 

34.

 

Al tribunale, appena entrato in corridoio, Necliudov incontrò l'usciere del giorno prima e s'informò da lui dove erano tenuti i prigionieri già giudicati e da chi si poteva ottenere il permesso di vederli.

L'usciere gli rispose che erano dislocati in diverse prigioni e che fino alla notificazione definitiva della sentenza il permesso per le visite dipendeva dal procuratore.

- Vi verrò a prendere dopo l'udienza e vi accompagnerò io stesso da lui. Adesso non c'è ancora. Dopo l'udienza. Ora vi prego di passare in sala; il dibattimento sta per cominciare.

Necliudov ringraziò della sua cortesia l'usciere che quel giorno gli faceva una gran pena, e si avviò verso la stanza dei giurati.

Stava per entrarvi quando i suoi colleghi ne uscirono per andare nella sala d'udienza. Il mercante, che aveva mangiato bene e bevuto meglio, come il giorno prima, ed era del suo solito ottimo umore, accolse Necliudov come un vecchio amico. Persino Piotr Gherassimovic', con tutta la sua familiarità e il suo ridere, non suscitò quel giorno in Necliudov nessun sentimento di antipatia.

Necliudov avrebbe voluto raccontare a tutti, anche ai giurati, la sua storia con l'imputata del giorno prima. "Veramente", pensò, "ieri durante il processo avrei dovuto alzarmi e confessare in pubblico la mia colpa". Ma quando si trovò coi colleghi nella sala delle udienze e cominciarono a svolgersi le solite formalità preliminari, egli sentì che nonostante tutta la sua buona volontà non avrebbe mai avuto il coraggio di turbare un'assemblea così solenne.

Come il giorno prima, l'usciere annunciò: - Entra la Corte, - e i tre giudici togati salirono sul pretorio, e dopo un minuto di silenzio, i giurati sedettero sui seggioloni. E poi i gendarmi, e il ritratto, e il prete. Tutto come il giorno prima, tranne il giuramento dei giurati e il discorso tenuto loro dal presidente.

Quel giorno si trattava di un furto con scasso. L'imputato, custodito da due gendarmi con le spade sguainate, era un ragazzo sui vent'anni, magro e stretto di spalle, con una casacca grigia e il viso grigio anemico. Sedeva solo sulla panca degli imputati e con la coda dell'occhio guardava le persone che entravano. Questo giovane era accusato di aver scassinato con un compagno la serratura di una rimessa e di aver rubato delle vecchie passatoie per un valore di tre rubli e sessantasette copeche. Dall'atto di accusa si capiva che la guardia di città lo aveva arrestato mentre si allontanava con l'altro, che portava sulle spalle le passatoie.

Tutti e due avevano confessato subito la loro colpa ed erano stati imprigionati. Il compagno del giovane, un fabbro, era morto in carcere; sicché soltanto uno veniva ora processato.

Le vecchie passatoie erano sulla tavola dei corpi di reato.

Il processo si svolgeva esattamente come quello del giorno prima, con tutto l'arsenale di prove, di indizi, di testimonianze, di giuramenti, di interrogatori, di perizie e di domande che s'incrociavano. La guardia urbana, citata come testimone, alle domande del presidente, del pubblico ministero, del difensore, rispondeva con voce atona: "Signorsì", "non lo so", e poi ancora "signorsì"... Ma nonostante la sua ottusità soldatesca e il suo tono macchinale, si capiva che il ragazzo gli faceva pena e che egli raccontava malvolentieri come l'aveva arrestato. La parte lesa, il proprietario della casa in cui era avvenuto il furto e delle passatoie rubate era un vecchietto dall'aria biliosa, che quando fu invitato a testimoniare se riconosceva le sue passatoie, lo fece molto malvolentieri: quando poi il sostituto procuratore gli domandò a che cosa gli servivano e se gli servivano molto, si adirò e rispose: - All'inferno queste maledette passatoie! non mi servivano a niente. Se avessi saputo che mi avrebbero dato tanti fastidi, invece di porgere querela, avrei pagato un bel biglietto rosso (1) o anche due per evitare d'esser trascinato qua a deporre. Ho speso, solo in carrozza, cinque rubli. E per giunta non sto bene, ho l'ernia e i reumatismi.

Così parlarono i testimoni e in quanto all'imputato confessò tutto. Si guardava in giro come una bestiola presa in trappola e con voce mozza raccontava com'era avvenuto il fatto.

La cosa era chiara, ma il sostituto procuratore, alzando le spalle col gesto che gli era abituale, faceva un mucchio di domande sottili, destinate a confondere l'astuto delinquente.

Nella sua requisitoria egli dimostrò che il furto era stato perpetrato in un locale d'abitazione mediante scasso, per cui bisognava infliggere al ragazzo una pena esemplare.

Il difensore, nominato d'ufficio dal tribunale, affermò invece che il furto non era stato commesso in un locale d'abitazione, e che perciò, pur trattandosi sempre d'un reato, quel delinquente non era poi così pericoloso per la società come affermava il sostituto procuratore.

Allo stesso modo del giorno prima, il presidente cercava d'essere imparziale e giusto e cercava d'inculcare ai giurati, diffondendosi in spiegazioni minuziose, cose che essi sapevano e non potevano non sapere.

Come il giorno prima, si facevano gli intervalli, si fumava, l'usciere annunciava l'entrata della Corte e i due gendarmi che custodivano l'imputato stavano seduti con la sciabola sguainata, cercando di reagire al sonno.

Dal processo risultava che quel ragazzo fin da piccolo era stato messo dal padre in una manifattura di tabacco, vi aveva lavorato cinque anni, e proprio quell'anno, in seguito a disaccordi tra il padrone e gli operai, era stato licenziato. Rimasto così senza occupazione, aveva cominciato ad andare a zonzo per la città, bevendosi gli ultimi soldi. In un'osteria aveva fatto conoscenza con un altro disoccupato, un fabbro che era rimasto senza lavoro ancora prima di lui e al quale piaceva molto il vino, e tutti e due, ubriachi, di notte, avevano rotto la serratura di una rimessa prendendo il primo oggetto capitato loro a tiro. Furono acciuffati. Confessarono tutto. Nella prigione dove li rinchiusero in attesa del processo, il fabbro morì. Ed ora questo ragazzo era raffigurato come un essere pericoloso, dal quale bisognava proteggere la società.

"Pericoloso come la criminale di ieri", pensò Necliudov, ascoltando ciò che si svolgeva davanti a lui. "Loro, sono pericolosi. E noi no?... io, che sono uno scapestrato, un impostore? e tutti noi e tutti quelli che conoscendomi bene, non solo non mi disprezzano, ma mi rispettano? E poi, anche ammettendo che quel ragazzo sia l'unico essere pericoloso qui dentro, che cosa dobbiamo fare onestamente di lui, ora che è nelle nostre mani? E' evidente che quel ragazzo non è un malfattore eccezionale: tutti lo capiscono che è un uomo come tanti altri, ridotto a quel punto soltanto perché le circostanze ve lo hanno fatalmente spinto. Dunque è altrettanto evidente che se non vogliamo vedere ragazzi così, dobbiamo cercare di distruggere le condizioni che favoriscono la formazione di questi disgraziati.

"Sarebbe bastato", pensava Necliudov, osservando la faccia malaticcia e impaurita del ragazzo, "sarebbe bastato che qualcuno si fosse mosso a compassione di lui e lo avesse soccorso, quando i suoi, spinti dalla miseria l'avevano mandato in città... O anche più tardi lo avesse soccorso, quando dopo aver lavorato dodici ore in fabbrica, andava coi compagni più vecchi di lui, che lo trascinavano all'osteria. Se allora qualcuno gli avesse detto:

"Non andarci, Vania, è male", il ragazzo non sarebbe andato a zonzo e non avrebbe commesso cattive azioni . Ma nessuno aveva mai avuto pietà di lui, in tutti quegli anni che aveva passato in città come una bestiolina imparando il mestiere, e correndo a far commissioni per i lavoranti, con la testa rasata per non riempirsi di pidocchi. Al contrario, da quando viveva in città, gli operai e i compagni non avevano fatto altro che ripetergli che è in gamba chi imbroglia, chi beve, chi impreca, chi picchia, chi conduce una vita disordinata.

Quando poi, malato e corrotto da un lavoro malsano, dal bere, dalla vita scioperata, abbrutito e incretinito, come in sogno, s'è messo a bighellonare per la città, senza meta, e senza riflettere è entrato in una rimessa e ha rubato delle passatoie che non servivano a nessuno, noi, che non manchiamo di nulla, noi uomini ricchi ed istruiti, invece di ricercare le cause che hanno ridotto il ragazzo ad essere quello che è, vogliamo porvi rimedio col punirlo! Che orrore!".

Necliudov pensava a tutte queste cose, senza badare più a ciò che avveniva intorno a lui. Ed egli stesso si sentì sgomento davanti a quel mondo che gli si rivelava.

Si domandava stupito come avesse potuto non accorgersi prima di tutto ciò, e come mai gli altri potevano non essersene ancora accorti.

 

 

 

NOTE:

  1. Biglietto da dieci rubli.

 

 

 

35.

 

Quando fu annunciato il primo intervallo, Necliudov si alzò e uscì nel corridoio con l'intenzione di non rientrare più nell'aula.

Facessero pure di lui ciò che volevano, ma prestarsi ancora a quella commedia gli riusciva impossibile.

Si fece indicare dove era l'ufficio del sostituto procuratore, e vi si avviò. Il portiere non voleva lasciarlo passare, affermando che il procuratore era molto occupato, ma Necliudov non gli diede retta e avvicinatosi alla porta si rivolse a un impiegato che gli veniva incontro, pregandolo di comunicare al procuratore che era un giurato e che desiderava vederlo per una faccenda importantissima.

Il titolo principesco e il vestito elegante gli furono d'aiuto.

L'impiegato l'annunciò e Necliudov fu fatto entrare. Il procuratore lo ricevette in piedi visibilmente malcontento dell'insistenza con cui Necliudov aveva chiesto di vederlo.

- Che cosa desiderate? - gli domandò con tono severo.

- Sono un giurato: mi chiamo Necliudov e bisogna assolutamente che veda l'imputata Màslova, - rispose in fretta e risolutamente, arrossendo e rendendosi conto di compiere un passo decisivo per la sua vita.

Il procuratore era un uomo basso, bruno, coi capelli corti brizzolati, gli occhi vivaci e luccicanti e la barba folta, tagliata corta sul mento sporgente.

- La Màslova? Sì, la conosco. Imputata di avvelenamento, - disse calmo il procuratore. - Ma perché avete bisogno di vederla? - Poi, un po' meno aspramente, soggiunse: - Non posso darvi l'autorizzazione di vederla se non conosco il motivo della vostra richiesta.

- Si tratta, per me, di una cosa estremamente importante, - spiegò Necliudov avvampando.

- Ah sì? - disse il procuratore, e alzando gli occhi guardò attentamente Necliudov.

- C'è già stato il processo, o no?

- Sì, ieri, ed è stata condannata a quattro anni di lavori forzati, ma non c'entra, è innocente.

- Già. Se è stata condannata soltanto ieri, - disse il procuratore, senza prestare alcuna attenzione alla frase di Necliudov sull'innocenza della Màslova, - allora fino alla pubblicazione della sentenza deve trovarsi nel carcere preventivo.

Le visite si concedono solo in determinati giorni. Vi consiglio di rivolgervi là.

- Ma io devo vederla il più presto possibile, - esclamò Necliudov, col mento tremante, sentendo che s'avvicinava il momento decisivo.

- E perché? - domandò il procuratore, inarcando le sopracciglia con una certa inquietudine.

- Perché è innocente e condannata ai lavori forzati. E io sono colpevole di tutto, - disse Necliudov con voce tremante, rendendosi conto di dire una cosa che non andava detta.

In che modo, dunque? - s'informò il procuratore. Perché l'ho ingannata e ridotta nelle condizioni in cui si trova adesso. Se lei non fosse quella che io l'ho fatta diventare, non si sarebbe esposta ad una imputazione simile.

- Però non vedo ancora che rapporto ci sia con la visita che desiderate.

- Voglio occuparmi di lei e... sposarla, - proferì Necliudov. E come sempre quando toccava quell'argomento, gli spuntarono le lacrime agli occhi.

- Sì? Già, già! - disse il procuratore. - E' davvero un caso molto singolare. Voi, se non erro, siete un membro dell'assemblea di Krasnopiòrsk? - domandò il procuratore, come ricordandosi d'aver già udito parlare di questo Necliudov che stava ora esponendogli un progetto così strano.

- Scusate, ma non credo che questo c'entri con la mia richiesta, - obiettò Necliudov arrabbiato.

- Naturalmente no, - disse il procuratore sorridendo a fior di labbra e senza confondersi affatto, - ma il vostro desiderio è così insolito ed esce talmente dalle forme consuete...

- E allora, posso aver questo permesso?

- Permesso? Sì, ora vi dò subito un biglietto. Abbiate la compiacenza di sedervi. - Si avvicinò alla tavola, sedette e si mise a scrivere.

- Sedete, vi prego.

Necliudov restava in piedi.

Scritto il lasciapassare, lo consegnò a Necliudov, guardandolo con curiosità.

- Devo aggiungere ancora - disse Necliudov, - che non posso più continuare a prendere parte alla sessione.

- Per far questo, come sapete, occorre addurre motivi plausibili.

- Il motivo è che io ritengo ogni giudizio del tribunale non soltanto inutile, ma anche immorale.

- Già, - disse il procuratore, col solito sorriso a fior di labbra, come per significare che dichiarazioni simili non gli erano nuove e costituivano per lui una categoria speciale di fatti spassosi. - Già. Ma voi certamente capite che io, nella mia qualità di procuratore, non posso essere d'accordo con voi e perciò vi consiglio di fare un esposto in tribunale e il tribunale si pronuncerà sulla vostra dichiarazione e deciderà se ritenerla accettabile o meno, nel qual caso vi infliggerà un'ammenda.

Rivolgetevi al tribunale.

- L'ho detto e non voglio ripeterlo più, - esclamò irritato Necliudov.

I miei rispetti, - disse il procuratore e chinò la testa, ansioso di sbarazzarsi al più presto di quello strano visitatore.

- Chi c'era da voi? - domandò uno dei giudici, entrando nel gabinetto del procuratore subito dopo l'uscita di Necliudov.

- Necliudov, sapete, quel tale che al consiglio provinciale di Krasnopiòrsk aveva fatto tante proposte stravaganti. Figuratevi, è giurato e dice che tra gli imputati si trova una donna, una ragazza, condannata ai lavori forzati che egli ha sedotto e ora vuol sposare.

- Possibile?

- Così mi ha detto, è in un vero stato di esaltazione.

- C'è qualcosa di non perfettamente normale nella gioventù di oggi.

- Ma lui non è più giovanissimo.

- Be', com'è noioso, bàtiuska, il vostro famoso Ivàcenkov. Fa morire; parla e parla senza fine.

- Bisogna semplicemente fermarli, se no diventano dei veri ostruzionisti.

 

 

 

36.

 

Dopo la visita al procuratore, Necliudov andò direttamente al carcere preventivo. Ma, a quanto risultò, là non c'era nessuna Màslova e il direttore spiegò a Necliudov che essa doveva trovarsi nelle vecchie prigioni, destinate ai deportati all'esilio.

Necliudov vi si recò.

Jekatierina, infatti, si trovava là.

La distanza dal carcere preventivo alla fortezza dei condannati all'esilio era enorme, e quando Necliudov vi arrivò era già sera.

Volle avvicinarsi alla porta dell'immenso e tetro edificio, ma la sentinella non lo lasciò passare, e suonò. Apparve un carceriere.

Necliudov gli mostrò il permesso ma il carceriere disse che senza il consenso del direttore non poteva lasciarlo passare. Necliudov si recò dal direttore. Mentre saliva le scale gli giunsero all'orecchio le note di un pezzo difficile, di bravura, suonato sul pianoforte. Quando poi una domestica irascibile con un occhio bendato gli aprì la porta, fu come investito dall'irruenza di quei suoni, che prorompevano da una stanza vicina. Era una rapsodia di Liszt fra le più suonate, eseguita egregiamente, ma solo fino a un certo punto. A quel punto la musica si spezzava per ricominciare daccapo. Necliudov domandò alla domestica dall'occhio bendato se il direttore era in casa.

La domestica rispose di no.

- Tornerà presto?

La rapsodia s'interruppe di nuovo e di nuovo si ripeté, con un brillante fluire di note, fino al punto fatale.

- Vado a domandarlo.

E la domestica uscì.

La rapsodia aveva appena ripreso il suo slancio quando d'un tratto si interruppe prima di arrivare al punto critico e s'udì una voce:

- Digli che non c'è e che per oggi non ci sarà. E' in visita, che cosa vengono a scocciare? - esclamò dietro la porta una voce di donna e subito la rapsodia riattaccò per fermarsi di nuovo. Si udì il rumore di una sedia smossa. Evidentemente la pianista stizzita voleva protestare di persona col visitatore importuno, capitato in un'ora indebita.

- Papà non c'è, - disse con voce irritata, uscendo dalla stanza, una signorina pallida, patita, coi capelli in disordine, e gli occhi cerchiati, melanconici. Vedendo un uomo giovane con un bel cappotto, si raddolcì. - Entrate, prego... Di che avete bisogno?

- Di vedere una detenuta.

- Una politica forse?

- No. Ho il permesso del procuratore.

- Mah, non so, papà non c'è. Ma entrate, vi prego, di nuovo lo invitò dalla piccola anticamera. - Se no, rivolgetevi al vice direttore; adesso è in ufficio, parlate con lui. Come vi chiamate?

- Grazie, - disse Necliudov senza rispondere alla domanda, e se ne andò.

Non s'era ancora rinchiusa la porta alle sue spalle che di nuovo si udirono le stesse note briose e decise, così poco intonate sia al luogo in cui risuonavano, sia al viso della povera ragazza che vi si applicava con tanta tenacia.

Nel cortile Necliudov incontrò un giovane ufficiale dai baffi ritti e incerati e gli domandò del vice direttore. Era per l'appunto lui. Egli prese il lasciapassare, lo osservò attentamente e disse che trattandosi di un permesso per il carcere preventivo, non osava considerarlo valido.

- E poi è tardi. Ritornate domani. Domani alle dieci l'ingresso è libero a tutti. Venite che ci sarà il direttore. Potrete avere il colloquio nel parlatorio comune o anche in segreteria, se il direttore lo permetterà.

Riusciti vani per quel giorno i suoi tentativi di una visita, Necliudov tornò a casa. Agitato dal pensiero di vederla, camminava per la strada ripensando non più al processo, ma ai discorsi che aveva fatto col procuratore e coi direttori. Aveva cercato un abboccamento con lei, aveva espresso le sue intenzioni al procuratore, ed era stato in due prigioni per vederla: tutto ciò lo turbava tanto che per un pezzo non gli riuscì di calmarsi.

Arrivato a casa, tirò subito fuori il suo diario che da molto tempo non apriva più, ne rilesse alcuni passaggi e scrisse: "Da due anni non scrivo il diario; ormai credevo di aver abbandonato per sempre questa bambinata. Ma non è una bambinata, bensì un colloquio con me stesso, con quell'io vero e di natura divina che vive in ogni uomo. Per tutto questo tempo il mio io ha dormito e non avevo con chi conversare. Il caso straordinario che avvenne il 28 aprile in tribunale, dov'ero giurato, lo ha risvegliato improvvisamente. Sul banco degli imputati vidi lei, la Katiuscia che avevo sedotto, in divisa di detenuta.

Per un bizzarro malinteso e per un mio errore è stata condannata ai lavori forzati. Sono stato dal procuratore e alla prigione. Non mi hanno permesso di passare, ma sono deciso a tutto per poterla vedere, per umiliarmi davanti a lei e riparare alla mia colpa, foss'anche col matrimonio. Signore, aiutami. Mi sento l'animo lieve e pieno di gioia".

 

 

 

37.

 

Quella notte la Màslova stentò a prender sonno. Giaceva con gli occhi aperti e pensava, guardando la porta che nel suo continuo andare e venire la figlia del sagrestano di tratto in tratto le nascondeva.

Pensava che nell'isola di Sacalin non avrebbe mai sposato un forzato, ma si sarebbe sistemata in qualche altro modo. Forse con uno dei capi o con uno scrivano o anche con un carceriere o un secondino. Si sentivan tutti molto portati a questo genere di cose... "Basta non dimagrire. Sennò son fritta!".

Ricordò come l'avevan guardata il difensore, il presidente, gli uomini incontrati per strada e quelli che passavano apposta davanti a lei in tribunale. Ricordò che Berta, venuta a trovarla in prigione, le aveva raccontato che lo studente di cui s'era innamorata dalla Kitàieva, andando da loro aveva chiesto di lei e l'aveva molto compianta. Ricordò la lite con la rossa e ne provò pietà; ricordò il panettiere che le aveva mandato un panino di più. Ricordò molti, ma non ricordò Necliudov. Ai suoi anni d'infanzia e di giovinezza e soprattutto al suo amore per Necliudov non pensava mai. Era troppo doloroso. Quei ricordi giacevano intatti in fondo all'anima sua. Necliudov, non lo vedeva mai neppure in sogno. Quel giorno in tribunale non l'aveva riconosciuto, non tanto perché fosse invecchiato e avesse la barba, mentre allora era in divisa e senza barba, coi baffi e i capelli corti, ma folti e ricciuti; non l'aveva riconosciuto soprattutto perché non pensava mai a lui. Aveva seppellito tutti i ricordi del loro passato comune in quella terribile notte buia, quando egli, di ritorno dalla guerra, non s'era fermato dalle zie.

Fino a quella notte, finché aveva ancora sperato nel suo ritorno, non solo non aveva sentito il peso del bambino che portava in seno, ma spesso s'era commossa e stupita per quel muoversi tenero e talvolta brusco che sentiva in sé. Ma dopo quella notte tutto cambiò. E il bambino che doveva nascere divenne soltanto un ostacolo. Le zie aspettavano Necliudov, l'avevano pregato di venire, ma egli aveva telegrafato che non poteva, perché doveva rientrare a Pietroburgo entro la scadenza del termine. Quando Katiuscia lo seppe, decise di andare alla stazione per vederlo. Il treno passava alle due di notte. Messe a dormire le sue signorine e persuasa Mascka, la figlia della cuoca, ad accompagnarla, s'era infilata un paio di vecchie scarpe, s'era messa in testa un fazzoletto e di nascosto era corsa alla stazione.

Era una notte buia, d'autunno, pioveva e tirava vento. La pioggia un po' cadeva a goccioloni caldi, un po' cessava. Nei campi non si vedeva la strada sotto ai piedi, nel bosco faceva buio come in un forno, e Katiuscia, sebbene conoscesse la via, si smarrì nel bosco e raggiunse la piccola stazione in cui il treno si fermava tre minuti, soltanto quand'era già stato dato il secondo segnale.

Correndo lungo la banchina Katiuscia lo vide subito dietro il finestrino di un vagone di prima classe. In quel vagone c'era molta luce. Seduti sulle poltrone di velluto l'uno dirimpetto all'altro, due ufficiali in maniche di camicia giocavano a carte.

Sul tavolino accanto alla finestra ardevano colando due grosse candele. Lui, coi calzoni attillati e la camicia bianca, sedeva sul bracciolo di una poltrona, col gomito appoggiato allo schienale e rideva. Appena lo riconobbe, Katiuscia picchiò ai vetri con la mano intirizzita. Ma proprio in quel momento batté il terzo segnale e il treno si mosse lentamente, dapprima a ritroso, e poi avanzando a strappi, una vettura dopo l'altra. Uno dei giocatori si alzò con le carte in mano e guardò dal finestrino.

Essa picchiò ancora e accostò il viso al vetro. In quel momento, con un colpo secco, anche il vagone presso cui stava Katiuscia, subì una scossa e si mise in moto. Essa gli andò dietro guardando nella vettura. L'ufficiale cercò di abbassare il vetro, ma non ci riuscì. Si alzò Necliudov e spingendo via l'ufficiale cominciò a calare il vetro. Il treno accelerava la corsa, sicché Katiuscia doveva camminare svelta. Il treno aumenta ancora di velocità e il finestrino si aprì. In quel preciso istante il conduttore le diede un urtone e saltò nella vettura. Lei rimase indietro, ma continuò a correre sulle assi bagnate della banchina; poi la banchina finì e Katiuscia per poco non cadde correndo giù dai gradini che davano sulla strada. Correva, ma il vagone di prima era già lontano. Le sfilarono davanti le vetture di seconda, poi, ancora più veloci quelle di terza, ma essa continuava a correre.

Quando l'ultimo vagone col fanale in coda fu passato, essa si trovava già oltre la pompa, fuori di ogni riparo e il vento le soffiava addosso strappandole il fazzoletto dal capo e incollandole il vestito alle gambe; mentre correva, il fazzoletto le volò via, ma essa non si fermò.

- Zia Micàilovna! - gridava la bambina, che le teneva dietro a stento, - avete perso il fazzoletto!

Katiuscia si fermò. Gettata la testa all'indietro se la prese fra le mani e scoppiò in singhiozzi.

- Se n'è andato! - gridò.

"Lui nel vagone illuminato, su un sedile di velluto, che scherza e che beve... e io qua a piangere, nel fango, nel buio, sotto la pioggia e il vento...", pensò tra sé; sedette per terra e singhiozzò così forte che la bambina si spaventò e si strinse al suo vestito inzuppato.

- Zia, andiamo a casa!

"Passerà un treno, sotto un vagone mi butterò, e sarà finita!", pensava intanto Katiuscia, senza rispondere alla bambina.

Aveva deciso di far così. Ma proprio allora, come sempre succede non appena la calma subentra all'agitazione, la creaturina, la sua creaturina che essa portava in sé, improvvisamente sussultò, diede un colpo e si stirò dolcemente, poi ricominciò ancora a battere con un picchio sottile, tenero, acuto. E d'un tratto tutto ciò che un minuto prima le rendeva insopportabile la vita, tutto l'odio che provava per lui e il desiderio che aveva di vendicarsi anche a costo della vita, svanirono di colpo. Si calmò, si alzò, si accomodò le vesti, si rimise il fazzoletto in testa e s'avviò verso casa.

Vi giunse spossata, bagnata, sporca e da quel giorno s'iniziò in lei quel mutamento spirituale che l'aveva gradualmente portata ad esser la donna che era ora. Da quella notte terribile cessò di credere in Dio e nel bene. Fino ad allora aveva creduto in Dio e nella fede degli uomini, ma da quella notte si convinse che nessuno crede in Lui e che tutto ciò che si dice di Dio e della sua legge è soltanto inganno e ingiustizia. Lui che essa amava e da cui sapeva d'essere amata, l'aveva sedotta, abbandonata e insultata nei suoi sentimenti. Ed era il migliore degli uomini che conosceva. Gli altri erano ancora peggio. Tutti i fatti della sua vita ne erano una continua conferma. Le zie di lui, che erano due vecchiette religiose, l'avevano scacciata di casa quando non aveva più potuto servirle come prima. Fra le persone con le quali aveva avuto a che fare, le donne si eran valse di lei per far quattrini, gli uomini, cominciando dal vecchio commissario fino ai guardiani delle carceri, avevano sempre visto in lei soltanto uno strumento di piacere. Per nessuno al mondo esisteva qualcosa d'altro. Di ciò l'aveva ancor più convinta il vecchio scrittore, col quale s'era messa nel secondo anno della sua vita libera. Costui le diceva apertamente che in questo - poesia ed estetica com'egli lo chiamava - consiste la felicità.

Tutti vivevano soltanto per sé, per il proprio piacere, e ogni discorso su Dio e sul bene non era che inganno. E se qualche volta le veniva fatto di domandarsi perché tutto, nel mondo, fosse così mal combinato, e perché gli uomini non facessero che tormentarsi reciprocamente e soffrire, si affrettava a pensare ad altro. Per scacciare la noia, bastava un po' di fumo, un bicchierino d'acquavite... Oppure, meglio ancora, far all'amore con qualcuno.

Le sarebbe passata.

 

 

 

38.

 

Il giorno dopo, una domenica, alle cinque del mattino, appena si udì nel corridoio del reparto femminile il solito fischio, la Korabliòva, che era già desta, svegliò la Màslova.

"Lavori forzati!", pensò con orrore, stropicciandosi gli occhi e aspirando involontariamente l'orribile fetore del camerone; ebbe voglia di riaddormentarsi, di rifugiarsi di nuovo nel regno dell'incosciente, ma la consueta paura sopraffece il sonno, sicché si sollevò e, rialzate le gambe, si mise a sedere guardandosi attorno. Le donne eran già tutte deste, solo i bambini dormivano ancora. La contrabbandiera d'acquavite dagli occhi a fior di testa tirava a sé pian piano, per non svegliare i bambini, la sua casacca stesa sotto di loro. La detenuta per ribellione tendeva davanti alla stufa gli stracci che le servivano da pannolini, mentre il bambino strillava disperatamente in braccio a Fedossia, la ragazza dagli occhi azzurri che lo cullava e lo ninnava con voce tenera.

La tisica, col viso iniettato di sangue, si stringeva il petto e tossiva, tossiva; nei momenti di tregua emetteva sospiri che sembravano gridi. La rossa, che s'era appena svegliata, se ne stava pancia all'aria, con le grosse gambe inarcate e raccontava allegramente, a voce alta, il sogno che aveva fatto. La vecchietta dell'incendio stava di nuovo dinanzi all'icona e, mormorando sempre le stesse parole, faceva segni di croce e inchini. La figlia del sagrestano sedeva immobile sulla cuccetta e, ancor mezzo addormentata, fissava davanti a sé lo sguardo vitreo. La Corosciavka s'arrotolava sul dito i capelli neri, unti e ispidi.

Nel corridoio si udì un rumore di kotì (1) strascicati, la serratura stridette e due detenuti in giubba e calzoni grigi, che arrivavano appena a mezza gamba, entrarono nel camerino, e sollevato sul palo con faccia seria e rabbiosa il bigoncio degli escrementi lo portarono fuori. Le donne uscirono nel corridoio per andarsi a lavare ai rubinetti. Ma qui la rossa e una donna della camerata vicina s'azzuffarono. Di nuovo parolacce, grida, lagnanze...

- Ma volete proprio il rigore? - urlò il carceriere e dette un tal pugno sulla schiena grassa e nuda della rossa, che se ne udì il colpo in tutto il corridoio.

- Guai se sento ancora la tua voce!

- Eh, il vecchio s'è scaldato! - disse la rossa, prendendo quel gesto per una carezza.

- Sù, muovetevi! Preparatevi per la messa.

La Màslova stava ancora pettinandosi che comparve il direttore col suo seguito.

- All'appello! - gridò il carceriere.

Da un'altra camera uscirono altre detenute e tutte si disposero lungo il corridoio in due file; le donne della seconda fila dovevano tenere le mani sulle spalle delle compagne che stavano davanti a loro. Furono contate tutte. Dopo il controllo venne la carceriera incaricata di condurre le detenute in chiesa. La Màslova e Fedossia si trovavano nel mezzo della colonna composta di più di cento donne uscite da tutte le camerate. Tutte portavano fazzoletti bianchi in testa, camicette e sottane dello stesso colore e solo qua e là si vedeva qualche abito colorato: erano donne che seguivano coi bambini i loro mariti. Il corteo empiva tutta la scala. Si sentiva lo scalpiccio molle dei piedi calzati di kotì, un brusio di voci, qualche risata. A sua volta la Màslova vide la faccia cattiva della sua nemica, la Boc'kova, che camminava in testa, e la mostrò alla Fedossia. Giunte in fondo alla scala, le donne tacquero e facendo il segno della croce e inchinandosi, entrarono per la porta spalancata nella chiesa ancor vuota, tutta splendente d'oro. Il loro posto era a destra, ed esse, pigiandosi e stringendosi l'una all'altra, si accomodarono.

Subito dopo con le casacche grige, entrarono i condannati alla deportazione, che aspettavano il momento di partire per l'esilio imposto loro dalla società; essi tossendo rumorosamente, si disposero in gruppo compatto a sinistra e nel centro della chiesa.

In alto, nelle tribune, dove erano già stati accompagnati, v'erano da una parte i forzati con la testa per metà rasata, che rivelavano la loro presenza col rumore delle catene, e dall'altra, non rasati e senza ceppi, i detenuti sotto processo.

La chiesa della prigione era stata costruita di recente e addobbata da un ricco mercante che aveva speso parecchie decine di migliaia di rubli; luccicava tutta di colori vivaci e d'oro.

Per un certo tempo nella chiesa regnò il silenzio. Si udivano soltanto soffiate di nasi, colpi di tosse, strilli di bambini e di tanto in tanto il rumore delle catene.

Ad un tratto i detenuti che erano nel mezzo si fecero rapidamente da parte, si pigiarono gli uni contro gli altri e formarono un varco, in mezzo al quale passò il direttore che andò a collocarsi davanti a tutti, nel centro della chiesa.

 

 

 

NOTE:

  1. Scarpe da contadini simili alle pantofole.

 

 

 

39.

 

Cominciò il servizio divino.

Il servizio consisteva in questo: il prete, indossata una veste speciale di broccato, bizzarra e assai malcomoda, tagliava a pezzetti un pane, lo disponeva in un piattino e poi lo immergeva in un calice di vino, pronunciando, nel frattempo, nomi e preghiere d'ogni sorta. Il sagrestano, intanto, senza interrompersi un momento, prima leggeva e poi cantava, alternandole col coro dei detenuti, alcune preghiere in slavo, che già di per sé poco comprensibili, lo erano ancor meno a causa della lettura rapida e del canto.

Ilcontenutodelle preghiere consisteva principalmente nell'augurare prosperità all'imperatore e alla sua famiglia.

Queste invocazioni venivano ripetute molte volte insieme con altre preghiere e anche separatamente, in ginocchio. Poi il sagrestano lesse alcuni versetti degli Atti degli Apostoli, con una voce così stranamente tesa che non si poteva capire nulla; e il prete lesse molto distintamente un passo del Vangelo di Marco: quello in cui si dice che Cristo, risorto, prima di salire in cielo e di sedere alla destra del Padre, è apparso a Maria Maddalena, scacciandone dal corpo sette diavoli, e poi agli undici discepoli, comandando di predicare l'Evangelo a tutte le creature; e come abbia dichiarato inoltre che chi non avesse creduto sarebbe perito, chi invece avesse creduto e si fosse battezzato, sarebbe stato salvo e avrebbe per di più scacciato i demoni, guarito i malati con l'imposizione delle mani, parlato nuove lingue, preso in mano i serpenti e, anche bevendo il veleno, invece di morire sarebbe rimasto vivo e vegeto. La sostanza della funzione consisteva nel presupporre che i pezzetti di pane tagliati e messi nel vino dal prete, dopo varie manipolazioni e preghiere si sarebbero trasformati nel corpo e nel sangue di Dio. Le manipolazioni poi consistevano in questo, che il prete con gesti uniformi, per quanto glielo consentiva il sacco di broccato nel quale era infagottato, sollevava le mani e le teneva tese in alto per qualche minuto; poi si metteva ginocchioni e baciava la tavola e gli oggetti che vi erano sopra. Ma l'atto essenziale si compiva nel momento in cui il sacerdote, preso con tutte e due le mani un tovagliolo, lo agitava con gesto largo e uniforme al di sopra del piattino e del calice d'oro. Giacché si presupponeva che in quell'istante il pane e il vino si trasformassero in carne e in sangue, questa parte della funzione era messa in scena con solennità particolare.

"Per la santissima, purissima e benedettissima Madre di Dio", tuonò poi il prete dietro l'iconostasi, mentre il coro cantava esultante che era bellissima cosa glorificare colei che aveva generato Cristo senza peccato, Maria la Vergine immacolata, degna per questo d'essere più onorata dei cherubini e più glorificata dei serafini. Dopo ciò la trasformazione si poteva considerare avvenuta; e il prete, tolto il tovagliolo dal piattino, ruppe in quattro il pezzetto di pane che era nel mezzo, lo immerse nel vino e se lo mise in bocca. Per presupposto, egli aveva mangiato un pezzetto del corpo di Dio e bevuto un sorso del suo sangue. Poi il prete tirò una tenda, aprì la porta di mezzo dell'iconostasi e col calice d'oro fra le mani, si mostrò al pubblico invitando i devoti a mangiare anch'essi il corpo e il sangue di Dio, presenti nel calice.

Si fecero avanti alcuni bambini.

Il prete domandava loro il nome, poi, pescando cautamente nel calice con un cucchiaino, ficcava un pezzetto del pane intinto nel vino ben in fondo alla bocca di ciascuno mentre il sacrestano asciugava le bocche e cantava con voce esultante un inno sui bambini che mangiano il corpo di Dio e bevono il suo sangue.

Quindi il prete riportò il calice dietro il tramezzo dove, bevute le ultime gocce di sangue rimaste nel calice e mangiati tutti i pezzetti del corpo di Dio, si succhiò con cura i baffi, s'asciugò la bocca, asciugò il calice, e in stato di perfetta letizia uscì con passo gagliardo dal tramezzo, facendo scricchiolare le suole sottili degli stivali di vitello.

Così terminò la più importante funzione cristiana.

Ma il prete, animato dal desiderio di confortare gli infelici reclusi, al rituale solito ne aggiunse uno speciale. Si collocò davanti all'immagine presumibilmente dorata, nonostante il viso nero e le mani nere, di quello stesso Dio che aveva mangiato, immagine illuminata da una diecina di ceri, e cominciò in uno strano falsetto, non si sa se a cantare o a recitare le seguenti parole:

- "Gesù dolcissimo; gloria degli apostoli, laude dei martiri, Signore onnipotente, salvami, Gesù mio salvatore, Gesù, mio bellissimo, a te ricorro, Gesù salvatore, abbi pietà di me, per intercessione tua, di tutti i tuoi santi, di tutti i profeti, Gesù mio salvatore, fammi degno delle dolcezze del paradiso, Gesù che ami gli uomini".

Qui fece una pausa, prese fiato, si segnò, s'inchinò fino a terra, e tutti lo imitarono. S'inchinarono il direttore, i carcerieri, i detenuti, mentre in alto sempre più spesso tintinnavano le catene.

- "Creatore degli angeli e Signore delle forze", egli riprese, - "Gesù mirabilissimo, meraviglia degli angeli, Gesù potentissimo, liberatore del genere umano, Gesù dolcissimo, magnificenza dei patriarchi, Gesù gloriosissimo, fortezza dei sovrani, Gesù buonissimo, compimento dei profeti, Gesù ammirabile, fortezza dei martiri, Gesù mitissimo, gioia dei monaci, Gesù misericordiosissimo, dolcezza dei sacerdoti, Gesù pietosissimo, astinenza dei penitenti, Gesù soavissimo, gioia dei reverendi, Gesù purissimo, castità delle vergini, Gesù sempiterno, salvezza dei peccatori, Gesù figlio di Dio, abbi pietà di me", - e finalmente si fermò ripetendo con un sibilo sempre più acuto la parola Gesù; con una mano tratteneva la tonaca sulla sottoveste, e piegato su un ginocchio s'inchinava fino a terra, mentre il coro intonava le ultime parole: Gesù figlio di Dio, abbi pietà di me"; e i detenuti cadevano e si rialzavano, agitando le chiome che erano rimaste sulla metà non rasata della loro testa, e facendo tintinnare i ferri intorno alle gambe magre.

Continuò così per un pezzo. Dapprima le laudi che terminavano con l'"abbi pietà di me", poi quelle che finivano con l'"alleluia". E ogni volta che il prete si interrompeva, i detenuti si segnavano e facevano un inchino. Ma poi incominciarono a inchinarsi una volta sì e una volta no, poi ogni due volte, e tutti si sentirono molto lieti quando le laudi furono finite e il sacerdote con un sospiro di sollievo chiuse il libriccino e si ritirò dietro il tramezzo.

Restava ancora un'ultima parte. Da una grande tavola il prete sollevò una croce d'oro con piccoli medaglioni di smalto alle estremità e si fece in mezzo alla chiesa. Per primo s'avvicinò alla croce il direttore e la baciò, poi i carcerieri, e infine, spingendosi e ingiuriandosi sottovoce, i detenuti. Il prete, mentre discorreva col direttore, ficcava la croce e la sua mano nella bocca, e qualche volta nel naso dei detenuti che si accostavano per baciare l'una e l'altra.

Così terminò quella funzione cristiana che si compiva per il conforto e l'edificazione dei fratelli traviati.

 

 

 

40.

 

A nessuno dei presenti, cominciando dal prete e dal direttore fino alla Màslova, veniva in mente che quello stesso Gesù che il prete aveva invocato sibilando una quantità innumerevole di volte, esaltandolo con le parole più strane, aveva proibito proprio le cose che lì si facevano; aveva proibito non solo quella verbosità insensata e la magia sacrilega esercitata dai sacerdoti intorno al pane e al vino, ma aveva proibito anche nel modo più categorico che gli uni chiamino maestri gli altri, aveva proibito le preghiere nei templi, comandando a ciascuno di pregare in solitudine, aveva proibito i templi stessi, dicendo che era venuto per distruggerli, perché bisogna pregare non nei templi, ma in spirito e in verità; soprattutto aveva proibito di giudicare gli uomini, di tenerli segregati, di tormentarli, di infamarli, di giustiziarli come lì si faceva; non solo, ma aveva proibito ogni violenza sulle persone, dicendo che era venuto a liberare gli schiavi.

A nessuno dei presenti passava per la mente che quanto s'era fatto lì costituiva il sacrilegio e la beffa più solenne verso quel Cristo in nome del quale si faceva. Nessuno pensava che la croce dorata coi piccoli medaglioni di smalto che il prete aveva portato in mezzo alla chiesa e fatto baciare alla gente, non era altro che l'immagine di quel patibolo su cui Cristo era stato suppliziato, proprio per aver proibito tutte quelle cose che ora in nome suo lì si compivano.

A nessuno veniva in mente che quei preti, che sotto la specie del pane e del vino s'immaginano di mangiare e di bere il corpo e il sangue di Cristo, effettivamente mangiano il suo corpo e bevono il suo sangue, ma non a pezzettini e nel vino, bensì scandalizzando quei piccoli coi quali Cristo s'era identificato; e come se ciò non bastasse, li privano del maggiore dei beni e li sottopongono ai tormenti più crudeli, mentre celano agli uomini la buona novella che Egli aveva loro portato.

Il prete faceva con coscienza tranquilla tutto ciò che faceva, perché fin dall'infanzia era stato abituato a pensare che quella era l'unica vera fede, la fede in cui avevano creduto tutti gli uomini santi del passato e in cui ora credevano i capi della religione e dello Stato. Egli non credeva che il pane diventasse corpo, o che giovasse all'anima pronunciare molte parole; e neppure d'aver mangiato un pezzetto di Dio, giacché in ciò è impossibile credere; era però convinto che fosse necessario credere in questa religione. E a rafforzare maggiormente la sua convinzione c'era il fatto che da diciott'anni traeva da quei riti un reddito sufficiente a mantenere la famiglia, il figlio al ginnasio e la figlia in un istituto religioso. Il sagrestano poi credeva ancor più fermamente del prete, giacché aveva dimenticato tutto il significato dei dogmi e sapeva soltanto che per versare il vino per la commemorazione dei defunti, per le ore, per il te deum semplice e per quello solenne, sono stabilite delle tariffe che i veri cristiani pagano volentieri. Perciò gridava storpiandoli i suoi "abbi pietà, abbi pietà!" e cantava e leggeva con la tranquilla certezza che ciò fosse necessario come vendere la legna, la farina e le patate. Il direttore della prigione e i carcerieri benché non avessero mai saputo né cercato di sapere in che consistessero i dogmi e che cosa significassero gli atti del culto, ritenevano che fosse necessario credere, perché così credevano tutte le autorità superiori, a cominciare dallo zar.

Inoltre sentivano confusamente, ma non avrebbero saputo spiegare come, che quella fede giustificava il loro brutto mestiere. Se non avessero creduto per loro sarebbe stato più difficile, anzi addirittura impossibile dedicarsi con ogni impegno a tormentare altri uomini, cosa che invece facevano senza rimorsi di coscienza.

Il direttore, così mite com'era, non avrebbe mai potuto vivere a quel modo, se non avesse avuto il sostegno di questa fede. Perciò si teneva immobile, diritto, s'inchinava e si segnava con fervore e cercava di commuoversi quando cantavano i cherubini, e alla comunione dei bambini s'era fatto avanti e aveva con le sue proprie mani sollevato e sorretto un bimbo che si comunicava.

La maggior parte dei detenuti, ad eccezione dei pochi che vedevano chiaramente la frode esercitata ai danni dei devoti, e che nell'intimo loro se la ridevano, credeva per lo più che nelle icone dorate, nei ceri, nei calici, nei paramenti, nelle croci, in quel continuo ripetere le parole incomprensibili "Gesù dolcissimo" e "abbi pietà", fosse racchiuso un potere misterioso, capace di concedere grandi vantaggi in questa e nella vita futura.

Benché molti di loro avessero talvolta cercato di acquistare tali vantaggi in questa vita mediante preghiere, te deum, candele, le loro preghiere erano rimaste inesaudite; ma tutti erano fermamente convinti che fosse un insuccesso casuale e che quella istituzione approvata da uomini dotti e da metropoliti, fosse comunque molto importante e indispensabile, se non per questa per la vita futura.

A questo modo credeva anche la Màslova. Essa, come gli altri, durante il servizio divino, aveva provato una sensazione mista di devozione e di noia. In principio trovandosi nella calca dietro il tramezzo, non aveva potuto vedere nessuno tranne le sue compagne, ma quando le comunicande si spinsero avanti, e anch'essa s'avanzò con Fedossia, vide il direttore, e dietro a lui, fra i carcerieri, un uomo biondo dalla barbetta biondissima, il marito di Fedossia, che teneva gli occhi fissi sulla moglie. Durante il te deum la Màslova passò il tempo a guardarlo e a parlottare con Fedossia; si faceva il segno della croce e s'inchinava solo quando lo facevano tutti.

 

 

 

41.

 

Necliudov uscì di casa presto. Nel vicolo passava un contadino col carretto e gridava con voce strana: - Latte, latte, latte!

Il giorno avanti era caduta la prima pioggia tiepida di primavera.

Dove la strada non era lastricata, eran spuntati ad un tratto i primi fili d'erba. Nei giardini le betulle s'erano rivestite di peluria verde, mentre i pruni e i pioppi allargavano le loro foglie lunghe e profumate. Nelle case e nei negozi si mettevano all'aria i telai delle doppie finestre e si pulivano i vetri. Al mercato dei robivecchi che Necliudov dovette attraversare, una folla compatta formicolava intorno alle file dei banchetti; vi si vedevano uomini laceri con stivali sotto le ascelle, pantaloni e panciotti ben stirati gettati sulle spalle.

Attorno alle bettole c'era già folla: operai liberi dal lavoro di fabbrica, coi giubbetti puliti e gli stivali lucidi, e donne coi fazzoletti di seta colorata in testa e i mantelli coi lustrini. Le guardie urbane, coi cordoni gialli alle pistole, spiavano, immobili al loro posto, qualche disordine che avrebbe potuto distrarre la loro noia opprimente.

Per i viottoli dei viali e sulle aiuole verdeggianti d'erba novella, correvano giocando i bambini e i cani, mentre le bambinaie chiacchieravano allegramente fra di loro, sedute sulle panchine.

Nelle vie ancor fresche e umide sul lato sinistro dove non batteva il sole e asciutte nel mezzo, s'udiva il frastuono ininterrotto dei grossi carri traballanti sul selciato, il tintinnio delle carrozze e lo squillo dei tranvai. L'aria vibrava tutta di suoni diversi e del rintocco delle campane, che chiamavano la gente a funzioni sacre identiche a quella che s'era svolta poco prima nel carcere. E la folla vestita a festa si separava seguendo le direzioni delle varie parrocchie.

Il vetturino non condusse Necliudov fin davanti alla prigione, ma si fermò a una svolta che vi conduceva. Un crocchio di uomini e di donne, quasi tutti con fagotti, aspettava lì all'angolo, a un centinaio di passi dalla prigione. A destra si stendevano alcune costruzioni piuttosto basse, di legno, a sinistra sorgeva una casa a due piani con un'insegna. Più in là, l'enorme mole di pietra della prigione, cui era vietato avvicinarsi. Una sentinella armata di fucile camminava avanti e indietro, richiamando severamente all'ordine chi cercava di passare. Presso il cancello delle baracche di legno, a destra, di fronte alla sentinella, sedeva su una panchina un custode in divisa gallonata, con un taccuino fra le mani.

A lui si rivolgevano i visitatori; gli dicevano chi volevano vedere, ed egli prendeva nota. Anche Necliudov gli si avvicinò, e fece il nome di Jekatierina Màslova. Il custode gallonato lo annotò.

- Perché non lasciano ancora entrare? - domandò Necliudov.

- C'è la messa. Appena sarà finita potrete passare.

Necliudov si unì alla gente che aspettava. Uno straccione, col cappello sgualcito, un paio di ciabatte sui piedi nudi e la faccia tutta segnata da strisce rosse, si staccò dal gruppo e si diresse verso la prigione.

- Dove vai? - gli gridò il soldato col fucile.

- E tu perché urli? - rispose tornando indietro lo straccione, per nulla turbato dal grido della sentinella; - se non mi lasci passare, aspetterò. Gridi che neanche un generale!

Una risata di approvazione s'alzò dalla folla. I visitatori erano quasi tutti vestiti miseramente, alcuni addirittura da straccioni, ma fra gli altri ve n'erano di quelli, uomini e donne, che avevano un aspetto decoroso. Accanto a Necliudov stava un uomo ben vestito, rasato con cura, massiccio, colorito, con un involto, evidentemente di biancheria, in mano. Necliudov gli domandò se era la prima volta che si trovava lì, l'uomo dell'involto rispose che ci veniva tutte le domeniche. Attaccarono discorso.

Era un portiere di banca e andava in prigione a visitare un fratello, condannato per falso. Il brav'uomo raccontò a Necliudov tutta la sua storia, e si disponeva a sua volta a interrogare il suo interlocutore, quando la loro attenzione fu attratta dal sopraggiungere di una carrozza coi cerchioni di gomma, tirata da un robusto morello di razza, dalla quale uscirono uno studente e una signora velata. Lo studente reggeva tra le mani un grosso involto; s'avvicinò a Necliudov e gli domandò se credeva che fosse permesso, e come doveva fare, per distribuire dei panini che aveva nell'involto.

- E' un desiderio della mia fidanzata. Questa è la mia fidanzata.

I suoi genitori ci hanno consigliato di portarli ai detenuti.

- Anch'io è la prima volta che vengo, e non sono pratico, ma credo che dobbiate rivolgervi a quell'uomo, - rispose Necliudov, indicandogli a destra il guardiano gallonato, seduto col taccuino in mano.

Mentre Necliudov parlava con lo studente, il portone di ferro con lo spioncino nel mezzo si aprì, e ne uscì un ufficiale in divisa accompagnato da un carceriere; e il custode col taccuino annunciò che i visitatori potevano entrare. La sentinella si fece in disparte e la gente, quasi temesse di arrivare in ritardo, affrettando il passo e correndo, si precipitò verso la porta della prigione. Davanti all'ingresso un carceriere, man mano che gli passavano davanti, contava i visitatori ad alta voce: sedici, diciassette, eccetera... Un altro carceriere, all'interno dell'edificio, tastava una per una le persone che entravano e le contava ancora, prima che varcassero la seconda porta. In questo modo, ripetendo il controllo al momento dell'uscita, avrebbero potuto assicurarsi che nessuno fosse rimasto in prigione e che nessuno ne fosse abusivamente uscito. Il carceriere, senza guardare in faccia chi passava, batté forte sulla schiena a Necliudov, e questi, al contatto di quella mano, sulle prime si risentì, ma quando si ricordò del motivo per cui era venuto, provò vergogna di sentirsi malcontento e offeso.

Il primo locale dopo l'ingresso era un gran camerone a volta con piccole finestre munite di sbarre di ferro. In questa stanza, detta delle riunioni, Necliudov si stupì moltissimo di vedere dentro una nicchia un gran crocifisso.

"Come mai?", pensò, associando involontariamente nella sua immaginazione la figura del Cristo coi liberi e non coi reclusi.

Necliudov camminava lentamente, lasciando il passo ai visitatori frettolosi. Egli provava un sentimento misto di orrore per i malfattori chiusi in quella prigione e di compassione per gli innocenti, come il ragazzo del giorno prima e come Katiuscia, anch'essi certamente lì dentro; e inoltre si sentiva timido e commosso all'idea dell'incontro imminente. All'uscita da quel camerone, all'altra estremità, un sorvegliante stava dicendo qualcosa. Ma Necliudov, sprofondato nei suoi pensieri, non ci badò e seguì la corrente dei visitatori, che per la maggior parte si recavano nel reparto degli uomini, non in quello delle donne, dove doveva andare lui.

Lasciando passare avanti i frettolosi, entrò per ultimo nel locale adibito a parlatorio. La prima cosa che lo colpì, fu il frastuono assordante di centinaia di voci che gridavano tutte insieme. E solo quando si fu avvicinato alla gente e vide tante persone appiccicate ad una rete come mosche allo zucchero, capì di che si trattava. La stanza, con le finestre sulla parete posteriore, era divisa in due da una doppia inferriata, che dal soffitto scendeva fino al pavimento. Nello spazio fra le due reti camminavano i sorveglianti; da una parte stavano i detenuti, dall'altra i visitatori. Tra gli uni e gli altri, vi era la doppia rete e uno spazio di tre arscini, sicché era impossibile non solo far passare qualsiasi oggetto, ma neppure distinguere bene le facce, soprattutto per un miope. Era persino difficile parlare; per farsi udire bisognava che uno gridasse con tutto il fiato che aveva in corpo. Da ambedue le parti si vedevano visi schiacciati contro la rete; mogli, mariti, padri, madri e figli, che cercavano di vedersi reciprocamente e di dirsi ciò che loro premeva. Ma poiché ognuno voleva farsi udire dal suo interlocutore, e la voce dei vicini soffocava la propria, così si faceva a chi gridava più forte. Ne derivava quel clamore rotto da grida che aveva sorpreso Necliudov quand'era entrato. Impossibile pretendere di capire ciò che la gente diceva: soltanto dalle espressioni delle facce si poteva farsi un'idea degli argomenti di conversazione e dei rapporti che correvano tra gli interlocutori.

Accanto a Necliudov c'era una vecchietta col fazzoletto in testa.

Aggrappata alla rete, col mento tremante, gridava qualcosa a un giovanotto pallido, con la testa rapata a metà. Il detenuto, inarcando le sopracciglia e aggrottando la fronte, l'ascoltava attentamente. Vicino alla vecchia, un giovane in farsetto s'era portato le mani alle orecchie e scuotendo il capo ascoltava un detenuto dalla faccia patita e dalla barbetta brizzolata che gli assomigliava. Più in là uno straccione gridava qualcosa gesticolando, e rideva. Seduta per terra accanto a lui, una donna con un bambino, avvolta in un bello scialle di lana, singhiozzava guardando un uomo canuto che era dall'altra parte della rete; probabilmente era la prima volta che lo vedeva col vestito da detenuto, la testa rapata e i ferri ai piedi. Dietro la donna, il portiere che aveva conversato con Necliudov gridava qualcosa a squarciagola a un detenuto calvo con gli occhi lucidi, che era dall'altra parte.

Quando Necliudov capì che avrebbe dovuto parlare in quelle condizioni, fu preso da un senso di rivolta contro chi aveva creato e conservava un simile ordine di cose. Gli sembrava incredibile che un sistema tanto atroce da schernire a quel modo i sentimenti umani, non suscitasse lo sdegno di nessuno. E tutti, i soldati, il direttore, i visitatori e i detenuti si comportavano come se la considerassero la cosa più naturale del mondo.

Necliudov rimase in quella stanza non più di cinque minuti.

Provava uno strano senso di tristezza e di impotenza, di disarmonia con tutto l'universo. Una sensazione di nausea morale, simile a quella che si prova per il beccheggio di una nave, si impadronì di lui.

 

 

 

42.

 

"Eppure bisogna che faccia quello che mi sono proposto", si disse, facendosi animo. Ma come?

Mentre cercava con gli occhi un superiore, vide un uomo coi baffi, piccolo e magro, che aveva le spalline da ufficiale e camminava dietro a tutti. Si rivolse a lui.

- Non potreste dirmi, signore, - domandò con una cortesia piuttosto forzata, - dov'è il reparto delle donne, e in che posto si può parlare con loro?

Dovete andare nel reparto delle donne?

- Sì, vorrei vedere una detenuta, - rispose Necliudov, con la stessa gentilezza forzata.

- Dovevate dirlo quando eravate nella sala delle riunioni. Chi volete vedere?

- Jekatierina Màslova.

- Una politica? - domandò il vice direttore.

- No, semplicemente...

- E' già stata processata?

- Sì, tre giorni fa, - rispose umile Necliudov, temendo di poter in qualche modo guastare la buona disposizione del direttore, che sembrava interessarsi dei suoi casi.

- Se dovete andare dalle donne, favorite da questa parte, - disse il direttore, giudicando evidentemente dall'aspetto esteriore di Necliudov che era una persona degna di riguardo. - Sìdorov, - si rivolse ad un sottufficiale baffuto e ricoperto di medaglie, - accompagna questo signore nel femminile.

- Sissignore.

In quel momento presso la rete si udirono dei singhiozzi strazianti. Tutto era strano per Necliudov, e più di tutto il fatto di dover ringraziare e sentirsi obbligato al direttore e al capo carceriere, due persone che commettevano le atrocità cui aveva assistito in quella casa.

Il carceriere fece uscire Necliudov in un corridoio e, per una porta proprio dirimpetto, lo fece entrare nel parlatorio delle donne.

Questa stanza, come quella degli uomini, era divisa in tre da due inferriate; era però notevolmente più piccola e meno gremita di visitatori e di detenute. Eppure le grida e il frastuono vi erano identici. Anche qui tra le reti camminava il personale, rappresentato da una guardiana in divisa coi galloni e i risvolti azzurri alle maniche e una fusciacca uguale a quella dei carcerieri. Come dagli uomini, anche qui la gente s'attaccava alle reti; da un lato i visitatori vestiti nei modi più disparati, da quello opposto le detenute, chi in bianco, chi con gli abiti propri. La grata era tutta gremita di gente. Alcuni si alzavano in punta di piedi per farsi udire al di sopra delle teste, altri, seduti per terra, discorrevano fra di loro. Fra tutte le detenute spiccava, per il suo modo strano di gridare e per il suo aspetto, una zingara arruffata e magra, col fazzoletto che le era scivolato dai capelli ricciuti. Stava quasi al centro della rete, appoggiata a un pilastro, e gesticolando rapidamente gridava qualcosa a uno zingaro in redingote azzurra, legata stretta in fondo alla vita.

Vicino a costui un soldato s'era accoccolato per terra, e parlava con una detenuta. In piedi, appiccicato alla rete, un giovane contadino dalla barbetta chiara, in "lapti", col viso rosso per lo sforzo di trattenere le lacrime, ascoltava ciò che gli diceva una detenuta bionda, graziosa, che lo guardava coi suoi limpidi occhi azzurri. Erano Fedossia e suo marito. Accanto a loro uno straccione discorreva con una donna dalla faccia larga, tutta scarmigliata; poi due donne, un uomo, un'altra donna - e dirimpetto altrettante recluse. Fra queste la Màslova non c'era.

Ma dietro le detenute, vi era ancora una donna, e Necliudov intuì subito che si trattava di lei. Il suo cuore si mise a battere forte e il suo respiro si fermò. Il momento fatale si avvicinava.

S'accostò alla rete e la riconobbe. Da dietro le spalle di Fedossia, ascoltava sorridendo le parole di lei. Non era in divisa, come due giorni prima, ma indossava una camicetta bianca, stretta in vita da una cintura e molto sollevata sul petto. Dal fazzoletto le sfuggivano come al processo ciocche ondulate di capelli neri.

"Adesso si deciderà tutto", egli pensò. "Come devo fare a chiamarla? Forse verrà da sola..." Ma essa non si avvicinava. Aspettava Klara e non pensava affatto che quell'uomo fosse lì per lei.

- Chi volete, - domandò, avvicinandosi a Necliudov, la guardiana che stava tra le reti.

- Jekatierina Màslova, - riuscì malamente ad articolare Necliudov.

- Màslova, c'è qualcuno per te! - gridò la carceriera.

La Màslova si guardò intorno; poi a testa alta e sporgendo il petto, con quella espressione premurosa nota a Necliudov, s'avvicinò alla rete, insinuandosi fra due detenute. Il suo sguardo tra sorpreso e interrogativo si fermò su Necliudov. Non lo riconobbe.

Ma vedendo dall'abito che si trattava di persona ricca, sorrise.

- Venite da me? - disse, accostando alla rete il viso sorridente, dagli occhi un po' strabici.

- Volevo vedere... - Necliudov non sapeva se darle del voi o del tu. Decise per il voi, e disse con voce normale. - Volevo vedervi... io...

- Piantala di menarmi per il naso! - gridava vicino a lui lo straccione. - L'hai preso, sì o no?

- Ti dico che sta morendo. Che vuoi di più? - gridava un altro dalla parte opposta.

La Màslova non capiva le parole di Necliudov, ma dall'espressione del suo volto mentre egli parlava, d'un tratto lo riconobbe. Non voleva credere a se stessa. Il sorriso però scomparve dalla sua faccia, e la fronte le si aggrottò penosamente.

- Non sento quel che dite! - gridò battendo le palpebre e rabbuiandosi sempre di più.

- Son venuto...

"Sì, farò il mio dovere, confesserò la mia colpa "pensò Necliudov. A quel pensiero gli vennero le lacrime agli occhi, e gli fecero groppo alla gola. Aggrappandosi con le dita alla rete, tacque, facendo uno sforzo per non scoppiare in pianto.

- Perché ti allarmi? ti dico che non è il caso, - qualcuno gridò da una parte.

- In nome di Dio, non so niente di niente! - strillò una detenuta dall'altra.

Vedendo la sua agitazione, la Màslova lo riconobbe.

- Assomiglia, ma non lo riconosco... - essa gridò senza guardarlo; e il suo viso che s'era improvvisamente fatto di fiamma, assunse un'espressione ancor più cupa.

- Sono venuto per chiedervi perdono, - egli gridò ad alta voce, senza inflessioni, come se recitasse una lezione a memoria. Appena ebbe pronunciato quelle parole, si vergognò e si guardò intorno.

Ma subito gli venne il pensiero che se provava vergogna, tanto meglio per lui, giacché era giusto la soffrisse.

E riprese a dire forte, gridando:

- Perdonami, son terribilmente colpevole verso di te.

Essa stava immobile tenendo fisso su di lui il suo sguardo strabico. Egli, incapace di proseguire, si scostò dalla rete, sforzandosi di trattenere i singhiozzi che gli straziavano il petto. Il direttore, quello stesso che aveva indirizzato Necliudov nella sezione donne, l'aveva seguito nel reparto, evidentemente incuriosito.

Vedendo che Necliudov non era alla rete gli domandò come mai non stesse parlando con la persona di cui aveva chiesto. Necliudov si soffiò il naso, si scosse e cercando di mostrarsi indifferente, rispose:

- Non posso parlare attraverso la rete, non si capisce niente.

Il direttore rifletté un momento.

- Be', si potrebbe forse farla venire qui per qualche minuto.

Mària Kàrlovna! - si rivolse alla carceriera. - Fate venir fuori la Màslova.

 

 

 

43.

 

Poco dopo da una porta laterale uscì la Màslova. Accostatasi lievemente a Necliudov, si fermò e lo guardò di sotto in sù. I capelli neri, come due giorni prima, s'attorcigliavano in ciocche inanellate, il viso dal colorito malsano gonfio e pallido, era grazioso e perfettamente tranquillo; solo gli occhi strabici, d'un nero lucente, brillavano in modo insolito, da sotto le palpebre enfiate.

- Potete parlare qui, - disse il direttore scostandosi.

Necliudov si mosse verso una panca addossata a una parete.

La Màslova guardò il vice direttore con aria interrogativa e poi, stringendosi nelle spalle quasi stupita, seguì Necliudov sulla panca e sedette accanto a lui, accomodandosi la gonna.

- Lo so che vi è difficile perdonarmi. - cominciò Necliudov, ma s'interruppe di nuovo, impedito dalle lacrime: - e se ormai è impossibile rimediare al passato, son però deciso a fare tutto quello che posso. Ditemi.

- Come avete fatto a trovarmi? - domandò lei senza rispondere alla sua domanda, guardandolo e non guardandolo coi suoi occhi strabici.

"Signore aiutami! Ispirami quello che debbo fare" si disse Necliudov, osservando il viso di lei tanto mutato, su cui si leggeva un'espressione cattiva.

- Due giorni fa ero nella giuria, - egli rispose; - il giorno che vi han fatto il processo. Non mi avete riconosciuto?

- No. Non avevo il tempo per riconoscervi. E poi non guardavo, - essa rispose.

- E' nato un bambino nevvero? - le domandò e si sentì avvampare.

- E' morto subito, grazie a Dio! - rispose lei brevemente e con aria cattiva, distogliendo lo sguardo.

- Ma in che modo? perché?

- Io stessa ero malata, per poco non son morta, disse, senza alzare gli occhi.

- Come mai le zie vi hanno lasciata andare via?

- Chi tiene una cameriera con un bambino? Appena se ne sono accorte mi hanno scacciata. Ma a che scopo parlarne... non ricordo nulla, tutto ho dimenticato. Una storia finita.

- No non è finita. Non posso lasciare le cose così. Almeno adesso vorrei riparare la mia colpa.

- Non c'è niente da riparare; quel che è stato è stato. Cose passate! - disse lei e senza che egli se l'aspettasse minimamente, ad un tratto lo guardò in faccia e sorrise in un modo sgradevole, provocante e pietoso. La Màslova non aveva mai pensato che potesse capitarle di rivederlo, soprattutto in quel momento e in quel luogo, e perciò la sua comparsa l'aveva colta alla sprovvista, rievocandole un passato di cui s'inibiva il ricordo. Si rammentò allora confusamente di quel mondo meraviglioso di sentimenti e di pensieri che un giovane affascinante innamorato di lei d'un amore corrisposto le aveva dischiuso, e poi della crudeltà inspiegabile di lui e di tutta la serie di umiliazioni e di sofferenze che erano state il seguito e la conseguenza di quella incantata felicità... E provò una gran pena. Ma non essendo in grado di raccapezzarsi, si comportò come faceva sempre: respinse lontano da sé quei ricordi e si affrettò a disperderli nella nebbia della sua vita corrotta. In un primo momento aveva ravvisato, nell'uomo che le sedeva accanto, il giovane amato, ma vedendo che ciò le faceva troppo male, aveva rinunciato a pensarci. L'uomo ben vestito, il signore elegante dalla barba profumata non fu più per lei il Necliudov che aveva amato, ma uno dei tanti uomini che, quando ne sentivano il bisogno, si servivano di esseri come lei, e dai quali gli esseri come lei dovevano cercare di trarre il maggior vantaggio. E perciò gli aveva sorriso con aria provocante. Essa taceva, pensando al miglior modo di trar profitto da lui.

- Quella è una storia ormai finita, - disse. - Adesso invece mi hanno condannata ai lavori forzati. - Le sue labbra tremarono, mentre pronunciava le parole terribili.

- Ero sicurissimo della vostra innocenza, - disse Necliudov.

- Certo che sono innocente. Son forse una ladra o una rapinatrice?

Qui si dice che tutto dipende dall'avvocato, - proseguì. - Dicono che bisogna far ricorso. Soltanto che costa caro, dicono...

- Sì, senz'altro, - rispose Necliudov. - Mi son già rivolto a un avvocato.

- Non bisogna far economia, per uno bravo, - essa replicò.

- Farò tutto il possibile.

Seguì una pausa.

Essa gli lanciò un altro dei suoi sorrisi.

- Vorrei chiedervi... un po' di denaro, se potete. Non molto...

una decina di rubli. Di più non mi occorre, disse a un tratto.

- Ma certo, ma certo, - pronunciò confuso Necliudov, portando la mano al portafoglio.

Essa lanciò una rapida occhiata al direttore, che camminava avanti e indietro per il camerone.

- Non ora, aspettate che si sia allontanato, se no me li portano via.

Appena il direttore si fu voltato dall'altra parte, Necliudov tirò fuori il portafoglio; ma non ebbe il tempo di passarle un biglietto da dieci rubli che il direttore si voltò di nuovo verso di loro. Egli lo strinse nella mano.

"Ma questa è una donna morta", pensò, guardando quel viso un tempo grazioso, ora imbruttito e gonfio, in cui gli occhi neri, strabici, splendevano di una luce non buona, mentre seguivano il direttore e la mano che stringeva il denaro. Egli esitò un attimo.

Il tentatore che aveva parlato in lui nella notte precedente, s'insinuò di nuovo nel suo animo, cercando al solito di distoglierlo dal pensare a ciò che doveva fare, per indurlo invece a riflettere sulle conseguenze dei suoi atti e a ciò che era utile.

"Non ne caverai nulla da questa donna", diceva la voce; "non riuscirai ad altro che a legarti un sasso al collo, che ti farà affogare e t'impedirà di essere utile al tuo prossimo... Darle del denaro, tutto il denaro che ho in tasca, dirle addio e farla finita una volta per tutte", gli venne fatto di pensare.

Ma subito ebbe la percezione che in quello stesso momento in lui avveniva qualcosa di assai grave. La sua vita spirituale era come sui piatti di una bilancia che il minimo sforzo poteva far pendere da una parte, piuttosto che dall'altra. Ed egli compì questo sforzo, invocando il nome di quel Dio che già il giorno prima aveva sentito presente nell'anima sua. E quel Dio gli rispose.

Egli decise di dirle tutto subito.

- Katiuscia! Sono venuto da te per chiederti perdono, ma tu non mi hai risposto se mi perdoni, se mi perdonerai un giorno o l'altro, - le disse, passando improvvisamente al tu.

Lei non lo ascoltava, ma guardava ora la sua mano, ora il direttore. Quando questi voltò le spalle, essa allungò la mano, afferrò la banconota e la nascose nella cintola.

- Strano ciò che dite! - esclamò con un sorriso che gli parve di scherno.

Necliudov sentiva in lei qualcosa di decisamente ostile, che impedendole di assumere un altro atteggiamento nei confronti di lui, gli rendeva impossibile di toccarle il cuore. Ma, cosa strana, questa impressione, invece di allontanarlo, lo attirava ancor di più, come una forza che gli riusciva nuova. Egli sentiva di doverle risvegliare lo spirito. Impresa estremamente ardua, ma allettante per la sua stessa difficoltà. Provava ora per lei un sentimento che non aveva ancora mai provato per nessuno, e in cui non vi era niente di personale. Da lei non desiderava nulla per sé; desiderava soltanto che essa non fosse più quella di adesso, ma si risvegliasse e tornasse ad essere quella di prima.

- Katiuscia, perché parli così? Io ti conosco bene, ti ricordo al tempo di Pànovo...

- Perché ricordare il passato? - disse lei asciutta.

- Lo ricordo perché voglio riparare. Voglio riscattare la mia colpa, Katiuscia, - egli riprese, e stava per dirle che era pronto a sposarla, quando incontrò il suo sguardo e vi lesse qualcosa di così spaventosamente abietto e repellente, che non gli riuscì di continuare.

Intanto i visitatori cominciavano ad uscire. Il direttore s'avvicinò a Necliudov e gli fece osservare che l'ora delle visite era terminata. La Màslova s'alzò aspettando con aria remissiva che la lasciassero andare.

- Arrivederci, devo dirvi ancora molte cose, ma, come vedete, adesso è impossibile, - disse Necliudov e le tese la mano. - Ritornerò.

- Mi sembra che abbiate detto tutto...

- No, farò in modo di rivedervi dove si possa parlare, e allora vi dirò una cosa molto importante, - replicò Necliudov.

- Ma sì, venite, - essa disse, sorridendo come sorrideva agli uomini ai quali voleva piacere.

Mi siete più vicina di una sorella, - disse Necliudov.

Strano! - rispose lei, e tentennando il capo si allontanò dietro la rete.

 

 

 

44.

 

Fin dalla prima visita Necliudov s'aspettava che Katiuscia, rivedendolo così pentito e ansioso di aiutarla, si sarebbe rallegrata e commossa, tornando ad essere la Katiuscia d'un tempo.

Dovette constatare invece con orrore che Katiuscia non c'era più e che ormai esisteva soltanto la Màslova. Ciò lo sorprese e lo sgomentò.

Lo stupiva soprattutto che la Màslova, anziché vergognarsi della sua condizione di prostituta, se ne mostrasse contenta, quasi fiera, mentre invece si vergognava molto della sua condizione di reclusa. Ma in realtà non avrebbe potuto essere altrimenti.

Infatti per poter agire nella vita, tutti abbiamo bisogno di attribuire al nostro lavoro importanza e dignità. E ne deriva che un uomo, a qualunque condizione appartenga, riesce sempre a formarsi un concetto della vita, tale che gli faccia sembrare la sua attività degna e importante.

Si è soliti pensare che il ladro, l'assassino, la spia, la prostituta, considerando riprovevoli le proprie professioni se ne debbano vergognare. Ma avviene esattamente il contrario. Le persone poste dal destino e dai propri errori in una determinata condizione, per quanto questa possa essere falsa, riescono sempre a vedere la vita da un punto di vista che giustifica e nobilita, ai loro propri occhi, la loro posizione. Per sostenere questo punto di vista essi si appoggiano istintivamente alla cerchia di persone che condividono le loro stesse idee sulla vita e sul posto che occupano nella società.

Noi ci meravigliamo se un ladro si vanta della sua destrezza, una prostituta della sua depravazione, e un assassino della sua crudeltà. Ma ce ne meravigliamo soltanto perché si tratta di un gruppo sociale assai limitato, al quale noi siamo estranei. Ma forse non si verifica lo stesso fenomeno fra la gente ricca, che è fiera della propria ricchezza, cioè del frutto di un ladrocinio?

Fra i comandanti dell'esercito che si vantano dei loro successi militari, ossia di assassinii? Fra i potenti, orgogliosi del loro potere, acquistato con la violenza? Non ci accorgiamo come tutti costoro deformino il concetto della vita e della morale, per giustificare se stessi; ma non ce ne accorgiamo, solo perché il numero delle persone che hanno idee così false è assai grande e noi stessi vi siamo inclusi.

Un simile concetto sulla sua vita e sul posto che occupava nella società se lo era formato anche la Màslova. Sebbene prostituta e condannata ai lavori forzati, il concetto che s'era fatta della vita le permetteva di approvare se stessa e persino di sentirsi fiera davanti agli altri della sua condizione.

Questa concezione del mondo era basata sull'idea che il bene principale di tutti gli uomini, nessuno escluso, - vecchi, giovani, studenti, generali, colti e ignoranti consista nei rapporti sessuali con donne attraenti; e perciò tutti gli uomini, benché fingano d'interessarsi d'altro, in realtà anelano soltanto a questo. Lei, una donna attraente, poteva a suo piacimento appagare o non appagare quella loro brama ed era perciò una persona importante e necessaria. La sua vita passata e presente era conferma dell'esattezza di questa concezione.

Per dieci anni, dovunque si fosse trovata, cominciando da Necliudov e dal vecchio commissario, fino ai guardiani delle carceri, aveva sempre visto che tutti gli uomini avevano bisogno di lei; quelli che non ne avevano bisogno, per lei non esistevano neppure. Il mondo intero le appariva come un'accolta di uomini travolti dalla lussuria, che da ogni parte la spiavano, capaci di far ricorso, per possederla, a qualsiasi mezzo. L'inganno, la violenza, il denaro, l'astuzia.

Così interpretava la vita la Màslova, e data questa concezione, non solo non si considerava l'ultima delle donne, ma credeva anzi di essere una persona assai importante. E a tale sua concezione della vita teneva come a null'altro al mondo, giacché capiva che, mutandola, lei stessa avrebbe perso l'importanza che quel modo di vivere le conferiva fra gli uomini. E per non perdere il suo valore nella vita, si aggrappava istintivamente alla cerchia di persone che avevano le sue stesse idee. Intuendo che Necliudov voleva condurla in un mondo diverso, gli faceva resistenza, poiché prevedeva che là dove egli l'attirava, avrebbe inevitabilmente perso il posto che ora occupava nella vita, e che le infondeva sicurezza e un alto concetto di sé. Per la stessa ragione scacciava dal suo cuore i ricordi della prima giovinezza e dei suoi primi rapporti con Necliudov. Quei ricordi non s'accordavano con la concezione che s'era fatta della vita: li aveva completamente scacciati dalla memoria, o meglio, li conservava intatti in un cantuccio del suo cuore; intatti, ma chiusi ermeticamente, murati, come fanno le api coi nidi dei vermi che sanno capaci di distruggere l'alveare, se riescono a penetrarvi.

Per questa ragione il Necliudov di adesso non era più per lei l'uomo che una volta aveva amato di un amore puro; era un signore ricco, di cui poteva e doveva approfittare, e col quale potevano sussistere soltanto quei rapporti che essa intratteneva con gli altri uomini.

"No, non ho potuto dirle la cosa principale", pensò Necliudov dirigendosi con gli altri all'uscita. "Non le ho detto che la sposerò. Non gliel'ho detto, ma glielo dirò", pensava.

I due carcerieri di guardia alla porta contavano di nuovo i visitatori perché non ne uscisse uno di troppo, o uno di troppo non rimanesse in prigione. Necliudov ricevette un nuovo colpo sulla schiena, ma questa volta non s'offese; neppure se ne accorse.

 

 

 

45.

 

Necliudov s'era proposto di cambiare vita: affittare il vasto appartamento, licenziare la servitù e trasferirsi all'albergo. Ma Agrafena Petrovna gli fece osservare che fino all'inverno non era il caso di modificare comunque l'andamento della casa; d'estate nessuno prende in pigione appartamenti, mentre bisogna pur vivere e tenere la mobilia e la roba in qualche posto. Sicché tutti i tentativi di Necliudov per cambiar la sua vita esteriore - avrebbe voluto sistemarsi in un modo semplice, alla studentesca - non approdarono a nulla. Oltre al fatto che le cose rimasero al punto di prima, in casa cominciò una intensa attività: si lustrarono i vetri, furono stesi e battuti gli indumenti di lana e le pellicce.

A questo lavoro presero parte il portiere, il suo aiutante, la cuoca e lo stesso Kornèi. Dapprima furono messe all'aria e tese sulle corde certe divise e certe pellicce strane che nessuno adoperava mai; poi furono portati fuori i tappeti e i mobili, e il portiere col suo aiutante, rimboccate le maniche sulle braccia muscolose, cominciarono a battere ritmicamente con tutta la loro energia, mentre per la casa si diffondeva l'odor della naftalina.

Passando dal cortile e guardando dalle finestre, Necliudov si stupiva di quella gran quantità di roba, senza dubbio inutile.

"Tutte cose che servono soltanto perché Agrafena Petrovna, Kornèi il portiere, il suo aiutante e la cuoca facciano un po' di ginnastica", pensava Necliudov. "Non vale la pena di cambiar genere di vita, finché la faccenda della Màslova non è definita", egli pensava. "E poi, è troppo difficile. Tanto le cose si sistemeranno da sole, quando la metteranno in libertà o la spediranno in Siberia, dove la seguirò".

Nel giorno fissato, Necliudov si recò dall'avvocato Fanarin. Egli abitava un sontuoso appartamento in una casa di sua proprietà.

Ornato di piante enormi e di magnifiche tende alle finestre, era arredato con quello sfarzo che generalmente è segno di un eccesso di denaro, troppo facilmente guadagnato; sfarzo che capita di vedere nelle case di chi s'arricchisce improvvisamente.

Nella sala d'aspetto Necliudov trovò altri clienti che aspettavano il loro turno, come dal medico, seduti con aria abbattuta intorno ai tavolini, dove cercavano di distrarsi coi giornali illustrati.

Il sostituto dell'avvocato, seduto a una grande scrivania, riconobbe Necliudov, gli si avvicinò per salutarlo e gli disse che l'avrebbe subito annunciato al principale. Ma non era ancora arrivato alla porta dello studio, che questa si aprì. Un uomo tarchiato di mezza età, dal viso rosso e i baffi folti, che indossava un abito nuovo fiammante, stava conversando ad alta voce e animatamente con Fanarin. Tutti e due avevano sulla faccia l'espressione caratteristica di chi ha appena concluso un affare vantaggioso ma non del tutto onesto.

- Colpa vostra, signor mio, - diceva Fanarin sorridendo.

- Mi piacerebbe andare in paradiso, ma i peccati non mi "lassano".

- Be', be', lo sappiamo...

E tutti e due si misero a ridere in un modo che suonò falso.

- Ah, principe, accomodatevi, - disse Fanarin vedendo Necliudov, e con un ultimo cenno di saluto al mercante che s'allontanava, introdusse Necliudov in uno studio arredato austeramente. - Fumate pure, - proseguì l'avvocato, sedendo di fronte a Necliudov, e trattenendo un sorriso di compiacenza per il buon esito dell'affare di poco prima. - Grazie, sono venuto per quel processo della Màslova.

- Sì, sì, subito. Ah, ma che canaglia questi grassi borghesi!

Avete osservato quel bel tipo? Ha un capitale di dodici milioni. E dice "lassano". Già... Ma se sa di potervi tirar fuori un biglietto da venticinque rubli, coi denti ve lo strappa.

"Lui dice lassano e tu un biglietto da venticinque rubli...", pensò Necliudov. Provava un senso invincibile di ripugnanza per quell'uomo spigliato, che col suo tono voleva dimostrare che con lui, Necliudov, si sentiva su uno stesso piano mentre col cliente di prima e con tutti gli altri, era convinto di non aver nulla in comune.

- Uff non ne posso proprio più... che mascalzone! avevo bisogno di sfogarmi... - disse l'avvocato, quasi giustificandosi per essere uscito dal seminato. - Be', dunque, riguardo alla vostra faccenda... Ho letto attentamente l'incartamento e "codesto contenuto non approvai", come dice Turghèniev. Cioè, l'avvocatuccio non valeva uno zero e si è lasciato sfuggire tutti i motivi di ricorso in Cassazione.

- E allora che avete deciso?

- Un momento. Ditegli, - si rivolse al suo sostituto che era entrato, - che quel che ho detto ho detto. Se può, bene, se non può, non importa.

- Ma lui non è d'accordo.

- Allora non importa, - rispose l'avvocato e il suo viso da soddisfatto e bonario si fece cupo e cattivo.

- E poi dicono che gli avvocati si fan pagare per niente, - egli riprese atteggiando di nuovo il viso a un'espressione benevola. - Ho salvato un debitore insolvente da un'imputazione assolutamente viziosa e adesso tutti corrono da me. Ma le cause di questo genere costano una fatica enorme. E' proprio vero che, come dice non so che scrittore, anche noi lasciamo un pezzetto di carne nel calamaio... Tornando dunque al nostro processo, o meglio al processo che vi interessa, - proseguì, - è stato condotto malissimo; motivi validi per ricorrere non ce ne sono. Ma tuttavia tentare si può, ed ecco qua ciò che ho messo insieme.

E da un foglio manoscritto, mandando giù in fretta le formule, e pronunciando il resto con molta espressione, cominciò a leggere: - "Ricorso alla sezione penale della Corte di Cassazione, eccetera eccetera presentato dalla tal dei tali eccetera eccetera. Con sentenza pronunciata eccetera, eccetera, in base al verdetto eccetera eccetera, una certa Màslova è stata riconosciuta colpevole di aver ucciso mediante avvelenamento il mercante Smielkòv e in base all'articolo 1454 del Codice penale eccetera, eccetera, è stata condannata ai lavori forzati eccetera, eccetera".

Egli si fermò; nonostante la lunga abitudine, ascoltava con evidente piacere la sua opera.

- "Questo verdetto è a nostro parere, il risultato di errori e di vizi di procedura così gravi", - egli continuò ispirato, - "che ci sembra passibile di annullamento. In primo luogo, durante l'istruttoria, la lettura della perizia medica sui visceri dello Smielkòv fu interrotta fin dall'inizio dal presidente": e uno.

- Ma è stato il pubblico ministero che ne ha preteso la lettura, - osservò Necliudov sorpreso.

- Fa lo stesso, anche la difesa poteva avere delle ragioni per chiederla.

- Ma quella lettura era assolutamente inutile...

- Però è un motivo... Continuiamo: "In secondo luogo, il difensore della Màslova", - riattaccò a leggere, - "durante la sua arringa, nel punto in cui cercava di caratterizzare la personalità della Màslova, esponendo le ragioni intime della sua caduta, fu interrotto dal presidente il quale riteneva che le parole del difensore non si riferivano al fatto in sé.

"Ora nelle cause penali, come più volte la Corte suprema ha fatto presente, L'indagine sul carattere dell'imputato ha un'importanza capitale, non foss'altro che per risolvere giustamente il quesito relativo all'imputazione". E due, - egli disse guardando Necliudov.

- Ma se parlava tanto male che non si capiva un'acca, - osservò Necliudov sempre più sorpreso.

- Quel ragazzo è perfettamente stupido ed è naturale che non poteva dir niente di sensato, - spiegò Fanarin ridendo. - Ma è pur sempre un motivo... Sentite poi: "In terzo luogo, il presidente, nel suo discorso conclusionale contrariamente al disposto categorico del paragrafo 1, articolo 801 del Codice penale ha omesso di spiegare ai giurati quali elementi giuridici determinano il concetto della colpevolezza, e non li ha avvertiti che essi anche se davano come provato il fatto dell'aver la Màslova propinato il veleno allo Ssmielkòv, avevano però la facoltà di non imputarglielo a colpa, escludendo in lei l'intenzione di uccidere e di conseguenza riconoscendola colpevole non di un crimine, ma di un atto colposo la cui conseguenza è stata, inaspettatamente per la Màslova, la morte del mercante". E questo è il punto principale.

- Ma anche noi potevamo accorgercene. La colpa è nostra.

- E finalmente in quarto luogo, - proseguì l'avvocato: "la risposta dei giurati al quesito della Corte sulla colpevolezza della Màslova fu data in una forma che aveva insita in sé una contraddizione. La Màslova era accusata di aver avvelenato lo Smielkòv con premeditazione, a scopo esclusivo di lucro, il che risultava essere l'unico movente del delitto. Ma i giurati, nella risposta, scartarono l'intenzione del furto e la partecipazione della Màslova alla sottrazione dei valori, dimostrando con ciò che essi intendevano escludere anche l'intenzione di uccidere da parte dell'imputata. Soltanto per un malinteso provocato dall'esposto incompleto del presidente, essi non formularono la risposta nei dovuti termini. Ne consegue che il verdetto dei giurati richiedeva inequivocabilmente l'applicazione degli articoli 816 e 808 del Codice penale, ossia che il presidente spiegasse ai giurati l'errore commesso e ordinasse loro una nuova deliberazione, allo scopo di elaborare una nuova risposta sul quesito relativo alla colpevolezza dell'imputata".

- E allora perché il presidente non l'ha fatto?

- Il perché vorrei saperlo anch'io, - disse Fanarin ridendo.

- Credete che la Cassazione correggerà l'errore?

- Dipende da chi in quel momento comporrà la sezione. Sicuro...

Più avanti scrivo: "Un simile verdetto non dava diritto alla Corte", - egli proseguì in fretta, - "di sottoporre la Màslova alla sanzione penale; l'applicazione nei suoi confronti del paragrafo 3, articolo 771 del Codice penale, costituisce una netta e grave violazione dei principi fondamentali della nostra procedura penale. Per le ragioni sopra elencate ho l'onore di sollecitare, conforme agli articoli 909, 910 e al paragrafo 2 degli articoli 912 e 928 del Codice Penale eccetera, eccetera, l'annullamento e il rinvio di questo processo ad un'altra sezione dello stesso tribunale per un nuovo esame". Ecco qua tutto quel che si poteva fare. Ma, se devo essere sincero, credo che ci sian scarse probabilità di riuscita. Tutto dipende dalle persone che comporranno la Corte di Cassazione. Se avete una pedina da muovere, non perdete tempo.

- Conosco qualcuno.

- Affrettatevi prima che vadano a curarsi le emorroidi e vi tocchi aspettare tre mesi. E nel caso di un insuccesso, ci rimane sempre la domanda di grazia a Sua Maestà. Anche qui si tratta di agire dietro le quinte. Contate pure su di me non per le pratiche di retroscena, s'intende, ma per la compilazione dell'istanza.

- Grazie. E per il vostro onorario...

- Il mio sostituto vi consegnerà la bella copia del ricorso e vi dirà la cifra.

- Vorrei chiedervi una cosa ancora. Il procuratore mi ha rilasciato il permesso di visitare questa persona in carcere, ma là mi hanno detto che per le visite fuori orario e non in parlatorio ci vuole anche il permesso del governatore. E' vero?

- Credo di sì. Ma adesso il governatore non c'è, lo sostituisce il vice governatore. E' talmente idiota che ci caverete ben poco.

- Màslennikov?

- Sì.

- Lo conosco, - disse Necliudov e si alzò per andarsene.

In quel momento irruppe nella stanza una donna piccola, bruttissima, dal naso camuso, ossuta e gialla. Era la moglie dell'avvocato, ed evidentemente non si lasciava per nulla deprimere dalla propria bruttezza. Non soltanto vestiva in un modo stravagante, tutta drappeggiata in sete e in velluti giallo chiaro e verde, ma s'era anche arricciati i pochi capelli che aveva in testa. Si precipitò tutta trionfante nello studio, seguita da un uomo lungo e sorridente con la faccia terrea, che indossava una redingote coi risvolti di seta e una cravatta bianca. Uno scrittore che Necliudov conosceva di vista.

- Anatòl, - essa disse aprendo la porta, - vieni da me. Semiòn Ivànovic' mi ha promesso di recitarci i suoi versi e tu devi assolutamente leggerci Garscin.

Necliudov fece per andarsene, ma la moglie dell'avvocato scambiò sottovoce qualche parola col marito e subito si rivolse a lui.

- Per favore, principe - io vi conosco e ritengo inutile la presentazione - fateci l'onore di assistere alla nostra mattinata letteraria. Sarà molto interessante. Anatòl legge in modo incantevole.

- Vedete come sono eterogenee le mie occupazioni? - disse Anatòl allargando le braccia e indicando la moglie con un sorriso, come per significare che ad una persona così seducente era impossibile resistere.

Necliudov con aria afflitta e severa ma estremamente cortese, ringraziò la moglie dell'avvocato per l'onore fattogli e si scusò di non poter accettare. Poi uscì dallo studio.

- Che smorfioso! - disse di lui la moglie dell'avvocato, non appena fu uscito.

Nella sala d'aspetto il sostituto consegnò a Necliudov il ricorso, e alla domanda sull'onorario rispose che Anatoli Petrovic' chiedeva mille rubli; affrettandosi a soggiungere che l'avvocato non accettava mai cause di quel genere, e aveva fatto un'eccezione soltanto per lui.

- Ma il ricorso chi deve firmarlo?

- L'imputata stessa. Se però è una cosa complicata, Anatòl Petrovic' può firmare per lei.

- No, ci andrò io e la farò firmare, - rispose Necliudov, lieto che gli si offrisse un'occasione di rivederla prima del giorno stabilito.

 

 

 

46.

 

All'ora solita, nei corridoi della prigione risuonarono i fischi dei carcerieri e fra lo stridere delle serrature si spalancarono le porte dei corridoi e delle camerate. Cominciò lo stropiccio dei piedi scalzi e dei tacchi dei kotì. Nei corridoi passarono i detenuti coi bigonci, appestando l'aria di un fetore disgustoso; uomini e donne si lavarono, si vestirono e uscirono nei corridoi per il controllo, e dopo l'appello andarono a prendere l'acqua bollente per il tè.

Quel mattino, durante il tè, in tutte le camerate della prigione si faceva un gran discorrere sul fatto che in giornata due detenuti dovevano subire la battitura con le verghe.

Uno di questi era un giovane che sapeva leggere e scrivere bene, un commesso di nome Vassìliev, il quale in un impeto di gelosia, aveva ucciso l'amante. I compagni di camerata l'amavano per la sua allegria, la sua generosità e per la risolutezza nel modo di trattare coi superiori. Conosceva il regolamento e ne esigeva l'applicazione. Per questo i capi non lo potevano soffrire. Tre settimane prima un guardiano aveva picchiato un detenuto perché, nel passare col recipiente della zuppa, gliene aveva rovesciata un po' sulla divisa nuova. Vassìliev aveva preso le parti del detenuto, dicendo che il regolamento proibiva di battere i carcerati.

- Te lo farò vedere io il regolamento! - minacciò il carceriere, coprendo Vassìliev d'insulti. Questi replicò sullo stesso tono.

L'altro alzò la mano per picchiarlo, ma Vassiliev lo afferrò per il braccio e lo immobilizzò per qualche minuto; poi gli fece fare un giro su se stesso e lo scaraventò fuori della porta. Il carceriere lo denunciò e il direttore fece rinchiudere Vassìliev in una cella di rigore.

Le celle di rigore erano una fila di bugigattoli oscuri chiusi all'esterno con catenacci. In quelle celle buie e fredde non vi erano né letto, né tavola, né seggiola, sicché il prigioniero doveva sedere o sdraiarsi sul pavimento sudicio, dove una gran quantità di topi gli correva addosso da tutte le parti, e con tanta audacia, che in quel buio non gli riusciva nemmeno di salvare il pane. Portavano via il pane di mano, e se uno cessava di muoversi, eran anche capaci di assalirlo.

Vassìliev dichiarò che siccome non era colpevole non sarebbe andato nella cella di rigore. Vi fu trascinato. Tentò di liberarsi dai carcerieri e due detenuti gli dettero man forte. Accorsero altri carcerieri fra i quali un certo Petròv, famoso per i suoi muscoli. I detenuti furono sopraffatti e gettati nelle celle di rigore.

Il governatore, immediatamente informato che nel carcere c'era stata una specie di sommossa, mandò l'ordine scritto di infliggere ai due principali colpevoli trenta colpi di verga per ciascuno.

La punizione doveva aver luogo nel parlatorio delle donne.

Già dalla sera innanzi tutto il carcere conosceva la notizia.

Nelle camerate si faceva un gran discorrere della prossima punizione.

La Korabliòva, la "Corosciavka", Fedossia e la Màslova sedevano nel loro cantuccio; bevevano il tè e discorrevano, tutte rosse ed eccitate per la vodca, che ora alla Màslova non mancava mai e che essa offriva generosamente alle compagne.

- Non l'ha mica fatto per prepotenza, - diceva la Korabliòva a proposito di Vassìliev, mordendo pezzettini di una zolletta di zucchero coi suoi denti forti. - Ha preso solo le parti di un compagno. Perché oggidì non è più permesso di picchiare.

- E' un bravo ragazzo, dicono, - soggiunse Fedossia che a testa scoperta, le lunghe trecce giù per le spalle, sedeva sopra un ceppo davanti al tavolaccio dove era appoggiata la teiera.

- Ecco una cosa da dire a lui, Micàilovna, - si rivolse la cantoniera alla Màslova alludendo con quel lui a Necliudov.

- Glielo dirò. Per me farebbe qualunque cosa, - rispose la Màslova sorridendo e dondolando la testa.

- Ma chissà quando verrà... e loro, intanto, dicono che sono già andati a prenderli, - osservò Fedossia. - Che pena! - soggiunse sospirando. - Ho ben visto io fustigare un contadino al mio paese.

Mio suocero mi aveva mandato dal sindaco. Io ci andai e che cosa vidi? Lui che... - e la cantoniera cominciò una lunga storia.

Il suo racconto fu interrotto da un rumore di voci e di passi nel corridoio soprastante.

Le donne tacquero ascoltando.

- Lo portano già dabbasso, quei demoni! - disse la "Corosciavka".

- Adesso chissà quante gliene daranno. Tutti i carcerieri l'han sù con lui a morte, perché non gliene lascia passare una.

In alto ritornò il silenzio. La cantoniera finì di raccontare la sua storia: come s'era spaventata quando nella rimessa del Comune aveva visto fustigare un contadino e s'era sentita rimescolare le viscere. La "Corosciavka" a sua volta raccontò come avevano fustigato S'ceglòv e lui non aveva neppure fiatato. Poi Fedossia ripose la teiera e le tazze; la Korabliava e la cantoniera si misero a cucire e la Màslova sedette sulla cuccetta con le ginocchia fra le mani. S'annoiava a morte... Voleva stendersi per dormire, quando la carceriera le gridò che andasse in ufficio:

l'aspettava una visita.

- Non dimenticarti di noi, - le disse la vecchia Mensciòva, mentre la Màslova si accomodava il fazzoletto davanti a uno specchio mezzo scrostato: - l'incendio non l'abbiamo appiccato noi; è stato lui, quel furfante. Anche il garzone l'ha visto! Le anime non le può uccidere. Digli che faccia chiamare Dmitri, lui gli spiegherà tutto per bene. Ma che razza di sistemi! Noi, che non ne sappiamo un'acca, ci han chiusi sotto chiave, e intanto lui, quel mascalzone, se ne sta nella sua bettola a spassarsela con la donna di un altro.

- Questo non è giusto, - affermò la Korabliòva.

- Lo dirò, lo dirò senz'altro, - rispose la Màslova. - Qua un altro goccio per farmi coraggio, - soggiunse strizzando l'occhio.

La Korabliòva le riempì mezza tazza di vodca. La Màslova bevette, s'asciugò la bocca e, di ottimo umore, ripetendo le parole: "per farmi coraggio", scuotendo la testa e sorridendo, seguì la carceriera nel corridoio.

 

 

 

47.

 

Già da un pezzo Necliudov aspettava nell'ingresso. Giunto al carcere aveva suonato alla porta e aveva consegnato al guardiano di giornata il permesso del procuratore.

- Che volete?

- Voglio vedere la detenuta Màslova.

- Adesso è impossibile: il direttore è occupato.

- E' in ufficio? - domandò Necliudov.

- No, qui in parlatorio, - rispose l'altro un po' impacciato, o così parve a Necliudov.

- E' forse giorno di visita?

- No, è una questione interna, - quello rispose.

- Come potrei vederlo?

- Aspettate che esca; allora gli parlerete.

In quel momento comparve da una porta laterale un sergente maggiore coi galloni luccicanti, la faccia splendente e lustra, i baffi impregnati di fumo di tabacco, e si rivolse severamente al guardiano:

- Perché lo avete fatto entrare qui? In direzione...

- Mi hanno detto che il direttore era qui, - rispose Necliudov, meravigliandosi dell'imbarazzo che traspariva anche dai modi del sergente.

In quel momento la porta interna si aprì e ne uscì Petròv, tutto sudato e accaldato.

- Se ne ricorderà, - esclamò rivolto al sergente. Costui accennò con lo sguardo a Necliudov. L'altro tacque, aggrottò la fronte e uscì dalla porta di fondo.

"CHI, se ne ricorderà? Perché son tutti così imbarazzati? Perché il sergente gli ha fatto quel segno?", pensava Necliudov.

- Qui non si può stare; favorite in direzione, - ripeté il sergente a Necliudov, e questi stava già per andarsene quando dalla porta di fondo entrò il direttore ancor più confuso dei suoi subordinati. Continuava a sospirare. Alla vista di Necliudov si rivolse al guardiano.

- Fedotov, la Màslova del quinto donne in direzione, - disse. - Accomodatevi, - si rivolse a Necliudov.

Salirono una scala ripida ed entrarono in una stanza piccolissima, con una finestra, una scrivania e qualche seggiola. Il direttore si sedette. - Che mestiere ingrato! ingrato davvero... - disse rivolgendosi a Necliudov e tirando fuori una grossa sigaretta.

- Avete un'aria stanca, - disse Necliudov.

- Stanco di tutto quel che devo fare... è un mestiere duro. Si vorrebbe alleviare la loro sorte e si fa peggio; non ho altro in mente che di andarmene. Che mestiere!

Necliudov non sapeva quali fossero di preciso le difficoltà in cui si dibatteva il direttore, ma lo vedeva in uno stato tale di scoramento e di desolazione che ne provò pietà.

- Sì, lo credo che sia un mestiere ingrato, - egli disse. - Perché lo fate?

- Non ho mezzi, la famiglia...

- Ma se vi è tanto duro...

- Be' nonostante tutto, vi dirò che, per quanto mi è possibile, cerco di far del bene, di mitigare, se appena posso. Chiunque altro al mio posto si comporterebbe ben diversamente. Si fa presto a dire... Più di duemila persone, e che razza di persone! Bisogna sapere come prenderle. Anche loro sono esseri umani, ti fanno pietà. Ma è un errore anche lasciar correre.

E incominciò a raccontare di una rissa avvenuta di recente fra i detenuti e finita con un omicidio. Il racconto fu interrotto dall'ingresso della Màslova, preceduta dal carceriere.

Necliudov la scorse sulla soglia dell'uscio, prima che lei notasse la presenza del direttore. Aveva la faccia rossa. Camminava lesta dietro al carceriere e continuava a sorridere tentennando il capo.

Visto il direttore, lo fissò spaventata, ma si riprese subito e vispa e allegra si rivolse a Necliudov.

- Buongiorno, - disse sorridendo con voce strascicata, e questa volta gli strinse forte la mano.

- Vi ho portato il ricorso da firmare, - disse Necliudov, un po' sorpreso dall'aria spigliata con cui l'aveva accolto. - L'avvocato ha steso il ricorso: bisogna firmarlo e poi lo spediremo a Pietroburgo.

- Perché no, si può anche firmarlo. Tutto si può, - essa disse, strizzando un occhio e sorridendo.

Necliudov levò dalla tasca un foglio piegato e s'avvicinò alla tavola.

- Si può qui? - domandò Necliudov al direttore.

- Vieni qua, siediti, - disse il direttore: - eccoti la penna. Sai scrivere?

- Una volta ero capace, - essa rispose.

Con un sorriso s'accomodò la gonna e le maniche della camicetta, sedette alla tavola, prese goffamente la penna con la mano piccola ed energica, poi scoppiando a ridere guardò Necliudov.

Egli le indicò dove doveva scrivere e che cosa. Lei intinse con cura la penna e la scosse leggermente; poi scrisse il proprio nome.

- Basta così? - domandò guardando ora Necliudov ora il direttore, incerta se posare la penna sul calamaio o sul foglio.

- Devo dirvi qualcosa, - disse Necliudov, e le tolse la penna di mano.

-Va bene... ditela; - rispose lei e si fece seria come se fosse stata colta da un pensiero improvviso o da un colpo di sonno. Il direttore si alzò e uscì. Necliudov rimase solo con lei.

 

 

 

48.

 

Il carceriere che aveva accompagnato la Màslova si sedette sul davanzale della finestra, lontano dalla tavola.

Per Necliudov era arrivato il momento fatale. Egli continuava a rimproverarsi di non averle detto fin dal primo colloquio la cosa più importante, cioè la sua intenzione di sposarla, ed ora s'era imposto di parlargliene.

Essa sedeva da una parte della tavola, Necliudov si sedette di fronte a lei. La camera era chiara e per la prima volta Necliudov poteva vederla in faccia distintamente e da vicino: notava le rughe intorno agli occhi e alla bocca, il gonfiore delle palpebre.

E la pena che provava per lei si ravvivò ancor di più.

Puntando i gomiti sul tavolo in modo da non essere udito dal carceriere - un tipo d'ebreo con le fedine brizzolate - disse:

- Se il ricorso non riesce, inoltreremo un'istanza all'imperatore.

Faremo tutto ciò che sarà possibile.

- Se si fosse fatto prima! con un buon avvocato...

Essa l'interruppe. - Quel mio difensore invece era proprio uno stupidello. Sapeva soltanto farmi dei complimenti..., - disse ridendo. - Se avessero saputo allora che mi conoscevate, le cose sarebbero andate diversamente. E invece così... una ladra, pensano tutti.

"Com'è strana, oggi", pensò Necliudov e stava per riprendere il discorso quando lei lo interruppe di nuovo.

- Ecco quel che vorrei dirvi. Da noi c'è una vecchietta. Tutti, sapete, se ne meravigliano persino. Una vecchietta straordinaria!

L'han messa dentro e non ha fatto niente; tanto lei che il figlio, e tutti sanno che sono innocenti. Li accusano di aver appiccato un incendio e così son dentro. Lei, sapete, ha sentito che vi conosco, - disse la Màslova girando la testa e guardandolo; - e mi ha detto: "Digli che provi a far chiamare mio figlio, lui gli racconterà tutto". Si chiamano Mensciav. Lo farete, non è vero? E' una vecchietta talmente straordinaria, se sapeste... si vede subito che non è colpevole. Provate, caro, ad interessarvene! - disse guardandolo, poi abbassò gli occhi e sorrise.

- Va bene, m'informerò... - rispose Necliudov, sempre più sorpreso di vederla così disinvolta. - Ma ora vorrei parlarvi un po' di me.

Ricordate quel che vi dissi l'altra volta? - le domandò.

- Ne avete dette tante di cose... Che avete detto l'altra volta? - essa disse, continuando a sorridere e volgendo la testa ora da una parte ora dall'altra.

- Vi ho detto che ero venuto a chiedervi perdono! - egli rispose.

- Ma che cos'è questo perdonare, e perdonare... non serve a niente... è meglio che voi...

- Voglio rimediare al male commesso, - Necliudov proseguì, - coi fatti, non con le parole. Ho deciso di sposarvi...

Il viso di lei assunse ad un tratto un'espressione di spavento. I suoi occhi strabici, fermi su di lui, lo guardavano senza vederlo.

- E che c'entra, ora, questo? - pronunciò con cipiglio cattivo.

- Sento che davanti a Dio ho il dovere di farlo.

- Ma che Dio mi andate a tirar fuori? Continuate a dire delle cose che non c'entrano. Dio? che Dio? Allora dovevate ricordarvi di Dio... - disse, e si fermò di botto con la bocca aperta.

Necliudov solo allora sentì che il suo alito mandava un forte odor di vodca e comprese il perché della sua animazione.

- Calmatevi, - le disse.

- Non ho niente da calmarmi! pensi che sia ubriaca? Anche se lo sono, so quello che dico! - mormorò in fretta e si fece di fiamma.

- Io sono una donna da galera, una prostituta, voi un signore, un principe... non è il caso che tu ti venga ad insudiciare con me.

Vattene dalle tue principesse, il mio prezzo è un biglietto rosso.

- Per quanto dure siano le tue parole, non potranno mai esprimere quel che sento io, - disse piano Necliudov, tremando come una foglia, - non puoi immaginarti fino a che punto io mi sento colpevole verso di te!

- Mi sento colpevole... - lo contraffece lei maligna. - Allora no, non ti sentivi colpevole, quando mi hai rifilato i cento rubli.

Ecco, il tuo prezzo...

- Lo so, lo so, ma che farci adesso? - esclamò Necliudov. - Adesso ho deciso di non abbandonarti: e farò come ho detto.

- E io ti dico che non lo farai! - essa esclamò e rise forte.

- Katiuscia! - egli cominciò, cercandole la mano.

- Vattene da me! Io sono una forzata, tu un principe... non è questo il tuo posto, - gridò sconvolta dall'ira, strappando via la mano. - Vuoi redimerti a mie spese, - proseguì, affrettandosi a dir tutto ciò che le tumultuava nell'anima - ti sei valso di me per godertela in questa vita, e di me ti vuoi adesso servire per salvarti in quell'altra! Ti detesto, detesto i tuoi occhiali, tutto il tuo muso grasso e sozzo. Va via, va via! - gridò, balzando in piedi con uno scatto impetuoso.

Il guardiano si avvicinò.

- Che scene stai facendo? E' questo il modo...

- Lasciatela, per piacere, - disse Necliudov.

- Che non si lasci andare, - minacciò il guardiano.

- No, aspettate per favore, - pregò Necliudov.

Il guardiano riprese il suo posto alla finestra. La Màslova tornò a sedersi. Teneva gli occhi bassi e stringeva forte le piccole mani con le nocche intrecciate.

Necliudov, in piedi davanti a lei, non sapeva che fare.

- Tu non mi credi, - le disse.

- Che vogliate sposarmi... non sarà mai. Piuttosto m'impicco. Ecco la mia risposta.

- Ma io continuerò ad aiutarti.

- Be', questo è affar vostro. Basta che sappiate che io non ho bisogno di voi. Questo ve lo dico sinceramente, - disse. - Ma perché non son morta allora! - soggiunse e pianse d'un pianto sconsolato.

Necliudov non poteva parlare. Le lacrime di lei si comunicavano a lui. Essa alzò gli occhi, lo guardò come stupita, e con una cocca del fazzoletto cominciò ad asciugarsi le lacrime che le rigavano le gote.

Il carceriere si avvicinò di nuovo e annunciò che il colloquio era finito. La Màslova s'alzò.

- Ora siete agitata. Se me lo permetteranno, ritornerò domani.

Intanto pensateci, - disse Necliudov.

Lei non rispose e non lo guardò. Uscì dietro il guardiano.

- Be', ragazza mia, adesso ti andrà bene, - disse la Korabliòva alla Màslova, quando questa rientrò nella camerata. - Si vede che s'è preso una bella cotta; tientelo stretto, finché viene. Ti farà uscire. Ai ricchi tutto è possibile. - Questo è proprio vero! - esclamò la cantoniera con voce cantante. - Se un povero si vuol sposare, anche la notte è corta per pensarci su, ma il ricco, detto, fatto... Quel che desidera si avvererà. Da noi, tesoro, un signore di riguardo, sapete che ha fatto?

- E allora della mia faccenda gli hai parlato? - domandò la vecchia.

La Màslova non rispose a nessuno. Si stese sulla cuccetta e vi rimase fino a sera con lo sguardo strabico fisso in un punto. In lei si svolgeva un lavorio tormentoso. Ciò che Necliudov le aveva detto, la riportava in quel mondo in cui aveva sofferto e dal quale era uscita. Non l'aveva capito quel mondo, e l'aveva odiato.

Ora squarciato il velo dell'oblio in cui s'era avvolta, il pensiero di ciò che era stato la faceva troppo soffrire. Quella sera si comprò dell'altra acquavite e s'ubriacò con le compagne.

 

 

 

49.

 

"Già. E' proprio così", pensava Necliudov uscendo dal carcere.

Soltanto ora capiva pienamente la gravità della sua colpa. Se non avesse cercato di rimediare, di espiare il male commesso, non ne avrebbe mai misurato la profondità, come lei a sua volta non si sarebbe mai resa conto del torto ricevuto. Soltanto ora ogni cosa era venuta a galla, in tutto il suo orrore. Soltanto ora egli vedeva che cosa aveva fatto dell'anima di quella donna, ed essa vedeva e capiva che cosa s'era fatto di lei.

Prima Necliudov si trastullava col suo sentimento, si compiaceva di se stesso e del suo desiderio di espiazione. Ma ora provava un vero sgomento. Sentiva che non avrebbe più potuto lasciarla; e nello stesso tempo non riusciva ad immaginarsi quale esito avrebbero avuto i loro nuovi rapporti.

All'uscita dalla prigione, si avvicinò a Necliudov un carceriere decorato di croci e di medaglie e con una faccia antipatica e ipocrita gli consegnò un biglietto di soppiatto.

- E' per Vostra Eccellenza, da parte di una certa persona... - disse porgendo a Necliudov una busta.

- Che persona?

- Leggete e vedrete. Una detenuta, una politica... Io sono in quel reparto. Perciò lei mi ha pregato... E benché non sia permesso, ma per umanità... - disse il guardiano ipocritamente.

Necliudov era un po' stupito che il carceriere addetto ai politici consegnasse dei messaggi addirittura nella prigione e quasi in vista di tutti; non sapeva ancora che costui, oltre che da carceriere, faceva anche la spia. Prese il biglietto e mentre usciva dalla prigione, lo lesse. Era scritto a matita, con carattere fermo e ortografia d'avanguardia, e diceva:

"Sapendo che frequentate il carcere e vi interessate a una detenuta della sezione criminale, avrei piacere di parlarvi.

Chiedete un colloquio con me. Ve lo concederanno. Vi dirò molte cose importanti per la vostra protetta, e per il nostro gruppo.

Vostra riconoscentissima - Viera Bogoducavskaia".

Viera Bogoducavskaia era maestra in un villaggio remoto della provincia di Navgorod, quando Necliudov s'era recato in quel villaggio con alcuni compagni per una caccia all'orso. Essa s'era rivolta a Necliudov chiedendogli del denaro che le consentisse di andare all'università. Necliudov aveva esaudito la sua richiesta e s'era poi dimenticato di lei.

E ora risultava che questa persona era una detenuta politica, e si trovava nella prigione! Probabilmente era venuta a conoscere la sua storia e perciò gli offriva i suoi servigi.

Come tutto era facile e semplice, prima! E adesso, invece, difficile e complicato.

Necliudov rievocò lucidamente e con un senso di piacere il giorno lontano in cui aveva conosciuto la Bogoducavskaia. Era stato prima del carnevale, in un villaggio sperduto a sessanta verste dalla ferrovia. Una caccia fortunata: due orsi uccisi. Avevano finito di pranzare e si disponevano a ripartire, quando il padrone dell'izba che li ospitava era venuto a dire che la figlia del sagrestano desiderava parlare al principe Necliudov.

- Carina? - qualcuno aveva domandato.

- Be', piantatela, - aveva detto Necliudov; poi, serio in viso, s'era alzato da tavola, si era asciugato la bocca e domandandosi sorpreso che cosa mai poteva voler da lui la figlia del sagrestano, era entrato nella capanna del padrone.

Nella stanza lo aspettava una ragazza con cappello di feltro e pellicciotto; un tipo segaligno, dal viso magro e brutto, in cui di bello non vi erano che gli occhi con le sopracciglia arcuate.

- Ecco, Viera Efrèmovna, parla con lui, - le aveva detto la vecchia; - questo è il principe in persona. Io me ne vado.

- In che posso esservi utile? - aveva domandato Necliudov.

- Io... io... Vedete, voi siete ricco, spendete il denaro per delle sciocchezze... per la caccia, lo so, - aveva cominciato la ragazza tutta confusa; - io, invece, non desidero che una cosa:

d'esser utile alla gente, ma non posso perché sono ignorante.

I suoi occhi erano sinceri, buoni, e tutta la sua fisionomia esprimeva una risolutezza e insieme una timidezza così commoventi che Necliudov, come a volte gli succedeva, s'era immedesimato, l'aveva capita e aveva avuto compassione di lei.

- Che posso fare per voi?

- Sono maestra. Vorrei frequentare l'università ma non mi lasciano. Anzi, non è che non mi lascino... soltanto, ci mancano i mezzi. Fatemi un prestito, quando avrò finito l'università, vi salderò il mio debito. Ho pensato: i ricchi uccidono gli orsi, fan bere i contadini... son tutte cose brutte. Perché non dovrebbero fare anche del bene? M'occorrono solo ottanta rubli. Ma se non volete, fa lo stesso, - aveva detto con un moto di collera.

- Al contrario, vi sono molto grato che mi offriate l'occasione...

Ve li porto subito, - aveva risposto Necliudov.

Fuori dall'izba, aveva trovato uno dei suoi amici che era stato ad ascoltare la loro conversazione. Senza rispondere agli scherzi dei compagni, aveva preso il denaro dalla borsa da viaggio e glielo aveva portato. - Vi prego, vi prego... non ringraziatemi. Io, piuttosto, devo ringraziare voi...

A Necliudov faceva ora piacere rievocare tutti quei ricordi: come per un filo non s'era bisticciato con un ufficiale che voleva volgere la cosa in uno scherzo di cattivo genere; come era stato difeso da un altro compagno che da quel giorno gli era diventato assai più caro. Ripensò alla caccia fortunata e allegra, e al senso di euforia che aveva provato ritornando di notte alla stazione. Le slitte a due cavalli, che procedevano silenziose in fila indiana, al piccolo trotto; la strada stretta che correva fra i boschi di abeti ora bassi ora alti, avvolti da falde compatte di neve. Nel buio, le sigarette accese brillavano come fiammelle rosse diffondendo un odore piacevole.

Ossip, il guardiacaccia, passò da una slitta all'altra sprofondando nella neve fino alle ginocchia; adattò le stanghe e raccontò degli alci, che in questa stagione vagano nella neve fonda e rodono la scorza dei pioppi tremuli. Raccontò anche degli orsi, in letargo nelle loro tane profonde, che soffiano coll'alito caldo attraverso gli spiragli.

Necliudov ricordò ogni cosa, ma soprattutto la sensazione beata del sentirsi sano, forte e spensierato. I polmoni, tendendo il pellicciotto, respirano l'aria gelata; sulla faccia, spruzzi di neve che il giogo arcuato della slitta scuote dai rami; il corpo è caldo, il viso fresco, l'anima sgombra di pensieri, di rimorsi, di paure, di desideri... Com'era bello! E adesso? Mio Dio, com'era tutto penoso e difficile...

Di certo Viera Efrèmovna era una rivoluzionaria e l'avevano messa in prigione per la sua attività politica. Bisognava vederla, soprattutto perché poteva indicare il modo di giovare alla Màslova.

 

 

 

50.

 

Il mattino seguente quando si svegliò, Necliudov ricordò gli avvenimenti della vigilia ed ebbe paura.

Ma, nonostante lo sgomento, era più che mai deciso a proseguire l'opera iniziata.

Cosciente di questo suo dovere, uscì di casa per recarsi da Màsliennikov: voleva chiedergli il permesso di parlare nella prigione, non solo con la Màslova, ma anche con la vecchia Mensciòva e col figlio, dei quali la Màslova l'aveva pregato di occuparsi. E poi avrebbe anche cercato di ottenere un colloquio con la Bogoducavskaia, che poteva essere utile alla Màslova.

Necliudov conosceva Màsliennikov da un pezzo, fin dai tempi del reggimento; Màsliennikov, allora, ne era il tesoriere. Era un ufficiale d'indole assai bonaria e ossequiente alla legge, per il quale non esistevano che il reggimento e la famiglia imperiale.

Ora Necliudov lo ritrovava amministratore nel governatorato di provincia; aveva infatti sposato una donna ricca e decisa, che l'aveva costretto a lasciare la carriera militare per quella civile.

Essa si burlava di lui e lo accarezzava come se fosse un animale addomesticato. L'inverno prima Necliudov era stato una sera a casa loro, ma quella coppia gli era sembrata così poco interessante che non vi era più ritornato.

Màsliennikov s'illuminò tutto alla vista di Necliudov. Aveva la stessa faccia grassa e rossa, la stessa corpulenza e la stessa tenuta elegantissima di quand'era ufficiale. Allora vestiva sempre un'uniforme irreprensibile attillata al petto e alle spalle secondo l'ultima moda, anche se si trattava dell'uniforme di servizio. Ora portava una divisa civile dal taglio altrettanto impeccabile, che gli fasciava il corpo ben nutrito e il petto largo. Era in bassa tenuta. Nonostante la differenza degli anni - Màsliennikov era sulla quarantina - si davano del tu.

- Ma bene; grazie d'esser venuto. Andiamo da mia moglie. Ho giusto dieci minuti liberi prima di andar in seduta. Il principale è assente. Faccio io da governatore! - disse con una compiacenza che non gli riuscì di nascondere .

- Son qua da te per un favore.

- Di che si tratta? - domandò Màsliennikov, assumendo ad un tratto un tono inquieto e leggermente severo, come di chi si mette in guardia.

- Nel carcere si trova una persona che mi sta molto a cuore, - alla parola carcere la faccia di Màsliennikov si fece ancor più severa; - vorrei poterla vedere non nel parlatorio comune, ma negli uffici e più spesso di quanto sia consentito. Mi hanno detto che dipende da te.

- Naturalmente, "mon cher", per te sono pronto a far qualsiasi cosa, - disse Màsliennikov posandogli tutte e due le mani sulle ginocchia, come per attenuare la propria maestà; - questo è possibile, ma, vedi, io sono il califfo di un'ora...

- Allora puoi darmi il permesso di vederla?

- E' una donna?

- Sì.

- Perché è stata condannata? Per avvelenamento. Ma è un errore giudiziario.

- Già. Eccoti la vera giustizia... "Ils n'en font point d'autres" (1), disse non si sa perché in francese. - Lo so che non sei del mio parere ma che farci, "c'est mon opinion bien arrêtée" (2), - soggiunse, ripetendo il giudizio che, espresso in diverse forme, da un anno leggeva in un giornale retrogrado conservatore. - Lo so che tu sei liberale.

- Non so se sono liberale o che cos'altro, - disse sorridendo Necliudov, che si domandava sempre con stupore come mai tutti volessero ascriverlo per forza a qualche partito, e che c'entrasse il liberalismo col fatto di aver egli affermato in tribunale che di fronte alla giustizia tutti gli uomini sono uguali, che non bisogna torturare e battere nessuno, a maggior ragione chi non ha subito condanne. - Non lo so se sono un liberale o no ma so soltanto che i tribunali di oggi, per cattivi che siano, sono sempre meglio di quelli di una volta.

- E chi hai per avvocato?

- Fanarin.

- Ahi, Fanarin! - esclamò Màsliennikov con una smorfia. Non poteva dimenticare che l'anno prima quel Fanarin l'aveva citato come teste in un processo, e con la massima garbatezza l'aveva messo in ridicolo per una buona mezz'ora davanti a tutti.

- Non ti consiglierei di avere a che fare con lui. Fanarin... est un homme taré (3).

- Ho un altro favore da chiederti, - disse Necliudov senza rispondergli. - Molto tempo fa ho conosciuto una ragazza... una maestra... E' una creatura che fa molta pena. Ora si trova anche lei in prigione e vorrebbe vedermi. Puoi darmi un permesso anche per lei?

Màsliennikov piegò leggermente la testa di fianco e ci pensò su per un momento.

- Una politica?

- Sì, così m'han detto.

- Ecco vedi, i permessi per i politici si danno solo ai parenti, ma a te rilascerò un lasciapassare generale. "Je sais que vous n'abuserez pas" (4). Come si chiama la tua "protégée" (5)?

Bogoducavskaia? "Elle est jolie"? (6) - "Hideuse" (7).

Màsliennikov scosse la testa, disapprovando; s'avvicinò alla tavola e con piglio sicuro scrisse su un foglio intestato: "Al latore della presente, principe Dmitri Ivànovic' Necliudov, è concesso un colloquio nella direzione del carcere con la borghese Màslova, ivi detenuta e con l'assistente medico Bogoducavskaia", e scritto il permesso vi pose una firma tutta svolazzante.

- Vedrai che ordine c'è là. E non è una cosa facile da ottenere, con la prigione piena zeppa, soprattutto di gente che deve andare ai lavori forzati! Ma io sono molto severo nella sorveglianza e questo lavoro mi piace. Vedrai tu stesso, ci si trovan tutti molto bene e sono contenti. Basta sapere come trattarli. Per esempio, giorni fa c'è stato un incidente... un caso d'insubordinazione. Un altro l'avrebbe chiamata sommossa e avrebbe infierito su quei disgraziati. Da noi invece è andato tutto benone. Da una parte occorre zelo e sollecitudine, dall'altra fermezza e autorità, - egli disse stringendo il pugno bianco e paffuto, ornato al dito da un turchese, e scoprendo nel gesto il polsino candido e inamidato della camicia, chiuso da un bottone d'oro. - Zelo e sollecitudine, fermezza e autorità...

- Be', questo non lo so, - rispose Necliudov; - ci sono andato due volte e ho provato un gran senso di pena.

- Sai che cosa? Dovresti trovarti con la contessa Passèk, - continuò Màsliennikov, che aveva preso l'aire, - si è data anima e corpo a questo genere di attività. Elle fait beaucoup de bien (8) Grazie a lei e forse anche a me, lo dico senza falsa modestia, si è riusciti a modificare le cose in tal modo da eliminare gli orrori di una volta - tutti i detenuti stanno benone. Vedrai. In quanto a Fanarin, io non lo conosco personalmente, e poi, data la mia posizione sociale, le nostre strade non s'incontrano... ma è senz'altro un uomo che non val nulla... e poi si permette di dire in tribunale certe cose, certe cose...

- Be', ti ringrazio, - disse Necliudov prendendo il foglio, e senza più ascoltarlo, si accomiatò dal suo ex camerata.

- E da mia moglie non passi?

- No, scusami, ora non ho tempo.

- Ma che dici, questa non me la perdonerà, - esclamò Màsliennikov, accompagnando Necliudov fino alla prima svolta della scala, com'era solito fare con le persone non proprio importantissime ma di secondo piano, fra le quali includeva Necliudov. - Te ne prego, passaci almeno per un minuto...

Ma Necliudov fu irremovibile; e mentre il domestico e il portiere gli porgevano premurosi il cappotto e la canna e gli aprivano il portone, sorvegliato all'esterno da una guardia urbana, egli ripeté che gli era assolutamente impossibile.

- Be', allora per piacere vieni giovedì; è il suo giorno di ricevimento. Glielo dirò! - gli gridò dietro Màsliennikov dalla scala.

 

 

 

NOTE:

  1. Non ne fanno altra.
  2. E' la mia opinione ben radicata.
  3. E' un uomo tarato.
  4. So che non ne abuserete.
  5. Protetta.
  6. E' bella?
  7. Orribile.
  8. Fa molta beneficenza.

 

 

 

51.

 

Uscendo dalla casa di Màsliennikov, Necliudov si fece condurre direttamente alla prigione; e subito si avviò all'appartamento del direttore. Come già la prima volta egli udì il suono di un pianoforte scadente; ma invece della rapsodia, questa volta erano gli studi di Clementi, eseguiti con grande vigoria, esattezza e agilità. La cameriera dall'occhio bendato che gli aprì, disse che il capitano era in casa e fece accomodare Necliudov in un salottino, il cui arredamento era costituito da un divano, una tavola e una grande lampada col paralume di carta rosa bruciato da una parte, posata su un centrino di lana fatto a maglia. Entrò il direttore con una faccia affaticata e triste.

- Prego, accomodatevi, che cosa desiderate? - domandò allacciandosi il bottone di mezzo dell'uniforme.

- Sono stato ora dal vice governatore ed ecco il permesso che mi ha rilasciato, - rispose Necliudov porgendo il foglio. - Vorrei vedere la Màslova.

- La Màslova? - ripeté il direttore che non aveva sentito bene a causa della musica.

- La Màslova.

- Già, già...

Il direttore s'alzò e s'avvicinò alla porta da cui si udivano i trilli di Clementi.

- Marussia, fermati almeno un momento! - egli disse con una voce che lasciava capire come quella musica fosse la croce della sua vita; - non si sente nulla.

Il pianoforte tacque; risuonarono dei passi riluttanti e qualcuno s'affacciò all'uscio.

Il direttore, con un senso come di sollievo per l'interruzione della musica, accese una grossa sigaretta di tabacco dolce e ne offrì un'altra a Necliudov. Questi la rifiutò.

- Dunque, vorrei vedere la Màslova.

- Oggi non è il caso che la vediate, - disse il direttore.

- Perché?

- Così. La colpa è vostra, - disse il direttore con un lieve sorriso. - Principe, non datele in mano dei soldi. Se volete, consegnateli a me. Saranno tutti per lei. Ieri dovete avergliene dati e lei si è procurata dell'acquavite. Impossibile eliminare questo guaio... Oggi ha preso una sbornia così solenne, che ha dato persino in escandescenze.

- Ma davvero?

- Come no! Ho dovuto prendere misure energiche... metterla in un'altra camerata. Di solito è una donna docile, ma per piacere non datele più soldi. E' gente che...

Necliudov rivide chiaramente la scena del giorno prima e di nuovo si sentì sgomento.

- E la Bogoducbvskaia, la detenuta politica, posso vederla? - domandò, dopo una pausa.

- Quella sì, - rispose il direttore. - E tu che vuoi? - si rivolse a una bambina di cinque o sei anni che era entrata nella stanza e con la testa rivolta a Necliudov in modo da non abbandonarlo con gli occhi, si avvicinava al padre.

- Bada, cascherai! - disse il direttore sorridendo nel vedere come la bambina, che non guardava dove metteva i piedi, avesse inciampato in un tappetino, e corresse verso di lui.

- Allora, se si può, io andrei.

- Andiamo pure, - disse il direttore, abbracciando la bambina che continuava a guardare Necliudov, poi si alzò e scostata la piccola con un gesto pieno di tenerezza, uscì nell'anticamera.

La ragazza con la benda sull'occhio non gli aveva ancora infilato il cappotto, che di nuovo trillarono le note di Clementi.

- Andava al Conservatorio, ma ora ci sono dei disordini. Ha un gran talento, - disse il direttore mentre scendeva le scale. - Vorrebbe fare la carriera concertistica.

Il direttore e Necliudov s'avviarono verso la prigione.

All'avvicinarsi del direttore il portello si aprì immediatamente.

I carcerieri, con la mano al berretto, lo seguivano con gli occhi.

Nell'ingresso incontrarono quattro uomini rapati per metà che portavano dei secchi pieni, e che, vedendolo, si scostarono impauriti. Uno si contorse tutto e prese un'aria cupa, mandando lampi dagli occhi neri.

- Naturalmente il talento va perfezionato, non bisogna soffocarlo... ma in un piccolo appartamento, sapete, a volte è pesante... - continuò il direttore senza prestare la minima attenzione a quei detenuti, e, trascinando le gambe stanche, entrò con Necliudov nella stanza delle riunioni.

- Chi desiderate vedere? - domandò il direttore.

- La Bogoducavskaia.

- E' nel reparto della torre. Vi toccherà aspettare, - si rivolse a Necliudov.

- E non potrei intanto parlare col Mensciòv? Sapete, quello accusato con la madre d'incendio doloso...

- E' nella cella 21. Perché no? si possono far chiamare.

- E non potrei invece vedere il Mensciòv nella sua cella?

- Ma qui starete più tranquillo...

- No, m'interessa.

- Bell'interesse avete scoperto!

Intanto da una porta era entrato il vice direttore, un ufficiale elegantissimo. - Accompagnate per favore il principe dal Mensciòv.

Cella 21, - disse il direttore all'ufficiale, - e poi in direzione. Io intanto farò venire la... come si chiama?

- Viera Bogoducòvskaia, - rispose Necliudov.

L'ufficiale era un giovane biondo, coi baffi incerati, che diffondeva intorno a sé un profumo di acqua di Colonia ai fiori.

- Prego, - si rivolse a Necliudov con un sorriso affabile - V'interessate del nostro stabilimento?

- Sì, e anche di quest'uomo che, come mi hanno detto, è capitato qua senza nessuna colpa.

L'ufficiale alzò le spalle.

- Sì, qualche volta capita, - disse con calma, dando cortesemente il passo all'ospite in un corridoio largo e puzzolente. - Ma capita anche che non dicano la verità. Prego!

Le porte delle camerate erano aperte e parecchi detenuti si trovavano nel corridoio. Rispondendo con un cenno lievissimo al saluto dei carcerieri, l'ufficiale guardava di traverso i detenuti, che strisciando lungo le pareti si affrettavano a rientrare nelle camerate, o si fermavano sulla soglia delle porte, mettendosi sull'attenti e accompagnando con lo sguardo il superiore, come soldati. L'ufficiale fece percorrere a Necliudov tutto il corridoio poi, attraverso una porta di ferro che lo sbarrava, lo introdusse in un altro corridoio, a sinistra. Questo secondo era ancor più buio e puzzolente del primo. Da tutte e due le parti, vi erano porte chiuse coi catenacci, e nelle porte le cosiddette spie, piccoli fori dal diametro di un paio di centimetri. Nel corridoio non si vedeva nessuno, all'infuori di un vecchio carceriere dalla faccia triste e arcigna.

- In che cella si trova il Mensciòv? - domandò il vice.

- L'ottava a sinistra.

- E queste sono occupate? - domanda Necliudov.

- Tutte tranne una.

 

 

 

52.

 

- Posso dare un'occhiata?

- Prego! - disse il vice direttore con un sorriso affabile, e domandò qualcosa al carceriere.

Necliudov guardò attraverso uno spiraglio: un giovane alto con la barbetta nera, in camicia e mutande, camminava rapidamente avanti e indietro; sentendo frusciare alla porta, alzò gli occhi accigliandosi, senza interrompere il suo andirivieni.

Necliudov guardò da un'altra apertura. Il suo occhio incontrò una pupilla grande e spaventata, che spiava all'interno del medesimo buco; egli si affrettò ad allontanarsi.

Nella terza cella un omettino rannicchiato sul letto dormiva con la testa avvolta nella casacca.

Nella successiva un uomo pallido, dalla faccia larga, sedeva con la testa china sul petto, e i gomiti puntati sulle ginocchia. Al rumore dei passi rialzò il capo e si volse a guardare. Dal suo volto, ma più ancora dagli occhi che aveva grandi, traspariva una tristezza senza speranza. Evidentemente, non gli interessava affatto sapere chi guardava nella sua cella: chiunque fosse, egli non s'aspettava niente di buono da nessuno.

Necliudov provò un senso di paura. Smise di guardare e si avviò verso il numero 21, la cella di Mensciòv. Il carceriere infilò la chiave nella toppa e aprì. Un giovanotto muscoloso col collo lungo, la barbetta e gli occhi tondi e buoni, in piedi accanto alla cuccetta, fissava con la faccia impaurita quelli che entravano, mettendosi in fretta la casacca. Necliudov fu colpito soprattutto da quegli occhi tondi e buoni che correvano da lui al vice direttore, al carceriere, e viceversa, con espressione inquieta e interrogativa.

- Questo signore vuol farti qualche domanda sul tuo caso.

- Lo ringrazio molto...

- Sì, mi hanno parlato di voi... - disse Necliudov, inoltrandosi nella cella e fermandosi davanti alla finestra sporca, munita di sbarre; - ma avrei piacere di sentire da voi stesso come è andata.

Anche Mensciòv s'avvicina alla finestra e cominciò subito a parlare, dapprima timidamente, guardando il vice direttore, poi sempre più coraggioso. E quando l'ufficiale uscì dalla cella per dare alcuni ordini, la sua timidezza svanì del tutto. Aveva il linguaggio e i modi di un ragazzo di campagna onesto e semplice, e a Necliudov sembrava assai bizzarro udire quel racconto dalle labbra di un detenuto in cella, con l'uniforme infamante. Mentre ascoltava, Necliudov osservava la cuccetta bassa col pagliericcio, la finestra con le grosse sbarre di ferro, le pareti sudicie, umide e unte, il viso commovente e la figura di quel povero disgraziato contadino con la veste e i kotì dei reclusi. Si sentiva sempre più triste, non voleva credere che quanto gli raccontava quell'anima semplice fosse vero... Era proprio orribile che un uomo fosse stato preso, rivestito con l'uniforme della prigione e rinchiuso in quel luogo orrendo, senza alcun motivo, tranne che lui stesso era stato offeso... Eppure era ancora più orribile pensare che un racconto così sincero e bonario fosse un imbroglio o un'invenzione.

Dal racconto del giovane risultava che, immediatamente dopo il suo matrimonio, l'oste del villaggio gli aveva portato via la moglie.

Si era rivolto a tutte le autorità per ottenere giustizia: ma l'oste aveva comprato le autorità ed era stato assolto. Un giorno, Mensciòv s'era riportato a casa la moglie con la forza; il giorno seguente lei gli era scappata. Allora era andato a reclamarla.

L'altro gli aveva detto che la donna non c'era - benché lui, entrando, l'avesse vista - e gli aveva ingiunto d'andarsene.

Mensciòv non s'era mosso. L'oste con l'aiuto di un garzone l'aveva picchiato a sangue, e il giorno dopo il cortile dell'osteria s'era incendiato. Accusarono lui e sua madre: ma lui non era stato perché si trovava dal compare.

- Davvero non l'hai appiccato tu?

- Non ci pensavo neppure, signore. E' stato certamente lui, quel farabutto! Dicevano che aveva appena fatta l'assicurazione. E poi hanno incolpato me e mia madre; che eravamo andati a minacciarlo... E' vero che quella volta gliene ho dette di tutti i colori, non ne potevo proprio più. Ma in quanto all'incendio, quello non l'ho appiccato. E non ero sul posto quando ha cominciato a bruciare. E' stato lui a scegliere apposta il giorno che la mamma e io eravamo andati là. L'ha appiccato lui per riscuotere l'assicurazione, e poi la colpa l'ha data a noi.

Possibile?

- E' la verità, signore, lo giuro davanti a Dio. Siatemi padre! - e voleva buttarsi ai piedi di Necliudov, che faticò a trattenerlo.

- Giudicate voi. Rovinato senza aver fatto niente, - proseguì.

Improvvisamente le sue labbra tremarono; si mise a piangere e, rimboccate le maniche della casacca s'asciugò gli occhi con un lembo della camicia sporca.

- Finito? - domandò il vice direttore.

- Sì. Non disperatevi così, faremo tutto il possibile, - disse Necliudov, e uscì. Mensciòv stava ritto davanti alla porta, e il carceriere, per chiudere, dovette sbattergli l'uscio in faccia.

Mentre il carceriere tirava il catenaccio Mensciòv guardava attraverso lo spioncino.

 

 

 

53.

 

Tornando indietro per l'ampio corridoio - era l'ora della refezione e le camerate erano aperte - Necliudov, davanti a tutti quegli uomini in casacca giallastra, pantaloni larghi e ciabatte che lo guardavano avidamente, provava una sensazione complessa:

sentiva pietà per tutti quei detenuti, orrore e perplessità per coloro che li avevano arrestati e li tenevano in carcere, vergogna di se stesso, giacché poteva osservare quello spettacolo tranquillamente.

In un corridoio passò di corsa un detenuto e andò a bussare con la scarpa all'uscio di una camerata. Subito ne uscì un gruppetto di uomini che si misero sul passaggio di Necliudov, salutandolo.

- Vi supplico, Eccellenza... non so il vostro nome... fate che si decida la nostra sorte.

- Io non sono un superiore, non so nulla...

- Non importa, ditelo a qualcuno, alle autorità, a chi volete... - disse una voce indignata.

- Non abbiamo commesso niente di male ed è già il secondo mese che si vive a questo modo.

- Come? Perché? - domandò Necliudov.

- Ma così! Ci han messo in prigione. E' il secondo mese che siamo dentro e non sappiamo il perché.

- E' vero, è stato per un caso, - disse il vice direttore: - li han presi perché non avevano i documenti. Avremmo dovuto rimandarli nella provincia dove risiedono, ma là le carceri sono bruciate e l'amministrazione provinciale si è rivolta a noi perché li trattenessimo qui. Quelli delle altre province li abbiamo rispediti tutti, questi invece dobbiamo tenerli.

- Ma come, per così poco? - domandò Necliudov fermandosi davanti alla porta.

Una quarantina d'uomini in divisa di carcerati si affollò intorno a Necliudov e al vice direttore. Parecchie voci parlarono contemporaneamente. L'ufficiale li interruppe.

- Parli uno solo.

Dal gruppo si staccò un contadino alto, aitante, sulla cinquantina. Egli spiegò a Necliudov che tutti loro erano stati arrestati e messi in prigione, perché non avevano le carte in regola. Anzi le avevano, ma scadute da due settimane. Ogni anno scadevano, e nessuno aveva mai detto niente; questa volta, invece, li avevano fermati ed era ormai il secondo mese che li tenevano in prigione come delinquenti.

- Siamo muratori, tutti della stessa squadra. Dicono che la prigione della nostra provincia è bruciata. Ma di questo non abbiamo colpa noi. In nome di Dio, fateci questo piacere!

Necliudov ascoltava quasi senza capire le parole del bel vecchio.

La sua attenzione era concentrata su un grossissimo pidocchio grigio scuro, che strisciava tra i peli della guancia del bravo muratore.

- Ma come mai? Possibile per così poco? - disse Necliudov, rivolgendosi al vice direttore.

- Già, bisognerebbe mandarli nella prigione del luogo di residenza, - rispose l'ufficiale.

Aveva appena finito di parlare che dal gruppo si staccò un omettino, anche egli in divisa di recluso, che torcendo la bocca in una smorfia strana cominciò a raccontare come lì dentro li tormentassero per ogni nonnulla.

- Peggio dei cani... - diceva.

- Be', be', adesso non parlare troppo, chiudi il becco, se no sai...

- Che devo sapere? - ribattè l'ometto esasperato. - Siam forse colpevoli?

- Silenzio! - gridò il superiore, e l'ometto tacque.

"Ma è inaudito!", diceva fra sé Necliudov, uscendo dalla camerata, e si sentiva come staffilato da quei cento occhi che si incrociavano e lo inseguivano oltre la soglia.

- E' possibile che si tengano in prigione anche gli innocenti? - domandò Necliudov quando uscirono dal corridoio.

- Che vorreste fare? E inoltre, dicono un sacco di bugie. A sentir loro sono tutti innocenti, - disse il vice direttore.

- Ma questi lo son proprio davvero!

- Per costoro ammettiamolo pure. Però è tutta gente corrotta.

Senza severità non si ottiene nulla. Ci sono dei tipi intrattabili, di cui non ci si può assolutamente fidare. Ieri, per esempio, abbiamo dovuto punirne due.

- Come, punirne? - s'informò Necliudov.

- Con le verghe, per ordine superiore!

- Ma se la punizione corporale è stata abolita!

- Non per i detenuti privati dei diritti civili. In questo caso si può.

Necliudov ricordò la scena del giorno avanti, mentre aspettava nell'andito, e capì che la punizione aveva avuto luogo proprio durante la sua attesa. Provò più intenso che mai il sentimento che aveva già provato altre volte, mai però con tanta forza: un misto di curiosità, di affanno, di irresolutezza e di nausea morale, una nausea che rasentava quasi quella fisica.

Senza ascoltare il vice direttore e senza guardarsi intorno, si affrettò ad uscire dai corridoi e si diresse verso gli uffici. Il direttore c'era, ma, distratto da altre occupazioni, s'era scordato di far chiamare la Bogoducòvskaia. Se ne ricordò soltanto quando vide entrare Necliudov.

- La mando subito a chiamare... e voi intanto accomodatevi, - disse.

 

 

 

54.

 

L'ufficio era composto di due camere. Nella prima, che aveva due finestre sporche e una grossa stufa tutta scrostata, si vedeva in un angolo un'asta nera per misurare la statura dei detenuti e in un altro angolo - attributo indispensabile di tutti i luoghi di tortura - una grande immagine del Cristo. In questo locale c'erano alcuni carcerieri. Lungo le pareti della camera attigua, a gruppetti separati o a coppiette, sedevano una ventina di persone d'ambo i sessi che parlavano a bassa voce. Davanti a una finestra c'era una scrivania. Il direttore sedette alla scrivania e offrì a Necliudov una seggiola accanto a lui. Necliudov sedette e si mise a osservare la gente. La sua attenzione fu attratta anzitutto da un giovane dalla faccia simpatica, in giacchetta corta, che, ritto davanti a una donna dalle sopracciglia nere, non più giovane, le parlava gesticolando animatamente. Vicino sedeva un vecchio con gli occhiali turchini, intento ad ascoltare le parole di una giovane in abito di reclusa che egli teneva per la mano. Un ragazzo della scuola professionale guardava fissamente il vecchio con una espressione di spavento, e non gli toglieva gli occhi di dosso. Non lontano da loro, in un cantuccio, una coppia d'innamorati: lei coi capelli corti e un'aria energica, bionda, graziosa, giovanissima e vestita alla moda; lui un bell'adolescente dai lineamenti fini e i capelli ondulati, in giacca di guttaperca. Sedevano in un cantuccio e bisbigliavano, evidentemente innamorati cotti.

La più vicina alla scrivania era una donna dai capelli grigi, vestita di nero, certo una madre: si mangiava con gli occhi un giovane dall'aria di tisico, anche lui con la giacca di guttaperca, e avrebbe voluto parlare, ma le lacrime glielo impedivano; cominciava e si fermava. Il giovane teneva in mano un foglietto e non sapendo evidentemente che contegno tenere, lo piegava e lo sgualciva con aria irritata. Accanto a loro sedeva una bella ragazza robusta e colorita con gli occhi sporgenti, in abito grigio e mantellina. Seduta accanto alla donna in lacrime, le accarezzava teneramente una spalla. In quella giovinetta tutto era bello: le mani grandi e bianche, i capelli corti, ondulati, il naso e le labbra forti; ma l'incanto principale del suo viso consisteva negli occhi castani un po' sporgenti, pieni di bontà e di franchezza. All'entrare di Necliudov, i suoi begli occhi si distolsero dal volto della donna. I loro sguardi s'incontrarono, ma subito essa si voltò verso la madre e le disse qualcosa. Non lontano dalla coppietta innamorata, un uomo nero scarmigliato e con la faccia cupa, parlava aspramente a un visitatore senza barba che assomigliava a uno "skopèz".

Necliudov, seduto accanto al direttore, si guardava intorno, con intensa curiosità. Lo distrasse un bambinetto coi capelli corti che gli si avvicinò e con una vocina sottile gli disse:

- E voi chi aspettate?

Necliudov si stupì. Ma vista l'espressione grave e pensosa del bambino e i suoi occhi attenti e vivaci, gli rispose seriamente che aspettava una sua conoscenza.

- Vostra sorella?

- No, non è mia sorella, - rispose sorpreso Necliudov. - E tu con chi sei qui? - domandò poi a sua volta.

- Con la mamma... E' una politica... - rispose il bambino.

- Mària Pàvlovna, prendete Kolia! - disse il direttore, considerando probabilmente illegale quella conversazione tra Necliudov e il bambino.

Mària Pàvlovna, la bella ragazza dagli occhi sporgenti che aveva attirato l'attenzione di Necliudov, si alzò in tutta la sua alta statura e con un passo forte, lungo, quasi maschile, s'avvicinò a Necliudov e al bambino.

- Vi sta forse domandando chi siete? - disse a Necliudov con un lieve sorriso e guardandolo dritto negli occhi .

La semplicità del suo sguardo esprimeva chiaramente che i suoi rapporti con chiunque sarebbero stati sempre e soltanto affettuosi e fraterni.

- Lui ha sempre bisogno di saper tutto! - essa disse, e sorrise al bambino in un modo così buono e gentile che tutti e due, il bambino e Necliudov, non poterono far altro che ricambiarle il sorriso.

- Sì, mi domandava per chi ero venuto.

- Mària Pàvlovna, non è permesso parlare con gli estranei... Lo sapete anche voi! - disse il direttore.

- Va bene, va bene, - rispose lei, e presa con la sua mano lunga e bianca la mano di Kolia che non l'abbandonava con gli occhi, ritornò dalla madre del tisico.

- Di chi è quel bambino? - domandò Necliudov al direttore.

- Di una detenuta politica. E' nato in prigione, - rispose il direttore con una certa compiacenza, quasi volesse far notare una rarità del suo stabilimento.

- Ma davvero?

- Sì, e ora andrà in Siberia con la madre.

- E la ragazza?

- Non posso rispondervi, - disse il direttore scrollando le spalle. - Ma ecco la Bogoducavskaia.

 

 

 

55.

 

Dalla porta di fondo entrò con passo agile Viera Efrèmovna, piccola, magra, gialla, coi capelli corti e gli occhi grandissimi pieni di bontà.

- Oh, grazie d'esser venuto! - disse a Necliudov stringendogli la mano.

- Vi ricordate chi sono? Sediamoci.

- Non pensavo di trovarvi in questo posto.

- Oh, ci sto benissimo... davvero. Tanto bene che non desidero niente di meglio, - disse Viera Efrèmovna alzando su Necliudov, con la sua solita aria spaventata, i suoi occhi immensi, tondi, pieni di bontà, e girando il collo giallognolo, lungo e nodoso che usciva dal collettino misero, sgualcito e sporco della camicetta.

Necliudov le domandò come mai si trovasse in quelle condizioni, ed essa cominciò, con molta vivacità, a raccontargli le sue vicende.

Il suo discorso era farcito di parole straniere sulla propaganda, la disorganizzazione, i gruppi, le sezioni e le sottosezioni.

Era evidentemente convinta che fossero cose risapute da tutti, mentre Necliudov non ne aveva mai sentito parlare. Credendo di fargli piacere e d'interessarlo, gli raccontava i segreti della lotta per la libertà, ed egli, invece, le guardava il collo striminzito, i capelli radi e spettinati e si domandava con stupore come mai essa avesse fatto quelle cose e le raccontasse.

Provava per lei un senso di compassione, diverso però da quello che gli aveva ispirato il contadino Mensciòv, rinchiuso senza colpa né peccato in una lurida prigione. Lei gli faceva pena soprattutto per il guazzabuglio d'idee che aveva nella testa.

Credeva di essere un'eroina, pronta a sacrificare la vita per il trionfo della causa, e nello stesso tempo difficilmente sarebbe stata in grado di spiegare in che cosa consistesse questa causa e come avrebbe potuto trionfare.

La faccenda di cui Viera Efrèmovna voleva parlare con Necliudov riguardava una sua compagna, una certa Sciustova. Costei, che però non apparteneva al loro gruppo, era stata acciuffata cinque mesi prima e rinchiusa nella fortezza di Pietropavlovsk, unicamente perché trovata in possesso di libri e di documenti che le erano stati affidati. Viera Efrèmovna si riteneva, in parte, responsabile dell'arresto della Sciustova e supplicava Necliudov, che aveva molte relazioni, di far tutto il possibile per farla rimettere in libertà.

E poi voleva anche pregarlo di ottenere per un certo Gurkievic', pure lui detenuto nella fortezza di Pietropavlovsk, un colloquio coi genitori e alcuni libri scientifici, che gli erano indispensabili per studiare.

Necliudov promise che avrebbe cercato di fare tutto il possibile, la prima volta che fosse andato a Pietroburgo.

Di se stessa, Viera Efrèmovna raccontò che, finita la scuola di levatrice, s'era iscritta al partito dei populisti (1), e aveva lavorato con loro. Dapprima tutto era andato bene; si compilavano proclami, si faceva la propaganda nelle fabbriche, ma poi avevano arrestato un esponente del partito, sequestrato alcuni documenti compromettenti, e l'uno dopo l'altro li avevano messi dentro tutti.

- Han preso anche me e ora mi mandano in Siberia... - così concluse la sua storia. - Ma questo non è nulla. Mi sento egregiamente. Mi sento come nell'Olimpo, disse, sorridendo d'un sorriso che faceva pena.

Necliudov s'informò della ragazza con gli occhi sporgenti. Viera Efrèmovna gli spiegò che era la figlia di un generale, da molto tempo militante nelle file del partito rivoluzionario. L'avevano messa in prigione perché s'era addossata la colpa di aver sparato a un gendarme. Abitava in una casa di cospiratori, nella quale c'era anche una tipografia. Una notte che la polizia s'era presentata con un mandato di perquisizione, gli inquilini della casa, decisi a resistere, avevano spento la luce e s'eran messi a distruggere i documenti compromettenti. E quando la polizia riuscì ad irrompere nella casa, uno dei cospiratori sparò una revolverata e un gendarme fu ferito a morte.

Durante l'inchiesta per scoprire chi aveva sparato il colpo, la ragazza disse che era stata lei, quantunque non avesse mai tenuto in mano una rivoltella e fosse incapace di far male a una mosca.

La cosa era rimasta così, ed essa ora andava in Siberia.

- Una figura bella, altruistica... - disse Viera Efrèmovna.

La terza cosa di cui voleva parlare, concerneva la Màslova. Anche lei sapeva, come tutti, lì dentro, la storia della Màslova e i rapporti di Necliudov con lei; gli consigliò di farle ottenere il trasferimento nel reparto dei politicio, perlomeno, nell'infermeria dell'ospedale, dove in quel momento c'erano molti malati e occorreva del personale in soprannumero.

Necliudov la ringraziò del consiglio e disse che avrebbe cercato di avvalersene.

 

 

 

NOTE:

  1. Terroristi appartenenti a movimento segreto della Naròdnaia Volia (La libertà popolare).

 

 

 

56.

 

Il colloquio fu interrotto dal direttore che, alzatosi in piedi, annunciò che l'ora era passata e bisognava andarsene. Necliudov s'alzò, salutò Viera Efrèmovna e si avviò all'uscita. Ma sulla soglia della stanza si fermò, curioso di vedere quel che avveniva là dentro.

- Signori, è l'ora, è l'ora! - diceva il direttore continuando ad alzarsi e a sedersi.

Il richiamo del direttore aveva risvegliato in tutti i presenti, tanto nei reclusi quanto nei visitatori, una grande animazione, ma nessuno accennava a volersene andare. Alcuni si erano alzati e continuavano a parlare in piedi. Altri chiacchieravano senza neppure alzarsi. Qualcuno cominciava a salutare e a piangere. Più di tutti era commovente la madre del tisico.

Il giovane sgualciva la carta che aveva in mano con una faccia sempre più cattiva, tanto grande era lo sforzo che faceva per non lasciarsi contagiare dal dolore della madre. E questa, all'udire che bisognava separarsi, gli aveva posato la testa sulla spalla e singhiozzava, tirando sù col naso. La ragazza con gli occhi sporgenti, che involontariamente Necliudov seguiva con lo sguardo, stava in piedi davanti alla madre disperata e le diceva qualcosa per consolarla. Il vecchio dagli occhiali scuri, in piedi, teneva per mano sua figlia e approvava col capo le sue parole. I due giovani innamorati s'erano alzati e si tenevano per le mani, guardandosi negli occhi senza parlare.

- Quei due sì che son allegri, - disse, indicando la coppietta, il giovanotto in giacchetta corta che accanto a Necliudov seguiva con lui la scena del commiato.

Sentendo sopra di sé gli sguardi di Necliudov e del suo vicino, il giovane innamorato dalla giacchetta di guttaperca e la sua graziosa ragazza bionda, tenendosi saldamente per le mani, si piegarono all'indietro, e, ridendo, incominciarono a girare in tondo.

- Si sposano questa sera, qui nella prigione, e lei lo seguirà in Siberia, - disse il giovanotto.

- Lui chi è?

- Un condannato ai lavori forzati. Che almeno loro si divertano, se no sarebbe troppo triste! - soggiunse il giovanotto in giacchetta, mentre ascoltava i singhiozzi della madre del tisico.

- Signori! Vi prego, per favore! Non costringetemi a prendere provvedimenti energici, - disse il direttore, continuando a ripetersi. - Sù, dunque, per favore! - diceva in tono fiacco e irresoluto . - Che storie sono? L'ora è passata da un pezzo! Ma così è impossibile! Lo dico per l'ultima volta, - ripeteva malinconicamente, accendendo e spegnendo la sua sigaretta Maryland. Si capiva che per quanto speciosi, vecchi e abituali siano gli argomenti di cui certi uomini si valgono per tormentarne altri, senza per questo sentirsi responsabili, il direttore non poteva far a meno di considerare se stesso uno degli artefici dell'angoscia che regnava in quella stanza. E si capiva che ciò gli pesava moltissimo.

Alla fine i reclusi e i visitatori cominciarono a separarsi, dirigendosi gli uni verso la porta interna, gli altri verso quella d'uscita.

Passarono gli uomini in giacca di guttaperca, il tisico e l'uomo nero scarmigliato; scomparve anche Mària Pàvlovna col bambino che era nato in carcere.

Poi passarono i visitatori. Camminando pesantemente, se ne andò il vecchio dagli occhiali scuri e dietro a lui anche Necliudov.

- Sicuro... strani sistemi, - disse, come riprendendo il discorso interrotto, il giovane loquace, mentre scendeva le scale con Necliudov. - Per fortuna che il capitano è un buon uomo, non si attiene al regolamento. Riescono a vuotare il sacco, si alleggeriscono l'anima...

Quando Necliudov, chiacchierando con Medinzev - così s'era presentato il giovane loquace - giunse nell'andito, gli si avvicinò il direttore con una faccia molto stanca.

- Allora, se volete vedere la Màslova, venite domani.

Evidentemente ci teneva ad essere cortese con Necliudov.

- Benissimo, - questi rispose, e si affrettò ad uscire. Gli sembravano terribili le immeritate sofferenze di Mensciòv, e non tanto quelle fisiche quanto il dubbio e la sfiducia nel bene e in Dio che egli doveva certamente provare vedendo con quanta crudeltà gli uomini lo tormentavano senza alcun motivo; terribili il disonore e i tormenti inflitti a quelle decine di disgraziati la cui unica colpa era di non aver le carte in regola; terribili quei carcerieri ottusi, intenti a tormentare i loro fratelli e convinti di compiere un lavoro onesto e importante. Ma più terribile ancora la figura del buon direttore, già in età e di salute malferma, che doveva separare la madre dal figlio, il padre dalla figlia, creature anche loro come lui e i suoi ragazzi.

"Perché?", si domandava Necliudov, al culmine di quella sensazione di nausea morale, assai vicina alla nausea fisica, che s'impadroniva di lui quando visitava la prigione. Ma non trovò risposta.

 

 

 

57.

 

Il giorno seguente Necliudov si recò dall'avvocato e gli espose il caso Mensciòv, pregandolo di assumerne la difesa. L'avvocato lo ascoltò e rispose che avrebbe esaminato la pratica, e se le cose stavano davvero come diceva Necliudov, il che era assai attendibile, avrebbe assunto la difesa senza alcun compenso.

Necliudov, fra l'altro, raccontò all'avvocato la storia dei centotrenta uomini in prigione per un malinteso e gli domandò da chi ciò dipendeva e di chi era la colpa. L'avvocato taceva, volendo evidentemente dare una risposta precisa.

- Di chi è la colpa? Di nessuno, - disse risoluto. - Se lo domandate al procuratore, vi dirà che è del governatore, se lo chiedete al governatore, vi dirà che è del procuratore. La colpa!

non è di nessuno.

- Vado subito a parlarne a Màsliennikov.

- Ma no, è perfettamente inutile, - obiettò sorridendo l'avvocato.

- E' un tale... non vi è parente né amico, nevvero? - un tale, se mi passate il termine, un tale tanghero e nello stesso tempo una tale canaglia...

Necliudov, ricordando quel che Màsliennikov gli aveva detto dell'avvocato, non rispose nulla; salutò Fanarin e si fece condurre da Màsliennikov.

A Màsliennikov doveva chiedere due cose: la prima riguardava il trasferimento della Màslova all'infermeria, e la seconda, i centotrenta operai trattenuti in carcere senza motivo.

Per quanto gli pesasse di dover chiedere un piacere a una persona che non stimava, era l'unico modo di raggiungere lo scopo e bisognava servirsene.

Avvicinandosi alla casa di Màsliennikov, Necliudov vide davanti all'ingresso alcuni equipaggi - calessi, landò e carrozze - e si ricordò che quello era giusto il giorno di ricevimento della moglie di Màsliennikov: ricevimento al quale era stato pregato di intervenire. Quando vi giunse, davanti al portone s'era fermata una carrozza, e un domestico, con la mantellina e una coccarda sul cappello, faceva salire i gradini dell'ingresso a una signora che sollevava lo strascico, scoprendo le esili caviglie velate di nero e un paio di scarpette. Fra gli equipaggi egli riconobbe il landò chiuso dei Korciaghin. Il cocchiere rubicondo e canuto si tolse il cappello con la deferenza dovuta a un signore che conosceva particolarmente bene. Necliudov non fece in tempo a domandare al portiere se Micail Ivànovic' - era il nome di Màsliennikov - era in casa, che questi comparve sulla scala ricoperta di tappeti, accompagnando un ospite di molto riguardo, uno di quelli che egli era solito accompagnare non solo fino al primo pianerottolo ma proprio fino ai piedi della scala. Questo personaggio ragguardevole, un alto funzionario dell'esercito, parlava in francese di una lotteria pro asili che si era organizzata in città, e la definiva un'occupazione ottima per le signore: - Si divertono e intanto raccolgono quattrini! "Qu'elles s'amusent et que le bon Dieu les bénisse" (1)... Ah, Necliudov, buongiorno!

Come mai da un pezzo non vi si vede? "Allez présenter vos devoirs a Madame" (2). Ci sono anche i Korciaghin. E Nadine Bukshevden.

"Toutes les jolies femmes de la ville" (3), - egli disse ergendo le spalle militaresche, mentre infilava il cappotto che il suo splendido domestico tutto gallonato d'oro gli porgeva. - "Au revoir, mon cheri". - Strinse ancora la mano a Màsliennikov.

- Bene, andiamo di sopra, come sono contento! - esclamò Màsliennikov eccitato, afferrando Necliudov sotto il braccio e trascinandolo su in fretta, nonostante la sua pinguedine.

Màsliennikov era in uno stato di felice esaltazione per la cortesia che il personaggio illustre gli aveva usato. Ogni attenzione di questo genere suscitava in lui un entusiasmo simile a quello di un cagnolino affettuoso quando il padrone lo accarezza, gli dà qualche colpetto, lo gratta dietro le orecchie:

il cagnolino dimena la coda, si accuccia, striscia, abbassa le orecchie e corre intorno freneticamente. Altrettanto era pronto a fare Màsliennikov. Non notava l'espressione seria del viso di Necliudov, non ascoltava le sue parole e lo trascinava energicamente verso il salotto. Impossibile resistergli, e Necliudov dovette seguirlo.

- Gli affari dopo. Ti prometto di fare tutto quello che vorrai, - diceva Màsliennikov a Necliudov attraversando la sala. - Avvertite la generalessa che c'è il principe, - disse, passando, ad un domestico.

Costui a passi veloci li raggiunse e li superò.

- "Vous n'avez qu'a ordonner" (4)... Ma mia moglie bisogna assolutamente che tu la veda. Ho già avuto il fatto mio, per non averti portato l'altra volta.

Quand'essi entrarono, il lacché l'aveva già annunciato. Anna Ignàtievna, la vice governatrice o la generalessa, come lei amava farsi chiamare, salutò Necliudov con un sorriso smagliante, da dietro i cappelli e le teste della gente che attorniava il suo divano. Dalla parte opposta della sala, alcune signore sedevano alla tavola del tè, circondate da un gruppo di ufficiali e di funzionari in piedi, e il suono delle loro voci si confondeva in un brusio incessante.

- "Enfin"! Ma non ne volete sapere di noi? In che cosa vi abbiamo offeso?

Con queste parole, che lasciavano supporre fra lei e Necliudov una intimità non mai esistita, Anna Ignàtievna accolse il nuovo venuto.

- Vi conoscete? Madame Bieliàvskaia, Micaìl Ivànovic' Cernòv...

Sedetevi più vicino.

- Missy, "venez donc à notre table. On vous apportera votre thé" (5) ... E voi... - si rivolse all'ufficiale che parlava con Missy, di cui evidentemente aveva dimenticato il nome, - venite qua per favore. Principe, volete il tè?

- No, non sono assolutamente del vostro parere, lei semplicemente non lo amava... - diceva una voce femminile.

- Ma amava i pasticcini.

- I soliti scherzi sciocchi, - interloquì ridendo un'altra signora col cappello alto, tutta risplendente di sete, ori e pietre preziose.

- "C'est excellent" questi biscottini... e leggeri. Datemene ancora.

- E allora, partite presto?

- Oggi è ormai l'ultimo giorno. Per questo siamo venute.

- Che primavera incantevole! Si sta così bene, ora, in campagna...

Missy, in cappello e con un abito scuro a righe che fasciava a pennello la sua figura sottile, come se fosse nata in quel vestito, era molto bella.

Arrossì, vedendo Necliudov.

- Pensavo che foste partito! - gli disse.

- Quasi partito, - rispose Necliudov. - Mi trattengono gli affari.

Anche qui sono venuto per affari.

- Andate a trovare la mamma. Ha molta voglia di vedervi... - Sentì di mentire e indovinando che Necliudov capiva la bugia, arrossì ancor di più.

- Non credo di averne il tempo, - rispose cupo Necliudov, fingendo di non accorgersi del suo rossore.

Missy, stizzita, aggrottò le sopracciglia, scrollò le spalle e si rivolse all'elegante ufficiale che le prese la tazza vuota e, inciampando con la sciabola nelle poltrone, la portò valorosamente sopra un'altra tavola.

- Anche voi dovete sacrificarvi per l'asilo.

- Non ho la minima intenzione di rifiutare, ma ci tengo a conservare tutta la mia generosità per la lotteria. Lì mi mostrerò in tutta la mia grandezza.

- Be', state attento... - si udì una voce che rideva con palese ipocrisia.

Il giorno di Anna Ignàtievna era brillantissimo e la padrona di casa al colmo della felicità.

- Mika mi ha detto che vi interessate alle prigioni. Vi capisco benissimo, - essa disse a Necliudov. - Mika - cioè Màsliennikov, il suo grosso marito - potrà avere un mucchio di difetti, ma lo sapete bene com'è. Tutti quei disgraziati son come figli suoi. Non li considera che così. "Il est d'une bonté"...

S'interruppe non trovando la parola adatta per esprimere la "bonté" di quel suo marito, per ordine del quale si fustigava la gente... E ad un tratto, sorridendo, si volse verso una vecchia rugosa con nastri lilla che entrava in quel momento.

Dopo aver fatto qualche chiacchiera superficiale, come volevano le convenienze, Necliudov s'alzò e s'avvicinò a Màsliennikov.

- Allora, per favore, mi puoi ascoltare?

- Ah, sì! Be', che c'è? Andiamo di qua.

Entrarono in un piccolo gabinetto giapponese e sedettero vicino alla finestra.

 

 

 

NOTE:

  1. Si divertano e il buon Dio li benedica.
  2. Andate a presentare i vostri omaggi alla Signora.
  3. Tutte le belle donne della città.
  4. Avete solo da comandare.
  5. Missy, venite alla nostra tavola: vi serviranno il tè.

 

 

 

58.

 

- Dunque, "je suis à vous" (1). Vuoi fumare? Però aspetta, prima che combiniamo qualche guaio... - egli disse, e portò un posacenere. - Dunque.

- Ho da chiederti due favori.

- Sentiamo.

La faccia di Màsliennikov si fece lunga e triste. Ogni traccia di quell'eccitazione del cagnolino che il padrone ha grattato dietro le orecchie svanì completamente. Dal salotto giungevano alcune voci. Una voce di donna diceva: "jamais, jamais je ne croirai (2)", e un'altra d'uomo, all'estremità opposta, raccontava qualcosa ripetendo sempre: "la comtesse Voronzòv" e "Victòr Apraksin". Da un'altra parte giungevano soltanto rumori di voci e di risa. Màsliennikov ascoltava con un orecchio quel che avveniva nel salotto, e con l'altro Necliudov.

- Si tratta ancora della solita donna, - disse Necliudov.

- Sì, condannata ingiustamente. Lo so, lo so.

- Vorrei pregarti di farla trasferire all'infermeria dell'ospedale, come inserviente. M'han detto che si può.

Màsliennikov strinse le labbra e rifletté.

- Non so se sarà possibile! - rispose. - Ma m'informerò e domani ti telegraferò.

- M'han detto che ci son molti malati e che occorre altro personale.

- Ma sì; ma sì. In ogni caso ti darò una risposta.

- Te ne prego, - disse Necliudov.

Giunse dal salotto una risata generale, spontanea.

- E' certo Victòr... - disse Màsliennikov, sorridendo; - quand'è in vena è straordinariamente spiritoso.

- E poi, - disse Necliudov - ci sono centotrenta persone in prigione soltanto perché i loro documenti sono scaduti. E' già un mese che sono dentro!

E spiegò il motivo per cui li tenevano in prigione.

- Come hai fatto a saperlo? - domandò Màsliennikov, e sul viso apparve d'un tratto un'espressione inquieta e malcontenta.

- Stavo andando da un imputato sotto processo, quando questa gente mi è venuta incontro in corridoio e mi ha pregato di...

- Da chi andavi?

- Da un contadino accusato ingiustamente, al quale ho procurato un difensore. Ma questo non c'entra. E' possibile che persone che non hanno fatto niente di male siano tenute in prigione soltanto perché sono scadute le loro carte, e...

- E' una faccenda che dipende dal procuratore, - lo interruppe Màsliennikov indispettito. - Dici bene tu: un tribunale rapido e giusto. E' compito del sostituto procuratore visitare le carceri e informarsi se i detenuti vi sono rinchiusi legalmente o no. Lui non fa altro che giocare al "vint" (1).

- E così tu non puoi far nulla? - disse cupo Necliudov, ricordando le parole dell'avvocato, che il governatore avrebbe scaricato tutta la responsabilità sul procuratore.

- No, me ne occuperò. Lo farò subito.

- Tanto peggio per lei. "C'est un souffre-douleur" (2), - giunse dal salotto una voce di donna, del tutto indifferente alle proprie parole.

- Meglio ancora, prendo anche questa - si udì da un'altra parte una voce allegra d'uomo, e una risata gaia di donna che gli rifiutava qualcosa.

- No, no assolutamente! - diceva la voce di donna.

- D'accordo dunque. Mi occuperò di tutto, - ripeté Màsliennikov, spegnendo la sigaretta con la mano bianca su cui spiccava la turchese. - E adesso andiamo dalle signore.

- Oh, una cosa... - disse Necliudov, fermo sulla soglia del salotto. - Mi hanno detto che ieri in prigione hanno inflitto una punizione corporale. E' vero?

Màsliennikov arrossì.

- Ahimè! sai anche questo? No, "mon cher", decisamente non bisogna lasciarti entrare, vuoi sapere tutto. Andiamo, andiamo, Annette ci chiama, - disse, prendendolo sotto il braccio e mostrando lo stesso entusiasmo che aveva provato per la visita del personaggio importante: un entusiasmo che ora non derivava più dalla gioia, ma dall'inquietudine.

Necliudov svincolò il suo braccio dalla stretta e senza salutare nessuno e senza una parola, attraversò cupo il salotto, la sala e passando davanti ai camerieri che balzavano in piedi al suo passaggio, raggiunse l'anticamera e la strada.

- Che cos'ha? Gli hai fatto qualcosa? - domandò Annette al marito.

- Sistema "à la française", - disse uno...

-Macché "à la française! à la zoulou"...

- Ma se è sempre stato così!

Qualcuno si alzò per uscire, qualcuno entrò e il chiacchierio filò per il suo verso: tutti approfittarono dell'episodio di Necliudov come di un ottimo argomento di conversazione per quel "jour fixe" (3).

Il giorno dopo la sua visita a Màsliennikov, Necliudov ricevette da lui una lettera su un foglio di carta lucida, ornato di stemma e di sigilli, in cui, con una scrittura bellissima e ferma, gli comunicava che aveva scritto al medico dell'infermeria per il trasferimento della Màslova, e che, con ogni probabilità, il suo desiderio sarebbe stato esaudito. La lettera finiva così: "il tuo affezionatissimo vecchio camerata Màsliennikov", e sotto la firma si vedeva uno svolazzo eseguito a regola d'arte, grande e marcato.

- Stupido! - non poté esimersi dall'esclamare Necliudov, colpito soprattutto dalla parola camerata, in cui si sentiva la degnazione di Màsliennikov. Màsliennikov si riteneva cioè un personaggio molto importante, proprio lui che occupava una carica fra le più abiette e ignominiose... e credeva, firmandosi suo camerata, se non di lusingarlo, di mostrargli almeno che sapeva dimenticare per lui la propria grandezza.

 

 

 

NOTE:

  1. Sorta di wist: gioco a carte.
  2. E' una vittima.
  3. Giorno fisso, abituale giorno di riunione.

 

 

 

59.

 

Uno fra i pregiudizi più comuni e diffusi consiste nel credere che ogni uomo abbia soltanto certe determinate caratteristiche: che sia buono o cattivo, intelligente o stupido, energico o apatico, e così via. Ma non è esatto. Di un uomo possiamo dire che è più spesso buono che cattivo, intelligente che stupido, energico che apatico, e viceversa.

E' sbagliato giudicare una persona intelligente o buona e un'altra cattiva o stupida, eppure noi classifichiamo sempre il prossimo a questo modo; erroneamente, giacché gli uomini sono come i fiumi:

in tutti scorre sempre la stessa acqua, ma ogni fiume può essere ora stretto ora rapido, ora largo, ora placido, ora limpido, ora freddo, ora torbido, ora tiepido. Così le persone. Ogni individuo ha in sé, in germe, tutte le qualità umane; talvolta ne manifesta una, talvolta un'altra, e spesso appare assai diverso da se stesso, pur rimanendo sempre il medesimo. In certuni i mutamenti avvengono in modo assai brusco. A questa categoria apparteneva Necliudov. In lui le trasformazioni avvenivano per cause fisiche e spirituali. Ed appunto una di queste si era manifestata allora nel suo animo.

Il sentimento di esultanza e di gioia che aveva provato per il suo rinnovarsi interiore, dopo il processo e il primo colloquio con Katiuscia, era completamente svanito, e aveva lasciato il posto, dopo l'ultimo incontro a un senso di orrore, anzi di disgusto verso di lei.

Aveva deciso di non abbandonarla, di sposarla, come s'era proposto, purché essa avesse acconsentito. Ma quell'idea gli pesava e lo angustiava. Il giorno dopo la visita a Màsliennikov, si recò di nuovo alle prigioni, per vederla.

Il direttore gli concesse il colloquio, ma nel parlatorio delle donne, non più nell'ufficio o nella sala degli avvocati.

Nonostante la sua bonarietà, era assai più riservato:

evidentemente gli incontri di Necliudov con Màsliennikov avevano avuto per conseguenza l'ordine di una maggiore prudenza con quel visitatore.

- Potete parlarle, - disse, - ma in quanto ai denari, per favore ricordate la mia preghiera... Riguardo poi al suo trasferimento all'infermeria, come ha scritto Sua Eccellenza, la cosa è possibile e il dottore acconsente. Però lei non vuole; dice: "Bel divertimento, andare a vuotare i vasi di quegli schifosi..." E' una razza così principe, si sa... - soggiunse.

Necliudov non rispose nulla e lo pregò di ammetterlo al colloquio.

Il direttore chiamò un carceriere e Necliudov lo seguì nel parlatorio femminile, deserto.

La Màslova vi si trovava già. Uscì dalla rete, tranquilla e timida. Si avvicinò a Necliudov e senza guardarlo, disse piano: - Scusatemi, Dmitri Ivànovic', ho detto molte cose brutte due giorni fa.

- Non son io che devo scusarvi... - cominciò a dire Necliudov.

- Però, lasciatemi stare, - soggiunse, e negli occhi terribilmente strabici che posò su di lui, Necliudov lesse di nuovo un'espressione tesa e cattiva.

- Perché dovrei lasciarvi?

- Così.

- Perché così?

Essa lo guardò ancora, con quello sguardo che sembrava cattivo. - Be', proprio così, - disse. - Dovete lasciarmi, ve lo dico sul serio. Non posso, io. Mettete da parte quest'idea, - soggiunse con le labbra tremanti, e tacque. - Lo dico sul serio. Piuttosto m'impicco.

Necliudov sentì in quel rifiuto l'odio di Katiuscia per lui, per l'offesa che non poteva dimenticare, ma vi sentì anche qualcosa d'altro: un sentimento buono e nobile. E il fatto che essa rinnovasse il suo rifiuto in condizioni normali, valse immediatamente a distruggere tutti i suoi dubbi e a ricondurre nel suo animo la gravità, l'entusiasmo e la commozione di prima.

- Katiuscia, quel che ho detto lo ripeto ancora! esclamò molto gravemente. - Ti chiedo di diventare mia moglie. Se rifiuti, e fino a quando non cambierai parere, io ti sarò sempre vicino e ti seguirò dovunque tu vada.

- Questo è affar vostro, io non ho altro da dire, - essa rispose, e le sue labbra tremarono di nuovo.

Anche Necliudov taceva, non sentendosi in grado a parlare.

- Ora andrò in campagna, poi a Pietroburgo, - disse finalmente quando si fu ripreso. - Mi occuperò della vostra, della nostra pratica e, se Dio vorrà, farò annullare la sentenza.

- E se non la annulleranno, fa lo stesso. O per questo, o per qualcosa altro, in fondo non merito niente di più... - disse lei, ed egli vide lo sforzo che s'imponeva per trattenere le lacrime.

- E Mensciòv l'avete visto? - essa domandò ad un tratto, per nascondere il suo turbamento. - Vero che sono innocenti?

- Sì, lo credo.

- Una vecchietta così straordinaria! - disse.

Egli le raccontò quel che aveva saputo da Mensciòv e le domandò se le occorresse qualcosa. Lei rispose che non aveva bisogno di nulla.

Tacquero di nuovo.

- Be', in quanto all'infermeria... - disse ad un tratto, guardandolo coi suoi occhi strabici, - ci andrò, se volete, e l'acquavite non la berrò più.

Necliudov senza parlare la guardò negli occhi. Quegli occhi sorridevano...

- Bene, benissimo! - egli poté dire soltanto, e s'accomiatò.

"Sì, sì, è tutta un'altra donna", pensò. Ora, dopo i dubbi di prima provava un sentimento assolutamente nuovo, un sentimento di fede nella forza invincibile dell'amore.

Rientrata dopo quel colloquio nella camerata fetida, la Màslova si levò la casacca e sedette sulla cuccetta, con le mani abbandonate sulle ginocchia. Nella camerata v'erano soltanto la tisica, la donna di Vladìmir (1) col poppante, la vecchia Mensciòva e la cantoniera coi suoi due bambini. La figlia del sagrestano il giorno prima era stata dichiarata malata di mente e portata all'infermeria.

Le altre donne erano andate a lavare. La vecchia dormiva stesa sul tavolaccio; i bambini erano nel corridoio, con la porta aperta. La Vladìmirskaia col lattante in braccio, e la cantoniera che sferruzzava con le dita svelte si avvicinarono alla Màslova.

- Ebbene, vi siete visti? - le domandarono.

La Màslova non rispose: seduta sull'alto tavolaccio dondolava le gambe che non arrivavano a terra.

- Che cosa rumini? - disse la cantoniera. - Soprattutto non perderti d'animo. Sù, Katiuscia, sù! - la esortava, muovendo rapidamente le dita.

La Màslova non rispose.

- Le nostre sono andate a lavare. Han detto che quest'oggi l'elemosina è stata abbondante. Dicono che hanno portato tanta roba, - diceva la Vladimirskaia. - Finascka! - gridò la cantoniera dalla porta, - dove si sarà ficcato quel folletto?

Tirò fuori un ferro, lo infilò nel gomitolo e nella calza, e uscì nel corridoio.

In quel momento si udì nel corridoio un rumore di passi e di voci femminili e nella camera entrarono le altre detenute con le scarpe sui piedi nudi; tutte portavano un panino, e qualcuna anche due.

La Fedossia s'accostò subito alla Màslova.

- Che cos'hai, c'è forse qualche guaio? - le domandò, guardandola affettuosamente coi suoi occhi azzurri e limpidi. - Ecco qua per il nostro tè, - e depose i panini sul palchetto.

- Non vuol più sposarti, forse? - domandò la Korabliòva.

- No, vuole ancora, ma sono io che non voglio, - disse la Màslova.

- Gliel'ho detto.

- Ve', che sciocca! - esclamò la Korabliòva con la sua voce di basso.

- Ma via, che senso c'è a sposarsi se poi non si può vivere insieme? - disse la Fedossia.

- Ma tuo marito però ci viene pure con te! - osservò la cantoniera. - Certo, ma noi siamo sposati, - disse Fedossia.

- Ma lui perché dovrebbe sposarsi, se non può viverle insieme?

- Stupida! Perché? Se fa tanto di sposarla, la coprirà d'oro.

- Ha detto: "Dovunque ti manderanno, io ti seguirò", - mormorò la Màslova.

- Se lo farà, bene, se non lo farà... non lo supplicherò di certo!

Adesso va a Pietroburgo a occuparsi del processo. I ministri, là, son tutti suoi parenti, - proseguì. - Ma io non ho nessun bisogno di lui!

- Si sa! - ad un tratto approvò la Korabliòva, aprendo il suo sacco e visibilmente pensando ad altro. - Che ne dite, ci beviamo sù un tantino di vodca?

Io, no, - rispose la Màslova. - Bevete voi!

 

 

 

NOTE:

  1. della provincia di Vladìmir.