Lev Tolstoj
RESURREZIONE
(Parte Seconda)
La causa sarebbe stata discussa in Cassazione entro un paio di settimane. Necliudov pensava di andare a Pietroburgo per quell'epoca e, qualora il ricorso fosse stato respinto, di presentare un'istanza all'imperatore, come gli aveva suggerito l'avvocato.
Nel caso che la pratica non avesse avuto seguito, cosa, secondo l'avvocato, quanto mai probabile data la scarsa consistenza dei motivi addotti, la Màslova sarebbe stata probabilmente aggregata a uno scaglione di forzati in partenza ai primi di giugno. Necliudov doveva perciò affrettarsi a sistemare i suoi affari in campagna, se voleva esser pronto a seguire la Màslova in Siberia, come aveva stabilito.
Per prima cosa si recò a Kuzmìnskoe, il fondo più vicino, grande e fertile, che gli dava il reddito maggiore. Ci aveva trascorso l'infanzia e la giovinezza; e vi era ritornato altre due volte, ormai uomo fatto. Per preghiera della madre vi aveva anche preposto un amministratore tedesco, col quale aveva verificato l'azienda. Sicché già da un pezzo egli conosceva a fondo la situazione economica del podere e i rapporti che intercorrevano fra i contadini e l'amministrazione centrale. Questi rapporti erano di natura tale che i contadini si trovavano a dover dipendere in tutto dall'amministrazione.
Necliudov sapeva ciò fin da quando, studente, professava e divulgava le teorie di Henry George, e, in base a questi principi, aveva donato ai contadini la terra ereditata dal padre. A dir il vero, dopo il servizio militare con l'abitudine che aveva preso di spendere ventimila rubli all'anno, tutte quelle teorie avevano cessato di influenzare la sua vita ed erano cadute nel dimenticatoio: ed egli non solo non si domandava mai quale fosse la fonte dei denari che gli dava la madre, ma evitava accuratamente di pensarci. Tuttavia la morte della madre, la successione e la necessità di disporre da sé del suo patrimonio, ossia della terra, lo misero ancora una volta di fronte al problema della proprietà terriera. Fino a un mese prima Necliudov si sarebbe dichiarato impotente a modificare il sistema fondiario in vigore, e se la sarebbe cavata pensando che non toccava a lui amministrare le terre, ma all'amministratore. Si sarebbe messo l'animo in pace e avrebbe vissuto lontano dalle terre godendone il reddito.
Ma ora le cose erano mutate ed egli, sebbene sapesse che durante il viaggio in Siberia avrebbe dovuto intrattenere rapporti complicati e difficili col mondo delle prigioni, per cui gli sarebbe stato comodo disporre di molto denaro, pure non poteva lasciar le cose come stavano: doveva assolutamente cambiarle, anche a proprio danno.
Stabilì quindi di non far lavorare più la terra in proprio ai contadini, ma di affittarla loro ad un prezzo mitissimo, mettendoli con ciò in grado di rendersi indipendenti dai padroni.
Più di una volta, confrontando la posizione del proprietario di terre con quella del padrone dei servi della gleba, Necliudov aveva notato che la cessione di terre ai contadini, in luogo dello sfruttamento in proprio a mezzo dei braccianti, equivaleva a ciò che avevano fatto i padroni dei servi, quando avevano fatto passare i contadini dalla corvée alla taglia. Pur essendo ancora lontani dalla soluzione del problema, era tuttavia un passo per arrivarci: il passaggio da una forma più brutale ad una meno brutale di coercizione.
Ed egli intendeva agire in questo senso.
Giunse a Kuzmìnskoe verso mezzogiorno. Avendo semplificato in ogni cosa il tenore della sua vita, non si fece precedere da un telegramma, e disceso dal treno noleggiò un piccolo "tarantàs" (1) a due cavalli.
Il cocchiere, un giovane con un giubbetto di nanchino, stretto in fondo alla vita da una fusciacca che raccoglieva le pieghe, stava seduto a cassetta di sghembo, all'uso dei postiglioni, per poter comodamente conversare col signore, tanto più che in tal modo poteva lasciare al passo i due cavalli, il ronzino sciancato e zoppo, attaccato al timone, e la rozza magrissima e bolsa attaccata di fianco. Il cocchiere parlava dell'amministratore di Kuzmìnskoe, senza sapere che ne conduceva il padrone. Necliudov non glielo aveva detto apposta.
- Un tedesco sciccoso, - diceva il cocchiere che aveva vissuto in città e leggeva romanzi. Egli sedeva voltandosi a metà verso Necliudov e afferrando la lunga frusta ora da un capo, ora dall'altro; ed evidentemente ci teneva a sfoggiare la sua cultura.
- Ha messo sù una troica di bai che quando se la scarrozza con sua moglie... caspita! - continuava. - Quest'inverno per Natale hanno fatto l'albero nella casa grande, e anch'io ci ho portato degli ospiti: era illuminato con la luce elettrica! Uno simile non lo trovi in tutta la provincia! Eh, ne ha arraffati di denari... Uno spavento! E perché non dovrebbe farlo? ha tutto nelle sue mani!
Dicono che s'è comprato un bel fondo.
Necliudov credeva di essere perfettamente indifferente al modo con cui il tedesco amministrava i suoi beni a proprio profitto. Ma il racconto del cocchiere dalla fusciacca in fondo alla vita gli riuscì sgradevole. Ammirava la giornata splendida, le nubi fitte e cupe che di tratto in tratto oscuravano il sole, i campi coi contadini che spingevano l'aratro smuovendo la terra sotto l'avena, e tutto quei verde su cui volteggiavano le allodole e i boschi già ricoperti, tranne le querce tardive, di fronde novelle, e i prati, variopinti di greggi e di cavalli, e i campi sui quali s'intravvedevano gli aratori. E ogni tanto gli veniva in mente che qualcosa non andava e se si chiedeva che cosa fosse, riudiva le parole del cocchiere sul conto del tedesco che a Kuzmìnskoe la faceva da padrone.
Giunto a Kuzmìnskoe, si buttò subito al lavoro e dimenticò l'impressione sgradevole.
La verifica dei registri e i discorsi del fattore, che ingenuamente gli esponeva i vantaggi derivanti dal fatto che i contadini possedevano poca terra ed erano ovunque circondati dai terreni del padrone, lo rafforzarono sempre più nel proposito di ceder la terra ai contadini e di rinunciare a condurre l'azienda in proprio. Dai registri e dalle spiegazioni del fattore egli apprese che, come per il passato i due terzi del migliore terreno arativo erano lavorati dai suoi braccianti con strumenti perfezionati, mentre l'altro terzo era affidato ai contadini, che riscuotevano cinque rubli per dessiatina. In altri termini, per soli cinque rubli un contadino era tenuto ad arare tre volte, a seminare tre volte una dessiatina:, poi a falciare, legare oppure stringere i covoni e trasportarli sull'aia; un lavoro, insomma, per il quale un bracciante avrebbe preteso per lo meno dieci rubli per dessiatina. Inoltre i contadini pagavano col loro lavoro prezzi altissimi per tutto ciò che dovevano comperare dall'amministrazione. Lavoravano per il foraggio, per la legna, per le patate, e quasi tutti erano in debito verso l'azienda.
Sicché, per le terre affittate ai contadini si riscuoteva quattro volte di più del loro prezzo impiegato al cinque per cento.
Tutte queste cose Necliudov le sapeva anche prima, ma ora gli tornavano nuove e si stupiva che gli altri proprietari non avessero ancora rilevato, come l'aveva rilevata lui, l'enormità di tale situazione. L'amministratore dal canto suo ricorreva ad altri argomenti, cercando di dimostrargli che nell'eventualità di una cessione, sarebbero andate perdute tutte le scorte, giacché nessuno avrebbe offerto neppure un quarto del loro valore; i contadini poi avrebbero rovinato le terre e insomma per Necliudov, il danno sarebbe stato enorme.
Ma quei discorsi non facevano che rafforzare in lui il convincimento che, cedendo le terre ai contadini e privandosi della maggior parte delle rendite, avrebbe compiuto una buona azione. Decise di attuare subito il progetto, prima di ripartire.
In un secondo tempo, dopo la sua partenza, l'amministratore avrebbe raccolto e venduto il grano, liquidato le scorte e le costruzioni inutili.
Lo incaricò, dunque, di convocare per l'indomani i contadini dei tre villaggi compresi entro le terre di Kuzmìnskoe per metterli al corrente del progetto e per concordare il canone d'affitto.
Soddisfattissimo per la fermezza che aveva opposto alle argomentazioni dell'amministratore, e per l'abnegazione con cui si sacrificava in favore dei contadini, Necliudov uscì dall'ufficio e andò a fare un giro intorno alla casa. Riflettendo sul da farsi, percorse l'aiuola trascurata del giardino - una, fiorita, era davanti alla casa dell'amministratore - il lawn tennis invaso dalle erbacce e il viale dei tigli dove un tempo andava a fumare il sigaro, e dove tre mesi prima la graziosa Kirìmova loro ospite aveva civettato con lui.
Quand'ebbe pensato per sommi capi il discorso che il giorno dopo avrebbe tenuto ai contadini, rientrò in casa a prendere il tè con l'amministratore, finì di discutere con lui le modalità della liquidazione, e, tranquillo e soddisfatto della buona azione che stava per compiere, si ritirò nella camera riservata agli ospiti, e preparata per lui nella casa grande.
Era una cameretta pulita, con vedute di Venezia e uno specchio tra le due finestre. Accanto al letto molleggiato e lindo, un tavolino con la caraffa dell'acqua, i fiammiferi e lo spegnitoio. Sulla tavola più grande, davanti allo specchio, la sua valigia aperta che conteneva il nécessaire per la toeletta e alcuni libri che aveva portato con sé: un saggio russo di criminologia e altri due in tedesco e in inglese, sullo stesso argomento. Pensava di leggerli nei momenti liberi, durante i suoi giri per le campagne.
Ma quel giorno non ne aveva avuto il tempo, e ormai era tardi.
Preferiva coricarsi per esser pronto la mattina seguente a sostenere la discussione coi contadini. In un angolo della camera c'era una vecchia poltrona di mogano, con incrostazioni, che era sempre stata nella camera di sua madre. Vedendo quella poltrona, Necliudov fu assalito da una commozione inaspettata.
All'improvviso pensò con rammarico alla casa che sarebbe caduta in rovina, al giardino che non avrebbero più curato, ai boschi destinati alla scure, alle corti del bestiame, alle stalle, alle scuderie, alle rimesse degli attrezzi, alle macchine, ai cavalli, alle mucche, tutte cose che, se non a lui, ad altri eran costate fatica d'impianto e di manutenzione.
Prima, la rinuncia gli sembrava facile, ora invece gli rincresceva non soltanto per tutte queste cose, ma anche per la terra e per la metà del reddito che avrebbe perso proprio ora che gli sarebbe stato così necessario. E subito, di rincalzo, gli si affacciarono alla mente tutte le considerazioni che affermavano pazzesca e inutile la sua decisione di cedere la terra ai contadini e di distruggere la masseria. "Non è giusto che io possieda la terra. E se non ho la terra, non posso continuare a tenere l'azienda. E poi se vado in Siberia non avrò più bisogno né della casa né della tenuta...", diceva una voce. "Questo è vero", diceva un'altra voce, "ma, anzitutto tu non finirai la tua vita in Siberia. Se ti sposerai, potrai anche avere dei figli. E come hai ricevuto la proprietà in buon ordine, in buon ordine devi trasmetterla. Si hanno degli obblighi verso la terra. E' molto facile regalare, distruggere, ma ricostruire è difficilissimo! Comunque, devi riflettere, pensare al tuo avvenire, decidere quello che conti di fare, e risolvere in conseguenza il problema dei tuoi beni. Ti è pesante questa decisione? E sei poi sincero davanti alla tua coscienza, agendo in tal modo? Oppure ti comporti così per gli altri, per farti bello davanti alla gente?" Necliudov si poneva tutte queste domande e doveva per forza ammettere che l'opinione altrui aveva un certo peso sulla sua decisione. E quanto più pensava, tanto più gli interrogativi si facevano numerosi e insolubili. Per sfuggire a questi pensieri, si coricò nel letto appena rifatto e cercò di dormire: avrebbe risolto i problemi in cui ora s'era smarrito all'indomani, e con la mente fresca. Ma per un pezzo non gli riuscì di prender sonno. Dalle finestre aperte, con la frescura della notte e i raggi della luna, entrava il gracidio delle rane, frammisto al canto flebile e al fischio degli usignuoli lontani nel parco. Uno cantava vicino, sotto le finestre, in un cespuglio di lillà in fiore. Ascoltando gli usignuoli e le rane, Necliudov ricordò la musica della figlia del direttore, e da costui il suo pensiero risalì alla Màslova... Le sue labbra tremavano come quel gracidio di rane, mentre gli diceva: "Lasciate pur da parte questa idea...".Poi l'amministratore tedesco cominciò a discendere nello stagno delle rane. Bisognava impedirgli di cadere, ma ecco che egli era già dentro, e trasformato nella Màslova lo rimproverava. "Sono una forzata... e voi siete un principe".
"No, non mi voglio arrendere", pensò Necliudov.
Si riscosse e si domandò: "E' bene o male, ciò che faccio? Non lo so e non me ne importa nulla. Solo dormire...".
E anche egli cominciò a discendere laggiù dove si trovavano l'amministratore e la Màslova.
E tutto finì.
NOTE:
Si svegliò alle nove del mattino. Il giovane impiegato addetto alla sua persona, appena lo sentì muovere, gli portò le scarpe lucide come non erano mai state, e una brocca d'acqua sorgiva limpida e fredda, annunciandogli che i contadini cominciavano ad affluire. Necliudov balzò dal letto, ricordandosi. Quel senso di rincrescimento che aveva provato la sera prima all'idea di ceder la terra e di distruggere la masseria, era svanito senza lasciar traccia. Se ne ricordava anzi con stupore. Era felice del compito che lo aspettava e se ne sentiva profondamente fiero. Dalla finestra della sua camera si vedeva la piazzetta del lawn tennis invasa dalle erbacce, dove per ordine dell'amministratore si radunavano i contadini. Non per nulla le rane continuavano a gracidare fin dalla sera prima. Il tempo era nuvoloso. Al mattino s'era messo a piovere: una pioggerella fine, senza vento e tiepida, che sgocciolava sulle foglie, sui rami e sull'erba.
Giungeva dalla finestra, oltre all'odore della vegetazione, anche il profumo della terra avida di pioggia. Mentre si vestiva, Necliudov di tanto in tanto guardava fuori per vedere i contadini che si riunivano. Giungevano uno dopo l'altro, si salutavano togliendosi il cappello e si disponevano in circolo, appoggiati ai loro bastoni. L'amministratore, un giovanotto robusto e muscoloso con una giacca corta dal bavero verde e dai bottoni enormi, venne a dirgli che il consesso era al completo, ma che i contadini avrebbero potuto aspettare finché egli non avesse fatto colazione; e gli domandò se preferiva il latte o il tè, giacché erano pronti tanto l'uno che l'altro.
- No, è meglio che ci vada subito, - disse Necliudov, sentendosi cogliere alla sprovvista da un senso di timidezza e di vergogna al pensiero di dover parlare ai contadini.
Stava dunque per soddisfare ai contadini quel desiderio che essi avevano sempre creduto irrealizzabile; stava per dar loro la terra a un prezzo mite, ossia per far loro del bene. Eppure aveva quasi vergogna. Quando si avvicinò ai contadini e vide tutte quelle teste bionde, ricciute, calve, brizzolate, scoprirsi dinanzi a lui, egli si confuse a tal segno che per un po' non gli riuscì di parlare. La pioggerella continuava a cadere in gocce minutissime e si fermava nei capelli, nelle barbe, nei peli dei "caftani". I contadini osservavano il padrone e aspettavano quel che aveva da dire ed egli era così confuso che non sapeva dir nulla. Questo silenzio imbarazzante fu rotto dall'amministratore, un vero tipo di tedesco, calmo e sicuro di sé, che si piccava di conoscere il contadino russo e ne parlava benissimo la lingua. Quest'uomo vigoroso, ben nutrito, e Necliudov accanto a lui, formavano uno strano contrasto con quei contadini dalle facce sparute, rugose e dalle scapole aguzze che sporgevano sotto i "caftani".
- Ascoltate, ecco il principe che vuol beneficarvi: vi cede le sue terre, benché non ve lo meritiate, - disse l'amministratore.
- Come, non lo meritiamo Vassili Karlic'! forse che non ti abbiamo lavorato? Noi siamo molto contenti della defunta padrona, che il cielo la benedica, e ringraziamo il giovane principe che non ci abbandona - cominciò un loquace contadino dai capelli rossicci.
- Vi ho radunato appunto per questo: per dirvi che se lo volete vi cedo tutte le mie terre! - dichiarò Necliudov.
I contadini tacevano, come se non capissero o non si fidassero.
- In che senso sarebbe, ceder la terra? - disse uno di mezza età in giubbetto.
- Vorrei darvele in affitto a un prezzo mite perché possiate usufruirne.
- Una proposta molto cortese! - disse un vecchio.
- Basta che siamo in grado di pagare il canone, disse un altro.
- E perché non dovremmo prendere la terra?
- E' il nostro mestiere, noi viviamo di questo!
- Per voi sarà più comodo: non dovrete pensare ad altro che a ricevere i quattrini.. . Se no saran guai! si udirono alcune voci.
- La colpa è vostra, - disse il tedesco, - se lavoraste e vi comportaste per bene...
- Non possiamo, noi poveretti, Vassili Karlic'! - cominciò a dire un vecchio magro dal naso a punta. - Tu dici: "Perché hai lasciato entrare il cavallo nel grano?". Ma nessuno ce l'ha fatto entrare!
Io, quant'è lungo il giorno, e il giorno pare un anno, continuo a far andare la falce e se di notte al pascolo mi capita d'addormentarmi e il cavallo mi scappa nell'avena, tu mi cavi la pelle.
- E voi state più attenti!.
- Dici bene, tu... più attenti! Non abbiamo che due braccia! - replicò un contadino ancora giovane, alto, nero, molto peloso.
- Ve l'avevo detto di cintare i campi!
- E tu dacci il legname, - si fece avanti un ometto piccolo e brutto. - Volevo ben farla quest'estate la staccionata, ma tu mi hai messo per tre mesi sotto chiave a dar da mangiare ai pidocchi.
Ecco la mia staccionata.
-Diche cosa sta parlando?- domandò Necliudov all'amministratore.
- "Der erste Dieb im Dorfe" (1), - rispose questi in tedesco. - Tutti gli anni si fa cogliere nel bosco. E tu impara a rispettare la proprietà altrui.
- E che noi forse non ti rispettiamo? - disse il vecchio: - Ti dobbiamo rispettare per forza, perché siamo nelle tue mani - tu ci fai sù come vuoi.
- Be', amico, io non ti ho offeso e tu non offendere.
- Non mi hai offeso? Quest'estate mi hai rotto il muso, e così m'è rimasto. E' proprio vero che coi ricchi non ci s'ha da mettere...
- E tu fa il tuo dovere!
Evidentemente in quella schermaglia di parole, tutti parlavano a caso, senza capire bene quel che dicevano. Si notava però da una parte un accanimento mitigato dalla paura, dall'altra la coscienza della superiorità e della forza.
Necliudov, con un senso di pena, cercò di farli ritornare sull'argomento che gli premeva, quello dei prezzi e dei termini di pagamento.
- Ebbene, che cosa decidiamo per la terra? La volete? E che prezzo mi fate se ve la dò tutta?
- La roba è vostra, fatelo voi il prezzo.
Necliudov propose un certo prezzo. Come sempre, nonostante la cifra di Necliudov fosse notevolmente inferiore a quella corrente, i contadini cominciarono a contrattare, a trovarla troppo elevata.
Necliudov s'aspettava che la sua proposta venisse accolta con gioia, ma restò deluso. Poté capire che la sua offerta era vantaggiosa soltanto quando si intavolò la discussione se fosse meglio assumere la terra collettivamente oppure mediante un'associazione. Allora si accese una disputa feroce fra quei contadini che volevano escludere i deboli e i cattivi pagatori, e quelli che non volevano essere esclusi. Finalmente, grazie all'amministratore, furono fissati il prezzo e i termini di pagamento e i contadini, discorrendo rumorosamente, scesero in paese, mentre Necliudov andava nell'ufficio a redigere con l'amministratore lo schema del contratto.
Tutto si era accomodato secondo i desideri e le speranze di Necliudov; i contadini ricevevano la terra a un prezzo inferiore del trenta per cento a quello che si faceva nei dintorni, il suo reddito veniva quasi dimezzato, ma gli era pur sempre largamente sufficiente, soprattutto con l'aggiunta della somma ricavata dalla vendita di un bosco e di quella che si sarebbe realizzata con la vendita delle scorte. Tutto, dunque, sembrava andare per il meglio, eppure Necliudov continuava a sentirsi malcontento. S'era accorto che i contadini, nonostante le parole di riconoscenza che qualcuno di loro gli aveva espresso, erano insoddisfatti e delusi.
Tirando le somme, egli s'era privato di molto senza aver fatto per i contadini quel che essi s'aspettavano.
Il giorno seguente, dopo aver sottoscritto il contratto privato con una delegazione di vecchi, Necliudov montò sulla famosa troica dell'amministratore, la troica sciccosa, come l'aveva chiamata il postiglione, e salutati i contadini che tentennavano il capo perplessi si recò alla stazione, con l'impressione sgradevole di aver lasciato dietro di sé qualcosa di non finito. Malcontenti i contadini, malcontento Necliudov di se stesso. Di che cosa precisamente non lo sapeva: eppure continuava a sentirsi triste e quasi vergognoso.
NOTE:
Da Kuzmìnskoe Necliudov si recò nel fondo ereditato dalle zie, quello stesso dove aveva conosciuto Katiuscia. Anche lì intendeva sistemar le cose come a Kuzmìnskoe; e poi voleva raccogliere notizie su Katiuscia e il bimbo che aveva avuto da lei. Era davvero morto? e come?
Giunse a Pànovo di buon mattino. Appena entrato nel cortile restò colpito dallo stato di abbandono e di decrepitezza di tutti gli stabili e specialmente della casa. Il tetto di ferro, una volta verniciato di verde, era corroso dalla ruggine e alcune lamiere s'erano ripiegate all'insù, probabilmente in seguito a un temporale; le assicelle di legno che formavano il rivestimento della casa, divelte qua e là, nei punti dove era più facile staccarle dai chiodi arrugginiti. Le due scalinate, quella padronale e quella di servizio, particolarmente impressa nella sua memoria, erano marcite e crollate, conservando solo l'intelaiatura. Molti vetri delle finestre erano stati sostituiti con impannate; dall'ala della casa dove viveva il fattore, fino alla cucina e alle scuderie, tutto cadeva in rovina preda dell'umidità. Soltanto il giardino non era squallido; aveva prosperato per conto suo ed era in pieno rigoglio di fioritura; oltre lo steccato s'intravvedevano, simili a nuvole bianche, gli alberi dei ciliegi, dei meli e dei susini in fiore. La siepe di lillà era tutta fiorita come quando dodici anni prima Necliudov aveva giocato a "gorielki" con la sedicenne Katiuscia e, cadendo, s'era punto con l'ortica. Il larice piantato da Sòfia Ivànovna davanti alla casa, a quei tempi alto come un piolo, adesso era un albero grande, buono per far legna, tutto ricoperto di foglie aghiformi tra il giallo e il verde, delicatamente soffici. Il fiume scorreva tra le rive e scrosciava nella gola del mulino. Sul prato dietro il fiume pascolavano i greggi variopinti del villaggio.
Il fattore, un seminarista che non aveva finito il seminario, s'avanzò sorridendo incontro a Necliudov nella corte; senza smettere di sorridere lo invitò nell'ufficio e con lo stesso sorriso che sembrava promettere chissà mai quali cose, si ritirò dietro un tramezzo. Si udì un bisbiglio, poi più nulla.
Il vetturino, ricevuta la mancia, se ne andò via con un gran tintinnare di sonagli e tutto rientrò nella quiete più profonda.
Subito dopo davanti alla finestra passò di corsa una ragazza scalza, con la camicia ricamata e i ciuffi sugli orecchi, inseguita da un contadino calzato di grossi stivali chiodati che risuonavano sul sentiero di terra battuta.
Necliudov sedette alla finestra. Guardava il giardino e ascoltava.
Dal finestrino a due ante entrava una fresca brezza primaverile che gli scarmigliava lievemente i capelli sulla fronte sudata e faceva svolazzare i foglietti sul davanzale tutto tagliuzzato dal coltello. Quella brezza sapeva di terra smossa di fresco.
Il tra-pa-tap, tra-pa-tap ritmico e alterno dei battitoi delle lavandaie risuonava sul fiume fra gli spruzzi iridati dal sole.
Necliudov udiva il cadere monotono dell'acqua al mulino e, accanto all'orecchio, il ronzio spaventato e sonoro di una mosca.
E ad un tratto egli si ricordò che in un tempo lontano, quand'era ragazzo innocente, aveva ascoltato là sul fiume gli stessi colpi dei battitoi sulla biancheria bagnata e il rumore monotono del mulino; ricordò che anche allora il vento gli scarmigliava i capelli sulla fronte umida, facendo svolazzare le carte sul davanzale tutto tagliuzzato dal coltello, mentre una mosca gli sfiorava spaventata l'orecchio... E non solo si rivedeva a diciott'anni, ma si sentiva ridiventare il ragazzo di allora, con la stessa freschezza, lo stesso candore, lo stesso animo colmo di nobili aspirazioni.
Eppure, come avviene spesso nei sogni, egli sapeva che era tutta un'illusione e si sentiva infinitamente triste.
- Quando volete mangiare? - gli domandò sorridendo il fattore.
- Quando volete, non ho appetito. Vado a far un giretto nel villaggio.
- Non preferireste entrare in casa? Dentro tutto è in ordine.
Abbiate la compiacenza di vedere se di fuori...
- No, più tardi... Ma ditemi, per favore: c'è ancora qui da voi una certa Matriona Càrina?
Era la zia di Katiuscia.
- Altro che! Sta nel villaggio... un tipo che mi dà del filo da torcere. Tiene una bettola. Io lo so, la minaccio e la sgrido, ma quando si tratta di denunciarla mi rincresce... è vecchia e mantiene i nipotini... - disse il fattore, col suo sorriso stereotipato, in cui c'era tanto il desiderio di riuscir simpatico al padrone, quanto la certezza di riscuoterne l'approvazione.
- Dove abita? Ci vorrei passare.
- In fondo al villaggio, la terz'ultima casetta. A mano sinistra troverete un'izba di mattoni, subito dopo c'è la sua bicocca. Ma sarà meglio che vi accompagni - disse il fattore con un largo sorriso.
- No, grazie, la troverò da me. Intanto, voi potreste far sapere ai contadini che vengano qua tutti, perché devo parlare con loro a proposito della terra, - disse Necliudov che intendeva liquidare la faccenda come a Kuzmìnskoe, possibilmente quella sera stessa.
Uscito di casa, lungo il sentiero che attraversava il pascolo tutto ricoperto di erbacce e di piante selvatiche, Necliudov incontrò la contadinella coi ciuffi sugli orecchi e la veste vivace che, già di ritorno dal villaggio, camminava in fretta coi suoi grossi piedi scalzi. Per aiutarsi nella marcia agitava ritmicamente la mano sinistra e con la destra si stringeva al ventre un gallo rosso. Il gallo con la cresta ciondolante, sembrava perfettamente tranquillo e si divertiva a stendere e a ritrarre una zampa nera, girando gli occhi tondi e avvinghiandosi con le unghie alla veste della ragazza. Mentre s'avvicinava al padrone, la ragazza rallentò l'andatura, poi, giuntagli accanto si fermò, rovesciò il capo indietro e gli fece un inchino. Solo quando egli fu passato riprese a correre col suo gallo.
Vicino al pozzo Necliudov incontrò una vecchia con una camicia sporca di tela greggia, che portava sulla schiena curva due secchi pesanti, pieni d'acqua. La vecchia depose cauta i secchi e gli fece un inchino, buttando indietro il capo con lo stesso gesto della ragazza.
Dopo il pozzo incominciava il villaggio.
Era una giornata tersa e calda, alle dieci già il sole bruciava; s'addensavano le prime nuvole, oscurando di tratto in tratto il sole. Lungo la strada si sentiva un odore di letame, penetrante e acre ma non spiacevole, che emanava dai carri in salita su per la strada lucida e liscia e soprattutto dal concime smosso nei cortili, davanti ai quali passava Necliudov. I contadini che seguivano i carri a piedi nudi, con la camicia e i calzoni imbrattati di letame, guardavano con curiosità quel signore alto e robusto col cappello grigio ornato di un nastro di seta che riluceva al sole, mentre saliva per la strada del villaggio poggiando ogni due passi in terra il bastone lucido e nodoso col pomo lucente. I contadini che tornavano dai campi al trotto, traballando nei sedili dei carri vuoti, si levavano il cappello e osservavano con stupore quell'uomo strano che passeggiava per la loro strada. Le donne uscivano sui portoni e sulle scale e se l'additavano accompagnandolo con gli occhi.
Davanti al quarto portone, Necliudov dovette fermarsi per lasciar passare un carro cigolante, carico di letame compresso e coperto da una stuoia per sedersi. Lo seguiva un bambino di sei anni, scalzo, eccitato all'idea della passeggiata sul carro. Un giovane contadino in "lapti" spingeva a gran passi un cavallo fuori dal portone. Un puledro azzurro dalle gambe lunghe balzò sulla strada, ma spauritosi alla vista di Necliudov, si strinse al carro e battendo le zampe contro le ruote si rifugiò accanto alla madre che trainava il carro pesante e nitriva inquieta. Un altro cavallo era condotto da un vecchio arzillo e magro, anche egli scalzo, che indossava un paio di calzoni rigati e una camicia lunga e sudicia sotto la quale spuntavano le scapole aguzze.
Quando i cavalli furono usciti sulla strada liscia, cosparsa di mucchietti di letame grigio, quasi riarso, il vecchietto ritornò presso il portone e s'inchinò a Necliudov.
- Sei forse il giovane nipote delle nostre padrone?
- Sì, sì.
- Ben arrivato, dunque: sei venuto a trovarci? - disse il contadino, un tipo loquace.
- Sì, sì... Ebbene, come va la vita? - domandò Necliudov, non sapendo che cosa dire.
- Come volete che vada! Gran brutta vita, la nostra! - quasi con piacere rispose il vecchio strascicando le parole.
- Perché? - domandò Necliudov entrando nel portone.
- Già, che forse è una vita, questa? Peggio di così... - rispose il vecchio, seguendo Necliudov sul terreno spazzato sotto la tettoia. - Vedete, io ho in casa dodici persone, - proseguì il vecchio indicando due donne grondanti di sudore coi fazzoletti calati sugli occhi, le gonne succinte e i polpacci nudi, che sporche fino a metà gamba di sugore di letame, stavano ritte con le forche in mano su un mucchio di concime non ancora rimosso. - Ogni mese bisogna che comperi sei pudi di grano, e dove si pigliano?
- Ma il vostro non vi basta?
- Il nostro? - esclamò il vecchio con un sorriso di disprezzo. - Ho terra per tre persone e quest'anno abbiamo raccolto otto "kopnì" (1) in tutto, quanto non basta fino a Natale...
- E allora come fate?
- Ci si arrangia in qualche modo: uno l'ho messo a giornata e un po' di quattrini li ho presi a prestito da vossignoria. Ce li siam fatti dare prima della quaresima e le imposte non sono ancora pagate.
- A quanto ammontano?
- Da casa nostra escono diciassette rubli ogni trimestre. Ah, mio Dio, che vita! Non si sa più dove sbattere la testa.
- Posso entrare in casa? - disse Necliudov inoltrandosi nel piccolo cortile, e passando dal terreno ripulito su strati di concime, color giallo zafferano, appena stesi con le forche e che odoravano intensamente.
- Ma certo, entra! - rispose il vecchio, e camminando rapido coi piedi scalzi, che facevano schizzare tra le dita il sugo del letame, passò davanti a Necliudov e gli aprì la porta dell'izba.
Le donne aggiustandosi il fazzoletto e calando le gonne, guardavano curiose e sgomente quel signore pulito coi bottoni d'oro ai polsini che voleva entrare in casa loro.
Dall'izba sbucarono fuori due bambine in camiciola. Curvandosi e togliendosi il cappello, Necliudov entrò nell'ingresso e poi nell'izba stretta e sudicia, impregnata di un acre odore di cibo e tutta occupata da due telai. Accanto alla stufa, stava una vecchia con le maniche rimboccate sulle braccia scarne, venose, arse dal sole.
- Guarda il nostro padrone che è venuto a trovarci! disse il vecchio.
- Siate il benvenuto, - disse affabilmente la vecchia mentre si abbassava le maniche rimboccate.
- Volevo vedere come vivete, - disse Necliudov.
- Guarda, guarda pure come viviamo... Proprio così come vedi.
L'izba minaccia di crollare; un momento o l'altro ammazzerà qualcuno. Ma il vecchio dice che è fin troppo bella. Ecco come viviamo... da imperatori! - diceva arditamente la vecchia, scuotendo la testa con un gesto nervoso. - Ora li faccio venire a desinare. Ho preparato per i lavoranti.
- E che cosa mangiate?
- Che cosa mangiamo? Oh, ci si nutre bene, noi! Primo piatto, pane col "kvàs" (2), secondo piatto, "kvàs" col pane, - disse la vecchia scoprendo i denti mezzo corrosi.
- No, senza scherzi, mostratemi quel che mangerete oggi.
- Quel che mangeremo? - disse il vecchio ridendo. Il nostro pasto non è complicato! Mostraglielo, vecchia.
La vecchia scosse la testa.
- Ma guarda che voglia! Vedere come mangiano i contadini... Sei un signore curioso: lascia che ti guardi! Tutto vuol sapere... L'ho già detto, pane con "kvàs", e poi la minestra di cavoli, fatta coi pescetti che le donne hanno portato ieri, e per finire, patate.
- E basta?
- Che vorresti ancora? Lo imbiancheremo con un po' di latte, - disse la vecchia ridendo fra sé e guardando la porta.
La porta era spalancata e l'ingresso pieno di gente. Bambini, ragazze, donne con poppanti che si accalcavano alla porta, per vedere quello strano padrone che s'interessava del loro mangiare da contadini. La vecchia era visibilmente fiera del modo come sapeva comportarsi col padrone.
- Sì, è grama, grama davvero la nostra vita, padrone. Non c'è che dire... - dichiarò il vecchio. - E voi, che volete? - gridò alla gente ferma sulla porta.
- Be', arrivederci, - disse Necliudov, provando un senso di disagio e di vergogna, di cui non osò indagare la ragione.
- Grazie umilmente per la vostra visita, - disse il vecchio.
Quelli che erano nell'ingresso, stringendosi l'uno all'altro, gli fecero largo, e Necliudov uscì sulla strada e proseguì il suo cammino. Dopo di lui, uscirono due ragazzini scalzi: il grandicello indossava una camicia sudicia che una volta doveva esser stata bianca, l'altro una camicia rosa, stinta e striminzita. Necliudov si voltò a guardarli.
- E adesso dove vai? - gli domandò il ragazzo dalla camicia bianca.
- Da Matriona Càrina, - egli rispose. - La conoscete?
Il più piccolo con la camicia rosa si mise a ridere, mentre il maggiore rispondeva:
- Quale Matriona? La vecchia? Sì.
- O-o-oh! - disse strascicando la voce. - Allora è Semianica, in fondo al villaggio. Ti accompagniamo noi. Su, Fedka, lo accompagniamo!
- E i cavalli?
- Be', non importa!
Fedka acconsentì e tutti e tre ripresero a salire lungo il villaggio.
NOTE:
Necliudov si sentiva meglio con quei bambini che coi grandi, e cammin facendo cominciò a discorrere con loro. Il più piccolo, quello con la camicia rosa, aveva smesso di ridere e parlava con intelligenza e serietà, come il maggiore.
- Be', chi è il più povero del villaggio? - domandò Necliudov.
- Il più povero? Micaìl è povero, e Semian Makarov e anche Marfa...
- Però Anissia è la più povera di tutti. Non ha neppure la mucca... vivono mendicando, - disse il piccolo Fedia.
- Non ha la mucca ma in compenso sono soltanto in tre, mentre dalla Marfa sono in cinque, - obiettò il maggiore.
- Però quella è vedova, - insisteva il bambino in rosa che parteggiava per Anissia.
- Tu dici che Anissia è vedova, ma anche Marfa è come se lo fosse, - proseguì il più grandicello. - Anche lei non ha marito.
- E dov'è il marito? - domandò Necliudov.
- In prigione a nutrire i pidocchi, - disse il maggiore, usando l'espressione corrente.
- L'estate scorsa ha tagliato due betulle nel bosco del padrone e l'hanno messo dentro, - s'affrettò a spiegare il piccolo in rosa.
- E' in prigione da più di cinque mesi e la moglie chiede l'elemosina: ha tre bambini e la vecchia madre a suo carico... - disse con gravità.
- E dove abita? - s'informò Necliudov.
- In quella corte lì, - rispose il ragazzo indicando una casa, davanti alla quale un bambino minuscolo e coi capelli da albino, traballando faticosamente sulle gambette piegate ad arco, stava proprio nel mezzo del sentiero che percorreva Necliudov.
- Vaska, monellaccio, dove sei scappato? - gridò correndo fuori dall'izba una donna con la camicia tanto sudicia e grigia da sembrar cosparsa di cenere; con aria spaventata si gettò davanti a Necliudov, afferrò il bambino e lo portò in casa, proprio come se avesse paura che egli potesse far qualcosa alla sua creatura.
Era quella stessa donna che aveva il marito in prigione per le due betulle del bosco di Necliudov.
- Be', e Matriona? E' povera anche lei?
- Macché povera! vende il vino, - rispose deciso il bambino magro con la camicia rosa.
Davanti all'izba di Matriona, Necliudov congedò i due ragazzi ed entrò nell'izba.
La casupola della vecchia Matriona misurava sei arscini in tutto, ed era tanto angusta che sul letto, dietro la stufa, un uomo alto non avrebbe potuto stendere le gambe. "E' su questo letto che Katiuscia ha partorito e poi si è ammalata...", egli pensò. Quasi tutto lo spazio era occupato da un telaio, sul quale, nel momento in cui Necliudov entrava, urtando con la testa contro la porta bassa, la vecchia aveva appena finito di montare un lavoro con la maggiore delle sue nipotine. Altri due nipoti si erano precipitati nell'izba dietro al padrone, e non osando oltrepassare l'ingresso, si tenevano aggrappati agli stipiti della porta.
- Chi cercate? - domandò rabbiosamente la vecchia, di cattivo umore perché non le riusciva di mettere a posto il telaio, e perché, contrabbandando il vino, diffidava sempre di chi non conosceva.
- Sono il padrone. Avrei bisogno di parlarvi.
La vecchia lo osservava fissamente e taceva. Poi ad un tratto s'illuminò tutta, - Ah! sei tu, tesoro... E io, stupida, che non ti ho riconosciuto.
Ti ho scambiato per un passante qualunque, - cominciò a dire con voce melliflua. - Ah, tesoruccio mio bello!
- Non si potrebbe parlare senza testimoni? - disse Necliudov, guardando la porta rimasta spalancata. Dietro i due ragazzi fermi sulla soglia, una donna scarna aveva tra le braccia un piccolino con una cuffietta fatta di stracci, pallido e consunto dal male, eppure sorridente.
- Che c'è da vedere? Adesso ve la do' io! dammi un po' qua la gruccia... - gridò la vecchia voltandosi verso la porta. - Chiudete subito!
I ragazzi si allontanarono, e la donna col bimbo chiuse la porta.
- E io che pensavo: "Chi sarà mai?". E poi eri tu, il mio padrone in carne ed ossa, il mio bel tesoro d'oro, - diceva la vecchia. - Qua ti sei degnato di entrare! Mio bel gioiello! Siediti, Eccellenza, siediti su questa cassapanca, - diceva spolverandola col grembiule. - "Chi diavolo mai sarà" pensavo, ed ecco qua vossignoria in persona, il nostro buon padrone, il nostro benefattore. Perdona a questa vecchia stupida... cieca son diventata.
Necliudov sedette. La vecchia restò in piedi davanti a lui, reggendosi il mento con la mano destra, e tenendosi il gomito destro aguzzo con la sinistra. Poi con voce strascicata, riprese:
- Come sei invecchiato, vossignoria; allora eri bello come una rapa, ma adesso... Si vede che anche a te i pensieri non mancano...
- Sono venuto a chiederti una cosa. Ti ricordi Katiuscia Màslova?
- Jekatierina? Altro che ricordarmene! E' mia nipote... Se me la ricordo... Quante lacrime ho versato per lei! Eh, io so tutto: ma chi, bàtiuscka, è senza peccato davanti a Dio e senza colpa davanti allo zar? Cose di gioventù... si prende insieme il tè e il caffè e poi il maligno ci mette la coda... Si sa, anche lui è forte! E così è successo il guaio. Che farci? Se tu l'avessi piantata in asso, ma come l'hai ricompensata invece! Le hai dato cento rubli. E lei che cosa ha fatto? Non era capace di ragionare.
Se mi avesse dato retta, avrebbe vissuto benissimo. Sì, nonostante che sia mia nipote, devo confessare che è una ragazza senza testa.
Io, dopo, l'avevo pur collocata in un buon posto, ma lei non si è voluta adattare, ha insolentito il padrone. E' ammissibile che noi s'insulti i signori? Be', l'hanno mandata via subito. Poi avrebbe potuto sistemarsi benissimo da un'altra parte, presso una guardia forestale, ma anche lì non ha voluto.
- Volevo chiedervi del bambino. Ha partorito da voi non è vero?
Dov'è il bambino?
- Per il bambino, mio caro, ho avuto un'ottima idea. Lei stava male, non si sperava che guarisse. Lo feci battezzare il bimbo e lo mandai all'ospizio. Eh già! perché far soffrire un angioletto, se la madre muore? Altri fanno diversamente, si tengono la creatura, non le danno da mangiare e quella se ne va all'altro mondo. Io invece ho pensato: "Perché far così? è meglio che mi dia un po' di pena e lo mandi all'ospizio". I denari c'erano e così ce l'abbiamo portato.
- E il numero ce l'aveva?
- Sì, ce l'aveva, ma morì subito. Lei disse: "Appena arrivato là, morì".
- Chi lei?
- Ma la stessa donna che ce lo portò; abitava a Skorodnò. Si occupava di queste cose. Si chiamava Malania. E' morta anche lei.
Una donna intelligente... Sapete come faceva? Quando le portavano un piccolino, lei lo prendeva, se lo teneva in casa e gli dava il poppatoio. E continuava a darglielo finché non aveva raccolto un certo numero di bambini. Quando poi ne aveva tre o quattro, li portava all'ospizio tutti insieme. Aveva organizzato le cose benissimo: una culla grande così, una specie di letto a due piazze, da poterceli ficcare da una parte e dall'altra. E aveva una maniglia fatta apposta: li metteva dentro in quattro, con le teste separate perché non cozzassero, le gambette riunite, e così se li portava tutti in una volta. Gli ficcava il poppatoio in bocca e loro stavano zitti, poverini.
- Be', e poi?
- E poi si prese anche il bambino di Katiuscia, ma non lo tenne a casa neppure due settimane. Aveva subito incominciato a deperire.
- Era un bel bambino? - domandò Necliudov.
- Così bello come non ne ho mai visti. Preciso a te, soggiunse la vecchia strizzando l'occhio spento.
- Ma come mai si è indebolito tanto? Di certo l'avranno nutrito male.
- Che nutrimento volete che fosse? Specialissimo davvero... Non era mica suo figlio! Quanto bastava per portarlo vivo. Ha detto che non appena arrivata a Mosca è morto. Ma ha riportato il certificato e fatto ogni cosa per benino. Era una donna intelligente...
Questo fu tutto ciò che Necliudov poté sapere del suo bambino.
Picchiando ancora la testa nei due usci dell'izba e dell'ingresso, Necliudov uscì all'aperto. I due bambini, quello con la camicia color fumo e quello con la camicia rosa lo stavano aspettando. A loro s'erano aggiunti altri ragazzi e alcune donne coi loro lattanti. Vi era anche la magra di prima che teneva delicatamente in braccio il bambino esangue dalla cuffietta fatta di stracci. Il piccolo continuava a sorridere a tutti con quel suo strano visetto da vecchio e a muovere i pollici rigidamente contratti.
Necliudov sapeva che era un sorriso di dolore. Egli domandò chi fosse.
- E' Anissia, quella di cui ti ho parlato, - disse il maggiore dei ragazzi.
Necliudov si volse a lei.
- Come fai a vivere? Di che ti nutri? - le domandò.
- Come vivo? Di elemosina, rispose Anissia e si mise a piangere.
Il faccino da vecchio si sdilinquì tutto nel sorriso, piegando le gambette magre che sembravano due vermiciattoli.
Necliudov, cavato il portafoglio, ne tolse dieci rubli e li dette alla donna. Subito dopo gli si avvicinò un'altra madre con un bambino in braccio, poi una vecchia e un'altra donna ancora. Tutte gridavano la loro miseria e invocavano aiuto. Necliudov distribuì i sessanta rubli in moneta spicciola che aveva nel portafogli e, con una pena infinita, ritornò a casa, dal fattore.
Questi gli venne incontro sorridendo e gli disse che i contadini si sarebbero riuniti la sera. Necliudov lo ringraziò e, senza entrare in casa, andò a passeggiare in giardino, lungo i viottoli invasi dall'erba e disseminati di petali bianchi, caduti dai meli.
Rifletteva su quanto aveva visto.
Attorno alla casa vi era un gran silenzio, ma ad un tratto Necliudov udì giungere dalla fattoria le voci irate di due donne che s'interrompevano a vicenda, e di tanto in tanto la voce tranquilla del sorridente fattore. Necliudov si mise ad ascoltare.
- Non ce la faccio più... Vuoi strapparmi anche la croce che porto al collo? - diceva una voce di donna, furibonda.
- Ma se ci è entrata solo per un attimo, - diceva l'altra voce.
- Rendimela, ti dico! se no tormenti la bestia e mi lasci i bambini senza latte!
- Paga o coi soldi o col lavoro, - rispondeva la voce tranquilla del fattore.
Necliudov lasciò il giardino e si avvicinò alla scala d'ingresso dove vide due donne scarmigliate, una delle quali evidentemente al termine della gravidanza. Sui gradini, con le mani nelle tasche del cappotto di tela, se ne stava il fattore. Alla vista del padrone le donne tacquero, e si raddrizzarono in testa i fazzoletti che erano scivolati giù, mentre il fattore si levava le mani di tasca e cominciava a sorridere.
Il fattore sosteneva che i contadini lasciavano deliberatamente entrare i vitelli e persino le mucche nel prato padronale. Ora due mucche di quelle donne erano state colte sul fatto. Il fattore le aveva sequestrate, e per rilasciarle pretendeva o trenta copeche per vacca o due giornate di lavoro.
Le due donne sostenevano invece che, prima di tutto le mucche vi erano appena entrate, in secondo luogo di denaro non ne avevano.
In terzo luogo poi, pur promettendo di pagare col lavoro, esigevano la restituzione immediata delle vacche che sin da quel mattino erano digiune e muggivano lamentosamente.
- Quante volte vi ho pregato, - diceva il fattore sorridente guardando Necliudov, come per chiamarlo a testimone, - di badare alle vostre bestie quando le portate al pascolo?
- Ero andata un momento dal mio piccolo e loro sono scappate.
- E tu non allontanarti, se ti sei presa l'impegno di curarle!
- E il mio bambino chi l'allatterà? Tu no di certo, la mammella non gliela dai!
- Almeno avesse pascolato per davvero nel vostro prato! ora non avrebbe fame: invece di esserci entrata appena... - diceva l'altra.
- Hanno rovinato tutti i prati, - si rivolse il fattore a Necliudov, - se non si puniscono, non ci si cava neanche un po' di fieno.
- Ehi, non dir bugie! - gridò la donna incinta. Le mie non le avete mai pescate...
- Già, ma adesso le abbiamo pescate, e tu paga o lavora.
- Sicuro, lavorerò, ma tu rendimi la vacca, non farmela morir di fame, - gridò con astio. - Ne ho già abbastanza di grane: mai un attimo di tregua né di giorno né di notte... La suocera malata, il marito che si sbronza. Io devo arrivare a tutto, ma non ce la faccio più. Impiccati tu e il tuo lavoro.
Necliudov pregò il fattore di restituire le vacche e ritornò in giardino. Voleva riflettere ancora un po', ma si accorse che ormai non aveva più nulla su cui riflettere.
Tutto gli appariva così chiaro, che si domandava stupito come mai la gente non vedesse, ed egli stesso per tanto tempo non avesse veduto, ciò che era limpido come la luce del giorno. "Il popolo muore, si è abituato a vedersi morire e di questa sua lenta agonia s'è fatto una regola di vita: muoiono i bambini, le donne sono costrette ad un lavoro superiore alle loro forze; a tutti, e specialmente ai vecchi, manca il cibo. Ed è un'agonia così lenta che il popolo non s'accorge e non si rammarica dello stato spaventoso in cui s'è ridotto. E perciò anche noi riteniamo che sia una cosa normale e giusta".
La causa prima di tutta quella miseria gli era ormai evidentissima: il popolo stesso ne era consapevole e non mancava di additarla. Essa risiedeva nel fatto che i proprietari avevano tolto al popolo la terra, che costituiva il suo unico pane. E vedeva con altrettanta chiarezza che i bambini e i vecchi morivano per mancanza di latte, e il latte mancava perché mancava la terra per pascolare il bestiame, per coltivare il grano e il fieno. Non c'era dubbio che la miseria del popolo, o, per lo meno, la sua causa prima ed immediata risiedeva nel fatto che la terra su cui il popolo viveva non era nelle sue mani, bensì in quelle di chi, forte di un privilegio, viveva sfruttando il lavoro del popolo.
Quella terra tanto necessaria agli uomini, senza la quale nessuno può vivere, coltivata da chi era ridotto all'estrema indigenza, perché il grano fosse venduto all'estero e i proprietari potessero comperarsi cappelli, bastoni, carrozze, bronzi e così via...
Tutto ciò gli era così chiaro come il fatto che i cavalli, rinchiusi entro un recinto dove hanno mangiato tutta l'erba, dimagriscono e muoiono di fame se non si dà loro la possibilità di approfittare della terra sulla quale possano trovare il foraggio.
Una cosa orribile, che non doveva assolutamente essere. Bisognava trovare il modo d'impedirla, o, se non altro, di non parteciparvi direttamente.
"Ma lo troverò senz'altro", pensava camminando avanti e indietro nel vicino viale di betulle.
"Nei circoli di cultura, negli enti governativi e nei giornali, noi si discute sulle cause della miseria del popolo e sui mezzi per alleviarla. Ma ci guardiamo bene dall'accennare all'unico sicuro mezzo che indiscutibilmente solleverebbe il popolo: quello di restituirgli la terra che gli è stata tolta e che gli è indispensabile".
Ad un tratto ricordò le teorie di Henry George che l'avevano tanto entusiasmato e si stupì di averle potute dimenticare. "La terra non può essere oggetto di proprietà, né di compra-vendita, come non lo sono l'acqua, l'aria, i raggi del sole. Tutti hanno un ugual diritto alla terra e ai benefici che concede agli uomini".
Così poté comprendere perché si vergognava al ricordo di Kuzminskoe. Aveva ingannato se stesso. Sapendo che l'uomo non può vantare alcun diritto sulla terra, si era arrogato il diritto di regalare ai contadini una parte dei beni che nel suo intimo sapeva di non possedere. Ora avrebbe agito altrimenti e cambiato tutto anche a Kuzminskoe.
Elaborò nella sua mente un progetto: avrebbe dato in affitto la terra ai contadini; ma il canone che essi avrebbero corrisposto sarebbe stato accantonato a loro beneficio per pagare le imposte e le spese di carattere generale. Non era la "single-tax", ma la soluzione che più le si avvicinava dato il regime vigente. E poi l'importante era che egli rinunciasse per suo conto al diritto di proprietà.
Quando tornò a casa il fattore gli domandò con un sorriso particolarmente radioso se voleva andare a pranzo, ed espresse il timore che le vivande preparate da sua moglie e dalla ragazza coi ciuffi sulle orecchie potessero passare di cottura o bruciacchiarsi. La tavola era coperta da una tovaglia grossolana, per tovagliolo c'era un asciugamano ricamato. Dentro la zuppiera "vieux Saxe" (1) col manico rotto, fumava una zuppa di patate, fatta col gallo che poco prima Necliudov aveva visto tendere le zampe nere; ora lo rivedeva nella minestra tagliato e fatto a pezzi, e in molti punti ancora ricoperto di peli. Dopo la minestra, tornò in tavola lo stesso gallo coi peli arrostiti, poi frittelle di ricotta con una gran quantità di burro e zucchero.
Per quanto il pranzo fosse poco appetitoso, Necliudov mangiava senza accorgersene, tanto era preso dal suo progetto, che aveva di colpo dissipato la tristezza riportata dal villaggio.
La moglie del fattore sbirciava ogni tanto dalla porta come la ragazza coi ciuffi porgeva il piatto, mentre il fattore, fiero dell'abilità culinaria della moglie, sorrideva sempre più contento.
Dopo pranzo, Necliudov obbligò il fattore a mettersi a sedere:
voleva esaminare se stesso e, nello stesso tempo, partecipare a qualcuno il progetto che gli stava tanto a cuore. Comunicò al fattore la sua intenzione di cedere la terra ai contadini, e gli domandò il suo parere. Il fattore sorrise in modo da far credere che ci aveva pensato da un pezzo e che era contentissimo di udir quelle parole. Ma in realtà non capiva nulla. E non perché Necliudov si spiegasse male, ma perché quel progetto era basato sul desiderio di rinunciare al proprio interesse per far l'interesse altrui; mentre la convinzione che ogni uomo mira soltanto ad avvantaggiarsi a danno del prossimo, s'era talmente radicata nella coscienza del fattore, che egli credeva di aver frainteso, quando Necliudov aveva detto che tutto il reddito della terra doveva costituire il capitale sociale dei contadini.
- Ho capito. Voi percepirete l'interesse sul capitale... disse raggiante.
- Nient'affatto! Cercate di capire: voglio cedere le mie terre completamente.
- Volete dunque rinunciare al reddito? - domandò il fattore cessando di sorridere.
- Sì, ci rinuncio.
Il fattore sospirò profondamente e poi tornò a sorridere. Ora aveva capito. Aveva capito che Necliudov non era perfettamente equilibrato, e che forse vi era la possibilità di trarre dal suo progetto un vantaggio personale.
Quando, alla fine, comprese che si sbagliava ancora, cambiò umore e si disinteressò, continuando a sorridere solo per compiacere il padrone.
Visto che il fattore non lo capiva, Necliudov lo lasciò andare, e, sedutosi alla tavola tutta tagliuzzata e macchiata d'inchiostro, cominciò a mettere per iscritto il suo piano.
Il sole era già tramontato dietro i tigli in fiore e nugoli di zanzare invadevano la stanza e pungevano Necliudov. Quando finì di scrivere, un rumore confuso giunse al suo orecchio dal villaggio:
un belato di greggi, un cigolio di porte che si aprivano e un vociare di contadini che si radunavano. Necliudov disse al fattore che non facesse venire i contadini nell'ufficio - sarebbe andato lui al villaggio, al posto dove si riunivano. Bevuto in fretta il bicchiere di tè offertogli dal fattore, Necliudov andò in paese.
NOTE:
1) Vecchia Sassonia.
Dalla folla riunita nel cortile dello stàrosta (1) si alzava un frastuono di voci, ma non appena Necliudov Si avvicinò tutti tacquero e i contadini, come a Kuzminskoe, si scoprirono uno dopo l'altro. Questi contadini erano molto più rozzi di quelli di Kuzmìnskoe. Come le ragazze e le donne portavano i ciuffi sulle orecchie, così gli uomini erano quasi tutti in "lapti", camiciotti e "caftani" fatti in casa. Alcuni, venuti direttamente dai campi, erano scalzi e in maniche di camicia.
Facendo uno sforzo per padroneggiarsi, Necliudov cominciò col dichiarare ai contadini che intendeva cedere loro la terra. I contadini ascoltavano in silenzio senza manifestare alcuna emozione.
- Perché ritengo, - disse Necliudov arrossendo, - che tutti abbiano diritto alla terra.
- E' vero! proprio così! - si udirono alcune voci.
Continuando il suo discorso, Necliudov spiegò che il reddito delle terre avrebbe dovuto essere diviso fra tutti, e perciò intendeva ceder loro la proprietà dietro pagamento di un canone che essi avrebbero stabilito, destinato a costituire un fondo di riserva per le spese di carattere generale.
Si udirono di nuovo parole di consenso e di approvazione, ma le facce già serie dei contadini si accigliarono ancor di più, e i loro occhi dapprima fissi sul padrone cominciarono ad abbassarsi come per il timore di offenderlo se gli avessero fatto capire che la sua astuzia era stata scoperta e che nessuno ci sarebbe cascato.
Necliudov parlava abbastanza chiaramente e quei Contadini non erano privi di discernimento: eppure non lo capivano né avrebbero potuto capirlo, per la medesima ragione per cui aveva stentato a capirlo anche il fattore.
Essi erano perfettamente convinti che ogni persona tende per natura a ricercare il proprio utile. Riguardo, poi, ai possidenti, l'esperienza di parecchie generazioni aveva insegnato loro che il padrone cerca sempre di arricchirsi a danno dei contadini.
Se ora dunque il padrone li convocava e proponeva qualcosa di nuovo, doveva certamente trattarsi di un nuovo trucco per ingannarli meglio.
- Dunque, che prezzo offrite per la terra? - domandò Necliudov.
- Ma che prezzo! Non possiamo, noi! La terra è vostra e comandate voi, - risposero alcune voci.
- Ma no, quel denaro sarà vostro, servirà per i vostri bisogni comuni.
- Non possiamo. La comunità è una cosa e questa è un'altra.
- Ma cercate di capire, - disse sorridendo il fattore che aveva seguito Necliudov, con la buona intenzione di chiarire le cose: - il principe vi dà la terra per un certo canone, ma questo canone resterà vostro, e costituirà un fondo di riserva per i bisogni comuni.
- Comprendiamo benissimo, - disse, senza alzare gli occhi , un vecchio sdentato e arcigno. - Qualcosa di simile a una banca, soltanto che dobbiamo pagare alla scadenza. E' una cosa che non desideriamo perché ci va già abbastanza male, e questo sarebbe la rovina completa.
Non fa per noi, sta' roba. Meglio continuare come prima, - gridavano alcune voci malcontente e persino sgarbate.
Le proteste divennero ancor più vivaci quando Necliudov accennò ad un regolare contratto che egli avrebbe steso, sotto il quale egli avrebbe firmato per primo e tutti loro in seguito.
- Perché? Lavoreremo come abbiamo sempre lavorato. A che scopo firmare? Siamo gente ignorante.
- Non possiamo accettare perché è roba diversa dal solito. Vada pure com'è sempre andata. Soltanto ci dessero le sementi... - dissero alcune voci.
Questa frase significava che, siccome i contadini avevano l'obbligo di fornire le sementi per l'intera seminagione, ora essi chiedevano - che fossero i padroni a provvedervi.
- Dunque rifiutate... Non volete la terra? - domandò Necliudov rivolgendosi a un giovane contadino dalla faccia aperta, scalzo e col "caftano" tutto stracciato. Nella mano sinistra, ripiegata in dentro, teneva saldamente il suo berretto logoro alla maniera dei soldati quando un superiore comanda loro di scoprirsi.
- Sissignore, - rispose il contadino che evidentemente era ancora sotto l'influsso della disciplina militare.
- Se è così, vuol dire che la terra vi basta, - disse Necliudov.
- Nient'affatto! - rispose l'ex soldato con allegria forzata, badando a tener dritto davanti a sé il berretto lacero, col gesto di offrirlo a chiunque ne volesse approfittare.
- Come volete. Però riflettete bene a quanto vi ho detto, - esclamò Necliudov stupito, e rinnovò la sua proposta.
- Non c'è bisogno che ci pensiamo... come abbiamo detto, così sarà, - disse irosamente il vecchio sdentato e arcigno.
- Domani mi fermerò qui tutto il giorno. Se cambiate idea, mandatemelo a dire.
I contadini non risposero. Così Necliudov non riuscì a concludere niente e ritornò nell'ufficio.
- E io vi dico, principe, - disse il fattore quando furono arrivati, - che con loro non v'intenderete mai: è gente caparbia!
Quando sono insieme, s'intestardiscono e non c'è verso di smuoverli. E poi hanno paura di ogni cosa. Eppure son tutt'altro che stupidi... per esempio quello coi capelli grigi, e quell'altro bruno che protestava. Quando vengono in ufficio, che gli offro una tazza di tè, - diceva sorridendo il fattore, - e ci si mette a discorrere, d'ingegno ne han da vendere: sembran ministri.
Ragionano che è un piacere ascoltarli. Ma durante le riunioni non sembran neanche più gli stessi uomini: la fanno tanto lunga...
- Ma allora si potrebbero far venire qua quelli più svegli, - disse Necliudov, - spiegherei loro ogni cosa minutamente.
- Sì, questo si può fare, - rispose il sorridente fattore.
- Ebbene, fatemi il favore di chiamarmeli qua per domattina.
- Sarà fatto senz'altro, - disse il fattore con un sorriso sempre più raggiante.
- Hai visto che furbacchione? - diceva dondolandosi sopra una grassa giumenta un contadino nero con la barba arruffata che non pettinava mai, a un altro contadino, vecchio, sparuto, col "caftano" lacero, che cavalcava al suo fianco facendo tintinnare le pastoie di ferro del suo cavallo. Ambedue passando per la strada maestra portavano le bestie al pascolo notturno e, di nascosto anche nel bosco padronale.
- "Ti dò la terra gratis basta che tu firmi .. Come se non ci avessero menato per il naso abbastanza! Sei matto, caro mio! Oggi siamo in grado di capire anche noi! - soggiunse, e chiamò per nome il puledro che si era allontanato. - Koniasc, Koniasc! - gridò fermando il cavallo e guardandosi indietro; ma il puledro non si vedeva perché era scappato nel prato che fiancheggiava la strada.
- Lo vedi? Ci ha preso l'abitudine, figlio d'un cane, ai prati del padrone! - osservò il contadino bruno dalla barba arruffata.
sentendo scricchiolare l'acetosella sotto gli zoccoli del puledro, che galoppava nitrendo nei prati bagnati di rugiada e odoranti di palude.
- Senti? I prati sono troppo folti, uno dei prossimi giorni di festa bisognerà mandare le donne a sarchiarli, - disse il magro col "caftano" strappato. - Sennò si romperanno le falci.
- "Firma", dice, - riprese il contadino tutto scarmigliato, criticando il discorso del padrone, - tu firma... e lui ti mangerà in un boccone.
- Proprio così, - rispose il vecchio. E non aggiunsero altro. Si sentiva soltanto lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli sulla strada dura.
NOTE:
Nel rientrare a casa, Necliudov trovò nell'ufficio del fattore un letto alto coi materassi di piuma, due guanciali ed una coperta a due piazze di seta borda, trapunta con un ricamo minuto e rigido, certamente del corredo della fattoressa. Il fattore offrì a Necliudov gli avanzi della cena, e al suo rifiuto si ritirò, chiedendo scusa per la modestia dell'ospitalità e dell'arredamento. Necliudov rimase solo.
Il rifiuto dei contadini non l'aveva per nulla turbato. Anzi, nonostante che i contadini di Kuzminskoe avessero accettato la sua proposta e non gli avessero lesinato i ringraziamenti, mentre questi, invece, gli avevano dimostrato diffidenza e persino una certa ostilità, si sentiva tranquillo e contento.
Nell'ufficio sudicio si soffocava. Necliudov uscì all'aperto.
Aveva voglia di andare in giardino, ma ripensando a quella notte, alla finestra della stanza di servizio, alla scaletta dietro alla casa, non si sentì di rivedere quei luoghi, contaminati da ricordi colpevoli. Sedette sui gradini della facciata e aspirando l'acuto profumo dei germogli di betulla che impregnava l'aria tiepida, guardò a lungo il giardino che s'oscurava e ascoltò il rumore del mulino, il canto degli usignoli e il fischio monotono di un altro uccello in un cespuglio vicino.
Alla finestra del fattore la luce si spense e a oriente dietro la rimessa apparve la luna. Un balenio sempre più intenso illuminò il giardino incolto tutto in fiore e la casa in rovina, si udì un tuono lontano e un nuvolone nero coperse un terzo del cielo. Gli usignuoli e l'altro uccello tacquero. Attraverso lo scroscio dell'acqua del mulino si udì lo schiamazzare delle oche; poi nel villaggio e nel cortile del fattore, i primi galli cantarono, come cantano prima dell'ora solita, nelle notti afose di temporale.
Un proverbio dice che i galli anticipano il loro canto, per annunciare una notte di gaudio. E quella notte era, per Necliudov, una notte di gaudio, anzi, più che di gaudio, di intensa felicità.
Rievocò con l'immaginazione i ricordi della bella estate trascorsa in quei luoghi, al tempo della sua beata innocenza, e non solo si sentì come allora ma, ancor meglio, come nei momenti più felici della sua vita. Ricordò quando a quattordici anni pregava Dio di rivelargli la verità e quando, dovendo separarsi da sua madre, piangeva sulle sue ginocchia e le prometteva di essere sempre buono e di non darle mai dispiaceri. E si rivide con l'amico Nikalenka Irtèniev, quando s'erano scambievolmente giurato di aiutarsi e di consacrare la loro vita a soccorrere il prossimo.
Ricordò la tentazione di Kuzminskoe, il senso di rimpianto provato per la casa, il bosco, il fondo, la terra e mentre si domandava se gli rincresceva ancora, gli sembrava persino strano di aver potuto provare un sentimento simile.
Ricordò le scene di quel giorno: la giovane madre che aveva il marito in prigione per aver tagliato la legna nel bosco di lui, Necliudov; la ripugnante Matriona, convinta, almeno a parole, che le donne della sua condizione avessero il dovere di prestarsi agli amori dei padroni... Ricordò il suo modo di trattare i neonati, il sistema adottato per condurli all'ospizio dei trovatelli, e il disgraziato bambino in cuffietta che sorrideva con la faccia da vecchio e moriva di denutrizione. Rivide la donna incinta, che avrebbe dovuto lavorare per lui, perché, sfinita dalla fatica, non aveva badato alla mucca affamata. A questo punto ricordò la prigione, le teste rase, le celle, l'odore nauseante, le catene...
E per contrasto, il lusso insensato della sua vita e della vita che nelle città e alla capitale, conducevano i ricchi. Tutto era perfettamente chiaro, senz'ombra di dubbio.
Dietro la rimessa comparve la luna, quasi piena; alla sua luce, ombre nere s'allungavano nel cortile, e brillava il tetto di lamiera della casa in rovina.
E quasi per festeggiare quella luce, risuonarono di nuovo nel giardino i fischi e i gorgheggi dell'usignuolo.
Necliudov ricordò che a Kuzminskoe aveva cercato di risolvere il problema del suo avvenire e di ciò che avrebbe fatto. Ricordò di essersi perso nel groviglio di quei problemi senza riuscire a risolverli, tante erano le considerazioni che ciascuno di essi portava con sé. Adesso egli si pose le stesse domande e si stupì di trovar subito la risposta.
E la trovò subito perché non si preoccupava e non s'interessava più di quello che poteva accadergli, ma soltanto di ciò che doveva fare. E, cosa strana, mentre non sapeva in alcun modo come regolarsi nei confronti di se stesso, sapeva invece benissimo ciò che doveva fare per gli altri. Sapeva con certezza che era suo dovere dare la terra ai contadini poiché non aveva il diritto di possederla. Sapeva con certezza che non doveva abbandonare Katiuscia ma aiutarla, a costo di qualsiasi sacrificio, pur di riscattare la sua colpa verso di lei. Sapeva con certezza che doveva studiare, analizzare, chiarire a se stesso e cercare di capire la questione dei tribunali e delle pene in cui gli pareva di scorgere qualcosa che agli altri sfuggiva. Non sapeva quali sarebbero state le conseguenze dei suoi atti, ma era certissimo che doveva compierli tutti. E questa profonda convinzione gli dava un senso di gioia.
Il nuvolone nero aveva invaso tutto il cielo. Ai bagliori erano susseguiti i lampi, che rischiaravano il cortile e la casa diroccata coi gradini rotti. Il tuono rumoreggiò sulla testa di Necliudov, tutti gli uccelli tacquero, mentre le foglie cominciavano a stormire. Il vento soffiò sui gradini dove era seduto Necliudov, scompigliandogli i capelli. Cadde una goccia, poi un'altra, tamburellando sulle foglie di bardana, sulle lamiere del tetto, e tutta l'aria s'accese di bagliori. Si fece un profondo silenzio e Necliudov non arrivò a contare fino a tre, che proprio sulla sua testa rintronò un terribile scoppio.
Necliudov rientrò in casa.
"Sì, sì", pensava. "Il perché della nostra vita, il fine riposto per cui siamo venuti al mondo, sono problemi che io né ora né mai potrò risolvere. Perché son vissute le zie? Perché Nikalenka Irteniev è morto, e io no? Perché Katiuscia? Perché la mia follia?
Perché questa guerra? E la vita dissipata che ho condotto poi?
Questo non lo posso capire: non è in mio potere capire l'opera del Signore. Ma comprendere la sua volontà com'è scritto nella mia coscienza, questo son sicuro di poterlo fare. E quando l'avrò fatto, troverò la pace".
La pioggia cadeva ora a torrenti e gorgogliando grondava dal tetto in una botte. I lampi illuminavano più di rado il cortile e la casa. Necliudov rientrò nella stanza, si svestì e si coricò non senza timore delle cimici, che a giudicare dalla tappezzeria sporca e sbrindellata non dovevano mancare.
"Sentirsi servi, non padroni", pensava, e questo pensiero lo riempiva di gioia.
I suoi sospetti risultarono fondati. Appena spenta la candela, le cimici gli si incollarono addosso e cominciarono a morderlo.
"Ceder la terra, andare in Siberia... Pulci, cimici, sporcizia. Ma che importa! Se è necessario, sopporterò anche questo!".
Eppure, nonostante le sue buone intenzioni, questo non gli riuscì di sopportarlo. Si sedette accanto alla finestra aperta, e si perse nella contemplazione del nuvolone che correva via, mentre la luna tornava a splendere.
Necliudov s'addormentò soltanto verso il mattino e si risvegliò tardi.
A mezzogiorno i sette contadini scelti dal fattore si riunirono nel frutteto dove, sotto i meli, aveva fatto preparare, su piccoli pali conficcati in terra, un tavolino e qualche panca.
Ci volle parecchio per persuadere i contadini a rimettersi il cappello in testa e a sedersi.
L'ex soldato, specialmente, s'ostinava a tener ritto in mano il berretto lacero, col gesto caratteristico dei militari alle cerimonie funebri. Stavolta aveva ai piedi le pezze pulite e i "lapti".
Ma quando uno dei contadini, un gran vecchio dall'aspetto venerabile, con la barba grigia ondulata come quella del Mosè di Michelangelo e una folta corona di ricci grigi intorno alla fronte abbronzata e scoperta, si mise in capo il berretto, e incrociando le falde del "caftano" nuovo fatto in casa s'infilò fra le panche per sedersi, tutti seguirono il suo esempio.
Quando tutti si furono accomodati, Necliudov si sedette di fronte a loro e puntati i gomiti sulla tavola, davanti al foglio con gli appunti, cominciò a esporre il suo progetto. Sia perché i contadini erano in minor numero, sia perché non si preoccupava di sé, ma del progetto, Necliudov questa volta non si trovò per nulla imbarazzato. Senza accorgersene, si rivolgeva quasi sempre al gran vegliardo dalla barba bianca riccioluta, come se aspettasse da lui approvazione o biasimo. Ma il giudizio che s'era fatto di lui Necliudov era errato. Il vecchio venerando, benché chinasse la sua bella testa di patriarca, in segno di approvazione, o la scuotesse con aria accigliata quando vedeva che gli altri replicavano, evidentemente stentava a seguire Necliudov e capiva le sue parole soltanto quando gli altri gliele traducevano nel loro linguaggio.
Il vicino del vecchio capiva assai di più. Era un vecchietto quasi sbarbato, cieco di un occhio, con un giubbetto di nanchino tutto rattoppato e un paio di stivali vecchi, consunti da un lato: un fumista, come venne poi a sapere Necliudov.
Questo vecchietto muoveva continuamente le sopracciglia nello sforzo di capire e a modo suo ripeteva man mano agli altri tutto ciò che diceva Necliudov. Un altro contadino, un vecchio tarchiato e basso, con la barba bianca e gli occhi intelligenti e vivaci, afferrava anche egli prontamente e approfittava di ogni occasione per interloquire con osservazioni scherzose o ironiche, di cui evidentemente andava molto fiero.
Anche l'ex soldato sembrava capire ma era ancora un po' intontito dalla disciplina militare, e i suoi commenti si limitavano alle insulse frasi fatte proprie del gergo militare. Il più serio del gruppo era un uomo alto col naso lungo e una barbetta corta; parlava con voce di basso profondo, e indossava un abito pulito fatto in casa e un paio di "lapti" nuovi. Costui capiva tutto e parlava soltanto quando era necessario. Degli altri due vecchi, uno era lo sdentato che la sera prima s'era tanto accanito contro il progetto di Necliudov, l'altro era un uomo tutto bianco, alto, zoppo, dalla faccia bonaria, con le grucce, e le gambe magre avvolte strettamente nelle fasce. Quasi sempre zitti, tutti e due ascoltavano però con molta attenzione.
Necliudov cominciò anzitutto ad esporre le sue idee sulla proprietà fondiaria.
- La terra, secondo me, - disse, - non si può vendere né comprare, perché se si può vendere, quelli che hanno il denaro se la comprano tutta e per lasciarla godere agli altri vogliono quel che vogliono. Si faranno pagare il permesso di stare sulla terra, - aggiunse, forte degli argomenti di Spencer.
- C'è un mezzo, attaccarsi le ali e volare, - disse il vecchio con gli occhi ridenti e la barba bianca.
- E' vero, - osservò quello dal naso lungo, con voce di basso profondo.
- Signorsì, - aggiunse l'ex soldato.
- La mia vecchia ha strappato un po' d'erba per la vacca...
l'acciuffarono... In prigione! - disse il vecchio zoppo e bonario.
- I miei campi sono a cinque verste di distanza e ad affittarne più vicini non ci si arriva, talmente hanno alzato i prezzi, - aggiunse il vecchio sdentato con ira.
- La penso anch'io come voi, - disse Necliudov, - e considero una cosa ingiusta il possesso della terra. Infatti voglio cederla.
- Non c'è che dire, è una buona idea, - osservò il vegliardo coi riccioli alla Mosè, immaginandosi probabilmente che Necliudov intendesse dar la terra in affitto.
- Sono venuto per questo. Non voglio esser più padrone. Ma bisogna che ci mettiamo d'accordo sul modo di dividere.
- Non hai che da darla ai contadini, - disse il vecchio sdentato rabbiosamente.
Necliudov in un primo momento rimase un po' turbato, sentendo nelle parole del vecchio una certa diffidenza sulla sincerità delle sue intenzioni. Ma si riprese subito e anzi approfittò di quell'osservazione per esprimere meglio le proprie idee.
- Sarei felicissimo di darla, - riprese, - ma a chi? E come? A quali contadini? Perché a voi e non a quelli di Deminskoe?
Era il villaggio vicino cogli appezzamenti più poveri.
Tutti tacquero. Solo l'ex soldato disse: - Giustissimo.
- Dunque, - riprese Necliudov, - ditemelo voi: come fareste se doveste dividere la terra fra i contadini?
- Come si farebbe? Si dividerebbe fra tutti, a ciascuno in parti uguali, - rispose il fumista, muovendo rapidamente le sopracciglia.
- Come si potrebbe altrimenti? Tanto per anima, - confermò bonariamente lo zoppo con le fasce bianche.
Tutti approvarono la risposta ritenendola soddisfacente.
- Ma come, tanto per anima? - domandò Necliudov. - Anche fra i domestici?
- Questo poi no, - esclamò l'ex soldato, cercando di assumere un'espressione energica. Ma il contadino alto che ragionava bene non era d'accordo.
- Si deve dividere in parti uguali... - rispose dopo aver riflettuto, con la sua voce di basso.
- Non si può, - disse Necliudov che aveva già pronta la risposta.
- Se si divide la terra in parti uguali fra tutti, quelli che non la lavorano e che non la coltivano si prenderanno la loro parte e la venderanno ai ricchi. E i ricchi ammasserebbero la terra un'altra volta. A quelli poi che coltiveranno la loro porzione, crescerà la famiglia e la terra non basterà più. Di nuovo i ricchi metteranno le mani su quelli che hanno bisogno della terra.
- Signorsì, - si affrettò a confermare il soldato.
- Impedire che si venda la terra! Darla soltanto a chi la coltiva per conto proprio, - disse il fumista interrompendo rabbiosamente il soldato.
A questa osservazione Necliudov obiettò che era impossibile controllare se uno coltivava la terra per sé o per altri.
Allora il contadino alto, che ragionava con senno, propose che tutti lavorassero la terra in comune, formando una cooperativa. - Chi lavora avrà dei diritti. E chi non lavora non avrà nulla! - disse con la sua energica voce di basso.
Anche a questa proposta comunista, Necliudov replicò prontamente che per realizzare quel progetto tutti avrebbero dovuto possedere l'aratro e un ugual numero di cavalli, onde evitare che gli uni fossero inferiori agli altri. Oppure che i cavalli, gli aratri, le trebbiatrici e tutti gli attrezzi fossero di proprietà comune. Ma per arrivare a questo era necessario un accordo.
- Nessuno di noi riuscirebbe mai a mettersi d'accordo, - disse il vecchio stizzito. - Sarebbero liti continue.
- Nascerebbe un putiferio, - osservò il vecchio con la barba bianca e gli occhi ridenti. - Le donne si caverebbero gli occhi.
- E poi, come fare a dividere la terra secondo le sue qualità? - prosegui Necliudov. - A chi ne toccherebbe di buona, a chi soltanto argilla e sabbia.
- Basta dividerla in tanti pezzetti, uguali per tutti, - disse il fumista.
Necliudov obiettò che non si trattava di dividere fra membri di una sola comunità, ma di distribuirla nelle varie province.
Ammesso che la terra venga data gratis ai contadini, perché a una parte dovrebbe toccare quella fertile e a un'altra, invece, quella grama?
- Giustissimo, - disse l'ex soldato.
Gli altri tacevano.
- Vedete dunque che non è così semplice come sembra, - continuò Necliudov. - E non siamo i soli ad interessarci di questo problema. C'è un americano, un certo George, che lo risolve nel modo che ora vi dirò. E io sono d'accordo con lui.
- Ma tu sei il padrone e tu fà quel che ti pare... Che stai a pensarci tanto. Sei tu che comandi! - esclamò il vecchio iroso.
L'interruzione confuse Necliudov, ma egli notò con piacere che anche gli altri erano malcontenti.
- Aspetta, zio Semian, lascialo finire, - disse il contadino assennato con la sua potente voce di basso.
Necliudov, ripreso animo, cominciò a spiegare la teoria dell'imposta unica di Henry George.
- La terra non è di nessuno. E' di Dio, - disse.
- Verissimo... Proprio così, - approvarono alcune voci.
- La terra dev'essere proprietà comune. Tutti vi hanno uguale diritto. Ma c'è terra e terra. E ciascuno vorrebbe quella buona.
Come fare per eguagliare le parti? In questo modo: chi coltiverà la terra fertile pagherà a chi ne è privo una somma corrispondente al valore del suo terreno, - rispose a se stesso Necliudov. - Ma siccome è difficile stabilire chi deve pagare e a chi si debba pagare, e data anche la necessità di un fondo disponibile per i bisogni comuni, bisogna far in modo che chi possiede la terra paghi alla cassa comune una somma proporzionata alla sua qualità.
Così non si faranno ingiustizie. Vuoi la terra? paga di più per quella fertile, meno per quella grama. Non ne vuoi? non hai nulla da pagare; e in quanto ai bisogni comuni pagheranno per te quelli che hanno la terra.
- E' giusto, giustissimo! - disse il fumista, muovendo le sopracciglia, - chi vuol la terra migliore, che paghi di più!
- Che testa quel Giorgio! - esclamò il vegliardo imponente coi riccioli.
- Basta che il prezzo sia adatto alle nostre forze! osservò il contadino alto dal vocione di basso che evidentemente aveva già capito il seguito del discorso.
- Il prezzo dev'essere stabilito in modo che non sia né troppo alto né troppo basso. Nel primo caso non lo pagherebbero e ne risulterebbe un danno, nel secondo caso tutti commercerebbero la terra fra di loro, vendendosela a vicenda. E con questo, eccovi spiegato il sistema che anch'io intenderei applicare qui da voi.
- Giusto, giustissimo. Ma certo non c'è nulla di male, - dicevano i contadini.
- Ma che testa, - continuava a ripetere il vecchione coi riccioli, - quel Giorgio! Che bella idea ha avuto!
- Be', e se anch'io desiderassi un pezzo di terra? domandò sorridendo il fattore.
- Se ce ne rimarrà, prendetevelo e lavoratevelo! - disse Necliudov.
- Ma che ti serve, sei già grasso abbastanza! - esclamò il vecchio dagli occhi ilari.
E così ebbe termine la discussione.
Necliudov rinnovò ancora una volta la sua proposta, e disse che non pretendeva una risposta immediata. Li consigliava anzi di consultarsi con la comunità, e poi di venire a riferirgli. I contadini promisero che avrebbero fatto a quel modo, e salutato Necliudov, se ne andarono eccitatissimi.
Per un pezzo egli sentì sulla strada le voci animate dei contadini che s'allontanavano. E fino a sera tarda il fiume gli portò l'eco delle loro discussioni nel villaggio.
L'indomani i contadini non lavorarono, ma discussero tutto il giorno. Il villaggio s'era diviso in due partiti: uno riteneva l'offerta del padrone vantaggiosa e innocua, l'altro voleva vederci un tranello, di cui non si spiegava la natura e perciò tanto più pericolosa. Però due giorni dopo, l'accordo fu raggiunto e i contadini andarono da Necliudov ad annunciargli che avevano accettato le condizioni proposte.
Al raggiungimento dell'accordo aveva specialmente contribuito la spiegazione di una vecchietta, subito accettata dagli anziani del villaggio, secondo cui nell'atto del padrone non c'era da vedere alcun inganno. Egli agiva in quel modo perché aveva cominciato a pensare all'anima sua e voleva salvarla.
Questa spiegazione persuase tutti, poiché Necliudov, da quando era a Pànovo, non aveva fatto altro che distribuire denaro ai poveri.
Per la prima volta vedeva da vicino fino a che punto era arrivata la miseria e l'angustia dei contadini; e colpito da questa miseria, benché sapesse di far cosa insensata, non si sentiva l'animo di rifiutare quel denaro che egli possedeva ora a piene mani, soprattutto dopo la vendita avvenuta l'anno prima del bosco di Kuzminskoe e la caparra riscossa sulla vendita delle scorte.
Da quando era corsa voce nel villaggio che il padrone dava denaro a chiunque ne chiedesse, da ogni parte del distretto accorreva gente a frotte, specialmente donne, per chiedergli aiuti.
Necliudov si sentiva imbarazzato, non sapeva come comportarsi, e quanto e a chi dare. Non aveva il coraggio di rifiutare il denaro, lui che ne aveva tanto, a coloro che glielo chiedevano ed erano evidentemente poveri.
Ma quel dare a casaccio, non aveva senso. L'unico mezzo per togliersi d'imbarazzo era partire. E ciò egli si affrettò a fare.
L'ultimo giorno della sua permanenza a Pànovo, Necliudov andò nella casa padronale per fare lo spoglio di ciò che vi era rimasto.
Nell'ultimo cassetto di un vecchio stipo di mogano delle zie, un mobile panciuto ed ornato di anelli di bronzo infilati in teste di leone, trovò un pacco di lettere e un gruppo fotografico: Sòfia Ivànovna, Mària Ivànovna, lui studente e Katiuscia, linda, fresca, bella ed esuberante di vita. Di tutte le cose che erano nella casa, Necliudov prese soltanto quel pacco e quella fotografia. Il resto lo lasciò al mugnaio che, tramite il fattore sorridente, aveva acquistato in blocco per un decimo del suo prezzo la casa e tutta la mobilia di Pànovo.
Ricordando il rimpianto provato a Kuzminskoe all'idea di perdere la sua proprietà, Necliudov si stupì di quel sentimento. Egli ormai provava un senso delizioso di liberazione e di novità; un'impressione simile a quella dell'esploratore davanti al quale si schiudono nuove terre.
La città, al suo ritorno, gli sembrò strana, come se la vedesse per la prima volta. Vi arrivò di sera, coi fanali già accesi, e si recò subito a casa. Tutte le camere erano impregnate di un forte odor di naftalina. Agrafena Petrovna e Kornèi avevano l'aria stanca e malcontenta, e s'erano persino bisticciati a causa di tutta quella roba da riporre, che sembrava esistere soltanto per essere stesa, asciugata e riposta.
Benché non fosse in disordine, la camera di Necliudov non era stata preparata e alcuni bauli ne ostruivano l'accesso.
Evidentemente il suo arrivo aveva turbato il lavoro che, quasi per forza d'inerzia, si compiva in quella casa. Tutto questo riuscì a Necliudov così sgradevole e, nonostante che egli vi avesse un tempo partecipato, di un'assurdità così evidente, in confronto alla miseria dei contadini impressa nel suo ricordo, che decise di andarsene l'indomani all'albergo, lasciando libera Agrafena Petrovna di riporre la roba come le sembrava meglio, fino all'arrivo di sua sorella, che avrebbe poi dato le disposizioni definitive.
L'indomani infatti, egli uscì di buon'ora, e fissò due camere ammobiliate in un albergo molto modesto e piuttosto sudicio, il primo che gli capitò di trovare nelle vicinanze delle prigioni; e dato l'ordine che vi fossero trasportate alcune cose di casa, messe appositamente da parte, andò dall'avvocato.
Fuori faceva freddo. Dopo i temporali e le piogge, il tempo s'era fatto rigido, come succede sempre in primavera. Faceva così freddo e soffiava un vento così frizzante, che Necliudov si sentiva gelare nel suo cappotto leggero, e affrettava il passo per scaldarsi.
La sua mente era piena di gente di campagna: donne, bambini, vecchi, miserie e patimenti che gli sembrava di aver veduto per la prima volta. Rivedeva soprattutto quel piccolino che sorrideva con la faccia di vecchio e torceva le gambette magre... E involontariamente faceva il confronto fra quella vita e la vita di città.
Passando davanti alle botteghe dei macellai, dei pescivendoli e ai negozi di confezioni, era colpito, come se lo notasse per la prima volta, dall'aspetto florido di quasi tutti quei bottegai lindi e grassi, tanto dissimili dalla gente di campagna.
Evidentemente questi individui erano convinti che i loro sforzi per imbrogliare la gente poco pratica di merce, costituissero un'occupazione utilissima, tutt'altro che nociva. Ugualmente sazi gli parvero i cocchieri dalle natiche enormi e i bottoni sulla schiena; i portieri coi berretti gallonati; le cameriere col grembiulino e i riccioli, e soprattutto i vetturini di lusso con la nuca rasata, che, seduti nella loro carrozza, guardavano i passanti con aria sprezzante e corrotta.
In tutti costoro Necliudov involontariamente ritrovava ancora la stessa gente di campagna, spinta dalla miseria in città. Alcuni avevan saputo trar profitto dalla vita cittadina e, divenuti in tutto simili ai signori, vivevano contenti del loro stato. Altri, invece, vivevano peggio che in campagna e facevano ancor più compassione. Così per esempio, quei calzolai che Necliudov vedeva intenti al lavoro dietro la finestra di un sottosuolo; così le lavandaie magre, pallide, scarmigliate che stiravano con le braccia nude e scarne davanti alle finestre aperte da cui si sprigionavano vapori di sapone.
Così pure i due tintori che Necliudov incontrò per la via, imbrattati di colore dalla testa ai piedi, con grembiali e piedi nudi negli zoccoli, le maniche rimboccate fino al gomito sulle braccia scarne, abbronzate e solcate di vene, reggevano faticosamente il secchio del colore lanciandosi continui insulti.
Le loro facce erano stanche e irritate. La stessa espressione avevano i carrettieri che passavano neri di polvere sui carri traballanti; gli uomini, le donne e i bambini laceri e gonfi che questuavano agli angoli delle strade, e le facce che Necliudov intravide dalle finestre aperte di una osteria davanti alla quale gli capitò di passare. Ai tavolini sudici, ingombri di bottiglie e di tazze, fra cui passavano dondolandosi i camerieri vestiti di bianco, sedevano gridando e cantando uomini sudati, scalmanati, inebetiti.
Uno, accanto alla finestra, guardava davanti a sé inarcando le sopracciglia e protendendo le labbra in fuori come nello sforzo di ricordare qualcosa.
"Ma perché son venuti a finire tutti in città?", pensava Necliudov, aspirando senza volerlo, insieme con la polvere portata dal vento gelido, il puzzo diffuso dappertutto di olio irrancidito, che emanava dalla vernice fresca.
Per via incontrò una fila di carri che trasportavano del ferro, e facevano sul selciato disuguale un frastuono così assordante, che a Necliudov dolevano le orecchie e la testa. Per sfuggire a quel fragore accelerò il passo, quando si sentì chiamare per nome. Si fermò e un poco più avanti vide un ufficiale coi baffi impomatati e il viso lustro e raggiante, che, seduto in una vettura pubblica di lusso, lo salutava agitando la mano e scoprendo nel sorriso una dentatura d'una bianchezza abbagliante.
- Necliudov! Tu?
La prima sensazione di Necliudov fu di piacere.
- Ah! Scembòk! - esclamò con gioia, ma subito capì che non c'era alcun motivo di rallegrarsi tanto.
Si trattava di quello Scembòk che era andato a trovarlo dalle zie, allora. Da tempo Necliudov l'aveva perso di vista, ma sapeva di lui che, coperto di debiti fino al collo, era uscito dal reggimento della guardia per entrare in cavalleria, e continuava, non si sapeva come, a mantenersi a galla nel mondo della gente ricca. Il suo aspetto soddisfatto e allegro ne era la prova.
- Come sono contento di averti incontrato. Ormai in città non c'è più nessuno. Be', amico, sei invecchiato... - egli disse scendendo dalla carrozza e raddrizzando le spalle. - Soltanto dal modo di camminare t'ho riconosciuto. Che ne diresti di pranzare insieme?
Dov'è qui da voi che si mangia discretamente?
- Non so se faccio in tempo, - rispose Necliudov, che pensava solo al modo di sbarazzarsi dell'amico senza offenderlo. - E tu come mai sei qua? - gli domandò.
- Affari, fratello! Affari di tutela. Perché, se lo sai, sono curatore. Amministro i beni di Samanov. Sai, il riccone... è un rammollito, ma ha cinquantaquattromila dessiatine di terra, - disse con molta fierezza, come se tutte quelle dessiatine le avesse fatte lui. - Gli affari erano in un disordine spaventoso.
La terra completamente nelle mani dei contadini. Non pagavano un soldo; dovevano più di ottantamila rubli di arretrati. In un solo anno ho trasformato tutto e ho aumentato del settanta per cento gli introiti della tutela. Eh? - domandò con fierezza.
Necliudov ricordò d'aver sentito dire che Scembòk, appunto perché aveva sperperato il suo e contratto debiti che non avrebbe mai potuto pagare, aveva ottenuto, in grazia di una protezione speciale, quella curatela dei beni di un vecchio riccone andato in rovina; curatela che, evidentemente, gli dava da vivere. "Come posso liberarmi di costui senza offenderlo?", pensava Necliudov, osservando la faccia lucida, sanguigna, coi baffi impomatati, e ascoltando le ciance bonariamente amichevoli sui posti dove si mangiava bene, e le vanterie sul modo con cui aveva sistemato gli affari della tutela.
- Dunque, dove si va a mangiare?
- Ma io non ho tempo, - disse Necliudov guardando l'orologio.
- Allora facciamo una bella cosa: stasera ci son le corse. Ci vai, tu?
- No.
- Devi venirci. I miei non li ho più. Ma tengo per i cavalli di Griscia. Ricordi? Ha una scuderia. Devi venire, capito? E ceneremo insieme.
- Neppure a cena, non posso venire, - disse Necliudov sorridendo.
- Ma come? E dove vai adesso? Vuoi che ti accompagni con la carrozza?
- Vado dall'avvocato. Sta qui, svoltato l'angolo, - rispose Necliudov.
- Già, è vero che ti occupi di prigioni. Qualcosa come il legale delle carceri, no? Me l'han detto i Korciaghin, - disse ridendo Scembòk. - Sono già partiti, loro. Raccontami un po', di che si tratta?
- Sì, sì, è vero, - rispose Necliudov, - ma che vuoi che ti racconti per la strada?
- Sicuro, sicuro, sei sempre stato un bell'originale! E così verrai alle corse?
- Ma no. Non posso e non voglio. Ti prego di non offenderti.
- Ci mancherebbe altro! Dove stai? - domandò. E il suo viso improvvisamente si fece serio, lo sguardo si fissò, le sopracciglia s'inarcarono. Si capiva che voleva ricordare qualcosa, e Necliudov colse in lui la stessa espressione ebete che aveva notato nell'uomo con le sopracciglia sollevate e la bocca aperta, dietro la finestra dell'osteria.
- Che freddino, eh?
- Già, già...
- Le compere le hai tu? - si rivolse Scembòk al cocchiere. - Be', allora addio! Sono molto, molto contento di averti incontrato, - disse. E stretta con forza la mano a Necliudov, saltò nella carrozza, agitando davanti alla faccia lustra la grossa mano chiusa in un guanto di camoscio bianchissimo, e scoprendo nel sorriso sterotipato i denti d'un candore abbagliante.
"Possibile che anch'io fossi così?", pensò Necliudov, proseguendo verso la casa dell'avvocato. "Se non proprio così, facevo però di tutto per esserlo e pensavo che quella fosse la mia vita.
L'avvocato ricevette Necliudov senza indugio e cominciò subito a parlare del processo Mensciòv: aveva letto l'incartamento ed era indignato per l'infondatezza dell'accusa.
- E' rivoltante, - disse; - con tutta probabilità l'incendio è stato appiccato dallo stesso proprietario per riscuotere il premio dell'assicurazione, ma il fatto è che non vi sono prove della colpevolezza dei Mensciòv. Neppure un indizio. Tutto effetto dell'eccessivo zelo del giudice istruttore e dell'incuria del sostituto procuratore. Se la causa sarà discussa qui, e non al tribunale del distretto, m'impegno a vincerla, e non voglio essere pagato. In quanto alla Fedossia Biriùkova ho preparato il ricorso per la grazia sovrana. Se andate a Pietroburgo portatelo con voi.
Cercate di consegnarlo personalmente e di appoggiarlo, altrimenti faranno l'inchiesta e non si otterrà nulla. Bisognerebbe proprio arrivare a qualche pezzo grosso della commissione dei ricorsi. Non c'è altro, vero?
- Ecco, mi scrivono ancora...
- Vedo proprio che siete diventato l'imbuto, il cannello per cui passano tutte le lamentele del carcere, - disse sorridendo l'avvocato. - Ne avete già abbastanza, non ce la farete...
- No, ma questo è un caso mostruoso, - disse Necliudov e raccontò in breve di che si trattava.
Un contadino un po' istruito, si era messo a leggere e a spiegare il Vangelo ai suoi amici. Il clero, ritenendolo un delitto, l'aveva denunciato. Il giudice istruttore aveva fatto l'inchiesta, il sostituto procuratore aveva redatto l'atto di accusa... e la Corte d'Appello l'aveva confermata.
- Una cosa spaventosa, - disse Necliudov. - E' possibile che sia vera?
- Ma di che vi meravigliate tanto?
- Di tutto: posso ancora capire il maresciallo che ha ricevuto l'ordine... ma che il sostituto procuratore abbia scritto l'atto di accusa... lui è una persona istruita!
- Qui sta l'errore; noi tutti siamo abituati a credere che i procuratori e i magistrati in generale siano gente evoluta, di idee liberali. Una volta, forse, era così, ma ora le cose sono mutate. Sono impiegati che pensano unicamente al venti del mese.
Le loro aspirazioni si limitano a riscuotere lo stipendio e a desiderarne uno maggiore. Sono pronti ad accusare, a giudicare, e a condannare chiunque voi vogliate.
- Ma è possibile che le leggi permettano di deportare un uomo perché legge il Vangelo cogli amici?
- Sicuro, e non solo la deportazione semplice (1) ma persino i lavori forzati, se c'è il minimo sospetto che quest'uomo, leggendo il Vangelo, si sia permesso di interpretarlo in un modo diverso da quello ufficiale ed abbia con ciò offeso la Chiesa. Critica in pubblico alla fede ortodossa, deportazione in Siberia. Articolo 196...
- Ma è impossibile!
- Ve lo dico io. Lo ripeto sempre ai signori giudici, - proseguì l'avvocato, - che quando li vedo non posso far a meno di provare un senso di riconoscenza, perché se io e voi e noi tutti siamo liberi, lo dobbiamo esclusivamente alla loro bontà; con la massima facilità potrebbero infatti privarci dei diritti civili e appioppare l'esilio semplice.
- Ma se è così, se tutto dipende dall'arbitrio del sostituto procuratore e di altri che possono, come lui, interpretare la legge a modo loro, a che serve il tribunale?
L'avvocato rise allegramente.
- Ma che razza di domande fate? Via, mio caro, questa è filosofia!
Del resto, perché non discuterne? Venite da me sabato, ci saranno scienziati, letterati, artisti. Potremo parlare anche di problemi sociali, - disse l'avvocato pronunciando con un "pathos" pieno di ironia le parole "problemi sociali". - Conoscete mia moglie?
Venite.
- Sì, cercherò - rispose Necliudov, sentendo che mentiva e che invece avrebbe evitato accuratamente di andare in casa dell'avvocato, perché non aveva nessuna voglia di conoscere gli scienziati, i letterati e gli artisti che si radunavano da lui.
La risata con cui gli aveva risposto, quando Necliudov aveva detto che i tribunali erano un nonsenso, se i magistrati potevano secondo il loro arbitrio applicare o non applicare le leggi, e il tono con cui aveva pronunciato le parole filosofia e problemi sociali, avevano fatto capire a Necliudov che il suo modo di giudicare e di sentire differiva in tutto da quello dell'avvocato e, probabilmente, dei suoi amici. E nonostante che egli si sentisse ormai molto lontano dai vecchi conoscenti, sul tipo di Scembòk si sentiva ancor più lontano dall'avvocato e dalle persone della sua cerchia.
NOTE:
Il carcere era lontano e l'ora già avanzata, sicché Necliudov noleggiò una carrozza e si fece condurre alla prigione. Per via il cocchiere, un uomo di media età dalla faccia intelligente e bonaria, si rivolse a Necliudov e gli additò un grande edificio in costruzione.
- Guardate un po' qua! - disse con aria fiera, come se quella costruzione fosse in parte merito suo.
Era difatti una casa enorme, costruita in uno stile complicatissimo e strano. Una solida impalcatura di grossi pali di pino tenuti insieme da sbarre di ferro circondava il fabbricato in costruzione, separato dalla strada per mezzo di un assito.
Sull'impalcatura si affaccendavano come formiche i muratori, tutti spruzzati di calcina; alcuni disponevano le pietre, altri le spaccavano e altri ancora portavano sù piene le carriole e le secchie e le riportavano giù vuote.
Un grosso signore molto ben vestito, probabilmente l'architetto, ritto presso l'impalcatura, parlava al capomastro che lo ascoltava con deferenza e gli indicava qualcosa in alto. Dal portone, passando davanti ai due, uscivano i carri vuoti ed entravano i carri pieni.
"E pensare che tutta questa gente, tanto quelli che lavorano, quanto quelli che dirigono, è persuasa di far cosa utile; e mentre al paese le loro donne incinte si logorano di fatica e i loro bambini in cuffietta, condannati a morire precocemente di fame, sorridono con un sorriso da vecchi torcendo le gambette, essi credono di fare il loro dovere costruendo questo stupido e inutile palazzo per qualche stupida e inutile persona, di quelle che li rovina e li deruba!". Così pensava Necliudov, osservando la casa.
- Già, che casa assurda! - pensò ad alta voce.
- Come, assurda? - replicò il cocchiere risentito; - grazie tante!
dà da lavorare alla gente...
- Ma se è un lavoro inutile!
- Se fosse inutile non lo farebbero, - ribatté il cocchiere - dà da mangiare a molti poveretti.
Necliudov tacque, tanto più che il rumore delle ruote sul selciato rendeva difficile la conversazione.
Poco lontano dalla prigione il cocchiere passò dal selciato sulla terra battuta, sicché fu più facile discorrere, e si rivolse nuovamente a Necliudov.
- E tutta questa gente che viene in città! Uno spavento! - disse rigirandosi sul suo sedile e mostrando a Necliudov una squadra di operai di campagna con le seghe, le scuri, i pellicciotti corti e i fagotti sulle spalle, che venivano verso di loro.
- Più che negli altri anni? - domandò Necliudov.
- Altro che! Ce n'è a mucchi dappertutto, un disastro! I padroni se li passano dall'uno all'altro come pezzi di legno. C'è pieno dappertutto.
- Ma perché?
- Sono in troppi. Non san più dove mettersi.
- Se è così, perché non rimangono al villaggio?
- Là non c'è niente da fare. Non c'è terra.
Necliudov provò quel che capita quando si ha una botta: sembra che, neanche a farlo apposta, uno ci batta sempre contro; e questo succede perché si avvertono soltanto i colpi sulla parte dolente.
"Possibile che sia sempre la stessa storia?", pensò, e chiese al cocchiere quanta terra c'era nel suo paese, quanta ne aveva lui, e perché viveva in città.
- Di terra, signore, noi ne abbiamo una dessiatina a testa. Per tre persone ne abbiamo, - rispose il cocchiere, che parlava volentieri. - A casa ci sono mio padre e un mio fratello. Un altro è soldato. Si arrangiano, ma c'è poco da arrangiarsi... Anche mio fratello voleva venirsene a Mosca.
- Non potreste affittare dell'altra terra?
- E dove? I padroni, quelli di prima, hanno fatto fuori la loro.
E' andata a finire tutta nelle mani dei mercanti. E questi non l'affittano, la lavorano per conto proprio. Da noi c'è un francese che ha comprato tutta la terra del padrone di prima. Non vuole affittare e basta.
- Che francese?
- Un certo Dufar, forse ne avete sentito parlare. Fa le parrucche per gli attori del teatro grande. Un mestiere redditizio... E' diventato ricco. Tutta la proprietà della nostra signorina, s'è comprato... Adesso il padrone è lui. Ci calpesta come gli pare e piace. E grazie ancora che lui è un buon uomo, mentre sua moglie... Sua moglie, una russa, è una cagna tale, che Dio ce ne scampi e liberi! Scortica la povera gente. Una vergogna! Ma eccoci alla prigione. Volete che vi conduca fino alla porta? Ho idea però che non vi lascino passare.
Col cuore sospeso, Necliudov suonò all'ingresso principale. Si domandava pieno d'angoscia come avrebbe trovato la Màslova, sentendo in lei, come del resto in tutta la gente rinchiusa là dentro, un enigma pauroso. Al guardiano che gli venne ad aprire domandò della Màslova. Costui, dopo essersi informato, gli riferì che si trovava all'infermeria. Necliudov vi andò. Il custode dell'infermeria, un vecchietto bonario, lo fece subito entrare, e saputo chi voleva vedere, lo indirizzò nel reparto dei bambini.
Un giovane dottore, che emanava un forte odore di acido fenico, fermò Necliudov nel corridoio, e gli domandò in tono burbero che cosa volesse. Questo dottore, per l'indulgenza con cui trattava i detenuti, era spesso in urto con la direzione del carcere ed anche col primario. Ora temeva che Necliudov gli chiedesse qualche favore illecito e si fingeva burbero per dimostrargli che non faceva eccezione per nessuno.
- Qui non ci son donne, è il reparto dei bambini, disse.
- Lo so, ma io cerco una donna trasferita dalla prigione, un'inserviente infermiera.
- Sì, ce ne son due. Che cosa desiderate?
- M'interesso vivamente a una di loro, la Màslova, - disse Necliudov, - e vorrei vederla. Devo andare a Pietroburgo per presentare in Cassazione il ricorso contro la sua condanna. Avrei piacere di darle questo: non è che una fotografia... - disse Necliudov levando dalla tasca una busta.
- Se è tutto qui... - rispose il dottore rabbonito, e rivoltosi a una vecchietta in grembiule bianco, le ordinò di chiamare la detenuta infermiera Màslova.
- Volete accomodarvi qui o preferite passare nel parlatorio?
- Grazie, - rispose Necliudov, e approfittando della improvvisa gentilezza del dottore, gli domandò se erano contenti della Màslova.
- Non c'è male. Lavora benino, se si pensa all'ambiente in cui viveva, - disse il dottore. - Ma eccola.
Da una porta comparve la vecchia infermiera e dietro a lei la Màslova. Portava il grembiule bianco sopra un vestito a righe, e aveva il capo avvolto in un fazzoletto che le nascondeva i capelli. Vedendo Necliudov si fece di fiamma, e indugiò come indecisa, poi aggrottò la fronte e a occhi bassi si diresse verso di lui, camminando svelta lungo la passatoia del corridoio.
Quando gli fu vicina, esitò prima di dargli la mano, ma poi gliela tese, e arrossì ancor di più. Necliudov non l'aveva più riveduta dal giorno in cui gli aveva chiesto scusa delle sue escandescenze, e s'aspettava ora di trovarla nello stesso stato d'animo. Ma vide invece una donna completamente diversa. Nell'espressione del suo viso vi era qualcosa di nuovo: un senso di riserbo, di timidezza e, gli sembrò, di ostilità.
Necliudov le disse, come già aveva spiegato al dottore, che partiva per Pietroburgo, e le diede la busta con la fotografia di Pànovo.
- L'ho trovata a Pànovo; è una vecchia fotografia che forse vi farà piacere. Potete tenervela.
Essa inarcò le sopracciglia nere e lo guardò meravigliata coi suoi occhi strabici come se volesse chiedergliene il perché. Poi senza dir nulla prese la busta e la nascose sotto il grembiule.
- Ho visto vostra zia, - disse Necliudov.
- Davvero? - essa rispose con indifferenza.
- Vi trovate bene qui? - le domandò lui.
- Non c'è male, grazie.
- E' un lavoro faticoso?
- No, affatto. Ma non ci sono ancora abituata.
- Sono molto contento per voi. E' sempre meglio che là.
- Dove là? - essa domandò e il suo viso s'imporporò tutto.
- In prigione! - s'affrettò a dire Necliudov.
- Perché meglio? - domandò lei.
- Penso che la gente qui sia meglio. Altro genere di persone.
- Là c'è molta brava gente, - essa disse.
- Mi sono interessato per i Mensciòv e spero che li mettano in libertà, - disse Necliudov.
- Dio lo volesse, è una vecchietta tanto straordinaria! - replicò lei, ripetendo la sua solita definizione della vecchia. E sorrise lievemente.
- Oggi parto per Pietroburgo. Il vostro ricorso sarà discusso presto e io spero di far annullare la sentenza.
- Che l'annullino o no, ormai fa lo stesso... - essa disse.
- Perché, ormai?
- Così, - rispose lei, guardandolo di sfuggita con aria interrogativa.
Necliudov credette che con quella parola e con quella occhiata essa volesse chiedergli se intendeva mantenere la decisione presa o se avesse mutato idea dopo il rifiuto che gli aveva opposto.
- Non capisco, perché dite che per voi fa lo stesso... - disse. - Ma per me lo è veramente. Che vi assolvano o no, - egli riprese, - in tutti i casi sono pronto a far quel che ho detto - disse risolutamente.
Essa alzò la testa e lo guardò intensamente con gli occhi neri strabici, mentre il suo viso s'illuminava tutto di gioia. Ma non disse quel che esprimevano i suoi occhi.
- Questo è un discorso inutile, - osservò.
- Lo dico perché lo sappiate.
- E' un argomento esaurito e non c'è altro da aggiungere, - disse lei, trattenendo a fatica un sorriso.
Nella stanza si udì un rumore. Un bimbo piangeva.
- Mi par che mi chiamino, - disse guardandosi attorno inquieta.
- Be', allora arrivederci!
Ella finse di non vedere la mano tesa, e senza salutarlo, cercando di nascondere la sua gioia, se ne andò a passi rapidi lungo la passatoia del corridoio.
"Che avviene in lei? Che pensa? Che sente? Vuol mettermi alla prova o veramente non mi può perdonare? Non sa o non vuole dirmi quello che le passa nella mente e nel cuore? Si è fatta più mite o s'è invece inasprita?", si domandava Necliudov, e non sapeva trovare una risposta. Questo soltanto sapeva, che era diversa: nel suo animo si stava operando una profonda trasformazione e in virtù di essa egli si sentiva più vicino a lei e a Colui in nome del quale la trasformazione avveniva.
E quel pensiero gli empiva l'anima di gioia, lo eccitava e lo commuoveva.
Quando la Màslova rientrò nella corsia, dove si vedevano otto lettini, la suora le ordinò di rifare i letti. Mentre era intenta al suo lavoro, ad un tratto nel tendere un lenzuolo, fece una mossa falsa e fu lì lì per cadere. A quella vista un bambino convalescente col collo fasciato cominciò a ridere e la Màslova che stentava a contenere la sua gioia, si sedette sul letto, scoppiando in una risata così sonora e contagiosa che parecchi bambini le fecero eco, e la suora la sgridò aspramente.
- Che cos'hai da sghignazzare? Ti credi d'essere là? Va' a prendere le porzioni.
La Màslova tacque e preso un recipiente, ubbidì all'ordine; ma scambiando uno sguardo col ragazzo fasciato al quale era stato proibito di ridere, scoppiò in una nuova risata, malamente repressa.
Più volte, quando le capitò di rimanere sola durante la giornata, la Màslova tirò un po' fuori dalla busta la fotografia per darle una sbirciatina; ma soltanto la sera dopo il servizio, quando poté ritirarsi nella cameretta che divideva con l'altra inserviente, tolse del tutto il ritratto dalla busta e lo contemplò a lungo, estatica. I suoi occhi accarezzavano ogni particolare dei volti e degli abiti, e i gradini del balcone, e i cespugli che facevano da sfondo al viso di lui, al suo e a quello delle zie. Contemplava il vecchio ritratto ingiallito e non poteva saziarsi di ammirare se stessa, il suo volto giovane e bello coi riccioli che le saltellavano sulla fronte. Era talmente assorta, che non s'accorse neppure quando la sua compagna entrò nella stanza.
- Che cos'è? Te l'ha data lui? - disse l'infermiera, una donna grassa e bonacciona, chinandosi a guardare la fotografia.- Sei tu quella lì?
- Chi vuoi che sia! - rispose la Màslova sorridendo e guardando in faccia la sua compagna.
- E questo chi è, lui? E quella la sua mamma?
- La zia. Ma davvero non mi avresti riconosciuto? - domandò la Màslova.
- Come riconoscerti! Neanche per sogno, t'avrei riconosciuta.
Tutta un'altra faccia! Eh, sarà passata una decina d'anni, da allora!
- Non anni, ma tutta una vita! - disse la Màslova e la sua animazione svanì di colpo.
Il suo viso divenne triste, e una ruga le apparì fra le sopracciglia.
- Perché? La vita "là" dev'essere facile.
- Già, facile! - ripeté la Màslova, chiudendo gli occhi e scuotendo il capo. - Peggio della galera!
- Come mai?
- Come mai! Dalle otto di sera alle quattro del mattino, tutti i giorni uguali.
- E perché allora non la piantano?
- Si vorrebbe, ma non si può. Ma a che scopo parlarne... - mormorò la Màslova.
Si alzò di scatto, gettò la fotografia in un cassetto del tavolino, e trattenendo a stento lacrime di collera, scappò nel corridoio sbattendo l'uscio.
Guardando la fotografia, le era sembrato di ritornare la fanciulla di quell'immagine - aveva rievocato la felicità di un tempo e s'era illusa che avrebbe potuto ancora essere felice con lui. Ma le parole della compagna le ricordarono lo stato in cui si trovava e la vita che aveva fatto. Le ricordarono tutto l'orrore di quella vita, che essa aveva sempre vagamente intuito senza però mai ammetterlo apertamente.
Per la prima volta le balzò vivido alla memoria il ricordo di quelle notti spaventose, e di una in particolare, una notte di carnevale in cui aspettava uno studente che aveva promesso di redimerla. Con un abito di seta rossa scollato e imbrattato di vino, un nastro rosso nei capelli scarmigliati, stanca, infiacchita e ubriaca, dopo aver accompagnato alle due di notte un cliente, s'era seduta in un intervallo delle danze vicino all'accompagnatrice del violinista, una donna magra, ossuta, piena di foruncoli. Le aveva confessato com'era penosa la sua vita, e la pianista le aveva risposto che lei pure sentiva il peso della sua condizione e avrebbe voluto cambiare. Poi era sopraggiunta Klara e tutte e tre avevano deciso di andarsene da quella casa. Credevano che la notte fosse finita e stavano per ritirarsi, quando s'erano udite in anticamera voci di clienti ubriachi. Il violinista attaccò il ritornello di una canzonetta russa molto allegra, e la pianista pestò sul piano l'accompagnamento per la prima figura della quadriglia; un omettino ubriaco che puzzava di vino e aveva il singhiozzo, con la cravatta bianca e il frac, che poi si tolse alla seconda figura, afferrò la Màslova per la vita, mentre un grassone con la barba, anche egli in frac - tutti e due ritornavano da un ballo - si prese la Klara. E fra balli, danze, grida e vino, la notte se n'era andata.
Così era passato un anno, poi due, poi tre. Come non cambiare? E lui era la causa di tutto. Improvvisamente si sollevò nel suo animo una nuova ondata di odio. Avrebbe voluto insultarlo, offenderlo... Si pentì d'essersi lasciata sfuggire l'occasione, quello stesso giorno, di dirgli ancora una volta che lo conosceva, che non gli avrebbe ceduto, che non gli avrebbe permesso di approfittare della sua anima come aveva approfittato del suo corpo. Non gli avrebbe permesso di far di lei lo zimbello della sua generosità.
E per soffocare in qualche modo questo senso angoscioso di pena, di vana esasperazione e di collera, le venne voglia di bere. Se fosse stata nel carcere, avrebbe certamente ceduto alla tentazione, nonostante la sua promessa. Ma lì, l'acquavite era in possesso dell'infermiere capo, e di costui essa aveva paura perché la molestava. Ormai l'idea dei rapporti sessuali le ispirava ribrezzo.
Rimase perciò a sedere sopra una panchina nel corridoio; poi rientrò nella cameretta e senza rispondere alle domande della compagna, pianse a lungo sulla sua esistenza rovinata.
A Pietroburgo Necliudov doveva occuparsi di quattro pratiche.
Oltre al ricorso in Cassazione della Màslova, e all'istanza di Fedossia Biriùkova alla commissione apposita, c'era l'incarico affidatogli da Viera Bogoducòvskaia: chiedere al capo della gendarmeria, o alla terza sezione (1), che la Sciustova venisse scarcerata, e che fosse concesso un colloquio alla madre di un detenuto in fortezza. Queste due ultime commissioni Necliudov le considerava una sola. La quarta pratica riguardava i settari esiliati nel Caucaso, lontano dalle famiglie, perché avevano letto e commentato il Vangelo. Necliudov aveva promesso non tanto a loro quanto a se stesso di fare tutto il possibile per chiarire questa cosa.
Dopo l'ultima visita a Màsliennikov, e soprattutto dopo il suo giro in campagna, Necliudov era stato preso, suo malgrado, da una profonda ripugnanza per l'ambiente in cui era vissuto fin allora, l'ambiente che teneva accuratamente celate le sofferenze di milioni di esseri, per assicurare i piaceri e le comodità di un'esigua minoranza, la quale, non vedendo e non potendo vedere quelle sofferenze, non vedeva neppure la crudeltà e la disonestà della propria vita.
Ormai, incontrando le persone di questo ambiente, Necliudov non poteva far a meno di provare un senso di imbarazzo e di rimorso.
Ma nello stesso tempo se ne sentiva anche attratto. Lo univano ad esso le vecchie abitudini, le parentele e le amicizie. E poi, per svolgere l'opera che gli stava tanto a cuore, per poter soccorrere la Màslova e gli altri infelici, doveva assolutamente sollecitare l'appoggio e i favori di quel mondo, ricorrendo a persone che non stimava e che spesso, anzi, suscitavano in lui indignazione e disprezzo.
Giunto a Pietroburgo, si fermò da una zia materna, la contessa Ciarski, moglie di un ex ministro, tuffandosi in tal modo proprio nel cuore della società aristocratica che gli era divenuta tanto estranea. Ciò gli pesava, ma era inevitabile. Se si fosse fermato all'albergo, la zia si sarebbe offesa. E, d'altra parte, la zia aveva relazioni altolocate e poteva essergli utilissima in tutte le pratiche che voleva sbrigare.
- Ma che sento di te? Cose strabilianti! - gli disse la contessa Jekatierina Ivànovna poco dopo il suo arrivo, dandogli il caffè. - "Vous posez pour un Howard" (2). Soccorri i delinquenti, visiti le prigioni, raddrizzi i torti...
- Ma no, non ci penso neppure.
- Che c'è di male, è una cosa buona. Ma ci dev'esser sotto qualche storia romantica. Su dunque, racconta.
Necliudov raccontò per filo e per segno la sua storia con la Màslova.
- Ricordo, ricordo, la povera Hélène mi disse qualcosa a questo riguardo, quando vivevi da quelle vecchiette... mi sembra volessero farti sposare la loro pupilla...
La contessa Jekatierina Ivànovna aveva sempre considerato con disprezzo le zie paterne di Necliudov.
- E' dunque lei? "Elle est encore jolie"? (3) La zietta Jekatierina Ivànovna era una donna di sessant'anni, sana, allegra, energica e loquace. Alta di statura e molto grassa aveva sul labbro due baffetti neri.
Necliudov le voleva bene e fin da bambino subiva l'influsso della sua energia e del suo buonumore.
- No, "ma tante" (4), è una storia finita. Vorrei soltanto aiutarla, giacché è stata condannata ingiustamente e per colpa mia. Io solo sono colpevole di tutto il suo destino. Mi sento in dovere di fare per lei quanto posso.
- Ma è vero quel che mi dicono, che vuoi sposarla?
- Sì, io volevo, ma lei no.
Jekatierina Ivànovna corrugò la fronte e socchiuse gli occhi, guardando il nipote meravigliata e senza parola. Poi improvvisamente mutò espressione e sembrò soddisfatta.
- Bene, è più intelligente di te. Ah, che stupido sei mai! E tu l'avresti sposata?
- Indubbiamente.
- Dopo quel che è stata?
- Ragione di più. La colpa è tutta mia.
- No, sei semplicemente un babbeo, - disse la zia trattenendo un sorriso. - Un tremendo babbeo, ma io ti amo proprio per questo, che sei un tremendo babbeo, - ripeteva, evidentemente soddisfatta di questa parola che a suo parere rendeva a puntino lo stato intellettuale e morale di suo nipote. - A proposito, - proseguì, - sai che Aline ha aperto un magnifico ricovero per le Maddalene? Ci sono stata una volta. Sono disgustose: dopo, non la finivo più di lavarmi... Ma Aline ci si è dedicata "corps et âme" (5). Possiamo darle anche la tua. Se c'è qualcuno che può redimerle, è proprio Aline.
- Ma se l'hanno condannata ai lavori forzati! Sono venuto apposta per cercare di ottenere l'annullamento della sentenza. E' il primo dei piaceri che ho da chiedervi.
- Ho capito. E dove si dibatte la causa?
- In Cassazione.
- In Cassazione? Ma in Cassazione c'è il mio caro "cousin" Liòvuscka. Già, veramente, lui è nella sezione "araldica". Dei veri membri non conosco proprio nessuno. Tutta gente piovuta Dio sa da dove, o tedeschi: "Ghe, Fe, De, tout l'alphabet"; e ogni sorta di Ivànov, Semionov, Nikitin, oppure "pour varier" Ivànienko, Simònienko, Nikìtienko. "Des gens de l'autre monde" (6). Be', proverò a dirlo a mio marito. Lui li conosce. Conosce tutti. Ma tu, spiegagli di che si tratta, altrimenti da me non capirebbe mai. Qualunque cosa io dica, lui dice sempre che non capisce nulla. "C'est un parti pris" (7). Tutti capiscono tranne lui.
In quel momento entrò un servitore in livrea portando una lettera su un vassoio d'argento.
- Giusto da Aline. E potrai sentire anche Kisevetter!
- Chi è Kisevetter?
- Kisevetter? Vieni oggi, così saprai chi è. Parla in un modo che i delinquenti più incalliti si buttano in ginocchio a piangere di pentimento.
La contessa Jekatierina Ivànovna, per quanto ciò potesse sembrare strano e mal si accordasse col suo carattere, era una ardente fautrice della teoria secondo la quale l'essenza del cristianesimo consiste nella redenzione. Frequentava le adunanze dove si predicava questa dottrina, allora di moda, e radunava gli adepti a casa sua.
Nonostante che questa dottrina non ammettesse né riti né icone, né misteri, in casa di Jekatierina Ivànovna c'erano icone in tutte le camere e persino sopra il suo letto, ed essa adempiva tutte le pratiche religiose, senza accorgersi del controsenso.
- Potesse sentirlo la tua Maddalena! Si convertirebbe, - disse. - E tu fa in modo di essere senz'altro in casa questa sera. Lo sentirai. E' un uomo straordinario.
- Non m'interessa, "ma tante".
- E io ti dico che è interessante. Devi venire assolutamente. Su, dimmi ancora che cosa ti occorre da me. "Videz votre sac" (8).
- Devo occuparmi di uno che è in fortezza.
- In fortezza? posso darti un biglietto per il barone Kriegsmut.
"C'est un très brave homme" (9). Ma lo conosci anche tu. E' un amico di tuo padre. "Il donne dans le spiritisme" (10). Ma questo non significa niente. E' buono. Che gli devi chiedere?
- Che si permetta ad una madre di visitare il figlio detenuto in fortezza. Ma mi hanno detto che non dipende da Kriegsmut ma da Cervianski.
- Cervianski non mi piace, ma è il marito di Mariette. Si può chiederlo a lei. Per me lo farà. "Elle est très gentille" (11).
- Devo intercedere anche per una donna. E' in prigione da parecchi mesi e nessuno sa perché.
- Ma no, lei certamente lo sa il perché. Loro lo sanno benissimo.
Se lo meritano, queste donne coi capelli corti!
- Non sappiamo se se lo meritino o no. Ma certo soffrono. Voi che siete cristiana e credete nel Vangelo, come potete essere così spietata?
- Che c'entra? Il Vangelo è il Vangelo e quel che è male è male.
Sarebbe peggio se fingessi di amare i nichilisti e specialmente le nichiliste coi loro capelli corti, mentre invece non le posso soffrire!
- Perché non le potete soffrire?
- Dopo il primo marzo (12) domandi perché?
- Ma non tutte hanno partecipato al primo marzo!
- Fa lo stesso: perché s'immischiano in cose che non le riguardano? Non sono faccende da donne...
- Ma Mariette per esempio, ammettete pure che se ne occupi, - disse Necliudov.
- Mariette? Mariette è Mariette. Ma quella lì chissà mai chi è, una Kaltiùpkina (13) qualunque che pretende di insegnare a tutti.
- Non insegnare, ma aiutare il popolo.
- Lo si sa anche senza di loro chi ha bisogno d'aiuto e chi no.
- Ma intanto il popolo soffre. Ve lo dico io che torno adesso dalla campagna. E' forse giusto che i contadini lavorino fino al limite estremo delle loro forze e non mangino a sufficienza, mentre noi viviamo in un lusso spaventoso? - domandò Necliudov, indotto suo malgrado dalla bonarietà della zia a comunicarle tutti i suoi pensieri.
- Ma tu desideri forse che io lavori e non mangi nulla?
- No, io non voglio che voi non mangiate, - rispose Necliudov, sorridendo involontariamente, - vorrei che lavorassimo tutti e tutti avessimo da mangiare.
La zia lo fissò di nuovo con curiosità, abbassando la fronte e stringendo le pupille.
- "Mon cher, vous finirez mal" (14), - disse.
- Ma perché?
In quel momento entrò nella camera un generale alto, dalle spalle larghe. Era il marito della contessa Ciarski, ministro a riposo.
- Ah, Dmitri, buongiorno! - disse offrendogli la guancia rasa di fresco. - Quando sei arrivato?
Senza dir nulla baciò la moglie sulla fronte.
- "Non, il est impayable" (15), - si rivolse la contessa Jekatierina Ivànovna al marito. - Mi ordina di andare al fiume a lavare la biancheria e di mangiar patate. E' un vero sciocco, ma tu cerca lo stesso di accontentarlo. Un vero babbeo, - si corresse. - Di', hai sentito? Pare che la Kàmenskaia sia talmente disperata che si teme per la sua vita, - si rivolse al marito, - faresti bene a passare da lei.
- Già, è una cosa orribile! - rispose il marito.
- E ora, andate a parlare di là, che io devo scrivere alcune lettere.
Necliudov era appena entrato nella camera attigua che essa gli gridò dall'altra stanza:
- Dunque, devo scrivere a Mariette?
- Per favore, "ma tante".
- Lascerò "en blanc" quel che si deve fare per la tua nichilista:
lei passerà l'ordine al marito e lui lo farà. Non credere che io sia cattiva. Sono tutte orripilanti le tue "protegées", ma "je ne veux leur pas de mal" (16). Dio le protegga! Be', va pure. E stasera bada assolutamente di non mancare. Sentirai Kisevetter.
Pregheremo insieme. E se sarai capace di non far opposizione, "ça vous fera beaucoup de bien" (17). Lo so, che Hélène e voi tutti siete rimasti molto indietro. Arrivederci, dunque.
NOTE:
Il conte Ivàn Micàilovic', l'ex ministro, era un uomo di principi incrollabili. Fin dalla giovinezza credeva che, come l'uccello si nutre di vermi, è coperto di penne e di piume, e vola nell'aria, così lui per legge di natura doveva mangiare cibi raffinati, preparati apposta da cuochi di gran classe, indossare gli abiti più comodi e più eleganti, farsi scarrozzare dai cavalli più mansueti e più veloci e trovar tutto a sua disposizione.
Il conte Ivàn Micàilovic' riteneva inoltre che quanto più denaro le sue varie funzioni gli fruttassero da parte dell'erario, quanto più numerose fossero le sue decorazioni, compresi i distintivi di diamanti, e quanto più spesso avesse visto e parlato con persone altolocate d'ambo i sessi, tanto meglio sarebbe stato per lui. In confronto a questi canoni fondamentali, tutto il resto era per il conte Ivàn Micàilovic' privo di valore e d'interesse. Che le cose andassero in un modo piuttosto che in un altro, non aveva importanza. Uniformandosi a questi principi, il conte Ivàn Micàilovic' aveva esplicato la sua attività a Pietroburgo per quarant'anni, in capo ai quali era stato nominato ministro.
Il conte Ivàn Micàilovic' aveva raggiunto quella carica, grazie ad alcuni requisiti essenziali. Prima di tutto sapeva interpretare il senso dei documenti ufficiali e delle leggi, e sebbene con qualche peccato di forma, sapeva redigere documenti facilmente comprensibili e senza far errori di ortografia. In secondo luogo, era straordinariamente imponente, e poteva, in certi casi, assumere un contegno altero e talvolta persino maestoso e inaccessibile, e in certi altri, essere servile fino al fanatismo e alla viltà. In terzo luogo, non aveva scrupoli né morali né politici, di modo che poteva, secondo l'opportunità, essere d'accordo con tutti o non esserlo con nessuno.
In questo suo modo di agire la sua unica preoccupazione era quella di mantenere il tono e di non cadere in palese contraddizione con se stesso; che poi i suoi atti fossero intrinsecamente morali o no e che da essi potesse conseguire il massimo bene o il male più funesto per l'impero russo e per l'umanità, era un pensiero che non lo turbava affatto.
Quando divenne ministro, tutti i suoi subordinati - e ne aveva molti, anche fra gli intimi - tutti gli estranei e in particolar modo egli stesso, avevano la certezza che si sarebbe dimostrato un uomo di Stato di primissimo ordine. Ma quando, dopo un certo tempo, si vide che egli non aveva costruito nulla e nulla dimostrato, e quando per la solita legge della lotta per la vita, altri funzionari imponenti e senza scrupoli, che, come lui, erano in grado di compilare, redigere e capire i documenti ufficiali, riuscirono a soppiantarlo, egli fu costretto a dimettersi. E in quel momento fu chiaro a tutti che, ben lungi dall'essere un uomo d'intelligenza eccezionale, era anzi limitatissimo, nonostante la sua boria, piuttosto ignorante, e in fatto di idee, sì e no al livello degli articoli di fondo dei giornali conservatori. Risultò evidente che non si distingueva in nulla dagli altri funzionari presuntuosi e poco istruiti che l'avevano soppiantato. Se ne accorse egli stesso, ma ciò non turbò minimamente la sua convinzione che l'erario fosse obbligato a passargli ogni anno un mucchio di denaro e nuove decorazioni per la sua uniforme di parata. Questa convinzione era in lui tanto salda che nessuno osava contraddirlo, sicché, in parte sotto forma di pensione, in parte a titolo di compensi come membro della più alta istituzione governativa, e come presidente di svariate commissioni e comitati, egli riscuoteva annualmente alcune decine di migliaia di rubli e acquistava di anno in anno il diritto, da lui molto apprezzato, di far cucire un gallone di più alle spalline e ai pantaloni, e di appuntare sotto il frac nuovi nastrini o stelline di smalto.
Per tutto questo il conte Ivàn Micàilovic' aveva potenti relazioni altolocate.
Egli ascoltò Necliudov come ascoltava i rapporti del suo segretario e alla fine disse che gli avrebbe dato due biglietti di presentazione, di cui uno per il senatore Wolf della Corte di Cassazione.
- Ne dicono tante di lui, ma "dans tous les cas c'est un homme très comme il faut" (1), - disse. - Mi è obbligato, e farà quel che potrà.
L'altro biglietto era per un personaggio influente della commissione dei ricorsi.
Il caso di Fedossia Biriùkova, che Necliudov gli espose, sembrò interessarlo molto. Quando Necliudov gli manifestò la sua intenzione di scrivere all'imperatrice, egli rispose che il caso era davvero molto commovente e che alla prima occasione avrebbe cercato di parlarne a corte. Ma non prometteva nulla: meglio lasciare che la domanda di grazia seguisse il suo corso. - Se mi si presenta l'occasione, - concluse, - e sarò invitato al "petit comité" (2) di giovedì, vedrò di parlarne.
Ricevuti i due biglietti del conte e quello della zia per Mariette, Necliudov uscì subito per andar in cerca delle persone che gli avevano indicato.
Anzitutto si recò da Mariette. L'aveva conosciuta giovinetta, e sapeva che, nata da una famiglia aristocratica ma povera, aveva sposato un uomo in ottima posizione di cui si diceva molto male.
Ora a Necliudov pesava molto l'idea di dover chiedere un favore a una persona che non stimava. Come sempre in questi casi, sentiva un malessere spirituale, un senso di insoddisfazione interiore e d'incertezza: e nel dubbio se chiedere o no, finiva poi sempre col concludere che bisognava chiedere. Oltre a tutta la falsità di quel suo ricercare favori a gente che gli era divenuta estranea, ma che non sapeva ancora d'essere stata ripudiata, egli, a contatto di quel mondo, si sentiva a poco a poco riprendere dall'ingranaggio delle vecchie abitudini e involontariamente si abbandonava al tono frivolo e immorale proprio di quell'ambiente.
Ne aveva già fatto la prova quel mattino dalla zia Jekatierina Ivànovna, quando s'era lasciato trascinare da lei a scherzare su argomenti molto seri.
In generale Pietroburgo, in cui non era stato da un pezzo, esercitava su di lui il solito effetto; lo ringiovaniva fisicamente, e moralmente lo intorpidiva.
Tutto vi era così lindo, comodo, ben organizzato, e la gente, poi, era così poco esigente in fatto di morale, che la vita gli sembrava più facile.
Un cocchiere elegantissimo, pulito e riguardoso lo condusse fino alla casa di Mariette, lungo una splendida strada, liscia e pulita, fiancheggiata da bellissimi palazzi ben tenuti, dove qua e là si notavano guardie urbane altrettanto eleganti, pulite e di belle maniere.
Al portone era ferma una pariglia di cavalli inglesi tutti bardati; un cocchiere in livrea, con le basette fino a mezza guancia che lo facevano assomigliare a un inglese, sedeva alteramente a cassetta con la frusta in mano.
Un guardiaportone in divisa irreprensibile aprì la porta che dava nel vestibolo, dove, in una livrea gallonata ancor più impeccabile, si vedeva un lacché con le basette magnificamente pettinate, e il piantone di servizio, in una uniforme nuova.
- Il generale non riceve. La generalessa neppure, e sta per uscire.
Necliudov consegnò il biglietto della contessa Jekatierina Ivànovna; e tolta dal portafogli una carta da visita, si avvicinò a un tavolino sul quale era posato un libro coi nomi dei visitatori.
Stava già per scrivere che era dolentissimo di non aver trovato la signora, quando il lacché fece un passo verso la scala, il guardiaportone si precipitò gridando: "avanti!" e il piantone s'irrigidì sull'attenti, col viso rivolto a una signora piuttosto piccola ed esile, che scendeva la scala a passi rapidi, per nulla intonati alla sua importanza.
Mariette portava un gran cappello con la piuma, un abito nero, una mantellina nera e un paio di guanti neri, nuovi. Una veletta le copriva il viso.
Vedendo Necliudov sollevò la veletta, scoprendo un viso assai grazioso, e due occhi splendidi che lo guardavano interrogativamente.
- Ah, principe Dmitri Ivànovic'! - esclamò con voce allegra e simpatica. - Se l'avessi saputo...
- Come, ricordate anche il mio nome?
- Si capisce! Mia sorella ed io eravamo persino innamorate di voi, - disse in francese; - ma come siete cambiato! Ah, che peccato che io debba uscire! Del resto, potrei anche tornare indietro... - soggiunse, e si fermò irresoluta.
Guardò l'orologio a muro.
- No, non posso. Vado all'ufficio funebre dalla Kàmenskaia. E' completamente affranta.
- Chi è questa Kàmenskaia?
- Ma come, non sapete nulla? Suo figlio è stato ucciso in duello.
S'è battuto con Pozen. Figlio unico. E' terribile. La madre è talmente affranta...
- Sì, ho sentito.
- No, è meglio che vada. Tornate domani. Oppure questa sera, - disse, e s'avviò all'uscita a passi rapidi e leggeri.
- Questa sera non posso, - rispose Necliudov, uscendo insieme con lei. - Avevo proprio un piacere da chiedervi, - aggiunse osservando la pariglia di bai che s'accostava all'ingresso.
- Di che si tratta?
- A proposito, eccovi un biglietto della zia, - disse Necliudov porgendole una busta allungata, con un grande stemma. - C'è scritto tutto.
- Ho capito. La contessa Jekatierina Ivànovna crede che io abbia influenza su mio marito. Come si sbaglia! Non ho alcun potere e non voglio immischiarmi nei suoi affari. Ma s'intende, per la contessa e per voi son disposta a fare uno strappo alla regola. Di che si tratta? - domandò cercando la tasca con la manina guantata di nero.
- Di una ragazza rinchiusa in fortezza. E' ammalata e non ha fatto nulla.
- Come si chiama?
- Sciustova. Lidia Sciustova. C'è nella lettera.
- Va bene! Cercherò di far qualcosa, - disse, e salita agilmente nella morbida vettura, tutta scintillante al sole per la vernice nuova dei suoi parafanghi, aprì il parasole, mentre il lacché saliva a cassetta e faceva segno al cocchiere di partire. La carrozza si mosse, ma in quell'istante Mariette toccò con l'ombrellino la schiena del cocchiere e le splendide giumente inglesi, piegando la testa alla pressione del morso, si fermarono scalpitando.
- E voi ritornate a trovarmi, però disinteressatamente, non è vero? - disse, con un sorriso di cui conosceva tutto il fascino.
Poi, come un sipario che cala alla fine della rappresentazione, abbassò la veletta.
- Andiamo pure! - ordinò al cocchiere, toccandolo di nuovo con l'ombrellino.
Necliudov si levò il cappello. Le due baie purosangue sbuffarono scalpitando sul selciato, e l'equipaggio s'allontanò rapido, sobbalzando ogni tanto mollemente sulle sue gomme nuove, contro le asperità del terreno.
NOTE:
Ripensando al sorriso scambiato con Mariette, Necliudov scosse la testa.
"Non fai in tempo ad accorgertene, che questa vita t'ha già ripreso", pensava, provando quel senso di sdoppiamento e d'incertezza che lo assaliva sempre quando doveva far la corte a persone che non stimava.
Dopo aver riflettuto dove gli conveniva andar prima, per non fare strade inutili, si diresse alla Corte di Cassazione. Fu subito introdotto in cancelleria, uno splendido locale affollato da una quantità di impiegati, tutti straordinariamente lindi e cortesi.
Essi lo informarono che il ricorso della Màslova era arrivato, e che lo stava esaminando quel tale senatore Wolf, per cui lo zio gli aveva dato un biglietto di raccomandazione.
- La Corte si riunirà questa settimana. Però è difficile che arrivino al ricorso della Màslova. Ma insistendo un po', chissà che non lo discutano mercoledì prossimo, - disse uno.
Mentre Necliudov si tratteneva nell'ufficio aspettando alcune informazioni, sentì parlare nuovamente del duello; qualcuno raccontava i particolari sulla morte del giovane Kàmenski, e così Necliudov ebbe finalmente modo di conoscere la vicenda che appassionava tutta Pietroburgo.
Il fatto aveva avuto origine in una bottega, dove alcuni ufficiali mangiavano ostriche, accompagnandole, come al solito, con abbondanti libagioni. Ad un certo punto qualcuno aveva sparlato del reggimento di Kàmenski. Questi gli aveva dato del bugiardo.
L'altro lo aveva schiaffeggiato. L'indomani s'eran battuti, e Kàmenski ricevuta una palla nel ventre, era morto in capo a due ore. L'uccisore e i padrini erano stati arrestati e rinchiusi al corpo di guardia, ma tutti sapevano che entro due settimane sarebbero stati rimessi in libertà.
Dalla Cassazione Necliudov si recò alla commissione dei ricorsi dal barone Vorobiòv, un funzionario molto influente, il quale occupava uno splendido alloggio nello stesso edificio governativo.
Ma il portiere e il domestico gli dichiararono solennemente che il barone riceveva soltanto nei giorni stabiliti: ora si trovava dall'imperatore e all'indomani aveva di nuovo rapporto.
Necliudov consegnò il biglietto e andò dal senatore Wolf.
Wolf aveva appena finito di far colazione e, secondo una sua abitudine, s'aiutava a digerire fumando un sigaro e passeggiando in su e in giù per la camera.
Vladìmir Vassìlievic' Wolf era realmente "un homme très comme il faut"; ci teneva anzi molto ad esserlo, e considerava la gente dall'alto di questa sua qualità. E non aveva torto, giacché solo grazie ad essa aveva percorso una brillante carriera, proprio quella che desiderava. Infatti, mediante il suo matrimonio s'era assicurato diciottomila rubli di rendita e con le sue fatiche, la carica di consigliere di Cassazione. Egli si considerava non soltanto "un homme très comme il faut", ma anche un uomo di onestà cavalleresca. Per onestà intendeva il non lasciarsi corrompere dai privati. Invece riteneva lecito esigere dall'erario ogni sorta di provvigioni e di indennità di trasferta e di viaggio, in cambio della sua obbedienza servile agli ordini del governo.
Il fatto di rovinare per sempre centinaia di innocenti facendoli deportare e imprigionare soltanto perché fedeli alla propria gente e alla religione dei padri, come aveva fatto quando era governatore di una provincia in Polonia, non era, secondo lui, un'azione disonesta, ma nobile, coraggiosa, patriottica. E neppure gli sembrava disonesto l'aver usurpato il patrimonio della moglie, innamorata di lui, e della cognata. Egli, anzi, pensava di aver in questo modo sistemato saggiamente la sua vita familiare.
La famiglia di Vladimir Vassilievic' era composta della moglie, una donna senza personalità, della cognata, di cui s'era accaparrato le sostanze vendendone la proprietà e depositando il danaro a nome proprio, e di una figlia, una ragazza brutta, timida, mite, che viveva triste ed appartata, e solo negli ultimi tempi aveva trovato uno svago nell'evangelismo, frequentando le riunioni di Aline e della contessa Jekatierina. Vladimir Vassilievic' aveva anche un figlio, un ragazzo d'indole bonaria, che a quindici anni aveva già la barba, e fino ai vent'anni non aveva fatto altro che divertirsi e bere. Il padre l'aveva scacciato di casa perché non riusciva a terminare gli studi, frequentava cattive compagnie, faceva debiti e comprometteva il buon nome della famiglia. Vladìmir Vassilievic' aveva dovuto pagargli un debito di duecentotrenta rubli; una seconda volta ne aveva pagati altri seicento, avvertendolo però che erano gli ultimi e che se non avesse cambiato vita l'avrebbe scacciato di casa e avrebbe rotto ogni rapporto con lui. Il figlio, invece di emendarsi, aveva contratto un altro debito di mille rubli e s'era permesso di dire al padre che per lui vivere in quella casa era comunque un tormento. Allora Vladimir Vassìlievic' gli aveva dichiarato che poteva andarsene dove voleva, e che non lo considerava più come figlio. Da quel momento infatti l'aveva rinnegato completamente, e poiché nessuno in casa osava parlargliene, egli era pienamente convinto d'aver sistemato la sua vita familiare nel modo migliore.
Interrompendo la sua passeggiata, Wolf accolse Necliudov con un sorriso affettuoso e un po' ironico, un sorriso di maniera, espressione involontaria della sua superiorità di uomo "comme il faut" sulla maggioranza dei suoi simili. Poi lesse il biglietto.
- Accomodatevi, vi prego... Se permettete io continuo a passeggiare, - disse, mettendo le mani nelle tasche della giacchetta, e camminando a passi lievi e molli lungo la diagonale del suo studio, un locale vasto, arredato severamente. - Sono molto lieto di fare la vostra conoscenza e naturalmente di rendere un servizio al conte Ivàn Micàilovic', - proseguì, soffiando una boccata di fumo azzurrognolo e profumato, e muovendo cautamente il sigaro per non farne cadere la cenere.
- Vorrei pregarvi di affrettare l'esame del ricorso perché, se l'imputata dovrà andare in Siberia, è meglio che ci vada al più presto, - disse Necliudov.
- Sì, lo so, col primo piroscafo da Nizni, - sorrise condiscendente Wolf, che sapeva sempre in anticipo tutto ciò che la gente stava per dirgli. - Come si chiama l'imputata?
- Màslova...
Wolf s'accostò alla tavola e cercò un foglio in una cartella di pratiche.
- Ecco qua. Màslova. Benissimo. Ne parlerò ai colleghi.
Esamineremo il caso mercoledì.
- Posso telegrafare all'avvocato?
- Ah! avete un avvocato? Per questo? Ma se volete, fate pure.
- I motivi di Cassazione sono forse insufficienti, - disse Necliudov, - ma io penso che dall'incartamento del processo si capisca che la condanna è dovuta a un malinteso.
- Sì, sì, può darsi benissimo, ma la Cassazione non può esaminare a fondo ogni caso, - rispose severamente Vladimir Vassilievic', guardando la cenere del sigaro. - La Cassazione si limita ad esaminare la legalità della procedura.
- Questo mi pare un caso eccezionale.
- Lo so, lo so, tutti i casi sono eccezionali. Noi faremo il nostro dovere. Ecco tutto. - La cenere teneva ancora, ma c'era una crepa e stava lì lì per cadere. - Venite raramente a Pietroburgo?
- domandò Wolf, tenendo il sigaro in modo che la cenere non cadesse. Ma la cenere cominciava a vacillare e Wolf cautamente l'avvicinò al portacenere dove cadde.
- Che terribile disgrazia, quella dei Kàmenski, - soggiunse poi, - un bravissimo giovane. Figlio unico. La madre poi è in uno stato... - proseguì, ripetendo quasi parola per parola ciò che era sulla bocca di tutti i pietroburghesi.
Parlò anche della contessa Jekatierina Ivànovna e della sua infatuazione per la nuova corrente religiosa, che egli non condannava né approvava, ma, dato il suo perbenismo, riteneva evidentemente superflua. Poi suonò il campanello.
Necliudov si alzò per accomiatarsi.
- Se vi fa piacere, venite a pranzo, - disse Wolf porgendogli la mano, - anche mercoledì. Così vi darò una risposta decisiva.
Era già tardi e Necliudov tornò a casa, ossia dalla zia.
Dalla contessa Jekatierina Ivànovna si pranzava alle sette e mezzo, Il pranzo veniva servito secondo un sistema nuovo, che Necliudov non conosceva. I servi mettevano le vivande in tavola, e si ritiravano subito, sicché i convitati dovevano servirsi da soli.
Gli uomini, per impedire che le signore s'affaticassero inutilmente e quali rappresentanti del sesso forte, si assumevano virilmente la fatica di riempire i loro piatti e quelli delle signore. Finita una vivanda la contessa premeva sulla tavola il bottone del campanello elettrico e i domestici entravano silenziosamente, sparecchiavano in fretta, cambiavano i piatti e portavano altri cibi. Il pranzo e i vini erano raffinati. Nella cucina ampia e luminosa lavoravano uno chef francese e due sottocuochi in bianco.
A tavola erano in sei: il conte, la contessa, il figlio, un ufficiale della guardia immusonito che teneva i gomiti sulla tavola, Necliudov, la lettrice francese, e l'amministratore generale del conte, appena arrivato dalla campagna.
La conversazione cadde naturalmente sul duello. Si parlava del modo con cui l'imperatore aveva accolto il fatto, e poiché si sapeva che egli aveva compassionato molto la madre, tutti facevano altrettanto. Ma siccome era noto che l'imperatore, pur partecipando a quel lutto, non voleva mostrarsi troppo severo con l'uccisore perché aveva difeso l'onore dell'uniforme, tutti si mostravano indulgenti verso di lui, perché aveva difeso l'onore dell'uniforme. Soltanto la contessa Jekatierina Ivànovna, col suo modo di giudicare superficiale ma indipendente, condannava l'uccisore.
- Io non ammetterò mai che sia lecito ubriacarsi e poi uccidere un bravo giovane! - essa disse.
- Non capisco quel che volete dire, - obiettò il marito.
- Lo so che non capisce mai quello che dico, - replicò la contessa rivolgendosi a Necliudov. - Tutti capiscono tranne mio marito. Io dico che mi rincresce per la madre e non ammetto che l'uccisore possa rallegrarsene.
Il figlio della contessa, che fino a quel momento aveva taciuto, intervenne nella discussione, prendendo le difese dell'uccisore, e rimbeccò piuttosto sgarbatamente sua madre, cercando di dimostrarle che un ufficiale non poteva agire diversamente, se non voleva che il consiglio degli ufficiali lo scacciasse dal reggimento. Necliudov ascoltava senza prender parte alla discussione e come ufficiale capiva, pur non approvandoli, i ragionamenti del giovane Ciarski, ma involontariamente faceva un confronto tra l'ufficiale che aveva ucciso il camerata e un bellissimo giovane visto nelle carceri che era stato condannato ai lavori forzati per aver ucciso un uomo durante una rissa.
Tutti e due erano diventati assassini per colpa del vino. Il contadino aveva ucciso in un impeto d'ira, e l'avevano punito separandolo dalla moglie, dalla famiglia, da tutti i suoi cari; gli avevano messo i ceppi, rasata metà della testa e ora lo mandavano ai lavori forzati. L'ufficiale, invece, se ne stava in una bellissima camera al corpo di guardia, mangiava benissimo, beveva ancor meglio, aveva libri da leggere e quanto prima sarebbe stato rimesso in libertà per riprendere la sua solita vita, resa soltanto più interessante.
Necliudov disse quel che pensava. La contessa Jekatierina Ivànovna dette ragione al nipote, ma poi tacque come tutti gli altri, e Necliudov ebbe l'impressione d'aver commesso col suo racconto qualcosa di simile a una sconvenienza.
Finito il pranzo tutti passarono nel salone dove la gente cominciava già a radunarsi per la predica di Kisevetter. Nella sala, preparata come per una conferenza vi erano alcune file di seggiole alte e intagliate, e davanti alla tavola, una poltrona e un tavolino con la caraffa di acqua per il predicatore.
Al portone, sostava una fila d'equipaggi di lusso. Nel salone riccamente addobbato, s'affollavano le signore in abiti di seta, di velluto, di pizzo, con pettinature posticce, e busti molto stretti. Seduti fra le signore, vi erano anche alcuni signori, militari e civili, e cinque popolani: due portieri, un bottegaio, un servitore e un cocchiere.
Kisevetter, un uomo robusto, coi capelli brizzolati, parlava in inglese, e una giovinetta magra col pince-nez traduceva in fretta e bene.
Egli diceva che i nostri peccati sono così grandi, il castigo che ci meritiamo così terribile e inevitabile che è impossibile vivere tranquillamente con un simile pensiero.
- Care sorelle e cari fratelli, pensiamo un momento a noi stessi, alla nostra vita, alle nostre azioni, al nostro modo di comportarci, alle offese che rechiamo a quel Dio che è pieno d'amore per noi, a quanto facciamo soffrire Cristo... e comprenderemo subito che per noi non c'è perdono, né via d'uscita, né salvezza. Tutti siamo condannati alla perdizione... Una fine terribile ci attende: la dannazione eterna, - egli diceva con voce tremula e piangente. - Come ci salveremo, fratelli, come ci salveremo, da questo fuoco terribile? Ha già avvolto tutta la casa e non c'è via d'uscita!
Tacque. Lacrime vere gli rigavano le gote. Già da otto anni, tutte le volte che arrivava a questo punto della sua predica, sentiva invariabilmente un nodo alla gola, un prurito al naso, e le lacrime gli sgorgavano dagli occhi.
E queste lacrime eccitavano la sua commozione. Nella stanza s'udì singhiozzare. La contessa Jekatierina Ivànovna seduta ad un tavolino di musaico si teneva la testa fra le mani, e le sue grasse spalle sussultavano. Il cocchiere guardava il tedesco con un'espressione di stupore e di spavento come se fosse sul punto d'investirlo con la carrozza e lui non si scansasse. La maggior parte della gente sedeva nella stessa posa della contessa Jekatierina Ivànovna. La figlia di Wolf, che assomigliava al padre e indossava un abito molto elegante, s'era inginocchiata, coprendosi il volto con le mani.
L'oratore ad un tratto rialzò la testa e atteggiò le labbra ad un sorriso che poteva sembrare naturale, simile a quello che serve agli attori per esprimere la gioia; poi con voce tenera e dolce cominciò a dire:
- Ma la salvezza c'è. Una salvezza facile e bella. E' il sangue versato dall'Unigenito figliolo di Dio che s'è votato per noi al martirio. Il suo sacrificio, il suo sangue ci redime. Fratelli e sorelle, - disse di nuovo con le lacrime nella voce, - rendiamo grazie a Dio che ha dato il suo Unico figliolo per la redenzione del genere umano. Il suo sangue benedetto...
Necliudov provò un senso così penoso di disgusto che s'alzò senza far rumore, e col viso contratto, trattenendo un gemito di vergogna, uscì in punta di piedi dalla sala e si ritirò in camera sua.
Il giorno dopo, Necliudov s'era appena vestito e stava per scendere, quando il domestico gli portò il biglietto da visita dell'avvocato di Mosca. L'avvocato era venuto per affari suoi e per essere presente alla discussione del ricorso della Màslova, nel caso si fosse discusso presto. Il telegramma di Necliudov s'era incrociato con lui.
Quando Fanarin seppe la data della discussione e i nomi dei consiglieri che avrebbero esaminato il ricorso, sorrise.
- Proprio tre veri tipi di consiglieri, - disse. - Wolf è il funzionario classico di Pietroburgo; Scovoròdnikov, il giurista dotto, e Be il giurista pratico, perciò il più vivo di tutti, - proseguì l'avvocato. - Dobbiamo far assegnamento specialmente su di lui. E per la commissione delle istanze di grazia?
- Devo andar proprio oggi dal barone Vorobiòv; ieri non mi è riuscito di farmi ricevere!
- Lo sapete perché Vorobiòv è barone? - domandò l'avvocato, rispondendo all'intonazione un po' comica con cui Necliudov aveva pronunciato quel titolo straniero accoppiato ad un nome così prettamente russo. - Fu Pavel (1) che diede il titolo al nonno di Vorobiòv, suo cameriere particolare. Credo che lo volesse ricompensare di qualche servigio che aveva molto apprezzato.
Facendolo barone non sollevava le proteste dei nobili. E così è rimasto: barone Vorobiòv. Ne è anzi molto fiero. Ma è un gran furbacchione.
- Vado giusto da lui, - disse Necliudov.
- Benissimo! Andiamo insieme. Vi accompagno in carrozza.
In anticamera, mentre stava uscendo, incontrò un domestico con un biglietto per lui da parte di Mariette:
"Pour vous faire plaisir, j'ai agi tout à fait contre mes principes, et j'ai intercédé auprès de mon mari pour votre protégée. Il se trouve que cette personne peut être relachée immédiatement. Mon mari a écrit au commandant. Venez donc disinteressatamente. Je vous attends" (2).
- Ma come - disse Necliudov all'avvocato. - Questo è spaventoso!
Per sette mesi si tiene una donna in segregazione cellulare e poi risulta che è innocente e che per farla uscire bastava una parola.
- E' la solita storia. Be', per lo meno avete ottenuto il vostro scopo.
- Sì, ma questo successo mi amareggia. Chissà mai che cosa succede, là dentro! Perché la tenevano in prigione?
- Via, è meglio non approfondire. Venite che vi accompagno, - disse l'avvocato, quando furono in strada, e la splendida carrozza di lusso noleggiata dall'avvocato si fu avvicinata all'ingresso. - Andate dal barone Vorobiòv, non è vero?
L'avvocato diede l'indirizzo al vetturino e in un momento i bravi cavalli portarono Necliudov all'abitazione del barone.
Il barone era in casa. Nella prima stanza un giovane funzionario in uniforme di servizio, col collo straordinariamente lungo, il pomo d'Adamo sporgente e un'andatura leggerissima, parlava con due signore.
- Il vostro nome? - domandò il giovane impiegato col pomo d'Adamo passando in modo incredibilmente lieve e grazioso dalle signore a Necliudov.
Necliudov disse il suo nome.
- Il barone ha già parlato di voi. Subito!
L'impiegato entrò nella stanza vicina e ne uscì dopo un momento accompagnato da una signora in lutto che cercava di nascondere le lacrime che le rigavano il volto, abbassando con le dita ossute la veletta che s'era attorcigliata.
- Accomodatevi, - disse il giovane impiegato a Necliudov, e avvicinandosi con passo leggero allo studio aprì l'uscio e vi si mise a lato.
Necliudov entrò nella stanza e si trovò di fronte a un uomo di media statura, tarchiato, coi capelli a spazzola e in redingote, che seduto in una poltrona davanti a una grande scrivania, fissava il vuoto con aria gioviale. Appena vide Necliudov, la sua faccia bonaria, il cui colorito acceso spiccava maggiormente per la bianchezza dei baffi e della barba, s'atteggiò a un sorriso benevolo.
- Felicissimo di vedervi! Ci conoscevamo da un pezzo, vostra madre ed io. Eravamo vecchi amici... Vi ho visto ragazzino e poi ufficiale. Be', sedetevi e ditemi in che posso esservi utile...
Già, già, - diceva, scuotendo la testa grigia, mentre Necliudov raccontava la storia di Fedossia. - Dite, dite, ho capito tutto, sì, sì, è davvero un caso commovente. E l'istanza l'avete presentata?
- L'ho preparata, - rispose Necliudov, togliendo un foglio dalla tasca; - ma volevo chiedere a voi, se posso sperare che questo caso venga esaminato con particolare attenzione.
- Avete fatto benissimo. Senz'altro ne parlerò ai miei colleghi, - disse il barone, cercando di assumere un'aria addolorata che contrastava stranamente con la sua faccia allegra. - Molto commovente... Si vede che era una bambina; il marito l'avrà trattata rozzamente e lei si sarà disgustata. E poi è venuto il momento che si sono innamorati. Sì, ne parlerò.
- Il conte Ivàn Micàilovic' m'ha detto che ne avrebbe parlato all'imperatrice.
Appena Necliudov ebbe pronunciato queste parole, il volto del barone si mutò.
- Del resto, presentate l'istanza in cancelleria e io farò quanto posso, - disse a Necliudov.
In quel momento entrò nello studio il giovane impiegato, tutto tronfio della sua andatura.
- Quella signora vorrebbe dirvi ancora due parole.
- Be', fatela passare. Ah! "mon cher", quante lacrime mi tocca di vedere! Se solo fosse possibile asciugarle tutte! Si fa quel che si può.
La signora entrò.
- Mi sono scordata di chiedervi di non lasciargli dare la figlia, se no lui per tutto...
- Ma vi ho già detto che lo farò.
- Barone, sia ringraziato Iddio, voi salvate una madre...
Essa gli afferrò la mano e cominciò a baciarla.
- Sarà fatto tutto.
Quando la signora fu uscita anche Necliudov si alzò per accomiatarsi.
- Faremo il possibile. Ci metteremo in contatto col ministero di giustizia. Quando avremo una risposta faremo del nostro meglio.
Necliudov uscì e passò in cancelleria. Come negli uffici della Cassazione, si trovò in un magnifico locale, pieno di impiegati vestiti irreprensibilmente, lindi, garbati, corretti dall'uniforme al modo di esprimersi, meticolosi ed austeri.
"Quanti ce ne sono, quanti, quanti! E come son ben pasciuti, e che mani pulite, e che belle camicie linde e che stivali lustri hanno!
E chi paga tutto questo? Com'è fortunata tutta questa gente, non soltanto in confronto ai detenuti, ma anche ai contadini dei villaggi!", pensò di nuovo Necliudov senza volerlo.
NOTE:
L'uomo che aveva in mano le sorti dei detenuti della fortezza di Pietroburgo era un vecchio generale, discendente da una famiglia di baroni tedeschi: un uomo pieno di meriti, ma a quel che si diceva, un po' svanito, carico di decorazioni che non portava, ad eccezione di una croce bianca appesa all'occhiello. Aveva prestato servizio nel Caucaso, dove s'era guadagnato quella croce che lo lusingava in modo particolare. Sotto il suo comando un reparto di contadini russi coi capelli rasati, in uniforme militare, e armati di fucili con le baionette, aveva ucciso più di mille uomini che difendevano la loro libertà, le loro case e le loro famiglie. Più tardi aveva servito in Polonia, dove aveva obbligato altri contadini russi a compiere le stesse imprese, che in cambio gli avevano fruttato onorificenze e nuove decorazioni da appendere alla uniforme. Dopo era stato ancora in qualche altro luogo, e in ultimo, ormai vecchio e pieno di acciacchi, aveva ottenuto il posto che attualmente occupava e che gli procurava un buon alloggio, un buon stipendio e molto onore. Eseguiva con un rigore inflessibile gli ordini che gli venivano dall'alto, e poiché agli ordini dall'alto attribuiva un significato particolare, non avrebbe assolutamente mai ammesso di poterli trasgredire. Il suo compito consisteva nel tenere segregati nelle casematte i detenuti politici d'ambo i sessi, trattandoli in maniera tale che in una decina d'anni, una buona metà finiva per impazzire o per morire di tisi o per suicidarsi, chi lasciandosi morir di fame, chi tagliandosi le vene con un vetro, chi impiccandosi, chi bruciandosi vivo.
Il vecchio generale era al corrente di tutto, poiché queste cose accadevano sotto i suoi occhi. Ma la sua coscienza non ne era menomamente turbata, come se si fosse trattato di disgrazie dovute ai temporali, alle inondazioni e così via.
Questi casi erano il risultato dell'ubbidienza agli ordini dall'alto, in nome dell'imperatore, ordini che andavano inderogabilmente rispettati, sicché non serviva proprio a nulla perdersi a meditare sulle loro conseguenze. Il vecchio generale, anzi, si guardava bene dal pensarci, ritenendo che il suo dovere di soldato e di patriota fosse di non pensare affatto, per non vacillare mai nell'adempimento di quella che egli considerava una sacra missione.
Una volta alla settimana, ubbidiente al regolamento faceva il giro delle casematte e domandava ai detenuti se avessero qualche richiesta da fare. Spesso i detenuti gli esprimevano i loro desideri: egli li ascoltava con calma, in un silenzio impenetrabile, e non li esaudiva mai, giacché per lui tutte le richieste erano incompatibili col regolamento. Mentre Necliudov s'avvicinava all'abitazione del vecchio generale, il carillon della torre suonava con un acuto tintinnare di campanellini "Quanto glorioso è Dio" (1). Poi batterono le due. Ascoltando il carillon, Necliudov ricordò di aver letto negli appunti dei decembristi (2) come quella musica, che si ripete ad ogni ora, riecheggi dolcemente nell'animo dei condannati a vita.
Mentre Necliudov si fermava alla porta d'ingresso del suo alloggio, il vecchio generale e un giovane pittore, fratello di un suo dipendente, sedevano in un salotto buio davanti a un tavolino incrostato, intenti a far girare un piattino sopra un foglio di carta. Le dita sottili, umide, delicate del pittore s'intrecciavano con quelle dure, rugose e anchilosate del vecchio generale, e le due mani così congiunte si muovevano contemporaneamente al piattino rovesciato, sul foglio di carta su cui erano segnate tutte le lettere dell'alfabeto. Il piattino doveva rispondere ad una domanda del generale, che voleva sapere se le anime si riconoscono fra loro dopo la morte.
Nel momento in cui l'ordinanza con funzione di cameriere personale entrava nella stanza col biglietto da visita di Necliudov, lo spirito di Giovanna d'Arco stava parlando per mezzo del piattino; lo spirito aveva già formulato le parole: "Si riconoscono fra loro", e la frase era stata scritta.
All'entrare dell'ordinanza, il piattino, proseguendo nelle sue segnalazioni, s'era fermato prima sulla p, poi sulla o e infine sulla s, ad un tratto non aveva più segnato nulla e si mostrava incerto. Se la lettera successiva fosse stata una l come voleva il generale, sarebbe risultata la parola "poslie" (3), ossia Giovanna d'Arco avrebbe risposto che le anime si riconoscono fra loro "poslie" la loro purificazione, o qualcosa di simile. Se fosse stata, invece, la v della parola "posvietu" (4) come voleva il pittore, lo spirito avrebbe inteso dire che le anime si riconoscono fra loro per la luce emanante dal loro corpo fluidico.
Il generale, aggrottando le folte sopracciglia grige, si guardava fissamente le mani, e fingendo di credere che il piattino si muovesse da sé lo spingeva verso la l. Invece il giovane pittore anemico, coi radi capelli tirati dietro le orecchie, fissava con gli occhi azzurri insignificanti un angolo buio del salotto, e con un moto nervoso delle labbra tirava il piattino verso la v.
Vedendosi disturbato nella sua occupazione, il generale s'accigliò, dopo un attimo di silenzio prese il biglietto, inforcò il pince-nez e gemendo per il mal di reni, si alzò in tutta la sua alta statura, stropicciandosi le dita rattrappite.
- Fallo accomodare nello studio.
- Se vostra Eccellenza me lo permette, finirò da solo - disse il pittore, alzandosi. - Sento la presenza.
- Va bene, finite pure! - rispose il generale con severa fermezza, mentre con le sue gambe anchilosate si avviava a passi lunghi, cadenzati e decisi verso lo studio.
- Ho piacere di vedervi, - disse a Necliudov accompagnando con voce burbera le parole gentili, e indicandogli una poltrona accanto alla scrivania. - Siete da molto a Pietroburgo?
Necliudov rispose che era appena arrivato.
- La principessa vostra madre, sta bene?
- La mamma è morta.
- Scusatemi! mi rincresce molto... Mio figlio mi ha detto che vi ha incontrato.
Il figlio del generale seguiva la stessa carriera del padre. Dopo l'accademia militare s'era impiegato alla sezione informazioni, ed era fierissimo delle incombenze che gli venivano affidate. Era a capo dell'ufficio spionaggio.
- Ma sicuro, ho conosciuto vostro padre nell'esercito. Eravamo amici e colleghi. E voi siete in servizio?
- No.
Il generale scrollò la testa in segno di disapprovazione.
- Ho un piacere da chiedervi, generale, - disse Necliudov.
- Oh... felicissimo! In che posso servirvi?
- Se la mia richiesta è importuna, vi prego di perdonarmi. Ma ho il dovere di rivolgervela.
- Di che si tratta?
- Fra i vostri detenuti c'è un certo Gurchievic', e sua madre chiede che le sia concesso di vederlo o, per lo meno, che gli si possano mandare alcuni libri.
Il generale non si mostrò né contento né contrariato dalle parole di Necliudov, ma piegò la testa da un lato e socchiuse gli occhi come se riflettesse. In realtà non rifletteva affatto, e la richiesta di Necliudov l'aveva lasciato indifferente; sapeva già che avrebbe risposto secondo la legge. Si riposava semplicemente lo spirito, senza pensare a nulla.
- Questo, vedete, non dipende da me, - disse dopo una pausa. - Per i permessi di visita abbiamo un decreto imperiale che ne regola le condizioni. E in quanto ai libri, c'è una biblioteca apposita, proprio per loro.
- Sì, ma lui ha bisogno di libri scientifici. Vorrebbe studiare.
- Non credetegli. - Il generale tacque. - Non è per studiare, è soltanto per irrequietezza.
- Ma come! devono pur occupare il tempo, nella loro difficile condizione, - disse Necliudov.
- Si lamentano sempre, - continuò il generale. - Li conosciamo bene, noi!
Parlava di loro collettivamente, come se si fosse trattato di una razza speciale, inferiore agli altri esseri umani.
- Tante comodità come da noi si trovano raramente nei luoghi di pena, - proseguì il generale.
E quasi per giustificarsi, cominciò a fare una minuta descrizione di tutte le comodità di cui godevano i detenuti, come se lo scopo principale di quell'istituzione fosse di assicurare ai reclusi un soggiorno piacevole e comodo.
- Prima, è vero, erano trattati duramente, ma ora ci stanno benissimo. Mangiano tre piatti e uno è sempre di carne: polpette o costolette. Di domenica, poi, hanno anche il dolce. Dio volesse che tutti i russi mangiassero così!
Come tutti i vecchi il generale, una volta preso l'aire sull'argomento che conosceva a menadito, non si fermò prima d'aver ripetuto molte volte le stesse cose, sulle pretese eccessive e l'ingratitudine dei detenuti.
- Si danno loro libri di contenuto religioso e vecchie riviste.
Abbiamo un'intera biblioteca. Ma leggono raramente. In principio sembra che s'interessino, ma poi si trovano i libri nuovi con le pagine tagliate solo a metà e i vecchi sempre aperti alla medesima pagina. Abbiamo persino provato, - disse il barone con l'ombra di un sorriso, - a metterci un pezzetto di carta; è rimasto sempre allo stesso posto. Possono anche scrivere, - proseguì il generale.
- Hanno una lavagna e un pezzo di gesso, di modo che possono scrivere, cancellare e tornare a scrivere. Nessuno se ne serve.
No, si chetano prestissimo. Sulle prime si mostrano irrequieti, ma poi si ingrassano, si calmano... - diceva il generale, senza sospettare l'orribile significato delle sue parole.
Necliudov ascoltava la voce vecchia e roca, guardava le membra mummificate, gli occhi spenti sotto le sopracciglia grige, gli zigomi vizzi, rasati e chiusi nel colletto militare; guardava la croce bianca di cui quell'uomo andava tanto fiero, perché rappresentava la ricompensa ad un eccidio crudele... E comprese che sarebbe stato inutile replicare e tentare di spiegargli il senso delle sue parole.
Tuttavia, facendo uno sforzo su se stesso, eseguì l'altra commissione, e gli domandò notizie della detenuta Sciustova, della quale aveva saputo poco prima che sarebbe stata rimessa in libertà.
- Sciustova? Sciustova... Non ricordo tutti i loro nomi. Sono così in tanti, - disse, e si capiva che faceva loro una colpa d'essere così in tanti.
Suonò il campanello e ordinò di chiamargli il segretario; e mentre aspettava che venisse, esortò Necliudov a entrare in servizio.
- Le persone nobili e oneste, - diceva, includendo fra queste anche se stesso, - sono più che mai necessarie allo zar... e alla patria, - soggiunse, evidentemente per abbellire il periodo. - Io per esempio, sono vecchio, eppure servo ancora la patria, per quanto le forze me lo consentono.
Il segretario, un tipo asciutto, abbronzato, con due occhi inquieti e intelligenti, venne a dire che la Sciustova si trovava in uno strano luogo fortificato e che non era giunta nessuna carta che la riguardasse.
- Appena ci arriverà l'ordine, la lasceremo in libertà lo stesso giorno. Non ci teniamo a trattenerli più del necessario... a lustrarci gli occhi con la loro presenza - disse il generale, tentando ancora un sorriso scherzoso, che gli torse il vecchio volto in una smorfia.
Necliudov si alzò, cercando di nascondere il senso di disgusto e insieme di pena che provava per quel terribile vecchio. E questi, a sua volta, non voleva mostrarsi troppo severo col figlio di un vecchio amico, ma neppure voleva risparmiargli la lezione che si meritava per essere così sconsiderato e palesemente fuori di strada.
- Addio mio caro! Non offendetevi. Vi parlo così perché vi voglio bene. State alla larga dalla gente che è qua dentro. Di innocenti non ve n'è. Tutta gentaglia! Noi li conosciamo... - disse con un tono che non lasciava adito al dubbio.
E ne era effettivamente convinto non perché ciò fosse vero, ma perché in caso contrario avrebbe dovuto considerare se stesso non più un venerabile eroe, che chiudeva degnamente una vita onorata, ma un mascalzone che aveva venduto la sua anima e, vecchio com'era, continuava a venderla.
- Datemi retta, entrate in servizio, - proseguì. - Lo zar ha bisogno di gente onesta... e anche la patria, soggiunse. - Che sarebbe se io e tutti quelli come voi non facessimo il nostro dovere? Chi rimarrebbe? Noi siamo sempre pronti a biasimare gli ordinamenti, ma poi il governo non lo vogliamo aiutare.
Necliudov trasse un lungo sospiro e inchinandosi profondamente strinse la grossa mano ossuta che il generale si degnava di tendergli, e uscì dalla stanza.
Il generale scosse la testa con disapprovazione e fregandosi le reni ritornò nel salotto dove l'aspettava il pittore, che aveva già scritto la risposta dettata dallo spirito di Giovanna d'Arco.
Il generale inforcò il pince-nez e lesse: "Si riconoscono fra loro per la luce emanante dai loro corpi fluidici".
- Ah! - approvò il generale, socchiudendo gli occhi, - ma come possono riconoscersi se la luce è eguale per tutti? - domandò, e intrecciate di nuovo le dita con quelle del pittore, sedette al tavolino.
Il vetturino di Necliudov si accostò al portone.
- E' triste qui, signore, - disse, rivolgendosi a Necliudov, - m'era venuta voglia di andarmene senza aspettarvi.
- Sì, triste! - approvò Necliudov, respirando profondamente, e per distrarsi osservò le nuvole color fumo che vagavano nel cielo e le acque luccicanti della Nievà, solcate dalle barche e dai battelli a vapore.
NOTE:
L'indomani era il giorno stabilito per discutere il ricorso della Màslova. Necliudov si recò alla Corte di Cassazione. Sul portone maestoso dell'edificio, dove sostavano già molti equipaggi, incontrò l'avvocato, ed insieme con lui salì lo scalone splendido e solenne fino al secondo piano. L'avvocato, che conosceva tutti i passaggi, si diresse senza esitare verso una porta a sinistra su cui era incisa la data della fondazione del Codice vigente.
Nella prima stanza, dove si tolsero il cappotto, il portiere li informò che i consiglieri erano già arrivati tutti: l'ultimo pochi minuti prima. Fanarin, in frac e cravatta bianca sullo sparato bianco, entrò disinvolto e allegro nella camera attigua. In questa sala c'era a destra un grande armadio e una tavola, a sinistra una scala a chiocciola, da cui stava discendendo un elegante funzionario in uniforme di servizio con una cartella sotto il braccio. Ma ciò che nella sala attirava maggiormente l'attenzione era un vecchietto dall'aria patriarcale, coi capelli bianchi, lunghi, in giacca e in pantaloni grigi, vicino a cui stavano con aria molto rispettosa due inservienti.
Il vecchietto dai capelli bianchi si avvicinò all'armadio e vi scomparve.
Intanto Fanarin avvistato un collega in frac e cravatta bianca come lui, gli si era avvicinato avviando subito una conversazione animata.
Necliudov invece osservava il pubblico, una quindicina di persone, comprese due donne: una giovane col pince-nez, e un'altra coi capelli grigi. Il primo ricorso che si doveva discutere, si riferiva a un processo di diffamazione per mezzo della stampa.
S'era perciò radunato un pubblico più numeroso del solito, composto quasi esclusivamente di persone dell'ambiente giornalistico.
L'usciere, un bell'uomo rubicondo che indossava una magnifica uniforme, s'avvicinò a Fanarin con un foglio in mano e gli domandò per quale ricorso era venuto. Saputo di che si trattava, annotò qualcosa e se ne andò. In quel momento la porta dell'armadio si aprì e ne uscì il vecchietto dall'aria patriarcale, che al posto della giacca indossava una montura guarnita di galloni e di piastre luccicanti sul petto. Assomigliava ad un uccello.
Quel vestito buffissimo evidentemente imbarazzava lo stesso vecchietto, che si affrettò ad attraversare rapidamente la sala, scomparendo dalla porta opposta a quella d'entrata.
- E' Be, una bravissima persona, - disse Fanarin a Necliudov, e dopo averlo presentato al suo collega, gli spiegò la causa che doveva essere discussa, a parer suo molto interessante.
La seduta incominciò quasi subito. Necliudov s'avviò con gli altri a sinistra, nella sala d'udienza. Tutti, compreso Fanarin, s'accomodarono nei posti riservati al pubblico dietro la sbarra.
Solo l'avvocato di Pietroburgo andò a sedersi al banco, oltre la sbarra.
Quella sala d'udienza era uguale all'altra del tribunale distrettuale, soltanto un po' più piccola e più disadorna. Unica differenza, il tappeto che ricopriva il tavolo dove sedevano i consiglieri non era di panno verde ma di velluto cremisi con le bordure dorate. Invece erano uguali gli immancabili attributi della giustizia: lo specchio, l'icona e il ritratto del sovrano.
Anche qui l'usciere annunciò con solennità: "Entra la Corte!", tutti si alzarono, entrarono i consiglieri nelle loro uniformi e si sedettero nelle poltrone dalle spalliere alte, appoggiandosi sulla tavola per darsi un contegno.
I consiglieri erano quattro. Nikitin, il presidente, un uomo tutto rasato, col viso stretto e gli occhi d'acciaio; Wolf, con le labbra serrate e le mani piccole, bianche, con le quali sfogliava l'incartamento; poi Skovoròdvikov, il giurista dotto, un uomo grasso, pesante, butterato; quarto, Be, il vecchietto patriarcale arrivato per ultimo. Insieme coi consiglieri entrarono il primo cancelliere e il sostituto del procuratore generale, un giovanotto di media statura, asciutto e sbarbato, dal colorito molto scuro e gli occhi neri pieni di tristezza.
Necliudov, nonostante l'uniforme strana e benché non lo vedesse da sei anni, riconobbe in lui uno dei suoi migliori compagni d'università.
- Il sostituto del procuratore generale si chiama Forlenin? - domandò all'avvocato.
- Sì, perché?
- Lo conosco bene. E' un'ottima persona...
- E' anche un bravo sostituto procuratore. Molto attivo. Ecco a chi bisognava rivolgersi, - disse Fanarin.
- Comunque, egli agirà con coscienza, - osservò Necliudov, ricordando la stretta amicizia che li aveva legati e le belle doti che facevano di Selenin un uomo integro, onesto, distinto, nel migliore significato dei termini.
- E poi non si farebbe più in tempo, - sussurrò Fanarin, rivolgendo la sua attenzione alla causa di cui si era ormai iniziata la discussione.
Era un ricorso contro la sentenza della Corte d'Appello, che aveva ribadito il verdetto del tribunale distrettuale.
Necliudov si mise ad ascoltare, cercando di capire ciò che accadeva nell'aula. Ma, anche qui come alle Assise, egli stentava a seguire lo svolgimento della causa, perché la discussione, invece di toccare il nocciolo della questione, si perdeva in particolari secondari.
Un articolo di giornale aveva denunciato le truffe del presidente di una società per azioni. L'unico fatto veramente importante avrebbe dovuto essere quello di assodare se il presidente della società aveva realmente truffato i suoi azionisti, e, in questo caso, metterlo in condizione di non nuocere più.
Ma di questo non si parlava neppure. Si discuteva soltanto se l'editore del giornale aveva o no il diritto di stampare l'articolo, se aveva commesso un reato di diffamazione o di calunnia, e se la diffamazione implica la calunnia, o viceversa; Si discuteva inoltre di cose poco comprensibili alla gente profana, come gli articoli di legge e le ordinanze emesse da un certo dicastero.
Necliudov riuscì a Capire bene soltanto questo: Wolf, che il giorno prima gli aveva dichiarato con tanta austerità che la Cassazione non s'addentrava mai nell'esame dei processi, in questo caso aveva fatto una relazione parziale dichiarandosi favorevole all'annullamento della sentenza, mentre Selenin, in completo contrasto con il suo carattere riservato, aveva con foga improvvisa sostenuta la tesi opposta.
La veemenza di Selenin, di cui Necliudov, che ne conosceva il riserbo, si stupiva tanto, nasceva dal fatto che egli conosceva il presidente della società azionaria come persona poco pulita in materia di denaro, e fra le altre informazioni, aveva casualmente saputo che Wolf, quasi alla vigilia della discussione del ricorso, aveva partecipato a un ricco banchetto in casa dell'affarista.
Quando perciò Wolf, sebbene con molte cautele, aveva dato alla relazione un tono palesemente parziale, Selenin si era riscaldato ed aveva espresso il suo parere troppo nervosamente per una causa d'ordinaria amministrazione. Quella foga aveva offeso Wolf; egli arrossì, agitatissimo, e con gesti muti di meraviglia e un'aria dignitosa e offesa, si ritirò coi suoi colleghi nella camera delle deliberazioni.
- Qual è, precisamente, il vostro ricorso? - domandò di nuovo l'usciere a Fanarin, appena i consiglieri si furono allontanati.
- Ve l'ho già detto. Il ricorso della Màslova, - rispose l'avvocato.
- Va bene. Sarà discusso quest'oggi. Ma...
- Ma che cosa? - domandò l'avvocato.
- Vedete, si credeva che in questo processo le parti non sarebbero intervenute. Sarà perciò difficile che i signori consiglieri escano ancora, dopo pronunciata la sentenza. Ma io riferirò...
- Come sarebbe a dire?
- Riferirò, riferirò, - e l'usciere annotò qualcosa sul suo foglietto.
I consiglieri, in realtà, avevano deciso, una volta emessa la sentenza della causa in corso, di discutere gli altri ricorsi, compreso quello della Màslova, nella stessa camera delle deliberazioni, fra una tazza di tè e una sigaretta.
Appena i consiglieri si furono accomodati attorno alla tavola nella camera di consiglio, Wolf cominciò a esporre con molta animazione i motivi per i quali la sentenza avrebbe dovuto essere annullata. Il presidente, già piuttosto pessimista per natura, quel giorno era d'un umore ancor più nero del solito. Avendo ascoltato attentamente durante la seduta, s'era formato subito la sua opinione, e ora, immerso nei suoi pensieri, non prestava neppure attenzione alle parole di Wolf. Egli cercava di ricordare ciò che la sera prima aveva scritto nelle sue memorie a proposito della nomina di Vilianov, il collega che gli aveva soffiato l'alta carica alla quale egli stesso ambiva da molto tempo. Il presidente Nikitin era sinceramente persuaso che i suoi giudizi sui diversi funzionari delle prime due categorie coi quali era entrato in contatto durante il suo servizio, rappresentassero un documento di grande valore storico. Il capitolo che aveva scritto il giorno prima era tutto uno sfogo contro alcuni di quegli alti funzionari che, secondo la sua espressione, gli avevano impedito di salvare la Russia dalla rovina a cui la portavano gli attuali governanti.
Ma, in realtà, quello sfogo era dovuto soltanto al fatto che essi avevano impedito a lui di percepire uno stipendio più pingue. Ora egli stava pensando che per merito suo i posteri avrebbero conosciuto questi fatti sotto una nuova luce.
- Ma si capisce, - disse, in risposta alle parole di Wolf che non aveva neppure ascoltato. Be, invece, ascoltava Wolf con aria triste, disegnando ghirigori sul foglio che aveva davanti. Be era un liberale di purissima tempra. Conservava religiosamente le tradizioni del Sessanta e se si scostava da una rigida imparzialità, era soltanto in nome del suo liberalismo. Nel caso presente, per esempio, a parte il fatto che l'affarista della querela per diffamazione era una sporca figura, Be non voleva dar seguito al ricorso perché quest'accusa di diffamazione mossa a un giornalista costituiva una violazione della libertà di stampa.
Quando Wolf finì di parlare, Be interruppe a metà un ghirigoro e con l'aria triste di chi si vede costretto a spiegare verità così ovvie, dimostrò con poche parole semplici e convincenti, e con una voce morbida e piacevole, l'inconsistenza dell'accusa. Poi, chinata la testa canuta, riprese a disegnare il suo ghirigoro.
Skovoròdnikov, seduto di fronte a Wolf, aveva continuato tutto il tempo a ficcarsi in bocca, con le sue grosse dita, la barba e i baffi. Appena Be ebbe detta l'ultima parola, smise di masticarsi i peli e con voce forte e aspra dichiarò che, sebbene il presidente della società per azioni fosse un perfetto mascalzone, egli sarebbe stato tuttavia favorevole all'annullamento della sentenza se i motivi addotti fossero stati validi; ma poiché non lo erano, s'univa al giudizio di Ivàn Semiònovic' Be. Evidentemente godeva moltissimo della frecciata lanciata contro Wolf. Il presidente si schierò dalla parte di Skovoròdnikov e il ricorso fu respinto.
Wolf era seccato, soprattutto perché l'avevano quasi accusato di parzialità e di mala fede, ma simulando indifferenza, aprì l'incartamento successivo, quello della Màslova, e si sprofondò nella lettura.
I consiglieri, dopo aver suonato per farsi portare il tè, s'eran messi a chiacchierare di un avvenimento che, insieme al duello di Kàmenski, era in quei giorni sulla bocca di tutti i pietroburghesi. Un alto funzionario, caposezione in un ministero, era stato colto in flagrante e accusato del reato contemplato dall'articolo 995.
- Che infamia! - disse Be con disgusto.
- Ma che ci trovate di male? Vi farò vedere un libro scritto ultimamente da un tedesco: propone addirittura che il matrimonio tra uomini sia considerato legale, e che queste cose non siano ritenute reati, - disse Skovoròdnikov, aspirando avidamente una sigaretta tutta cincischiata che teneva fra le dita, quasi contro la palma della mano. E si mise a sghignazzare rumorosamente.
- Impossibile! - disse Be.
- Ve lo mostrerò, - rispose Skovoròdnikov, citando oltre il titolo dell'opera, la data e il luogo di pubblicazione.
- Si dice che lo nomineranno governatore in Siberia, disse Nikitin.
- Ma benissimo! Il vescovo gli andrà incontro con la croce. Ci vorrebbe un vescovo del suo genere. Io ne consiglierei proprio uno di quello stampo, - disse Skovoròdnikov, e buttato il mozzicone della sigaretta nel piattino, si tirò in bocca quanta più barba e baffi poté e ricominciò a masticare.
In quel momento entrò l'usciere, dicendo che l'avvocato e Necliudov desideravano assistere alla discussione del ricorso.
- Questo processo è un vero romanzo, - disse Wolf. E raccontò ciò che sapeva dei rapporti fra Necliudov e la Màslova.
Dopo aver chiacchierato un po' sull'argomento, i consiglieri finirono di fumare la sigaretta e di bere il tè, e infine si decisero a rientrare nella sala d'udienza, dove pronunciarono la sentenza sul ricorso precedente. Quindi passarono a quello della Màslova.
Wolf, con la sua voce sottile, fece una relazione molto circostanziata del ricorso. E lo fece di nuovo con una certa parzialità mostrando chiaramente il suo desiderio che la sentenza del tribunale fosse annullata.
- Avete qualcosa da aggiungere? - domandò il presidente a Fanarin.
L'avvocato si alzò, sporgendo in fuori lo sparato bianco della camicia e punto per punto, con tono straordinariamente suggestivo e con grande esattezza di termini, dimostrò che il tribunale aveva violato in sei punti l'esatta interpretazione della legge; inoltre, benché di sfuggita, si permise di sfiorare anche la sostanza del fatto per mettere in maggior rilievo l'ingiustizia del verdetto. Il discorso breve ma efficace di Fanarin fu pronunciato con un'intonazione speciale, come se l'avvocato volesse scusarsi di insistere su motivi che i signori consiglieri con tutta la loro sagacia e sapienza giuridica vedevano e comprendevano meglio di lui, motivi che egli doveva esporre unicamente per adempiere alle esigenze dell'impegno che s'era assunto.
Dopo il discorso di Fanarin, sembrava ormai fuori dubbio che il ricorso sarebbe stato accolto, e Fanarin sorrise con aria di trionfo. Guardando l'avvocato e vedendo quel sorriso, Necliudov si sentì sicuro d'aver vinto la partita. Ma quando il suo sguardo cadde sui consiglieri si accorse subito che Fanarin era il solo a rallegrarsi e a esultare. I consiglieri e il sostituto procuratore generale non ridevano e non esultavano, ma avevano l'aria di annoiarsi e di dire: "Ne abbiamo sentiti ben altri di avvocati, tutto questo non serve a nulla". E si mostrarono soddisfatti soltanto quando l'avvocato finì di parlare, e di far perdere tempo.
Subito dopo l'arringa dell'avvocato, il presidente diede la parola al sostituto procuratore generale. Selenin dichiarò brevemente, ma con parole chiare e precise, che i motivi addotti erano insufficienti e si pronunciò contro l'annullamento della sentenza.
I consiglieri si alzarono e si ritirarono nella camera delle deliberazioni. Le opinioni furono nuovamente discordi. Wolf era per l'annullamento, Be, capito di che si trattava, caldeggiò anche egli con molto ardore la proposta dell'annullamento dipingendo a vivi colori ai suoi colleghi il quadro del tribunale e il malinteso in cui erano caduti i giurati, come egli aveva giustamente capito. Nikitin, sempre incline alla severità e alla rigida osservanza delle forme, era contrario. Tutto dipendeva dal voto di Skovoròdnikov. E costui si pronunciò contro soprattutto perché la risoluzione di Necliudov di sposare quella ragazza in nome di un'esigenza morale, gli dava un fastidio terribile.
Skovoròdnikov era un materialista darwiniano, e considerava ogni manifestazione di moralità astratta o peggio ancora, di religiosità, non solo come un'assurdità rivoltante, ma persino come un'offesa personale. Tanto baccano intorno a una prostituta, e la presenza lì in Cassazione di un celebre avvocato che la patrocinava e dello stesso Necliudov, gli davano enormemente fastidio. Ed egli, ficcandosi in bocca la barba e facendo un mucchio di smorfie, finse con molta naturalezza di non saper nulla di tutta quella storia, se non che i motivi di cassazione erano insufficienti, e perciò, dichiarandosi d'accordo col presidente, si pronunciò contrario all'accoglimento del ricorso.
Il ricorso fu respinto.
- E' terribile! - disse Necliudov, mentre usciva dalla sala con l'avvocato intento a riordinare la sua borsa. - In una causa così evidente, si attaccano alla forma e respingono il ricorso... E' terribile!
- La causa è stata rovinata in tribunale, - disse l'avvocato.
- Anche Selenin ha votato contro! E' terribile, terribile! - continuava a ripetere Necliudov. - E adesso che fare?
- Presentiamo immediatamente la domanda di grazia! Inoltratela voi stesso, mentre siete qui. Io ve la preparerò.
In quel momento il minuscolo Wolf, con le sue stelle e la sua uniforme, entrò nella sala dove era Necliudov e gli si avvicinò.
- Che fare, caro principe! Non c'erano motivi sufficienti, - disse, stringendosi nelle spalle, tutt'altro che erculee, e socchiudendo gli occhi. E se ne andò per i fatti suoi.
Subito dopo entrò anche Selenin. Aveva saputo dai colleghi che il suo vecchio compagno di studi Necliudov si trovava lì.
- Non mi sarei proprio aspettato di incontrarti qui, - disse avvicinandosi a Necliudov. Sorrideva con le labbra, mentre il suo sguardo rimaneva triste. - Non sapevo neppure che tu fossi a Pietroburgo.
- Anch'io non sapevo che tu fossi procuratore generale...
- Sostituto - corresse Selenin. - Come mai sei qui? - domandò, guardando con aria triste e melanconica Il vecchio compagno. - Sapevo che eri a Pietroburgo, ma come mai ti trovi qui?
- Qui? Perché speravo di trovare giustizia e di salvare una donna condannata ingiustamente.
- Che donna?
- Quella del ricorso che avete rifiutato adesso.
- Ah! la Màslova! - disse Selenin ricordandosi. - Un ricorso assolutamente infondato.
- Non si tratta del ricorso, ma della donna. E' innocente, l'hanno condannata ingiustamente.
Selenin sospirò.
- Può darsi benissimo, ma...
- Non può darsi benissimo. E' certo!
- Come lo sai?
- Ero giurato e so dove abbiamo commesso lo sbaglio.
Selenin rimase pensieroso. - Bisognava dichiararlo subito, - disse.
- L'ho detto.
- Bisognava iscriverlo nel verbale. Se fosse stato presentato nel ricorso in Cassazione...
- Sì, ma comunque era evidente che si trattava di un verdetto assurdo.
- La Cassazione non ha il diritto di dirlo. Se la Cassazione si permettesse di annullare le sentenze del tribunale giudicandole in base al proprio punto di vista sulla giustizia delle sentenze, la deliberazione dei giurati perderebbe tutta la sua importanza...
prescindendo dal fatto che la Cassazione non avrebbe più alcun punto d'appoggio e correrebbe il rischio di agire contro giustizia anziché di ristabilirla, - disse Selenin ricordando il penultimo ricorso.
- Io so soltanto che questa donna non ha commesso nessunissima colpa e che è svanita l'ultima speranza di salvarla da una condanna immeritata. La più alta magistratura ha confermato la più solenne delle ingiustizie.
- Non l'ha confermata per nulla, perché non s'addentra nell'esame della causa e neppure poteva farlo, - disse Selenin socchiudendo gli occhi.
Selenin, sempre indaffarato, frequentava poco la società, ed evidentemente non sapeva nulla del romanzo di Necliudov. E questi che se n'era accorto, pensò che non c'era alcun bisogno di raccontare le sue faccende private con la Màslova.
- Di certo ti sarai fermato da tua zia, - soggiunse Selenin, evidentemente ansioso di cambiar discorso. - Ho saputo ieri da lei che eri qui. La contessa mi aveva invitato ad assistere alla conferenza di un predicatore di passaggio, - disse, sorridendo soltanto con le labbra. - Mi disse che ti avrei trovato.
- C'ero, infatti, ma son venuto via disgustato, - rispose Necliudov con stizza, seccato che Selenin avesse cambiato discorso.
- Perché disgustato? E' sempre una manifestazione del sentimento religioso, anche se unilaterale e settario... - disse Selenin.
- E' una stramberia senza senso! - replicò Necliudov.
- Ma no! La vera stranezza è che noi si conosca così poco gli insegnamenti della nostra Chiesa. Difatti, prendiamo per chissà che rivelazione la semplice esposizione dei dogmi fondamentali, - disse Selenin, come ansioso di partecipare al compagno d'un tempo i suoi nuovi orientamenti spirituali.
Necliudov, sorpreso, guardò attentamente Selenin. Questi abbassò gli occhi. In essi vi era la solita tristezza, ma anche una luce malevola.
- Ma tu credi davvero nei dogmi della Chiesa? - gli domandò Necliudov.
- Sicuro che ci credo, - rispose Selenin, guardando l'amico negli occhi con un'espressione spenta.
- Incredibile! - esclamò Necliudov. E trasse un sospiro.
- Ma ne riparleremo poi... - disse Selenin. - Vengo, - si rivolse all'usciere che s'era avvicinato con aria deferente. - Dobbiamo assolutamente vederci, - soggiunse sospirando. - Quando ti si trova? Io ci son sempre alle sette, per il pranzo. Nadièzdinskaia, - e disse il numero della via. - Molta acqua è passata sotto i ponti da quel tempo... - soggiunse uscendo, e sorrise di nuovo soltanto con le labbra.
- Ci verrò, se faccio in tempo, - disse Necliudov. Sentiva che quel Selenin, una volta tanto vicino e caro, dopo quel breve colloquio gli era divenuto improvvisamente lontano e estraneo. Un essere incomprensibile, forse addirittura un nemico.
Selenin, quando Necliudov l'aveva conosciuto studente, era un buonissimo figliolo, un compagno devoto e, per la sua età, un uomo di mondo colto, pieno di tatto, bello, elegante, e nello stesso tempo, straordinariamente leale e onesto. Studiava benissimo senza fatica e senza la minima pedanteria, meritandosi medaglie d'oro per le sue composizioni. Egli s'era prefisso, come scopo della sua giovane vita, di aiutare i propri simili, non soltanto con le parole, ma coi fatti; e non sapendo figurarsi questo aiuto che sotto la forma di un impiego pubblico, appena uscito dall'università aveva passato sistematicamente in rassegna tutte le attività a cui avrebbe potuto consacrare le sue forze.
Sembrandogli che la seconda sezione della cancelleria imperiale, in cui si compilavano le leggi, rispondesse meglio al caso suo, vi si impiegò.
Ma nonostante la massima scrupolosità e coscienziosità, non trovò in questo impiego alcun appagamento al bisogno che sentiva di rendersi utile. Non riusciva assolutamente a convincersi che quello fosse il suo dovere. Ed in seguito ad attriti col diretto superiore, uomo assai meschino e vanitoso, la sua insoddisfazione aumentò a tal segno che si dimise dalla cancelleria e passò alla Cassazione.
In Cassazione si trovò meglio. Ma si sentiva sempre insoddisfatto.
Era perseguitato dall'impressione che non era quello che aveva sperato e che doveva essere. Mentre era in Cassazione, i suoi parenti gli brigarono la nomina di gentiluomo di Corte, ed egli, con l'uniforme ricamata, e il grembiule bianco, dovette farsi scarrozzare dall'una all'altra delle varie persone per ringraziarle di quel posto di lacché. Per quanto cercasse, non vedeva la ragione logica di questa carica; e si persuadeva sempre più che non era "quello". Ma, se da un lato non poteva rifiutare la nomina per non offendere chi aveva creduto di fargli un grande favore procurandogliela, d'altro lato quest'incarico lusingava gli istinti bassi della sua natura. Gli faceva piacere guardarsi allo specchio nell'uniforme ricamata d'oro e godeva della deferenza che molti gli dimostravano.
Lo stesso avvenne per il suo matrimonio. Dal punto di vista mondano, gli combinarono un matrimonio brillante. Ed egli non osò rifiutare, pel timore di addolorare e di offendere la fidanzata che desiderava quelle nozze e le persone che le avevano combinate; d'altra parte il matrimonio con una fanciulla giovane, graziosa, di famiglia nobile, lusingava il suo amor proprio e gli faceva piacere.
Ma dovette convincersi assai presto che il matrimonio, ancor più dell'impiego e della carica a Corte, non era "quello". Dopo il primo bambino la moglie non ne volle altri, e cominciò a condurre una vita sfarzosa, brillante, alla quale anche egli doveva partecipare, volente o nolente.
Sua moglie non era particolarmente bella, gli era fedele, e, a parte il fatto che gli avvelenava l'esistenza, personalmente non ricavava nulla da quella vita: solo strapazzi e molta stanchezza.
Eppure ci si dedicava con tutto il suo zelo. Ogni tentativo di Selenin per cambiare le cose s'era sempre infranto contro una muraglia di pietra, perché la moglie, i parenti, gli amici avevano l'assoluta certezza che bisognava vivere così. Sua figlia, una bambina con le gambe nude e i lunghi riccioli biondi, gli era completamente estranea, educata in modo contrario ai suoi desideri.
Fra i due coniugi, che non avevano più alcuna volontà di capirsi, si stabilì la solita incomprensione; e una lotta sorda, senza parole, dissimulata agli estranei e temperata dalle convenienze, rendeva penosissima a Selenin la vita domestica.
Ma più di tutto non era "quello" il suo modo di considerare la religione. Come tutta la gente intellettualmente matura della sua classe e del suo tempo, aveva rotto senza il minimo sforzo i pregiudizi religiosi in cui era stato allevato, e neppure si ricordava quando. Serio e onesto com'era ai tempi della sua prima giovinezza, quando frequentava l'università ed era tanto amico di Necliudov, non aveva nascosto a nessuno il suo affrancamento dai pregiudizi della religione ufficiale.
Ma con l'avanzare negli anni e nella carriera, e soprattutto con la reazione conservatrice che stava serpeggiando nella società, la sua indipendenza spirituale cominciò a dargli noia. Anzitutto non poteva opporsi alle esigenze familiari, come le messe in suffragio, celebrate quand'era morto il padre; né contrastare il desiderio di sua madre, in parte condiviso anche dall'opinione pubblica, che egli si comunicasse. Ma prescindendo dalla famiglia, il suo stesso impiego lo metteva continuamente nella condizione di dover assistere a te deum, a benedizioni, a funzioni di ringraziamento e simili; ben raro il giorno che, trovandosi di fronte a qualche rito, potesse evadere. Assistendo a queste funzioni, gli si presentava sempre un dilemma: o fingere di credere a ciò che non credeva, cosa che ripugnava al suo carattere retto; oppure, considerando queste forme esteriori tutta una menzogna, organizzare la sua vita in modo da non dovervi mai partecipare.
Ma per fare una cosa apparentemente così poco importante, avrebbe dovuto non soltanto mettersi in aperta lotta con tutta la famiglia, ma cambiare radicalmente vita, lasciare il servizio, e rinunciare a quel beneficio che egli credeva di recare al prossimo col suo impiego, adesso, e ancor più in avvenire. Per fare una cosa simile bisognava essere assolutamente certi d'aver ragione.
Ed egli sapeva di aver ragione, come qualsiasi persona di buon senso della nostra epoca che abbia studiato un po' di storia e che conosca le origini della religione in generale, e le origini e la decadenza della Chiesa cristiana in particolare. Sapeva d'aver ragione a non credere nelle dottrine della Chiesa. Ma sotto l'assillo delle difficoltà quotidiane egli, un uomo retto, si permise una piccola menzogna.
Si disse che per poter affermare categoricamente che una cosa è assurda, bisogna prima esaminar bene in che consiste l'assurdità.
Una piccola menzogna, che valse tuttavia a trascinarlo in quella grande menzogna in cui ora affogava. Quando si pose il problema se fosse vera la religione ortodossa in cui era nato e cresciuto, la religione che il suo ambiente esigeva da lui e che gli era indispensabile per svolgere la sua attività a vantaggio del prossimo, il problema era già risolto.
Non prese perciò Voltaire, Schopenhauer, Spencer, Kant, ma le opere filosofiche di Hegel e quelle teologiche di Vinet e di Comiakòv, e in essi, naturalmente, trovò quel che cercava: una specie di appagamento, una parvenza di giustificazione di quella dottrina in cui era cresciuto, e che la sua ragione da lungo tempo si rifiutava d'ammettere, ma che gli era tuttavia necessaria per evitare un mucchio di seccature.
S'aggrappò ai soliti cavilli: che la ragione individuale si manifesta soltanto agli uomini collettivamente; che l'unico mezzo per conoscere la verità è la rivelazione, e che la rivelazione è custodita dalla Chiesa. E così via. Da quel momento Selenin poté con coscienza tranquilla, senza pensare che fosse una menzogna, assistere alle funzioni religiose, comunicarsi e farsi il segno della croce davanti alle immagini, e, soprattutto, continuare a svolgere come funzionario quell'attività che gli dava l'illusione di esser utile, e che gli era di conforto nella sua squallida vita domestica. S'illudeva di credere, sebbene sentisse con tutto l'essere suo che la sua fede non era affatto quello.
Perciò il suo sguardo era sempre triste. Perciò, rivedendo Necliudov che lo aveva conosciuto quando tutte queste menzogne erano ancora estranee al suo animo, egli si rivide quale era allora, e dopo essersi affrettato ad accennargli il suo nuovo orientamento religioso, sentì più vivamente che mai che non era "quello" e fu preso da una tristezza profonda.
Anche Necliudov, svanita la gioia di rivedere il vecchio amico, aveva provato la medesima impressione.
Ed entrambi dopo essersi scambiata la promessa di rivedersi, non fecero nulla perché ciò avvenisse, e durante il soggiorno di Necliudov a Pietroburgo non s'incontrarono mai.
Usciti dalla Cassazione, Necliudov e l'avvocato s'avviarono insieme lungo il marciapiede. Dopo aver ordinato al vetturino di seguirlo, Fanarin cominciò a raccontare a Necliudov la storia di quel caposezione di cui i consiglieri avevano parlato fra loro:
come era stato colto in flagrante, e invece di condannarlo ai lavori forzati secondo la legge, l'avevano nominato governatore in Siberia. Una storia quanto mai abietta, che l'avvocato raccontò con gioia, come l'altra, che narrò subito dopo, a proposito di una certa somma che era stata raccolta per terminare l'erezione di un monumento davanti al quale erano passati la mattina, e finita nelle mani di alcune note personalità. Poi raccontò come l'amante di un certo tale avesse fatto i milioni in borsa, e come un tizio avesse venduto la moglie a un caio, e le malefatte e i reati d'ogni genere commessi da alcuni alti funzionari dello Stato, che invece di essere in galera sedevano sulle poltrone presidenziali dei diversi enti.
Questi aneddoti, di cui evidentemente aveva una provvista inesauribile, procuravano all'avvocato un immenso piacere, anche perché dimostravano chiaramente che i mezzi adoperati da lui, avvocato, per far soldi, erano perfettamente legali e innocui, al confronto di quelli in uso presso gli alti funzionari di Pietroburgo.
Perciò l'avvocato fu molto sorpreso quando Necliudov, senza ascoltare la fine dell'ultimo scandalo, lo salutò e presa una carrozza, ritornò a casa lungo il fiume.
Necliudov si sentiva molto triste. Era triste soprattutto perché la sentenza della Corte di Cassazione ribadiva l'ingiusta condanna inflitta alla Màslova innocente rendendo ancor più difficile l'attuazione del suo proposito di unire a lei la sua sorte. E tutte le storie nefande che l'avvocato gli aveva raccontato con tanto compiacimento avevano contribuito ad aumentare la sua tristezza, dandogli la prova della gravità del male. E poi era perseguitato dallo sguardo malevolo, freddo, respingente di quel Selenin, un tempo così caro, leale e buono.
Quando Necliudov entrò in casa, il portiere gli consegnò con aria sprezzante un biglietto che una tale, com'egli si espresse, aveva scritto in portineria. Era della madre della Sciustova. Scriveva che era venuta per ringraziarlo, chiamandolo benefattore e salvatore della figlia e intanto lo pregava molto vivamente di andare da loro, viale Vassilievski, quinta linea numero tale dei tali. Era della massima importanza per Viera Efrèmovna, scriveva.
Poteva star certo che non l'avrebbero seccato con espressioni di riconoscenza: neppure una parola di quello, sarebbero stati semplicemente contenti di vederlo. Se non aveva impegni, l'aspettavano l'indomani mattina.
C'era anche un biglietto di un suo camerata, l'aiutante di campo Bogatìriev, al quale Necliudov aveva chiesto di consegnare personalmente all'imperatore un'istanza che egli aveva preparato a nome dei settari.
Bogatiriev con la sua scrittura grossa e decisa gli scriveva che, come aveva promesso, avrebbe consegnato il ricorso direttamente nelle mani dell'imperatore. Ma gli era venuta un'idea: non sarebbe stato meglio che Necliudov andasse prima a parlare con la persona da cui dipendeva la pratica?
Necliudov, dopo le impressioni di quelle ultime giornate di Pietroburgo, aveva perso ogni speranza di riuscita. I progetti fatti a Mosca gli sembravano irrealizzabili come quei sogni giovanili che si frantumano al primo contatto con la realtà. Ma ormai che era a Pietroburgo si sentiva in dovere di portare a termine il suo programma: il giorno dopo sarebbe dunque andato da Bogatìriev e poi, per seguire il suo consiglio, dalla persona che aveva in mano la pratica dei settari.
Trasse dalla cartella il ricorso dei settari, e stava appunto rileggendolo, quando qualcuno bussò alla porta ed il cameriere della contessa Jekatierina Ivànovna venne a dirgli che la zia lo aspettava di sopra a prendere il tè.
Necliudov rispose che ci sarebbe andato subito, rimise a posto le carte e salì dalla zia. Attraverso una finestra della scala che dava sulla strada, il suo sguardo cadde sulla pariglia di Mariette; improvvisamente si sentì allegro e gli venne voglia di sorridere.
Mariette non era più in nero. Portava un cappello chiaro e un abito a tinte vivaci. Seduta con una tazza di tè in mano accanto alla contessa, le parlava sottovoce, mentre i suoi occhi bellissimi scintillavano di riso. Nel momento in cui Necliudov entrava nella stanza, Mariette aveva appena finito di raccontare qualcosa di così comico e sconveniente - Necliudov se ne accorse dal loro modo di ridere - che la bonaria e baffuta contessa Jekatierina Ivànovna, sussultando in tutto il corpo voluminoso, si torceva dalle risa, mentre Mariette con un'espressione sbarazzina, torcendo un poco la bocca sorridente e piegando da un lato il viso energico e allegro, guardava in silenzio la sua interlocutrice.
Necliudov da alcune parole capì che si trattava dell'episodio del neo governatore siberiano, la seconda delle due grandi novità pietroburghesi del giorno. E capì che Mariette doveva aver detto a questo proposito qualcosa di così buffo da suscitare l'ilarità irrefrenabile della contessa.
- Mi farai morire dal ridere, - diceva, in un accesso di tosse.
Necliudov salutò e si sedette accanto a loro, con l'intenzione di rimproverare a Mariette la sua condotta leggera. Ma essa, che aveva notato in lui un'espressione seria e un po' malcontenta, cambiò subito non soltanto il contegno, ma tutto il suo atteggiamento spirituale. Voleva piacergli. Lo desiderava fin dal primo momento che l'aveva visto. Tutt'a un tratto si fece seria, scontenta della propria vita, come assetata di vaghe aspirazioni.
Non che fingesse; s'era compenetrata realmente dello stato d'animo di Necliudov, benché a parole non sarebbe mai stata capace di dire in che cosa consistesse.
Gli domandò se aveva condotto a buon termine i suoi affari. Egli le raccontò dell'insuccesso in Cassazione e del suo incontro con Selenin.
- Ah, che anima pura! Ecco veramente un "chevalier sans peur et sans reproche" (1). Un'anima pura, - esclamarono tutte e due le signore, ripetendo l'epiteto con cui Selenin era noto in società.
- Com'è sua moglie? - domandò Necliudov.
- Sua moglie? Be', io non voglio giudicare... Ma non lo capisce.
- Davvero anche lui era contrario al ricorso? - domandò Mariette con sincero interessamento. - E' terribile! come mi rincresce per lei! - soggiunse sospirando.
Necliudov corrugò la fronte e per cambiare discorso parlò della Sciustova, che per merito di lei era stata dimessa dalla fortezza.
La ringraziò d'aver interceduto presso il marito e voleva aggiungere quanto fosse terribile il pensare che quella donna e la sua famiglia avevano sofferto unicamente perché nessuno s'era interessato di loro, ma essa gli tolse la parola di bocca.
- Non me ne parlate! - esclamò. - Appena mio marito mi disse che poteva farla uscire, pensai la stessa cosa. Perché la tenevano dentro se era innocente? - anticipò le parole che avrebbe voluto dire Necliudov. - E' una cosa mostruosa! rivoltante!
La contessa Jekatierina Ivànovna s'era accorta che Mariette civettava col nipote, e si divertiva. - Sai che cosa? - disse quando essi tacquero. - Vieni domani sera da Aline; ci sarà Kisevetter. E anche tu, - si rivolse a Mariette.
- "Il vous a remarqué" (2), - disse al nipote. - Mi ha detto che le tue idee, di cui io gli ho parlato, sono un buon indizio, e che tu senz'altro ti avvicinerai al Cristo. Ci devi assolutamente venire. Diglielo tu, Mariette, che ci venga, e vieni anche tu.
- Io contessa, anzitutto non ho alcun diritto di dar consigli al principe, - rispose Mariette guardando Necliudov con un'occhiata che stabiliva fra loro due una perfetta intesa sul modo di giudicare le parole della vecchia contessa e l'evangelismo in generale, - e in secondo luogo non mi piace molto, lo sapete...
- Tu fai sempre tutto alla rovescia e a modo tuo.
- Come a modo mio? Io sono credente come la più semplice delle donnette, - disse sorridendo. - E in terzo luogo domani sera devo andare al teatro francese.
- Ah! l'hai vista tu quella... be', come si chiama? - domandò la contessa Jekatierina Ivànovna.
Mariette suggerì il nome di una celebre attrice francese.
- Vacci assolutamente! E' meravigliosa!
- Allora, "ma tante", chi devo andare a sentire per primo, l'attrice o il predicatore? - domandò sorridendo Necliudov.
- Per favore non attaccarti alle parole.
- Io penso sia meglio prima il predicatore e poi l'attrice francese, per non correre il rischio di perdere qualsiasi gusto alla predica, - disse Necliudov.
- No, meglio cominciare col teatro francese, e poi far penitenza, - replicò Mariette.
- Be', non crediate di prendermi in giro. Il predicatore è il predicatore e il teatro... è il teatro. Per salvarsi non è poi necessario fare un muso lungo un metro e piangere sempre...
Bisogna credere e star allegri.
- Voi, "ma tante", predicate meglio d'un predicatore.
- Sapete che cosa? - disse Mariette, dopo aver riflettuto un po', - venite domani sera nel mio palco.
- Temo che non mi sarà possibile...
La conversazione fu interrotta da un domestico che annunciò un visitatore: il segretario di una società benefica, di cui la contessa era presidente.
- Oh, è un signore estremamente noioso. Sarà meglio che lo riceva di là. Torno tra poco. Dategli il tè Mariette, - disse la contessa, uscendo dalla sala col suo passo rapido e ondeggiante.
Mariette si sfilò il guanto, denudando una mano energica, piuttosto piatta, con l'anulare carico di anelli.
- Volete? - domandò, prendendo la teiera d'argento della macchinetta a spirito e piegando vezzosamente il mignolo.
Il suo viso s'era fatto serio e triste.
- E' un pensiero sempre terribile per me, terribile e penoso, che le persone di cui mi sta a cuore il giudizio, mi confondono con l'ambiente in cui vivo. - Alle ultime parole sembrava sul punto di piangere. E sebbene in fondo quelle parole non avessero alcun senso o ne avessero uno molto vago, a Necliudov sembrarono straordinariamente profonde, sincere e buone, per il fascino di quello sguardo luminoso che accompagnava le parole della giovane donna, bella ed elegante.
Necliudov la guardava in silenzio, senza poter distogliere gli occhi dal suo viso.
- Credete che io non capisca e non sappia ciò che passa in voi? Ma lo sanno tutti ciò che avete fatto! "C'est le secret de Polichinelle" (3). E io vi ammiro e vi approvo.
- Davvero non c'è di che! ho fatto così poco finora...
- Non importa. Capisco il vostro sentimento. Capisco lei... Va bene, va bene, non ne parlerò più, - s'interruppe, notando sul viso di lui un'ombra di malumore. - Ma capisco anche che, vedendo tutte le sofferenze, tutto l'orrore di ciò che avviene nelle prigioni, diceva Mariette, tendendo al suo unico scopo di conquistarlo e indovinando con intuito di donna ciò che gli premeva e gli era caro, - voi vogliate soccorrere chi soffre...
chi soffre così orribilmente, oh sì, per colpa degli uomini, dell'indifferenza, della crudeltà... Capisco come si possa dar per questo la vita. Anch'io la darei... Ma ciascuno ha il suo destino!
- Non siete forse contenta del vostro?
- Io? - esclamò lei, come stupefatta che le si potesse rivolgere una simile domanda. - Devo essere contenta, e lo sono. Ma c'è in me come un verme che mi rode...
- Non dovete schiacciarlo, dovete credere a quella voce... - disse Necliudov, preso completamente dal suo inganno.
Più d'una volta, in seguito, Necliudov ricordò con un senso di vergogna quella loro conversazione: ricordò le parole di lei non tanto false quanto ricalcate sul modello che egli le offriva, ricordò quel viso, l'aria intenta e commossa con cui lo aveva ascoltato mentre le raccontava gli orrori del carcere e le impressioni riportate dalla campagna.
Quando la contessa ritornò nella sala, essi discorrevano come due vecchi amici, anzi come due amici d'eccezione, i soli capaci di capirsi in mezzo ad una folla di estranei.
Parlavano dell'ingiustizia di chi esercita il potere, delle sofferenze dei miseri, della povertà del popolo; ma in realtà i loro occhi, che si cercavano fra le parole, si scambiavano senza tregua la domanda: "Puoi amarmi" e la risposta: "Posso". Il richiamo del sesso, ammantandosi di rosee tinte, e sotto le forme più inaspettate, li spingeva l'uno verso l'altra.
Nell'accomiatarsi, Mariette gli disse che era sempre pronta ad aiutarlo dove poteva, e lo pregò di passare un momentino la sera dopo nel suo palco, poiché doveva ancora parlargli di una cosa molto importante.
- Chissà poi quando vi vedrò di nuovo! - soggiunse con un sospiro mentre s'infilava piano il guanto sulla mano carica di anelli. - Ditemi che verrete!
Necliudov promise. Quella notte, quando, rimasto solo nella sua camera, Necliudov si coricò e spense la candela, per un pezzo non poté addormentarsi.
Pensava alla Màslova, alla sentenza della Cassazione al progetto di seguirla ovunque, alla rinuncia alla terra... E in risposta a questi pensieri vedeva il viso di Mariette, il suo sospiro e il suo sguardo mentre diceva: "Chissà poi quando vi vedrò di nuovo!"... Vedeva il suo sorriso tanto chiaramente come se vedesse lei, e gli veniva da sorridere. "Faccio bene ad andare in Siberia?
E a privarmi dei miei beni?", si domandava.
In quella chiara notte di Pietroburgo, che filtrava attraverso la tenda non del tutto abbassata, le risposte si presentavano molto incerte alla sua mente sconvolta. Cercava di risuscitare in sé lo stato d'animo di prima e l'antico ordine di idee. Ma quelle idee avevano perso la loro forza di convinzione.
"E se fosse stata tutta una fantasia e non ce la facessi a vivere a quel modo? Se dovessi pentirmi della mia buona azione?", si disse. E non aveva la forza di trovare una risposta.
Si sentì triste e disperato, come da molto tempo non gli succedeva più. Impotente a raccapezzarsi in quel guazzabuglio di pensieri, s'addormentò di un sonno così pesante, come quello che lo coglieva un tempo dopo una notte di gioco sfortunato.
NOTE:
La prima sensazione di Necliudov, svegliandosi la mattina seguente, fu d'aver commesso, la vigilia, qualcosa di molto riprovevole. Ma, raccolte le sue idee, si convinse che non si trattava di una cattiva azione vera e propria, ma piuttosto di cattivi pensieri. Gli era sembrato che il suo progetto di sposare Katiuscia e di cedere la terra ai contadini fosse una fantasia inattuabile, un peso superiore alle sue forze, una costruzione artificiosa e non sentita; che doveva continuare a vivere come aveva sempre vissuto... No, non aveva commesso una cattiva azione, ma qualcosa di molto peggio: si era lasciato sopraffare da tutti quei pensieri da cui derivano le cattive azioni.
E' possibile non ripetere una cattiva azione, e pentirsi di averla commessa; i pensieri cattivi, invece, generano sempre cattive azioni.
Se un'azione malvagia apre la strada ad altre azioni malvage, i pensieri cattivi trascinano irresistibilmente su questa via.
Riandando a mente fresca i pensieri della sera prima, Necliudov si stupì di aver potuto prestarvi fede, sia pure per un momento solo.
Per quanto insolito e difficile fosse ciò che aveva in animo di fare, egli sapeva che quella era ormai la sua vita, e per quanto facile gli potesse invece sembrare il ritorno alle vecchie abitudini, sapeva che sarebbe stata la morte. La tentazione della sera prima gli sembrava simile a quella di un uomo che, dopo aver dormito molto, abbia voglia di starsene ancora a letto a poltrire, sebbene sappia che è ora di alzarsi per compiere un lavoro utile e piacevole.
Era l'ultimo giorno che si fermava a Pietroburgo. Si alzò per tempo e si recò all'isola Vassìlievski dalla Sciustova.
L'appartamento della Sciustova era al secondo piano. Necliudov, seguendo le indicazioni del portiere, si trovò nell'ingresso di servizio, salì una scala dritta e ripida ed entrò direttamente in una cucina calda che emanava un denso odor di cibo.
Una donna attempata in grembiule, con le maniche rimboccate e gli occhiali, stava davanti al fornello e rimestava qualcosa dentro una casseruola fumante.
- Chi cercate? - domandò con severità guardando il visitatore al di sopra degli occhiali.
Necliudov non aveva ancor finito di pronunciare il suo nome che il viso della donna assunse subito un'espressione di sgomento e di gioia.
- Ah, principe! - esclamò asciugandosi le mani nel grembiule. - Ma perché siete venuto dalla scala di servizio? Che Iddio vi benedica! Io sono sua madre. Per poco non me l'hanno rovinata completamente, la mia bambina! Ci avete salvato! - diceva stringendo la mano a Necliudov e cercando di baciargliela. - Ieri sono stata a casa vostra. Mia sorella aveva tanto insistito... E' qui. Per di qua, per di qua, seguitemi per favore, - diceva la Sciustova madre, facendo strada a Necliudov attraverso una porta stretta e un angusto corridoio buio, e aggiustandosi per via ora la veste rimboccata, ora i capelli.
- Mia sorella è la Kornilova, di certo ne avete sentito parlare...
- aggiunse, fermandosi davanti a una porta. - E' stata implicata in questioni politiche. Una donna molto intelligente...
Aperta la porta, la madre della Sciustova fece entrare Necliudov in una cameretta, dove sopra un piccolo divano, davanti a una tavola, sedeva una ragazza grassoccia, di media statura, con la camicetta di percalle a righe e i capelli biondi ricciuti che le incorniciavano il viso tondo molto pallido. Assomigliava alla madre.
Di fronte a lei, piegato in due in una poltrona, sedeva un giovane coi baffetti e la barba neri, che indossava una camicia russa dal colletto ricamato. Tutti e due erano tanto immersi nella conversazione che si accorsero di Necliudov soltanto quando era già entrato.
- Lidia, è il principe Necliudov, quello che...
La ragazza pallida sussultò nervosamente, e raddrizzò una ciocca di capelli che le era sfuggita da dietro l'orecchio, fissando impaurita gli occhioni grigi sul visitatore.
- Allora voi sareste la donna pericolosa che mi ha raccomandato Viera Efrèmovna? - disse Necliudov sorridendo e tendendo la mano.
- Sì, sono io, - rispose Lidia e scoprì una fila di denti bellissimi in un sorriso buono, fanciullesco. - La zia aveva molta voglia di vedervi. Zia! - chiamò dalla porta con una voce dal timbro simpatico, delicato.
- Viera Efrèmovna era molto dispiacente del vostro arresto, - disse Necliudov.
- Sedete qua, no qua è ancor meglio, - disse Lidia, indicando la poltrona rotta ma soffice, da cui s'era appena alzato il giovane.
- Mio cugino Zacarov, - disse cogliendo lo sguardo con cui Necliudov lo aveva osservato.
Il giovane salutò l'ospite con un sorriso bonario come quello di Lidia, e quando Necliudov si fu seduto in poltrona, prese una seggiola presso la finestra e andò a sedersi vicino a lui.
Sull'uscio della camera attigua apparve un ragazzo biondo sui sedici anni, studente di ginnasio, che si sedette silenziosamente sul davanzale della finestra.
- Viera Efrèmovna è molto amica della zia, ma io la conosco appena, - disse Lidia.
In quel momento dalla camera vicina uscì una donna dal viso simpatico e intelligente. Indossava una camicetta bianca, stretta da una cintura di pelle.
- Buongiorno e grazie d'esser venuto! - cominciò, appena si fu seduta sul divano accanto a Lidia. - Come sta Viéroc'ka (1)?
L'avete vista? Come se la passa?
- Non si lamenta, - rispose Necliudov, - dice che si sente come nell'Olimpo.
- Ah, Viéroc'ka! come la riconosco! - disse la zia sorridendo e scuotendo la testa.
- Bisogna conoscerla. E' una creatura nobilissima. Tutto per gli altri, niente per sé.
- E' vero, per sé non ha chiesto nulla, si preoccupava soltanto di vostra nipote. L'angustiava soprattutto il pensiero che l'avessero arrestata per niente.
- Proprio così, - disse la zia, - è una cosa terribile! Ci è andata di mezzo esclusivamente per colpa mia.
- Ma niente affatto, zia, - disse Lidia. - Anche senza di voi avrei preso le carte.
- Permettimi di saperne più di te, - proseguì la zia; - vedete, - disse rivolgendosi a Necliudov, - tutto è successo perché una persona mi ha pregato di custodire provvisoriamente certi suoi documenti, e io, non avendo casa, li portai a lei. Ma proprio quella notte capitò la polizia, trovò le carte e arrestò Lidia, che è rimasta in carcere fino ad ora perché non voleva dire da chi le aveva ricevute.
- Non l'ho detto! - dichiarò Lidia in fretta, tirandosi nervosamente un ricciolo che non le dava alcun fastidio.
- Ma io non dico che tu l'abbia detto, - replicò la zia.
- Se han preso Mitin, io non c'entro, disse Lidia arrossendo e guardandosi intorno inquieta.
- Ma non parlar di questo, Lidoc'ka! - esclamò la madre.
- Perché no? Voglio raccontare com'è andata, - protestò Lidia.
Aveva smesso di sorridere e, arrossendo, si attorcigliava sul dito sempre più nervosamente il ricciolo, guardandosi d'attorno.
- Lo sai che cosa è successo ieri, quando hai cominciato a parlarne...
- Nient'affatto... Lasciatemi, mamma. Io non ho detto niente, sono stata sempre zitta. Quando mi ha ripetuto per due volte la stessa domanda sulla zia e su Mitin mi sono limitata a dirgli che non avrei risposto. Allora quel... Petrav...
- Petrav è un agente provocatore, un gendarme e un gran farabutto, - intervenne la Zia, per chiarire a Necliudov le parole di sua nipote.
- Allora lui, - proseguì Lidia agitata e in fretta, - tentò di convincermi. "Tutto quel che direte", diceva, "non nuocerà a nessuno, anzi... Parlate, salverete degli innocenti che noi forse tormentiamo inutilmente". Ma io ho ripetuto che non avrei detto niente. Allora lui: "Va bene, non parlate, basta che non neghiate ciò che dirò io". E cominciò a far alcuni nomi, fra cui quello di Mitin.
- Ma non ne parlare, - disse la zia.
- Ah, zia, smettetela! - e continuava a tormentare il ricciolo guardandosi intorno inquieta, - ad un tratto figuratevi, vengo a sapere, me lo comunicano l'indomani coi colpi nel muro, che han preso Mitin. Ecco, pensai l'ho tradito io. E quel pensiero non mi dava requie, mi tormentava tanto che mi sembrava di impazzire.
- Ma se si è saputo che tu non c'entri per niente nel suo arresto!
- disse la zia.
- Io non lo sapevo. Pensavo: "L'ho tradito!". Mi sdraio, mi copro la testa e sento una voce che mi mormora all'orecchio: "Hai tradito, hai tradito Mitin, tu l'hai tradito!". So che è un'allucinazione, ma non riesco a non ascoltare. Vorrei dormire...
non posso. Vorrei non pensare... Non posso. Una cosa davvero orribile! - diceva Lidia sempre più sconvolta, facendo e disfacendo il ricciolo intorno al dito e guardandosi continuamente intorno.
- Lidoc'ka, calmati, - ripeteva la madre, accarezzandole la spalla. Ma Lidoc'ka non poteva più frenarsi:
- Era tanto più terribile in quanto... - cominciò di nuovo, ma i singhiozzi le impedirono di proseguire. Balzò su dal divano e inciampando nella poltrona fuggì dalla camera. La madre la seguì.
- Impiccarli quei farabutti! - esclamò lo studente seduto alla finestra.
- Tu che c'entri? - domandò la zia.
- Io? niente... Facevo per dire, - rispose il ginnasista e dando di piglio a una sigaretta che era sul tavolo, si mise a fumare.
NOTE:
- Sì, per i giovani la segregazione cellulare è una cosa spaventosa! - esclamò la zia, scuotendo la testa e accendendo a sua volta una sigaretta.
- Credo per tutti, - osservò Necliudov.
- No, non per tutti, - replicò la zia. - Per i veri rivoluzionari m'han detto che è un riposo, una distensione. L'illegale vive eternamente in ansie, in privazioni materiali, teme per sé, per gli altri e per la causa comune. Quando li arrestano, tutto ciò finisce, ogni responsabilità è tolta: sta a sedere e si riposa.
M'han detto che provano addirittura un senso di gioia quando li prendono. Ma per i giovani, e specialmente per gli innocenti, che sono i primi ad essere arrestati, come Lidoc'ka, la prima scossa è terribile. La privazione della libertà, i cattivi trattamenti, il cibo cattivo, l'aria cattiva non conterebbero nulla; anche in condizioni tre volte peggiori resisterebbero senza fatica, se non ci fosse quella scossa morale che si prova quando si è arrestati la prima volta.
- L'avete provata anche voi?
- Io? Due volte sono stata dentro, - disse la zia con un sorriso triste, simpatico. - Quando mi arrestarono la prima volta, e naturalmente per nulla, - proseguì, - avevo ventidue anni, un figlio e ne aspettavo un altro. Per quanto fosse duro l'essere privata della libertà, e dovermi separare dal bambino e dal marito, tutto questo non era niente in confronto a ciò che provai quando mi resi conto che avevo cessato d'essere una creatura umana per diventare una cosa. Voglio dare l'ultimo saluto alla mia bambina, mi dicono di camminare e di sedermi in vettura. Domando dove mi portano, mi rispondono che lo saprò quando sarà giunta.
Domando di che sono accusata, e non ho risposta... Dopo l'interrogatorio, mi svestirono e mi fecero indossare l'uniforme dei detenuti col numero, mi chiusero a chiave e se ne andarono.
Rimasi sola con la sentinella armata di fucile, che camminava in silenzio e di tanto in tanto guardava da una fessura della porta.
Allora provai un vero senso di angoscia. Più di tutto, ricordo, mi aveva colpito il fatto che l'ufficiale dei gendarmi, durante l'interrogatorio, mi avesse offerto da fumare. Dunque sapeva come alla gente piace fumare; certamente sapeva anche come tutti amino la libertà, la luce, come le madri amino i loro figli e i figli le madri. E allora, come avevano avuto il coraggio di strapparmi ai miei affetti più cari e di rinchiudermi come una bestia feroce?
Questo non si può sopportare impunemente. Se uno prima credeva in Dio e negli uomini e nella fratellanza umana, dopo questo non ci crede più. Da quel tempo io ho cessato di credere negli uomini e sono diventata cattiva, - terminò e sorrise.
Dalla porta da cui era uscita Lidia, riapparve sua madre e riferì che Lidoc'ka era troppo eccitata per poter ritornare.
- Che ragione avevano di rovinare una creatura così giovane? Ma ciò che soprattutto mi rincresce, - disse la zia, - è d'essere stata io la causa involontaria...
- Dio ci farà la grazia! Vedrai che l'aria di campagna la risanerà. La mandiamo da suo padre.
- Di certo senza di voi sarebbe finita male! - disse la zia. - Dobbiamo dirvi grazie. Ma io avevo bisogno di vedervi per pregarvi di consegnare una lettera a Viera Efrèmovna. La lettera è aperta, potete leggerla e anche strapparla, secondo le vostre convinzioni.
Non c'è niente di compromettente.
Necliudov prese la lettera promettendo di consegnarla e dopo essersi congedato, uscì in istrada.
In quanto alla lettera, la chiuse senza leggerla e decise di farla giungere a destinazione.
Prima di lasciare Pietroburgo, Necliudov doveva sbrigare un'altra pratica: l'istanza di grazia, dei settari che egli voleva far pervenire allo zar tramite il suo ex compagno di reggimento, l'aiutante di campo Bogatìriev. Vi andò al mattino e lo trovò ancora in casa, che faceva colazione. Bogatìriev era un uomo piuttosto basso, tarchiato e dotato di una forza fisica eccezionale - piegava i ferri di cavallo - buono, onesto, retto e di idee persino liberali.
Nonostante queste sue qualità era molto ben accetto a Corte.
Voleva bene allo zar e alla sua famiglia e aveva la sorprendente capacità di vedere soltanto i lati buoni di quel gran mondo nel quale viveva, senza mai partecipare ad azioni cattive e disoneste.
Non criticava mai né gli uomini né i provvedimenti. Taceva o diceva senza reticenze a voce alta, quasi gridando, quel che aveva da dire, spesso accompagnando le sue parole con risate altrettanto rumorose. E non lo faceva per opportunismo, ma perché era nel suo carattere.
- Bravo, bravo che sei venuto! Non vuoi far colazione? Allora siediti. La bistecca è ottima! Io comincio e finisco sempre con qualcosa di sostanzioso. Ah, ah, ah! Sù, bevi un po' di vino, - gridava, indicando la caraffa col vino rosso. - Pensavo proprio a te. La tua istanza sarà presentata. E direttamente nelle mani dello zar. Puoi contarci... Ma m'è venuto in mente che forse faresti meglio ad andar prima da Toporòv.
Necliudov a quel nome aggrottò la fronte.
- Tutto dipende da lui. Tanto lo dovranno lo stesso interpellare.
Chissà mai che non ti accontenti!
- Se me lo consigli, ci vado.
- Benone! Be', come ti trovi a Pietroburgo? Che effetto ti fa? - gridò Bogatiriev. - Sù, parla!
- Mi sento come ipnotizzato, - disse Necliudov.
- Ipnotizzato? - ripeté Bogatìriev ridendo fragorosamente. - Non vuoi bere? Be', fa come credi. - Si asciugò i baffi col tovagliolo. - Vacci dunque, eh? Se non otterrai nulla, portala a me, che domani la presento, - proseguì sempre con voce sonora.
Poi, alzatosi da tavola, si fece un gran segno di croce, con lo stesso gesto macchinale con cui poco prima s'era asciugato i baffi, e s'affibbiò la sciabola.
- Arrivederci, dunque. Io devo andare...
- Usciamo insieme, - disse Necliudov, stringendogli la mano grande e forte, con la piacevole sensazione che provava sempre a contatto d'una persona sana, spontanea e fresca, e sul portone di casa si accomiatò da lui.
Sebbene non nutrisse grandi speranze nel risultato della sua visita, tuttavia, per ubbidire al consiglio dell'amico, Necliudov si recò da quel Toporòv, da cui dipendevano le sorti dei settari.
La carica che rivestiva Toporòv implicava in se stessa una contraddizione interiore che poteva sfuggire solo a un uomo ottuso e privo di senso morale. Toporòv infatti possedeva queste due qualità negative.
Lo scopo di quella carica era il mantenimento e la difesa, con tutti i mezzi possibili, non esclusa la violenza, di una Chiesa che per definizione era stata istituita da Dio e che né l'inferno né gli uomini potevano in alcun modo minare. Eppure questa istituzione di essenza eterna e divina avrebbe dovuto essere sostenuta e difesa dall'istituzione umana diretta da Toporòv e dai suoi subordinati. Toporòv, naturalmente, non s'accorgeva, o non voleva accorgersi della contraddizione, e si dava un gran daffare perché nessun prete cattolico o pastore protestante o settario demolisse quella Chiesa che neppure l'inferno poteva sopraffare.
Toporòv come tutti gli esseri privi di un vero sentimento religioso e del senso della uguaglianza e della fratellanza umana, era pienamente convinto che il mondo fosse composto di uomini assolutamente diversi da lui, e che al popolo fosse necessario ciò di cui egli poteva fare a meno senza alcuno sforzo. Nell'intimo dell'animo suo egli non credeva in nulla, e la trovava una cosa molto comoda e piacevole; temeva però che gli altri potessero arrivare a pensarla come lui e riteneva suo sacro dovere - diceva - salvarli da quel pericolo.
Come si usa dire nei libri di cucina, che i gamberi vogliono essere cucinati vivi, così anche egli era perfettamente convinto e non nel senso traslato dei libri culinari ma alla lettera, poiché lo pensava e lo diceva, che la gente vuol essere superstiziosa.
Egli considerava la religione che doveva difendere, come un allevatore di polli considera le carogne che offre in pasto alle sue galline: puzzano, ma piacciono ai polli e perciò bisogna darle loro da mangiare. Si sa che il culto della Madonna di Iversk, di Kazàn e di Smolensk è una forma di idolatria, ma il popolo ci tiene e ci crede. Bisogna quindi appoggiare queste superstizioni, solo perché sia nel passato sia nel presente uomini duri come lui, Toporòv, avevano usato i lumi del proprio intelletto per rafforzare l'ignoranza della gente invece che per dissiparne le tenebre.
Mentre Necliudov veniva introdotto nella sala d'aspetto, Toporòv stava discorrendo nel suo studio con una madre badessa, un'energica aristocratica che propagandava e sosteneva la religione ortodossa nei paesi occidentali, tra gli uniati (1), costretti a convertirsi all'ortodossia loro malgrado.
In anticamera un impiegato domandò a Necliudov che cosa desiderasse e quando seppe che aveva l'intenzione di presentare una domanda di grazia allo zar, lo pregò di mostrargliela.
Necliudov gli dette la supplica e l'impiegato la portò immediatamente a Toporòv. La monaca col suo alto cappuccio, il velo ondeggiante e lo strascico nero, uscì dallo studio reggendo fra le mani bianche dalle unghie curate, incrociate sul petto, un rosario di topazi, e s'avviò verso l'uscita. Ma Necliudov non fu fatto passare subito. Toporòv stava leggendo la domanda e scuoteva la testa. Era colpito sgradevolmente dalle parole chiare e forti dell'istanza.
"Se capita fra le mani del sovrano, può far sorgere questioni sgradevoli e malintesi", pensava leggendo, e posato il foglio sul tavolo, suonò per far passare Necliudov.
Ricordava la storia di quei settari, aveva già ricevuto il loro ricorso. Si trattava di alcuni cristiani che avevano abiurato la religione ortodossa. Prima ammoniti e poi processati, in giudizio li avevano assolti. Allora il vescovo e il governatore, col pretesto che il loro matrimonio era illegale, avevano pensato di dividere i mariti, le mogli e i figli, deportandoli in luoghi diversi. Ora quei padri e quelle mogli chiedevano nella supplica di non venir separati. Toporòv si ricordò della prima volta che quella pratica gli era capitata fra le mani. Anche allora era stato incerto sulla decisione da prendere. Ma poi aveva pensato che ratificando l'ordine di deportare i membri di quelle famiglie non avrebbe potuto derivar alcun danno, mentre concedendo loro di rimanere nei villaggi, ci sarebbe stato il pericolo che il loro esempio influisse negativamente sugli altri contadini e li inducesse a staccarsi dalla religione ortodossa. Inoltre era una prova dello zelo del vescovo e perciò egli aveva lasciato che la pratica seguisse il suo corso.
Ora però con un difensore come Necliudov che aveva forti relazioni a Pietroburgo, quella faccenda avrebbe potuto essere presentata allo zar sotto una luce di crudeltà oppure venire in possesso della stampa estera. Tutto ciò lo indusse a prendere un'improvvisa risoluzione.
- Buongiorno, - disse con un'aria molto indaffarata, alzandosi per salutare Necliudov ed entrando subito in argomento. - So di che si tratta. Appena ho letto i nomi mi son ricordato subito di questa faccenda disgraziata, - proseguì, prendendo in mano la domanda e mostrandola a Necliudov. - E vi sono molto grato di avermene fatto ricordare. Queste autorità provinciali son sempre troppo zelanti...
Necliudov taceva, osservandone con antipatia la maschera impassibile e pallida.
- E darò subito disposizione perché venga abrogato il decreto e questa gente possa ritornare a casa.
- Allora posso non dar corso all'istanza? - domandò Necliudov .
- Naturalmente. Ve lo prometto io, - rispose lui calcando l'accento sulla parola "io", evidentemente convintissimo che la sua onestà e la sua parola fossero la migliore delle garanzie. - Anzi, è meglio che scriva subito. Accomodatevi, vi prego...
Egli sedette alla scrivania e si mise a scrivere. Necliudov, in piedi, osservava dall'alto quel cranio stretto, calvo, quella mano dalle grosse vene azzurre che faceva scorrere in fretta la penna sulla carta e si domandò subito per quale motivo un uomo tanto indifferente a tutto come Toporòv si dimostrasse tanto premuroso di accontentarlo. Perché?...
- Ecco fatto, - disse Toporòv, chiudendo la busta, - ditelo pure ai vostri clienti, - soggiunse poi, stringendo le labbra in una specie di sorriso.
- Perché quei disgraziati hanno dovuto soffrire così? - disse Necliudov, prendendo la busta.
Toporòv alzò il capo e sorrise, come se quella domanda gli facesse piacere.
- Questo non ve lo posso dire. Vi dirò soltanto che gli interessi del popolo, di cui siamo gelosi custodi, hanno una tale importanza, che uno zelo eccessivo nelle questioni concernenti la fede è meno nocivo e pericoloso dell'eccessiva indifferenza religiosa che si sta diffondendo.
- Ma com'è possibile che in nome della religione vengano soffocate proprio le condizioni prime dell'amore? si dividano le famiglie?
Toporòv sorrise ancora con indulgenza; evidentemente trovava piacevoli i discorsi di Necliudov. Qualunque cosa egli avesse potuto dire, Toporòv l'avrebbe trovata piacevole e unilaterale, dall'alto di quella posizione governativa che egli riteneva di primissimo piano.
- Dal punto di vista di un privato qualunque la cosa può sembrare così, ma dal punto di vista del governo, è tutt'altra faccenda. I miei rispetti, dunque! - concluse Toporòv, chinando la testa e tendendo la mano.
Necliudov la strinse e uscì rapidamente senza rispondere, pentito di quella stretta.
"Gli interessi del popolo", ripeteva le parole di Toporòv. "I tuoi interessi, soltanto i tuoi", pensava uscendo da quella casa.
E rivide con la fantasia le facce degli alti funzionari che per tutelare la giustizia, salvaguardare la fede ed educare il popolo, avevano condannato la donnetta che aveva venduto il vino di frodo e il ragazzo che aveva rubato, e il vagabondo che aveva vagabondato e l'incendiario, per l'incendio doloso, e il banchiere per truffa. E adesso, quella povera Lidia soltanto perché poteva essere una testimone importante, e quei contadini perché avevano attentato alla religione ortodossa e quel Gurkevic' perché aveva desiderato la costituzione...
Con chiarezza, straordinaria capì che tutte quelle persone erano state imprigionate e deportate non perché avessero commesso un reato contro la giustizia o la legalità, ma solo perché volevano impedire ai funzionari e ai ricchi di godersi i beni che avevano tolto al popolo.
Li ostacolava la donnetta che vendeva il vino senza permesso, il ladro che bighellonava per la città e la Lidia coi suoi proclami e i settari che distruggevano le superstizioni e Gurkevic' con la costituzione. E perciò a Necliudov sembrava evidente che tutti i funzionari, cominciando dal marito di sua zia, dai consiglieri di Cassazione e da Toporòv, fino ai piccoli signori, lindi e corretti, che sedevano ai tavoli ministeriali, non si preoccupassero affatto degli innocenti che soffrivano, ma si interessassero di eliminare gli individui pericolosi.
Sicché non solo si violava il precetto di perdonare a dieci colpevoli per non condannare un innocente, ma, al contrario, come per tagliare il marcio bisogna toccare anche la parte sana, così si condannavano dieci innocenti per eliminare un solo individuo veramente pericoloso .
Questa spiegazione sembrava a Necliudov molto semplice e chiara, ma appunto per questo egli esitava ad ammetterla. Impossibile che fatti così complessi avessero una spiegazione così ovvia e tremenda; impossibile che tutti i discorsi sulla giustizia, il bene, la legge, la fede, la divinità e così via, fossero soltanto parole vane e non velassero che gretta cupidigia e crudeltà.
NOTE:
Necliudov sarebbe partito quella sera stessa se non avesse promesso a Mariette di farle visita in teatro. Vi si recò contro coscienza, sapendo di sbagliare, col pretesto che doveva mantenere la promessa fatta.
- Posso resistere a una simile tentazione? - pensava non del tutto sinceramente. - Sarà l'ultima prova...
Indossato il frac, arrivò al secondo atto dell'immortale "Dame aux camélias", nella quale un'attrice straniera mostrava con arte nuova come muoiono le donne tisiche.
Il teatro era gremito, e subito gli fu indicata la barcaccia di Mariette, con la deferenza dovuta a chi chiedeva una simile informazione.
Nel corridoio un servitore in livrea gli s'inchinò come se lo conoscesse, e gli aprì la porta.
Tutte le persone sedute o in piedi che gremivano i palchi dirimpetto, tutte le schiene e le teste canute, brizzolate, calve, pelate, impomatate, arricciate della gente in platea, tutti appuntavano gli sguardi attenti su una attrice magra e ossuta vestita elegantemente di seta e di pizzo, che recitava un monologo con voce rotta e falsa.
Qualcuno zittì al rumore della porta che si apriva, e due correnti d'aria, una fredda e una tiepida, soffiarono in faccia a Necliudov.
Nel palco si trovavano Mariette, una signora che non conosceva con una mantellina rossa e una pettinatura alta e complicata, e due signori: il generale, marito di Mariette, un bell'uomo alto, dal gran naso aquilino nel volto severo e impenetrabile, e il petto artificiosamente largo, marziale, imbottito di ovatta e tela; l'altro, un biondo pelato dal mento raso con la fossetta tra due basette imponenti. Mariette, graziosa, sottile, elegante, indossava un abito scollato che le scopriva le spalle rotonde, forti, dolcemente curve, e un piccolo neo proprio sotto il collo; essa si voltò subito e indicando col ventaglio a Necliudov una seggiola dietro a sé, gli rivolse un sorriso grato e amichevole, che a lui sembrò pieno di promesse. Suo marito guardò Necliudov con la calma che gli era abituale, e chinò il capo. Tutto in lui, dall'atteggiamento all'occhiata scambiata con la moglie mostrava chiaramente il signore e padrone di una bella donna.
Alla fine del monologo, il teatro fu scosso da un uragano di applausi. Mariette si alzò e sollevando la gonna di seta frusciante, passò nel fondo del palco per presentare Necliudov al marito. Il generale, con gli occhi che sorridevano, si disse molto lieto, e poi tacque, calmo e impenetrabile.
- Avrei dovuto partire oggi, ma vi avevo promesso di venire, - disse Necliudov a Mariette.
- Se non me, avrete almeno il piacere di vedere una attrice meravigliosa, - rispose Mariette, indovinando il senso delle sue parole. - Com'era bella nell'ultima scena, non vi sembra? - domandò rivolgendosi al marito.
Il marito approvò con un cenno del capo.
- Non mi sento affatto commosso, - rispose Necliudov. - Oggi ho visto tante vere miserie che...
- Ma sedete, raccontatemi...
Il marito ascoltava e il sorriso dei suoi occhi si faceva sempre più ironico.
- Sono stato da quella donna che hanno finalmente rimesso in libertà. E' una creatura finita.
- E' la donna di cui ti ho parlato, - disse Mariette al marito.
- Sono molto lieto che sia stato possibile liberarla, - disse con calma, chinando il capo e sorridendo sotto i baffi di un sorriso che a Necliudov parve apertamente ironico. - Vado a fumare.
Necliudov aspettava che Mariette gli dicesse quella tal cosa di cui doveva parlargli. Ma essa faceva le viste di nulla, soltanto scherzava e parlava del dramma che, secondo lei, avrebbe dovuto particolarmente commuovere Necliudov.
Questi capì che Mariette non aveva niente da dirgli, ma aveva voluto soltanto mostrarsi a lui in tutto lo splendore del suo vestito da sera, con le spalle nude e il neo; e ciò gli fece piacere e insieme disgusto.
Il fascino che emanava da lei era come un velo non ancora dischiuso ma attraverso il quale riusciva ormai a leggere.
Necliudov ammirava la bellezza di Mariette, pur sapendo che era una bugiarda, cui non importava nulla vivere con un marito che doveva la sua carriera alle lacrime e alla vita di centinaia e centinaia di persone; sapeva che quanto gli aveva detto la sera prima era falso, e che l'unico suo scopo era di farlo innamorare di lei; il perché Necliudov non lo sapeva, ma non lo sapeva neppure Mariette. E questo lo attirava e, insieme, lo respingeva.
Più di una volta era stato sul punto di prendere il cappello e di andarsene, e poi era rimasto.
Ma quando il marito rientrò nel palco, coi grossi baffi impregnati di odor di tabacco e gli lanciò un'occhiata di ironica degnazione, come se non lo riconoscesse, Necliudov non aspettò che la porta si fosse chiusa e, uscito nel corridoio, prese il cappotto e lasciò il teatro.
Mentre ritornava a casa lungo il viale Nevski, notò senza volerlo davanti a sé una donna alta, molto ben fatta e vestita vistosamente, che batteva con passo calmo l'asfalto del largo marciapiede. Sul suo volto e in tutto il suo aspetto si leggeva la consapevolezza di un turpe fascino. I passanti si voltavano a guardarla e Necliudov, che camminava più in fretta di lei, la sbirciò quasi inconsapevolmente. Il viso, truccato, era bello, e la donna gli sorrise, con un lampo negli occhi. E strana cosa, improvvisamente Necliudov si ricordò di Mariette, perché provava ora il medesimo senso di attrazione e di disgusto che aveva provato in teatro. Si affrettò a passarle davanti, e, irritato con se stesso, svoltò nella Morskaia, dove si mise a camminare in sù e in giù sul lungofiume, con grande stupore di un poliziotto.
"Anche quell'altra mi ha sorriso così, quando sono entrato nel palco", pensò, "e tutti e due i sorrisi hanno lo stesso significato. L'unica differenza è che questa dice chiaramente e semplicemente: 'Se ti servo prendimi, se no tira diritto', quella finge di non pensare a queste cose e di avere sentimenti eccelsi, raffinati. Ma la sostanza è la stessa. L'una, almeno, è sincera, l'altra è ipocrita. E poi questa è stata travolta dalla miseria, quella scherza e si trastulla con una passione tanto bella, quanto disgustosa e terribile. La donna dei marciapiedi è come l'acqua sporca e infetta che uno beve soltanto se la sete è più forte del disgusto. L'altra è un veleno che impercettibilmente intossica tutto ciò che tocca...".
Necliudov ricordò la sua relazione con la moglie del maresciallo e si sentì assalire da una vergogna cocente.
"E' disgustosa la bestialità dell'uomo", pensava. "Ma se si manifesta sotto il suo vero aspetto, tu la riconosci e la disprezzi dall'alto della tua vita spirituale, e sia che tu cada o resista, rimani sempre quello di prima. Quando, invece, la bestia si nasconde sotto un involucro pseudo-estetico e pseudo-poetico e pretende d'ispirarti rispetto, allora tu divinizzi la bestia e ti perdi in lei, né sai più distinguere il bene dal male. Questo è terribile".
Necliudov vedeva tutto ciò con la stessa chiarezza con cui vedeva i palazzi, le guardie, la fortezza, il fiume, le barche, le carrozze.
E come in quella notte senza tenebre, una luce incerta, triste, innaturale, priva di vita non concedeva alla terra di riposare, così all'animo di Necliudov non dava tregua la nuova luce che aveva dissipato le tenebre della sua incoscienza. Tutto era chiaro. Era chiaro che tutto ciò che passa per essere nobile e buono è vano e abietto, e che lo splendore e il lusso della vita celano vizi vecchi come il mondo, non solo impuniti, ma trionfanti e resi seducenti dagli artifici degli uomini.
Necliudov avrebbe voluto dimenticare, chiudere gli occhi, ma non poteva più... Sebbene non riuscisse a scorgere la fonte della luce che lo aveva illuminato, così come non poteva vedere la sorgente della luce che rischiarava Pietroburgo, e sebbene quella luce gli sembrasse incerta, triste e innaturale, non poteva esimersi dal vederne gli effetti e mentre si sentiva felice, aveva anche paura.
Di ritorno a Mosca, Necliudov si recò subito all'ospedale della prigione per dare alla Màslova il triste annuncio che la Cassazione aveva confermato la sentenza del tribunale e che bisognava prepararsi per il viaggio in Siberia. Le aveva portato da firmare l'istanza allo zar, redatta dall'avvocato, ma aveva poche speranze che la grazia venisse concessa. Anzi, strano a dirsi, non lo desiderava neppure più. Mentre si era abituato al pensiero del viaggio in Siberia e alla vita che avrebbe condotto fra i deportati e i galeotti, gli sarebbe stato difficile immaginare la sua vita e quella della Màslova, qualora l'avessero assolta. Si ricordava le parole dello scrittore americano Thoreau che, al tempo della schiavitù in America, diceva che la prigione è l'unico posto che si convenga a un onesto cittadino di un paese dove la schiavitù è legalizzata e protetta. Necliudov era dello stesso parere, specialmente dopo essere stato a Pietroburgo e dopo tutto quello che vi aveva saputo.
"Sì, l'unico posto decente per un galantuomo, in questo momento in Russia, è la prigione", pensava. E lo sentiva con immediatezza, mentre s'avvicinava alle mura della prigione e ne varcava la soglia.
Il custode dell'infermeria lo riconobbe subito e si affrettò a dirgli che la Màslova non c'era più.
- Dov'è?
- E' tornata in prigione.
- Ma perché ve l'hanno rimandata? - domandò Necliudov.
- E' una brutta razza, Eccellenza! - rispose il custode con un sorriso sprezzante; - ha fatto la stupida con un infermiere, e il primario l'ha cacciata via.
Necliudov non avrebbe mai creduto che la Màslova e i suoi affari di cuore lo toccassero tanto da vicino. Le parole del custode lo sbalordirono. Si sentiva come uno che riceva all'improvviso la notizia di una grande sciagura. Provò male al cuore. Poi, un'impressione di vergogna. Anzitutto si sentiva ridicolo per aver creduto con tanta gioia che in lei fosse avvenuto un cambiamento.
Tutti quei suoi discorsi di non volerlo sacrificare, tutte le sue lacrime e le sue recriminazioni, non erano altro che astuzie di una donnaccia, alla ricerca del modo migliore per sfruttarlo. Ora gli sembrava di aver notato in lei, durante l'ultima visita, i segni di quella irriducibilità di cui adesso aveva la prova.
Questi pensieri gli attraversarono il capo mentre istintivamente si rimetteva il cappello e usciva dall'infermeria.
"E adesso, che fare?", si chiedeva. "Devo considerarmi ancora legato a lei? Oppure la sua condotta mi svincola da qualsiasi impegno?". Ma, non appena fatta questa domanda, capì subito che se si fosse ritenuto libero e l'avesse abbandonata, non avrebbe punito lei, come voleva, ma se stesso, e n'ebbe paura.
"No! Quanto è successo non può cambiare la mia decisione, ma solo rafforzarla. Faccia pure quel che si sente! Se l'è intesa con l'infermiere, va bene; è affar suo! In quanto a me, devo compiere ciò che m'impone la coscienza", si disse. "E la coscienza mi dice che devo sacrificare la libertà per scontare la mia colpa. Non verrò meno alla decisione di sposarla, sia pure con un matrimonio fittizio, e la seguirò dovunque".
Egli si diceva tutto ciò con rabbiosa ostinazione. Uscito dall'infermeria, si diresse con passo risoluto verso l'ingresso principale della prigione e pregò il custode di servizio di riferire al direttore che egli desiderava vedere la Màslova. Il custode, che lo conosceva, s'affrettò a comunicargli la grande novità: il capitano era stato esonerato dal servizio, e al suo posto era venuto un altro direttore, molto più severo.
- Le cose vanno male, ora. E' un guaio! - disse il custode. - E' qui. Vado a dirglielo subito.
Il direttore si trovava infatti nelle prigioni e non tardò a comparire. Era un uomo alto, ossuto, con gli zigomi sporgenti, molto lento e arcigno.
- E' permesso visitare i detenuti nei giorni stabiliti e in parlatorio, - disse, senza guardare Necliudov.
- Ma io devo farle firmare la domanda di grazia...
- Datela a me.
- Devo assolutamente vedere la detenuta. Prima me l'hanno sempre permesso.
- Prima era un'altra cosa, - ribatté il direttore lanciando a Necliudov una rapida occhiata.
- Ho il permesso del governatore, - insisté Necliudov, tirando fuori il portafoglio.
- Permettete... - disse il direttore senza guardarlo in faccia, e prese con le dita lunghe, bianche e ossute il foglio che Necliudov gli porgeva. Un grosso anello d'oro gli brillava all'indice, mentre leggeva attentamente il ricorso. - Favorite nell'ufficio! - soggiunse.
In ufficio non c'era nessuno. Il direttore sedette alla tavola e si mise a sfogliare le carte che vi eran sopra. Evidentemente, aveva l'intenzione d'assistere al colloquio. Quando Necliudov gli domandò se era possibile vedere la detenuta politica Bogoducòvskaia, rispose brevemente che non era possibile.
- Non si concedono colloqui coi politici! - disse, e si sprofondò di nuovo nella lettura dei documenti. Necliudov, che aveva in tasca una lettera per la Bogoducòvskaia, si sentì come un colpevole colto in fallo.
Quando la Màslova entrò nell'ufficio, il direttore alzò la testa e senza guardare né l'uno né l'altro disse: "Parlate pure!", e continuò l'esame delle sue carte.
La Màslova aveva ripreso i vecchi abiti: una camicetta bianca, una gonna bianca e un fazzoletto bianco in testa. Vedendo il volto freddo e ostile di Necliudov arrossì, e cincischiando l'orlo della camicetta, abbassò gli occhi. La sua confusione era per Necliudov la conferma di quanto aveva detto il custode dell'infermeria.
Necliudov avrebbe voluto trattarla come il solito, ma non gli riuscì di porgerle la mano, tanta era l'avversione che sentiva per lei.
- Vi porto una cattiva notizia, - le disse con voce uguale, senza guardarla; il ricorso.
- Lo sapevo fin da prima, - mormorò lei, con una voce strana, quasi ansimando. In altri momenti Necliudov le avrebbe domandato perché rispondesse in quel modo: ora, invece, si limitò a guardarla. Vide che i suoi occhi erano pieni di lacrime.
Invece che calmarlo, quella vista lo irritò maggiormente.
Il direttore si alzò e si mise a passeggiare in sù e in giù per la stanza.
Nonostante l'avversione che provava per lei, Necliudov si sentì in dovere di esprimerle il suo rincrescimento per il rifiuto della Cassazione.
- Non vi disperate, - le disse, - possiamo ancora contare sulla grazia... e io spero...
- Non è per questo... - mormorò lei, guardandolo coi suoi occhi lievemente strabici e pieni di lacrime. Faceva pena.
- Che c'è, dunque?
- Siete stato all'infermeria, e vi avranno detto che io...
- Ma che importa! Sono affari vostri... - disse freddo Necliudov, accigliandosi.
La sensazione cocente di orgoglio offeso, apparentemente sopita, riprese in lui il sopravvento non appena la Màslova ebbe accennato all'infermeria. "Io, un uomo di mondo che qualsiasi ragazza della migliore società sarebbe felice di sposare, ho offerto a questa donna il mio nome e lei per non perder tempo si mette a civettare con un infermiere...", pensava guardandola con odio. - Ecco qua la domanda, - disse aprendo una grossa busta che aveva tratto di tasca e stendendo un foglio sulla tavola. Lei si asciugò le lacrime con una cocca del fazzoletto e sedette, domandandogli dove e che cosa doveva scrivere.
Egli glielo indicò, ed essa si accomodò alla tavola, aggiustandosi con la mano sinistra la manica destra. In piedi vicino a lei, Necliudov osservava in silenzio quella schiena curva sul tavolo, scossa di tanto in tanto da singhiozzi repressi. E il suo animo era combattuto da due sentimenti contrastanti: uno, cattivo, d'orgoglio offeso, l'altro, buono, di pietà per lei e per le sue sofferenze. Vinse il secondo.
Provò subito compassione per lei o si ricordò anzitutto di sé, delle proprie colpe, delle basse azioni commesse, simili a quelle che ora le rimproverava? Non avrebbe saputo dirlo. Ma, improvvisamente, si sentì colpevole e nello stesso tempo la compatì.
Dopo aver firmato il foglio e strofinato sulla gonna il dito sporco d'inchiostro, la Màslova s'alzò in piedi e lo guardò.
- Qualunque cosa succeda o comunque vada, nulla potrà mutare la mia decisione! - le disse Necliudov.
Il pensiero di averla perdonata, accresceva nel suo animo la pietà e la tenerezza. E gli venne voglia di consolarla. - Quello che ho detto, lo farò! Dovunque vi mandino, io vi seguirò!
- E' inutile! - lo interruppe lei affrettatamente e arrossì di piacere.
- Pensate a ciò che vi servirà per il viaggio.
- Non ho bisogno di nulla di speciale. Grazie.
Il direttore si avvicinò a loro, ma Necliudov, prevenendolo, salutò la Màslova e uscì dall'ufficio. Provava un sentimento, che gli era nuovo, di calma felicità, di pace e di amore per tutti gli uomini. La coscienza che nessuna cattiva azione della Màslova avrebbe potuto sminuire il suo amore per lei, lo riempiva di gioia e lo sollevava ad un'altezza non mai sperimentata. Civettasse pure con gli infermieri! Affari suoi: egli non l'amava per se stesso, ma per lei e per Iddio.
Ed ecco in che consisteva quel famoso intrigo, che era costato alla Màslova l'allontanamento dall'infermeria. Un giorno, avendo dovuto andare per ordine dell'infermiera a prendere del tè medicinale nella farmacia in fondo al corridoio, la Màslova vi aveva incontrato l'infermiere Ustinov, un uomo alto e foruncoloso, che da un pezzo la perseguitava con le sue insistenze; e per sfuggire a un suo abbraccio, lo aveva respinto con tanta violenza che egli era andato a sbattere contro uno scaffale, da cui erano cadute due boccette, rompendosi.
Il primario, che passava in quel momento nel corridoio, al rumore dei vetri rotti e vedendo la Màslova fuggire tutta rossa, le gridò adirato:
- Eh, cara mia, se credi di venir qui a far la stupida... te la darò io. Di che si tratta? - soggiunse, rivolgendosi all'infermiere, e guardandolo severamente di sopra gli occhiali.
L'infermiere cominciò a giustificarsi ridendo, ma il medico senza finire di ascoltarlo riportò gli occhi alle lenti e proseguì la sua strada. Ma, quello stesso giorno, disse al direttore di mandargli un'altra infermiera, più seria. L'intrigo della Màslova con l'infermiere era tutto qui.
L'essere scacciata dall'infermeria sotto l'accusa di aver amoreggiato con un uomo, l'addolorava molto, soprattutto perché, dopo l'incontro con Necliudov, i rapporti sessuali, già da tempo odiosi, le erano divenuti ancor più ripugnanti. Al pensiero che per via della sua condizione presente e passata, tutti, non escluso l'infermiere foruncoloso, si ritenessero in diritto di umiliarla, e si stupissero delle sue proteste, provava una pena cocente e le veniva da piangere e da compassionarsi da sola. Ora, vedendo Necliudov, avrebbe voluto giustificarsi davanti a lui di quell'accusa ingiusta, giunta certamente al suo orecchio. Ma fin dalle prime parole aveva capito che egli non le credeva: le sue giustificazioni non avrebbero che aumentato i sospetti... Le lacrime le fecero nodo alla gola. La Màslova continuava a credere e a volersi persuadere che, come gli aveva detto alla sua seconda visita, non lo aveva perdonato e, anzi, lo odiava. Ma in realtà lo amava ancora, e di un tale amore che, senza volerlo, faceva tutto ciò che egli desiderava da lei: aveva smesso di bere, di fumare, di civettare, e aveva accettato di andare all'infermeria come inserviente. Tutto questo lo aveva fatto perché sapeva che egli lo desiderava.
E ogni volta che Necliudov le parlava di sposarla, rifiutava con fermezza, sia perché le piaceva ripetere le orgogliose parole della prima volta, sia perché sapeva che sposando Necliudov l'avrebbe reso infelice. Aveva giurato a se stessa di non accettare il suo sacrificio, ma, nello stesso tempo, non poteva sopportare l'idea che egli la disprezzasse, e continuasse a crederla quella di prima, senza vedere il grande cambiamento che s'era operato in lei. Il pensiero che Necliudov la sospettasse di avere realmente una tresca con l'infermiere, le era più penoso della notizia che era stata definitivamente condannata alla galera.
Poteva darsi che la Màslova dovesse partire col primo scaglione di forzati, e perciò Necliudov si affrettò a fare i suoi preparativi.
Ma le faccende da sistemare erano molte, ed egli capiva che, per quanto tempo gli potesse restare, non sarebbe mai riuscito a sbrigarle tutte. Le cose andavano giusto all'opposto di prima.
Prima non sapeva più che lavoro escogitare per occupare il tempo, e tutte le sue occupazioni avevano un unico scopo: Dmitri Ivànovic' Necliudov. Eppure, nonostante ciò, egli s'annoiava sempre. Ora che si occupava degli altri e non di Dmitri Ivànovic', tutto lo appassionava e lo interessava, e il tempo non bastava mai. Prima, il doversi occupare degli affari di Dmitri Ivànovic' era una cosa irritante e spiacevole, ora invece, le faccende degli altri lo mettevano per lo più di buonumore.
Le pratiche di cui Necliudov si occupava in quel tempo si dividevano in tre categorie: egli stesso, con la sua solita pedanteria, le aveva così divise e classificate in tre cartelle.
La prima riguardava la Màslova e gli aiuti da darle: per ora non vi era altro da fare che sollecitare qualche appoggio influente per la domanda di grazia, e prepararsi il viaggio in Siberia.
La seconda cartella riguardava la sistemazione dei suoi beni.
Nella proprietà di Pànovo, ereditata dalle zie, Necliudov aveva ceduto la terra ai contadini dietro pagamento d'un affitto destinato ai loro bisogni collettivi. Ma per rendere valido l'accordo, doveva ancora firmare il contratto e redigere il testamento. A Kuzmìnskoe, invece le cose erano rimaste come le aveva lasciate. La rendita delle terre doveva essere pagata a lui, ma bisognava ancora fissare i termini e decidere quale parte della somma avrebbe tenuto per sé e quale avrebbe lasciata ai contadini.
Poiché ignorava l'entità delle spese cui sarebbe andato incontro nel suo viaggio in Siberia, esitava ancora a privarsi di quella rendita, che pure si era già dimezzata.
Il terzo incartamento comprendeva i soccorsi ai detenuti, che sempre più e più numerosi si rivolgevano a lui.
All'inizio, dopo le prime richieste di aiuto, si dava subito d'attorno per cercar di alleggerire il destino di quei disgraziati; ma poi il numero dei postulanti era divenuto tanto grande che aveva capito di non poterli più aiutare singolarmente.
Fu così indotto, involontariamente, ad occuparsi di un quarto argomento, un problema che negli ultimi tempi si era sempre più imposto alla sua attenzione, e che egli voleva risolvere: che cos'era, perché e come aveva potuto nascere quella straordinaria istituzione chiamata tribunale penale, con relative prigioni sul genere di quella che già in parte conosceva? e tutti quei reclusori, dalla fortezza di Pietropàvlovsk all'isola di Sacalin, dove languivano a centinaia e a migliaia le vittime di quella strana legge penale?
Dai suoi rapporti personali coi detenuti, dalle conversazioni con l'avvocato, col cappellano, col direttore delle prigioni, e dalle liste dei reclusi, Necliudov aveva tratto la conclusione che i cosiddetti criminali si potevano dividere in cinque gruppi.
Al primo appartenevano uomini assolutamente innocenti vittime di errori giudiziari, come il presunto incendiario Mensciòv, la Màslova e altri. Secondo le indagini del cappellano, il numero di costoro era esiguo, circa il sette per cento. Ma la loro posizione era particolarmente degna d'interesse.
Il secondo gruppo comprendeva individui condannati per delitti commessi in circostanze eccezionali: ira, gelosia, ubriachezza, e così via. Delitti che, molto probabilmente, gli stessi giudici avrebbero commesso se si fossero trovati in circostanze analoghe a quelle degli imputati. A questo gruppo apparteneva, secondo le indagini di Necliudov, più della metà di tutti i criminali. Del terzo gruppo facevano parte individui condannati per aver commesso azioni, dal loro punto di vista, normalissime e persino lodevoli, ma che dal punto di vista delle persone incaricate di redigere le leggi, erano considerate delitti. Vi apparteneva la gente che vendeva il vino senza licenza, esercitava il contrabbando, rubava l'erba e tagliava la legna nelle foreste demaniali e private; ed anche i ladri di montagna e i miscredenti che rubavano in chiesa.
Appartenevano al quarto gruppo le persone considerate criminali soltanto perché moralmente superiori al livello medio della società. Tali i settari, i polacchi, i circassi rei d'aver difeso la loro indipendenza, tali i politici - i socialisti e gli scioperanti - condannati per ribellione alle autorità. La percentuale di questi detenuti, che rappresentavano il meglio della società, secondo Necliudov era molto alta.
Il quinto gruppo, finalmente, era composto di individui verso i quali la società era assai più colpevole di quanto essi lo fossero verso la società. Relitti umani, abbrutiti da vessazioni e da tentazioni continue, come il ragazzo delle passatoie e centinaia d'altri disgraziati che Necliudov aveva conosciuto nella prigione e fuori; esseri ineluttabilmente portati dalle condizioni stesse della loro esistenza a commettere in modo quasi sistematico l'atto cosiddetto criminale. A questo gruppo appartenevano, secondo Necliudov, moltissimi ladri e assassini con alcuni dei quali aveva fatto conoscenza. Egli vi ascriveva anche, avendoli conosciuti più da vicino, quegli individui corrotti e depravati, che la nuova scuola chiama delinquenti-tipo, la cui esistenza è portata come prova irrefutabile della necessità dei codici e delle sanzioni penali. Per Necliudov anche questi cosiddetti delinquenti-tipo erano meno colpevoli verso la società di quanto la società non lo fosse verso di loro, con la sola differenza che non si trattava di una responsabilità presente, ma passata, esercitata ai danni dei loro genitori e dei loro nonni.
Uno di costoro fu notato da Necliudov in modo particolare: Un ladro recidivo, un certo Ocotin, figlio naturale di una prostituta, cresciuto nei postriboli, che in trent'anni di vita non aveva evidentemente mai incontrato persone di più alta moralità dei poliziotti, e che fin da ragazzo faceva parte di una banda di ladri. Con tutto ciò era dotato di una straordinaria vena comica, che gli accaparrava la simpatia della gente. Mentre chiedeva l'aiuto di Necliudov, se la rideva di se stesso, dei giudici, della prigione e delle leggi umane e divine.
Un altro era un bellissimo giovane, un certo Fiòdorov, che con la sua banda aveva ucciso e rapinato un vecchio. Era figlio di un contadino, cui avevano illegalmente portato via la casa. Più tardi era andato militare ed aveva avuto dei guai perché s'era innamorato dell'amante del suo ufficiale. Era una natura attraente, appassionata; sempre avido di piaceri, non aveva mai incontrato nessuno che sapesse rinunciare al proprio godimento per qualcosa di diverso, e non aveva mai sentito dire che nella vita ci fossero altre mete all'infuori del piacere. Necliudov vedeva benissimo che in tutti e due i casi si trattava di nature esuberanti, ma neglette e deformi come due piante trascurate.
Aveva anche visto un vagabondo e una donna di un'ottusità così ripugnante da rasentare la ferocia, ma in nessuno era riuscito a scorgere il famoso tipo criminale di cui parla la scuola italiana.
Li considerava semplicemente individui antipatici, simili a tanti altri che aveva incontrato fuori del carcere in abito di pizzo, in frac, in alta uniforme.
Necliudov, dunque, voleva arrivare a capire perché tutti questi esseri umani venivano messi in prigione mentre altri in nulla dissimili da loro vivevano liberi e s'arrogavano persino il diritto di giudicare i primi.
E questo problema costituiva il quarto interesse di Necliudov.
Dapprima egli sperava di trovarne la soluzione nei libri, e perciò aveva comprato e letto attentamente tutte le opere sull'argomento:
il Lombroso, il Garofalo, il Ferri, il List, il Mauseley, il Tarde.
Ma più procedeva nella lettura, più si sentiva deluso. Gli capitava ciò che capita sempre a chi si occupa di studi scientifici, non per diventare uno scienziato o per scrivere, discutere e insegnare, ma soltanto per trovare la risposta a domande elementari, semplici, vitali: la scienza gli rispondeva su mille questioni diverse, molto sottili e profonde, legate al problema criminale, ma non a quello che gli importava.
Egli domandava una cosa molto semplice: perché alcuni uomini si arrogano il diritto di imprigionare, torturare, deportare, fustigare, uccidere altri uomini, in tutto simili a loro? A questa domanda i libri gli rispondevano dissertando in vario modo: è libera o no la volontà dell'uomo? E' possibile o no dichiarare delinquente un uomo dalla misura del suo cranio? Quale importanza ha l'ereditarietà nel delitto? Esiste una immoralità congenita? E il temperamento? Come agiscono sul delitto il clima, il vitto, l'ignoranza, l'esempio, la suggestione, le passioni? Che cos'è la società? Quali sono i suoi doveri? eccetera eccetera.
Queste dissertazioni ricordavano a Necliudov la risposta che gli aveva dato un giorno un ragazzino di ritorno dalla scuola.
Necliudov gli aveva domandato se sapeva sillabare.
- Sissignore! - aveva risposto il fanciullo.
- Be', allora sillaba la parola zampa!
- Che zampa? quella del cane? - aveva detto il bambino con aria furba.
Alla domanda di Necliudov gli scienziati rispondevano allo stesso modo, con risposte che erano altrettante domande.
Quei testi erano intelligenti, dotti, interessanti, ma non rispondevano all'essenziale: che diritto ha l'uomo di punire i suoi simili? E oltre a non rispondere, tutte quelle dissertazioni miravano soltanto a spiegare e a giustificare il castigo, la necessità del quale era posta come un assioma.
Necliudov leggeva molto ma senza continuità e credeva perciò che il fatto di non trovar una risposta dipendesse dalla lettura superficiale. Sperando di poterla trovare in seguito, non si permetteva ancora di credere che l'unica risposta giusta fosse quella che, negli ultimi tempi, gli si presentava alla mente sempre più spesso.
La partenza dello scaglione di cui faceva parte la Màslova era fissata per il 5 di luglio e Necliudov aveva deciso di partire lo stesso giorno. La vigilia venne in città per salutarlo la sorella accompagnata dal marito.
La sorella di Necliudov, Natàlia Ivànovna Ragoginski era di dieci anni maggiore del fratello, e aveva esercitato una notevole influenza sulla sua educazione. Gli aveva voluto molto bene, quand'era bambino, e ad un certo momento, poco prima del suo matrimonio, s'era stabilita fra loro un'amicizia da coetanei: lei una giovane di venticinque anni, lui un ragazzo di quindici. A quei tempi era innamorata di Nicòlenka Irtenev, l'amico di Necliudov, che più tardi era morto. Tutti e due amavano in lui la parte migliore di loro stessi, quella che unisce gli uomini fra loro. Poi Natàlia e Dmitri si erano guastati: lui, con la vita militare e una condotta sregolata, lei sposando un uomo di cui s'era innamorata sensualmente, il quale non amava e non capiva gli ideali che Natàlia e Necliudov un tempo avevano avuto cari e sacri. Egli attribuiva tutte quelle aspirazioni al perfezionamento morale e all'umanitarismo che avevano riempito la vita di Natàlia, all'unico impulso che egli fosse capace di comprendere: un eccesso di amor proprio e un morboso desiderio di far colpo.
Ragoginski non era né ricco né nobile, ma possedeva una buona dose di scaltrezza che gli permetteva di barcamenarsi abilmente tra conservatori e liberali, sfruttando di volta in volta quella delle due correnti che faceva meglio al caso suo e gli permetteva di conseguire i migliori risultati. Aveva anche il dono di piacere alle donne, e per tutto questo era riuscito a fare una brillante carriera nella magistratura.
Non più giovanissimo, aveva conosciuto all'estero Necliudov, aveva fatto innamorare Natàlia e l'aveva sposata. Sebbene la fanciulla avesse superato la prima giovinezza, sua madre si era opposta al matrimonio, che considerava una "mésalliance". Necliudov, benché cercasse di nasconderselo, e lottasse contro quel sentimento, non poteva soffrire suo cognato. Lo trovava antipatico per la volgarità dell'animo, per la grettezza della mente e per la boria; ma soprattutto, per il fatto che Natàlia aveva potuto innamorarsi in un modo così sensuale, violento ed egoistico di un individuo tanto meschino, e per amor suo avesse soffocato in sé ogni elevato sentimento. Necliudov non poteva adattarsi senza pena all'idea che Natascia fosse la moglie di quell'uomo peloso col cranio lucido.
Provava antipatia persino per i loro figlioli. E ogni volta che veniva a sapere di una nuova gravidanza della sorella, aveva la penosa sensazione che si fosse in certo qual modo presa una malattia infettiva da quell'uomo estraneo a tutti loro.
I Ragoginski vennero senza i bambini - ne avevano due, un maschio e una femmina - e fissarono le migliori camere del primo albergo della città. Natàlia Ivànovna si fece subito portare in carrozza all'appartamento di sua madre, dove Agrafena Petrovna le disse che suo fratello non abitava più in casa ma s'era trasferito in un albergo ammobiliato. Recatasi al nuovo indirizzo, un servo sudicio che incontrò lungo un corridoio buio, maleodorante e illuminato anche di giorno da una lampada a gas, le disse che il principe non era in casa.
Natàlia Ivànovna pregò il domestico di lasciarla entrare nell'appartamento del fratello, poiché voleva scrivergli un biglietto. Il servo l'accompagnò. Entrata nelle due camerette occupate da Necliudov, Natàlia Ivànovna esaminò attentamente ogni cosa.
Ritrovò i segni d'una pulizia e di un ordine che ben conosceva, ma rimase veramente colpita dalla modestia dell'arredamento. Sulla scrivania vide un fermacarte con un cagnolino di bronzo, un vecchio ricordo di casa, cartelle e fogli accuratamente disposti, tutto l'occorrente per scrivere, alcuni trattati di criminologia, un libro in inglese di Henry George e un altro in francese di Tarde, e, infilato nella pagina di uno di quei libri, un grosso tagliacarte d'avorio che pure le era familiare.
Sedette alla scrivania e scrisse al fratello pregandolo di passare da lei in giornata, poi, crollando il capo stupita di quel che aveva visto, uscì per ritornare al suo albergo.
Due fatti preoccupavano in quel momento Natàlia Ivànovna relativamente a suo fratello: il matrimonio con Katiuscia di cui tutti nella sua città facevano un gran discorrere e la cessione della terra ai contadini, di cui pure si parlava assai e che sembrava un gesto politico pericoloso. A Natascia Ivànovna l'idea del matrimonio con Katiuscia faceva in un certo senso piacere.
Ammirava quella risolutezza in cui ritrovava se stessa e il fratello com'erano stati ai bei tempi della loro giovinezza. Ma, d'altra parte, inorridiva al pensiero che suo fratello potesse sposare una donnaccia di quel genere. Questo secondo sentimento aveva vinto l'altro, cosicché essa aveva deciso di usare tutta la sua influenza per indurre il fratello a desistere dal suo intento, sebbene sapesse a priori che era un'impresa difficilissima.
L'altra faccenda, la cessione della terra ai contadini, non le stava, in fondo, così a cuore: ma suo marito ne era molto scosso e le aveva fatto promettere che avrebbe usato il suo ascendente sull'animo del fratello.
Ignati Nikìforovic' diceva che quel gesto era il colmo dell'incoscienza, della leggerezza e della vanità, non potendo spiegarlo altrimenti - ammesso di poterlo comunque spiegare - che come una mania di mettersi in mostra, di darsi delle arie, di far parlare di sé.
- Che senso ha la cessione della terra ai contadini, obbligandoli a pagare a se stessi? - egli diceva. - Se voleva proprio farlo, doveva venderla ai contadini per mezzo della Banca agricola.
Sarebbe stata una cosa più sensata. Ma, del resto, un atto simile confina con la pazzia, - diceva Ignati Nikìforovic', pensando già all'interdizione. E raccomandava alla moglie di parlare seriamente al fratello di questa sua idea stravagante.
Di ritorno a casa, Necliudov trovò sullo scrittoio il biglietto della sorella e si affrettò a recarsi da lei. Era sera. Ignati Nikìforovic' riposava nella stanza vicina e Natàlia ricevette il fratello da sola. Indossava un vestito nero attillato alla vita con un nastro rosso sul petto. I suoi capelli neri erano arricciati e pettinati all'ultima moda. Si capiva che essa faceva di tutto per sembrare più giovane agli occhi del marito che aveva la sua stessa età.
Vedendo il fratello, balzò dal divano e gli corse incontro, con un gran frusciare della gonna di seta. Si abbracciarono e sorridendo si esaminarono a vicenda. Fra loro corse quel misterioso scambio di sguardi, inesprimibile a parole e infinitamente espressivo, in cui tutto è sincero; e cominciò uno scambio di parole in cui la sincerità non c'era già più. Fratello e sorella non si vedevano da quando era morta la madre.
- Sei ingrassata e ringiovanita, - disse lui.
Le labbra di Natascia fremettero di piacere.
- Tu sei invece dimagrito...
- E Ignati Nikìforovic'? - domandò Necliudov.
- Sta riposando. Questa notte non ha dormito.
Avrebbero voluto dirsi molte cose, ma le parole non esprimevano nulla, e i loro occhi dicevano che l'essenziale non era stato detto.
- Sono stata da te.
- Sì, lo so. Ho lasciato la casa. Era troppo vasta per me solo, e mi annoiavo. E poi non ho bisogno di tutta quella roba. Prendili pure tu... i mobili e il resto.
- Sì, Agrafena Petrovna me ne ha parlato. Sono stata da lei. Ti ringrazio molto. Ma...
In quel momento il cameriere dell'albergo portò il tè, su un vassoio d'argento. Essi tacquero finché il servo non ebbe finito di disporre ogni cosa.
Natàlia Ivànovna sedette su una poltrona accanto al tavolino da tè e riempì le tazze. Necliudov taceva.
- Ebbene, Dmitri, so tutto, - disse Natascia con tono deciso, dandogli un'occhiata.
- Mi fa piacere che tu lo sappia.
- Credi proprio di riuscire a farle cambiare vita? proseguì Natàlia Ivànovna.
Seduto rigidamente sopra una seggiola bassa, Necliudov l'ascoltava con attenzione, sforzandosi di comprender bene per risponderle a tono. Dopo l'ultima visita alla Màslova, il suo animo era colmo di una gioia pacata e disposto alla benevolenza verso tutto il genere umano.
- Voglio riuscire a cambiare me stesso, non lei! - rispose Necliudov.
Natàlia Ivànovna sospirò.
Ci sono altri mezzi all'infuori del matrimonio.
Io invece, penso che sia il mezzo migliore; anche perché mi permette di entrare in un mondo nel quale potrò rendermi utile.
- Non credo che tu possa essere felice! esclamò Natàlia Ivànovna.
- Non si tratta qui della mia felicità.
- Si capisce, ma se lei ha un cuore, non può sentirsi felice! E non può desiderarlo.
- Infatti non lo desidera.
- Capisco benissimo, ma la vita...
- Ebbene?
- Esige altre cose.
- Esige soltanto che noi facciamo il nostro dovere! -disse Necliudov osservando il bel viso della sorella, segnato da piccolissime rughe intorno agli occhi e alla bocca.
- Non capisco! - disse lei sospirando.
"Povera cara! Come ha potuto cambiare così?", pensava Necliudov. E rivedeva con la mente la Natascia di un tempo, prima che si sposasse. Si sentiva il cuore colmo di una tenerezza fatta di mille ricordi infantili.
In quell'istante entrò nella stanza Ignati Nikìforovic'. Sorrideva come sempre, camminando a testa alta e sporgendo l'ampio petto in fuori; aveva il passo dinoccolato e leggero, e luccicava tutto, dagli occhiali alla calvizie e alla barba nera.
- Buongiorno, buongiorno! - esclamò, accentuando le parole in modo volutamente affettato.
Nonostante che subito dopo le nozze, i due cognati avessero tentato di darsi del tu, non c'erano riusciti ed erano ritornati al voi.
Si strinsero la mano e Ignati Nikìforovic' si lasciò cadere leggermente su una poltrona.
- Disturbo forse la vostra conversazione?
- Affatto. Non nascondo a nessuno quello che dico e faccio.
Era bastato a Necliudov rivedere quel viso, quelle mani pelose, e riudire quel tono altezzoso e protettore, perché il suo umore benevolo si dileguasse in un baleno.
- Stavamo parlando del suo progetto, - disse Natàlia Ivànovna. - Vuoi il tè - soggiunse poi, sollevando la teiera.
- Sì, grazie. Di che progetto, precisamente?
- Di andare in Siberia con un convoglio di detenuti. Vi fa parte una donna verso la quale mi sento colpevole, - rispose Necliudov, lentamente. - Sì, vorrei anche sposarla, se lei accetta.
- Benissimo! E ora, se non vi rincresce, vi pregherei di spiegarmi le ragioni della vostra condotta. Io non riesco a capirle.
- La ragione è che questa donna... che il primo passo sulla via della perdizione... - Necliudov s'indispettiva con se stesso di non trovare l'espressione adatta. - La ragione è questa: io sono il colpevole, ma la punizione è toccata a lei.
- Se è stata condannata vuol dire che non è innocente.
- E' perfettamente innocente.
Necliudov, con un'agitazione inutile, raccontò tutta la storia.
- Ho capito, si tratta di una omissione del presidente e i giurati hanno risposto senza riflettere. In questi casi c'è la Cassazione...
- La Cassazione ha respinto il ricorso.
- Se l'ha respinto, vuol dire che i motivi addotti erano insufficienti! - sentenziò Ignati Nikìforovic', evidentemente dividendo l'opinione generale che la verità è il frutto della procedura orale durante l'udienza. - La Cassazione non può entrare nell'esame minuzioso delle cause. Se si tratta davvero di un errore giudiziario, conviene inoltrare la domanda di grazia all'imperatore.
- E' stata inoltrata, ma senza speranza di successo. Il ministero farà un'inchiesta, si rivolgerà alla Cassazione, e la Cassazione risponderà con un secondo rifiuto. E, come succede sempre, l'innocente sarà condannato.
- Prima di tutto, il ministero non si rivolgerà alla Cassazione, - disse Ignati Nikìforovic' con un sorriso indulgente. - Vorrà vedere il fascicolo della causa e se troverà un errore ne trarrà le sue conclusioni. In secondo luogo, gli innocenti non sono mai condannati, o per lo meno lo sono assai raramente. Vengono condannati i colpevoli, - affermò Ignati Nikìforovic' con calma, sorridendo compiaciuto.
- E io sono convinto del contrario, - replicò Necliudov con un senso di ostilità verso il cognato. - Mi sono reso conto che una buona metà degli individui condannati dai tribunali è innocente.
- In che senso?
- Nel senso più stretto della parola: come è innocente questa donna dell'avvelenamento, come è innocente un contadino, che ho conosciuto in questi giorni, imputato di un assassinio che non ha commesso, come sono innocenti una madre e un figlio, che se la sono cavata per un filo, accusati di un incendio doloso appiccato dallo stesso padrone...
- Ma si capisce, gli errori giudiziari ci sono sempre stati e sempre ci saranno! Le istituzioni umane non possono essere perfette.
- C'è poi la schiera innumerevole di quelli che sono innocenti per il semplice fatto che, cresciuti in un dato ambiente, non considerano colpevoli le azioni che commettono!
- Scusate, questo non è giusto, ogni ladro sa che il furto è una colpa e che non bisogna rubare, perché rubare è immorale! - disse Ignati Nikìforovic' con quel sorriso lievemente ironico e con quella tranquilla sicurezza di sé che aveva il dono di esasperare Necliudov.
- No, non lo sa. Gli dicono: "Non rubare", ma lui vede e sa che il principale gli ruba il lavoro, trattenendogli la paga, e che il governo, con tutti i suoi funzionari, gli ruba il denaro sotto forma di tasse.
- Ma questa è anarchia! - interruppe, sempre calmo, Ignati Nikìforovic'; voleva precisare il senso delle parole del cognato.
- Sia quel che si voglia, io dico le cose come sono! - proseguì Necliudov. - Il ladro sa che il governo lo deruba, sa che noi grandi proprietari continuiamo da tempo a derubarlo della terra che dovrebbe essere un bene comune. Ma quando lui raccoglie da quella terra rubata qualche ramo secco per accendersi un po' di fuoco, noi lo mettiamo in prigione e lo accusiamo di furto... Egli sa benissimo che il ladro non è lui, bensì chi gli ha sottratto la terra. Sa che il dovere gli impone di compiere una restituzione alla sua famiglia di quel che gli è stato tolto...
- Non capisco, ma se anche capissi, non condividerei le vostre opinioni. La terra non può non essere proprietà di qualcuno. Se voi spezzettate, - cominciò a dire Ignati Nikìforovic' con la pacata e assoluta certezza che Necliudov fosse un socialista e che secondo la dottrina socialista la terra dovesse essere divisa equamente fra tutti: una dottrina stolta, che egli avrebbe potuto assai facilmente confutare. - Se voi oggi dividete la terra in parti uguali, domani passerà nelle mani dei più laboriosi e intelligenti.
- E chi dice di ripartire la terra in parti uguali? La terra non deve essere proprietà di nessuno, né essere oggetto di compra- vendita o di affitto...
- Il diritto di proprietà è insito nella natura dell'uomo. Senza il diritto di proprietà, non ci sarà più nemmeno l'interesse a lavorare la terra. Distruggete il diritto di proprietà e ritorneremo allo stato selvaggio, - sentenziò Ignati Nikìforovic', ripetendo a favore del diritto di possedere la terra il solito argomento considerato incontrovertibile: quello che vede nell'avidità del possesso la prova che il diritto di proprietà non si può sopprimere.
- Al contrario! Solo quando sarà soppresso, la terra cesserà di essere inutile come lo è attualmente, e i grandi proprietari non ringhieranno più, come i cani sul fieno (1), se qualcuno tenterà di toccare la terra, che essi però non sanno sfruttare.
- Ascoltate, Dmitri Ivànovic', ma questa è una pazzia! E' mai possibile, all'epoca nostra, sopprimere il diritto di proprietà?
So che questo è un vostro vecchio "dada" (2)! Ma permettetemi di dirvi francamente che... - Ignati Nikìforovic' era impallidito, e la voce gli tremava. Evidentemente quell'argomento lo toccava da vicino. - Vi consiglierei di pensarci bene, prima di prendere una decisione definitiva!
- Alludete alle mie faccende personali?
- Sì. Io ritengo che noi tutti, che occupiamo una certa posizione, dobbiamo accettare le responsabilità inerenti al nostro stato e favorire le condizioni dell'ambiente in cui siamo nati, che abbiamo ereditato dai nostri avi e che tramanderemo ai nostri figli.
- Io penso che sia mio dovere...
- Permettete, - proseguì Ignati Nikìforovic', non lasciandosi interrompere, - non crediate che io parli per me o per i miei figli. La posizione dei miei figli è assicurata, e io guadagno abbastanza per mettere al riparo la mia famiglia dai bisogni presenti e, spero, futuri. La mia protesta contro il vostro modo d'agire, permettetemi la parola, un po' irriflessivo, non è in difesa di interessi personali, ma proviene del fatto che non sono d'accordo con voi. E vi consiglierei di pensarci, di leggere di più...
- Be', lasciate che sbrighi i miei affari per conto mio e decida da solo quello che debba o non debba leggere! - esclamò Necliudov impallidendo. Si sentiva le mani gelide, e capiva che stava perdendo il controllo dei suoi nervi. Tacque e si mise a bere il tè.
NOTE:
- Be', e i bambini? - domandò Necliudov alla sorella, ritrovando un po' di calma.
La sorella rispose che i suoi figlioli erano rimasti con la nonna.
E molto lieta che la discussione col marito fosse finita, cominciò a raccontare come ai suoi bambini piaceva il gioco del viaggio, lo stesso che faceva Necliudov da piccolo con le sue bambole: il fantoccio nero e la francesina.
- Ti ricordi ancora? - domandò sorridendo Necliudov.
- Sì, e ti assicuro che giocano proprio come allora...
La discussione sgradevole era finita. Natascias' era tranquillizzata, ma non voleva parlare davanti al marito di ciò che solo il fratello poteva capire, e per iniziare una conversazione generale, cominciò a discorrere del grande avvenimento di Pietroburgo, ossia del dolore della Kàmenskaia per la morte del suo unico figlio, ucciso in duello.
Ignati Nikìforovic' disapprovò vivamente che il duello fosse escluso dal novero dei delitti comuni.
A quella osservazione Necliudov reagì nuovamente, e si riaccese così la loro lite sullo stesso argomento di prima. I due cognati avevano ancora molto da dire, poiché ciascuno era rimasto dello stesso parere e biasimava l'altro.
Ignati Nikìforovic' sentiva che Necliudov lo disapprovava e disprezzava la sua attività, e avrebbe voluto dimostrargli che quel giudizio era errato. E Necliudov, da parte sua, era seccato che il cognato s'immischiasse nei fatti suoi, benché nell'intimo suo sentisse che il cognato, la sorella e i loro figli, in quanto eredi, avevano il diritto di farlo. Ma era soprattutto irritato dalla presunzione e dalla calma con cui quell'individuo mediocre continuava a considerare giusti e legali certi principi che ora a Necliudov sembravano indiscutibilmente insensati e disonesti.
Tanta presunzione lo indignava.
- E il tribunale, che cosa avrebbe fatto?
- Avrebbe condannato ai lavori forzati, come assassino comune, quello dei due che fosse sopravvissuto al duello.
Necliudov sentì le sue mani farsi nuovamente di ghiaccio, e replicò con furore:
- E con che vantaggio?
- Sarebbe giusto.
- Come se la giustizia fosse l'obiettivo del tribunale! - disse Necliudov.
- E quale altro sarebbe?
- Il mantenimento degli interessi di classe. Il tribunale secondo il mio punto di vista, non è che lo strumento amministrativo per la conservazione di un ordine di cose favorevole alla nostra classe!
- E' un punto di vista assolutamente nuovo! - rispose Ignati Nikìforovic' col suo sorriso imperturbabile. - Di solito si attribuiscono al tribunale altri scopi...
- Teoricamente sì, ma non in pratica, come ho potuto constatare.
Il tribunale ha per compito il mantenimento della società nel suo ordine attuale. Perciò si perseguita e si punisce tanto chi si mette al di sopra del livello comune per innalzarlo, cioè i cosiddetti delinquenti politici, come chi sta al di sotto, cioè i cosiddetti criminali-tipo.
- Non posso ammettere, anzitutto, che i delinquenti cosiddetti politici, siano puniti perché sono al di sopra del livello comune.
Per la maggior parte sono rifiuti della società, altrettanto depravati, anche se in un senso un po' diverso, dei delinquenti- tipo, che voi mettete al di sotto del livello comune.
- Ma io conosco persone che sono senza confronto superiori ai loro giudici; tutti i settari, per esempio, son gente onesta, integra...
Ma Ignati Nikìforovic', abituato a non lasciarsi interrompere, non ascoltava Necliudov e continuava a parlare contemporaneamente a lui, irritandolo sempre più.
- Non posso neppure ammettere che lo scopo del tribunale consista nel mantenimento del regime attuale. Il tribunale persegue i suoi scopi: o la correzione...
- Bella correzione, nelle prigioni! - esclamò Necliudov.
- ...O l'allontanamento, - rincalzò Ignati Nikìforovic', - dei depravati e dei bruti che sono una continua minaccia per l'esistenza della società.
- Il guaio è che il tribunale non fa né l'una né l'altra cosa. La società non ha mezzi sufficienti per farlo.
- Come? Non capisco, - domandò Ignati Nikìforovic', con un sorriso forzato.
- Voglio dire che, in fondo, di punizioni ragionevoli ne esistono soltanto due, quelle che si usavano nei tempi antichi: la pena corporale e la pena capitale, delle quali per effetto di una maggiore mitezza di costumi si va sempre più perdendo l'uso, - disse Necliudov.
- E' la prima volta che dite una cosa simile, e in bocca vostra suona strana...
- Sì, è ragionevole infliggere un dolore fisico a una persona per impedirgli di commettere un atto che gli ricordi il dolore provato, ed è perfettamente logico tagliare la testa a chi rappresenta un danno e un pericolo per la società. Queste due pene sono almeno sensate. Ma che senso ha il rinchiudere in una prigione un uomo già corrotto dall'ignavia e dal cattivo esempio, costringendolo a un ozio assicurato ed obbligatorio da condividere coi peggiori delinquenti? Oppure trasportarli, chissà mai perché, a spese dello Stato - più di cinquecento rubli a testa! - dalla provincia di Tula a quella di Irkutsk, o da quella di Kursk...
- Ma però la gente ha paura di questi viaggi a spese dello Stato e se non ci fossero questi viaggi e le prigioni, noi non staremmo qui a sedere come facciamo.
- Le prigioni non possono garantire la sicurezza della società, poiché la gente non sta in prigione eternamente, ma presto o tardi ne vien fuori. Anzi, il sistema penitenziario vizia e corrompe al massimo grado, e il pericolo aumenta...
- Volete dire che il sistema penitenziario dev'essere perfezionato?
- E' impossibile perfezionarlo. Costerebbe di più di quello che si spende per l'istruzione pubblica, e sarebbe il popolo a sopportare i maggiori oneri...
- Ma i difetti del sistema penitenziario non infirmano affatto il tribunale! - riprese Ignati Nikìforovic' senza ascoltare il cognato.
- Questi difetti non si possono correggere, - rispose Necliudov alzando la voce.
- E allora, che fare? Dobbiamo uccidere? o forse cavare gli occhi, come ha proposto un uomo di Stato? - disse Ignati Nikìforovic' con un sorriso di trionfo.
- Sarebbe crudele, ma razionale. Quello che si fa adesso è non solo crudele, ma irrazionale e stupido a tal segno che non si riesce a capire come persone moralmente sane possano far parte di un organismo così assurdo e crudele come il tribunale penale.
- Ma anch'io vi appartengo! - disse Ignati Nikìforovic' impallidendo.
- E' affar vostro. Per conto mio, non lo capisco.
- Mi sembra che siano molte le cose che non capite, - replicò Ignati Nikìforovic' con voce tremante.
- Ho ben visto, in tribunale, come un sostituto procuratore abbia fatto di tutto per condannare un povero ragazzo. Chiunque non fosse completamente snaturato si sarebbe mosso a pietà! E so anche come un altro procuratore ha condotto l'interrogatorio di un settario e ha applicato la legge penale alla lettura del Vangelo.
E poi tutta l'opera dei tribunali è fatta soltanto di azioni insensate e crudeli.
- Io non occuperei il posto che occupo, se la pensassi come voi, - ribatté Ignati Nikìforovic', e si alzò.
Necliudov vide uno strano luccicore dietro le lenti del cognato.
"Possibile che pianga?", si domandò il principe. Erano proprio lacrime, lacrime di umiliazione. Ignati Nikìforovic' si avvicinò alla finestra, cavò di tasca il fazzoletto, si raschiò la gola e asciugò le lenti. Poi se le tolse e si asciugò anche gli occhi.
Infine sedette sul divano, accese un sigaro e non parlò più.
Necliudov provò un senso di pena e di vergogna al pensiero di aver offeso così vivamente il cognato e la sorella, tanto più che il giorno seguente sarebbe partito e non li avrebbe rivisti tanto presto. Si accomiatò tutto confuso e ritornò a casa.
"E' molto probabile che avessi ragione io", pensò, "se non altro lui non ha saputo che cosa replicare. Ma non dovevo parlargli in quel modo. Mi son mutato ben poco, se un sentimento malevolo ha ancora tanta presa su di me! e se ho potuto umiliare tanto lui e causare tanta pena alla mia povera Natascia!".
Lo squadrone di cui faceva parte la Màslova doveva partire dalla stazione alle tre. Necliudov aveva perciò deciso di trovarsi all'ingresso della prigione prima di mezzogiorno, per assistere all'uscita dei detenuti e per seguirli fino alla stazione.
Riordinando le sue robe e le sue carte gli capitò fra le mani il diario. Ne rilesse alcuni passi, soprattutto gli ultimi. Prima di partire per Pietroburgo aveva scritto:
"Katiuscia non vuole il mio sacrificio ma il suo. Ha vinto, ma ho vinto anch'io. Son felice per il cambiamento spirituale che mi pare - non vorrei illudermi! - stia avvenendo in lei. Temo di illudermi; ma mi pare che torni a vivere!".
Più sotto era scritto: "Ho sofferto un gran dolore e una grande gioia. Ho saputo che si è comportata male all'infermeria. Ciò mi ha dato un orribile pena. Non me l'aspettavo di soffrire tanto. Le ho parlato con disgusto e con odio, poi a un tratto mi son ricordato di me stesso, di tutte le volte che anch'io, almeno col pensiero, ho commesso la stessa colpa che mi spingeva ad odiarla.
Da quel momento ho provato odio per me e pietà per lei e mi son sentito contento. Potessimo sempre vedere in tempo la trave nel nostro occhio! Come saremmo tutti migliori!".
Quel giorno scrisse: "Sono stato da Natascia. Forse ero troppo soddisfatto di me stesso, e ciò mi ha fatto essere sgarbato e cattivo. Me n'è rimasta un'impressione penosa, ma che fare? Da domani comincia una vita nuova. Addio, vecchia vita, per sempre!
Ho raccolto un mucchio di impressioni, ma non mi riesce ancora di coordinarle".
La mattina dopo, risvegliandosi, si rammaricò subito per quel che era successo tra lui e il cognato.
"Non posso partire così!", pensò; "bisogna che vada da lui e che cerchi di rimediare".
Ma, guardando l'orologio, si accorse di non averne più il tempo.
Doveva affrettarsi, se voleva assistere all'uscita dei detenuti.
Si affrettò a terminare i preparativi, e mandati avanti alla stazione coi bagagli il portiere e Taràs, il marito di Fedossia, che partiva con lui, Necliudov prese la prima vettura che trovò e si fece condurre alla prigione. Il treno dei detenuti partiva due ore prima del postale su cui avrebbe viaggiato Necliudov, che perciò saldò il conto delle sue stanze, avendo intenzione di non ritornarvi più.
Erano i giorni più caldi del mese di luglio. Le pietre delle strade e delle case e le lamiere dei tetti, non avendo potuto raffreddarsi durante la notte afosa, riverberavano il loro calore nell'aria immobile. Non c'era un soffio d'aria; ogni tanto qualche raffica di vento alzava nugoli caldi di polvere, impregnati del puzzo acre della vernice a olio. Pochi i passanti nelle vie, e quei pochi cercavano di camminare nell'ombra delle case. Soltanto un gruppo di stradini, che selciavano la strada, abbronzati dal sole e in "lapti", sedevano per terra in mezzo alla via e battevano i martelli sui ciottoli incastrati nella sabbia calda.
Anche le guardie di città, nelle loro uniformi non più candide, su cui spiccavano i lacci arancione della rivoltella, stavano ritte nel mezzo delle strade, appoggiandosi annoiate ora su un piede, ora sull'altro. I tram a cavalli, con le tende calate dalla parte del sole, e le bestie incappucciate di bianco, con le orecchie sporgenti dai buchi della stoffa, passavano tintinnando sù e giù per le strade .
Quando Necliudov giunse alle carceri, lo scaglione non era ancora uscito. Dentro le mura della prigione fin dalle quattro del mattino continuava intenso il lavorio della consegna e della presa dei detenuti in partenza. La spedizione si componeva di seicentoventitré uomini e di sessantaquattro donne. Bisognava controllarli tutti secondo le liste dei registri, dividere i sani dagli ammalati e dai deboli, e consegnarli alla scorta.
In cortile, all'ombra di un muro, il nuovo direttore, due vice direttori, il dottore, l'infermiere, l'ufficiale di scorta e uno scrivano, sedevano davanti a una tavola ingombra di carte e di tutto l'occorrente per scrivere; essi chiamavano i prigionieri ad uno ad uno, li esaminavano, li interrogavano e scrivevano il loro nome.
Il sole era già arrivato a metà tavola. La calura diventava insopportabile; l'aria era soprattutto soffocante per la mancanza di vento e per gli aliti di tutti quei detenuti lì raccolti.
- Ma non finiscono mai? - diceva aspirando il fumo di una sigaretta il capo della scorta, un uomo grande, grosso e rosso, con le spalle alte e le braccia corte, fumando senza tregua nei baffi che gli coprivano la bocca.
- E' un vero supplizio. Ce ne sono ancora molti?
Lo scrivano fece il conto.
- Ancora ventiquattro uomini e poi le donne.
- Su, andiamo, avvicinatevi. Perché state lì impalati? - gridò l'ufficiale al fitto gruppo di detenuti che dovevano ancora sottostare al controllo. Erano già più di tre ore che stavano in fila, e non all'ombra, al sole, aspettando il loro turno.
Ciò avveniva dentro le mura della prigione. Fuori, alla porta, stavano la solita sentinella col fucile, una ventina di carri per il trasporto della roba e dei malati e, in un angolo, un gruppo di parenti e di amici che aspettavano l'uscita dei detenuti per vederli, e possibilmente per parlare e consegnar loro qualcosa. A quel gruppo si unì anche Necliudov.
Aspettava già da un'ora, quando s'udì dietro il portone un rumore di catene smosse, uno stropiccio di passi, voci di comando, colpi di tosse e il parlottare sommesso di una folla numerosa. Questi rumori si prolungarono per alcuni minuti durante i quali i carcerieri continuavano ad entrare e ad uscire dalla porta.
Finalmente risuonò un ordine: il portone si spalancò con fracasso, e lo stridio delle catene diventò più forte; i soldati di scorta in uniforme bianca e armati di fucili, uscirono nella strada e, con una manovra che evidentemente era loro abituale, si disposero ai due lati del portone, formando un cerchio ampio e regolare.
Subito dopo si udì un altro comando e i detenuti cominciarono a uscire a coppie, coi berretti piatti sulle teste rase, i sacchi dietro le spalle, strascicando i piedi appesantiti dalle catene, e agitando la mano libera mentre con l'altra sostenevano il sacco sulla schiena.
Prima uscirono i condannati all'ergastolo, vestiti uniformemente coi calzoni grigi e la casacca. Sulla schiena avevano un asso di quadri (1). Giovani e vecchi, magri e grassi, pallidi, bruni, rossi, coi baffi, con la barba, imberbi, russi tartari, ebrei, tutti uscirono facendo risuonare i ferri e agitando energicamente la mano libera, come se si disponessero a camminare per un pezzo.
Ma dopo una decina di passi si fermarono e si disposero ubbidienti per quattro. Subito dopo, senza interruzione, sfilarono dal portone i deportati all'esilio: anch'essi in uniforme e rasati ma senza ferri ai piedi, accoppiati con le manette. Uscirono come gli altri baldanzosamente, e si fermarono subito disponendosi per quattro. Ultimi furono i sociali (1). Anche le donne uscirono secondo lo stesso ordine: prima le forzate, coi "caftani" grigi della prigione e i fazzoletti sul capo; poi le esiliate e, infine, le volontarie coi loro abiti di città o di campagna.
Alcune tenevano i lattanti sotto le falde dei "caftani" grigi. In mezzo alle donne camminavano i bambini, maschi e femmine, che si stringevano fra le condannate come i puledri in un branco. Gli uomini si mettevano in fila silenziosi, solo di tanto in tanto s'udiva un colpo di tosse o qualche breve parola. Nelle file delle donne si udiva, invece, un rumore ininterrotto di voci. A Necliudov sembrò di veder uscire la Màslova, ma subito la perdette di vista, e non distinse più che una massa grigia priva di ogni aspetto umano e soprattutto femminile, che si disponeva coi bambini e coi sacchi dietro le file degli uomini.
Sebbene i detenuti fossero già stati contati nel cortile, i soldati di scorta eseguirono un altro controllo, che andò per le lunghe, soprattutto perché alcuni prigionieri si muovevano da un posto all'altro imbrogliando il conto. La scorta imprecava ricacciandoli al loro posto, e poi li contava di nuovo. Quando tutti furono contati, l'ufficiale diede un ordine e la folla ondeggiò. Gli uomini più deboli, le donne e i bambini si precipitarono urtandosi verso i carri per deporvi i sacchi e accaparrarsi un posto. Vi erano donne con poppanti che piangevano, bambini allegri che si contendevano il posto e uomini tristi e cupi.
Alcuni detenuti col berretto in mano, si erano avvicinati all'ufficiale di scorta, chiedendogli qualcosa. Necliudov venne poi a sapere che lo pregavano di lasciarli salire sui carri.
L'ufficiale non li guardava neppure in faccia e continuava a fumare, ma ad un tratto Necliudov lo vide alzare minacciosamente il braccio corto su un detenuto che, ritraendo nelle spalle la testa rasa nell'attesa di uno schiaffo, balzò lontano da lui.
- Sentilo, il nobiluomo! Camminerai fino in fondo! - gridò l'ufficiale.
Solo a un vecchio lungo, che si trascinava faticosamente le catene ai piedi, l'ufficiale concesse di salire sul carro. Necliudov lo vide levarsi il berretto piatto, farsi il segno della croce, e poi, raggiunto il carro, tentar vanamente di salirvi, poiché i ferri impacciavano il movimento di quelle povere vecchie gambe.
Una donna già seduta sul carro gli venne in aiuto, tirandolo sù per un braccio.
Quando tutti i carri furono riempiti di sacchi e sui sacchi si furono seduti quelli che avevano il permesso, l'ufficiale si tolse il berretto, s'asciugò col fazzoletto la fronte, il cranio pelato e il collo rosso e grasso, e si segnò.
- Avanti, marcia! - comandò.
I soldati imbracciarono il fucile; i detenuti, levatisi i berretti - alcuni con la sinistra - si segnarono, la gente venuta a salutarli gridò qualcosa e qualcosa risposero i prigionieri; dalla fila delle donne si alzò un urlo, e la spedizione, circondata dai soldati in divisa bianca, si mosse, sollevando con i piedi incatenati un nugolo di polvere.
In testa marciavano i soldati. Dietro, in file di quattro, gli ergastolani, i deportati all'esilio, le donne. E in ultimo i carri, colmi di sacchi e di gente. Su uno di quei carri una donna, tutta imbacuccata, strillava e singhiozzava senza requie.
NOTE:
Il corteo era tanto lungo che, quando i carri si misero in moto, le prime file erano già fuori di vista. Necliudov sedette sulla carrozza che lo stava aspettando e ordinò al cocchiere di precedere la spedizione. Avrebbe forse visto fra i prigionieri qualcuno che conosceva, e poi voleva trovare la Màslova e chiederle se avesse ricevuto la roba che le aveva mandato.
Il caldo era aumentato ancora. L'aria era immobile e la polvere sollevata da quelle migliaia di piedi avvolgeva come in una nube i detenuti che camminavano in mezzo alla strada. Camminavano svelti, e il ronzino di Necliudov faceva fatica a raggiungerli.
Erano file interminabili di esseri dall'aspetto strano e terribile che, ugualmente vestiti e calzati, marciavano segnando il passo col movimento del braccio libero quasi per infondersi coraggio.
A Necliudov non sembravano uomini ma esseri strani, terribili.
Quell'impressione svanì quando nella folla dei forzati riconobbe l'assassino Fiòdorov e tra gli esiliati il comico Ocotin e un vagabondo che gli aveva chiesto aiuto. Quasi tutti gettavano occhiate furtive alla carrozza e al signore che vi era seduto, intento a guardarli. Fiòdorov sollevò la testa per indicare a Necliudov che l'aveva riconosciuto. Ocotin gli strizzò un occhio.
Ma né l'uno né l'altro lo salutarono, ritenendola una cosa proibita.
Quando giunse all'altezza delle donne, Necliudov riconobbe subito la Màslova. Era nella seconda fila. La prima era la "Corosciavka", tutta rossa, con gli occhi neri, le gambe corte e la casacca rimboccata nella cintura, orribile a vedersi. La seconda, una donna incinta, si trascinava faticosamente le gambe, la terza era la Màslova. Aveva il sacco sulle spalle e guardava dritto davanti a sé con espressione calma e decisa. La quarta era una donna giovane e bella, con una casacca corta e un fazzoletto in capo, legato alla maniera delle contadine maritate. Era Fedossia, e camminava con passo sicuro. Necliudov scese di carrozza e si avvicinò alle donne, con l'intenzione di chiedere alla Màslova se aveva ricevuto la roba e come stava, ma il sottufficiale della scorta, che seguiva lo scaglione da quella parte, gli si avvicinò rapidamente.
- Non è permesso, signore, di accostarsi ai detenuti, non si può!
- gli gridò dietro. Ma riconosciuto Necliudov - tutti in prigione lo conoscevano - il sottufficiale portò le dita al berretto, e fermatosi vicino a lui gli disse:
- Qui non si può. Lo farete alla stazione, ma per strada no.
Avanti, non fermatevi! - gridò ai detenuti, e nonostante il caldo tornò di corsa al suo posto, sfoggiando gli eleganti stivaloni nuovi.
Necliudov si mise a camminare sul marciapiede dopo aver ordinato al cocchiere di seguirlo. Ovunque passava, la spedizione attirava su di sé un'attenzione mista di compassione e di orrore. La gente si sporgeva dalle carrozze e, finché poteva, seguiva con gli occhi i prigionieri. I pedoni si fermavano e osservavano con stupore e spavento quello spettacolo terribile. Alcuni si avvicinavano per fare l'elemosina che veniva ricevuta dai soldati della scorta.
Altri, come ipnotizzati, seguivano il convoglio, ma poi si fermavano e, scuotendo la testa, continuavano a guardare. Dai cancelli e dai portoni correva fuori la gente, oppure si sporgeva dalle finestre, fissando immobile e silenziosa lo spaventoso corteo.
Ad un crocicchio la spedizione impedì il passaggio ad una carrozza di lusso. A cassetta sedeva il cocchiere, un uomo col sedere grosso, il viso lustro e due file di bottoni sul dorso della livrea. In fondo alla carrozza stava una signora magra e pallida, con un cappellino chiaro e un ombrellino vivace, e vicino a lei suo marito, un signore elegante in soprabito chiaro e in cilindro.
Di fronte a loro sedevano i due figli, una ragazzina ben vestita, fresca come un fiorellino, coi lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e un parasole chiaro, e un ragazzo di otto anni dal collo lungo ed esile e dalle clavicole sporgenti, col cappello alla marinara adorno di lunghi nastri. Il padre rimproverava aspramente il cocchiere perché non era passato prima del convoglio. La madre socchiudeva gli occhi e faceva una smorfia di ribrezzo accostandosi al viso l'elegante cappellino, per ripararsi meglio dal sole e dalla polvere. Il cocchiere dal sedere grosso ascoltava aggrottando la fronte, indignato per gli ingiusti rimproveri del padrone che gli aveva imposto di far quella strada, e si sforzava di trattenere i puledri morelli lucidi e coperti di schiuma, sotto la bardatura, che mordevano il freno.
La guardia urbana avrebbe voluto con tutto il cuore dar il passo al padrone di quella bella carrozza, fermando il convoglio. Ma si rendeva vagamente conto che in quel corteo vi era una cupa solennità che non poteva essere violata neppure per far piacere a quel ricco signore. Si limitò a portar la mano al berretto, in segno del suo rispetto per la ricchezza e guardò i detenuti con severità, come per promettere e assicurare la sua protezione ai signori della carrozza. La carrozza fu perciò costretta ad aspettare che passasse tutto il convoglio fino all'ultimo cigolante carro, con il suo carico di sacchi e di detenute, fra le quali la donna isterica che, dopo un momento di calma, vedendo la bella carrozza, aveva ricominciato subito a urlare e singhiozzare.
Solo allora il cocchiere tirò piano le redini, e i cavalli, scalpitando con gli zoccoli sul selciato, ripresero il cammino, trascinando la carrozza che sobbalzava mollemente sui cerchioni di gomma, verso la campagna, dove andavano a divertirsi il marito, la moglie, la bambina e il ragazzetto dal collo esile e dalle clavicole sporgenti.
Né il padre né la madre avevano dato ai figli una spiegazione di quello che avevano visto, cosicché i bambini dovettero spiegarsi da sé quello spettacolo.
La bambina, dall'espressione del viso del padre e della madre, concluse che si trattava di gente completamente diversa dai suoi genitori e dai loro amici. Dovevano essere persone cattive, che meritavano perciò quel trattamento. Provava soltanto un senso di terrore, e fu contenta quando quella gente uscì dalla sua vista.
Ma il ragazzo aveva risolto il problema ben diversamente; aveva seguito la sfilata dei prigionieri con gli occhi sgranati e senza batter ciglio. Egli sapeva fermamente, con una certezza che nulla ancora poteva scuotere, poiché attinta direttamente da Dio, che quegli uomini erano in tutto simili a lui e agli altri esseri umani.
Qualcuno doveva aver fatto loro qualcosa di male, qualcosa che non si doveva fare. Egli provava un senso di pietà e di orrore sia per quegli uomini incatenati e rapati, sia per quelli che li avevano ridotti così. Sentiva che le sue labbra si gonfiavano sempre di più, e faceva grandi sforzi per non piangere, poiché credeva che piangere in simili casi fosse una vergogna.
Necliudov camminava con lo stesso passo svelto dei detenuti, e sebbene fosse vestito leggermente, col cappotto estivo, aveva un caldo terribile. Soprattutto si sentiva soffocare per la polvere e l'aria ferma, afosa della strada. Dopo un quarto di versta, risalì in carrozza e disse al vetturino di andare avanti, ma nel mezzo della strada, in vettura, gli sembrò di sentire ancora più caldo.
Cercò di ricordare la conversazione del giorno prima col cognato, ma quel ricordo ormai non lo turbava più come al mattino. Era stato offuscato dalle impressioni dell'uscita dal carcere e della sfilata del convoglio. E poi faceva un caldo opprimente.
Davanti a uno steccato, all'ombra degli alberi, due ragazzi delle tecniche, senza berretto, stavano davanti a un gelataio accoccolato per terra. Uno dei due ragazzi stava già leccando il cucchiaino di corno, l'altro aspettava il bicchierino colmo di qualcosa di giallo.
- Dove si potrebbe bere? - domandò Necliudov al cocchiere, sentendo un irresistibile bisogno di rinfrescarsi.
- C'è qui subito una buona trattoria, - rispose il cocchiere e, svoltato l'angolo, condusse Necliudov davanti a un locale con una grande insegna.
Il paffuto commesso in maniche di camicia dietro il banco, e i camerieri coi grembiuli non più bianchi, che in mancanza di clienti sedevano ai tavolini, osservarono con curiosità l'ospite insolito, e gli corsero incontro premurosi. Necliudov chiese un po' d'acqua di selz e sedette lontano dalla finestra, a un tavolino coperto da una tovaglia sudicia.
Due uomini seduti davanti al tè e a una bottiglia di vetro bianco, si asciugavano il sudore della fronte e facevano tranquillamente i loro conti.
Uno era bruno e calvo, con una coroncina di capelli neri sulla nuca, come Ignati Nikiforovic'. Quest'impressione, ricordando nuovamente a Necliudov il colloquio del giorno avanti col cognato, gli acuì il desiderio di rivedere, prima della partenza, lui e la sorella. "Farò appena in tempo per il treno" pensò. "Sarà meglio che scriva una lettera". E dopo aver chiesto carta, busta e francobollo, sorseggiando l'acqua fresca e frizzante, si mise a pensare a ciò che doveva scrivere. Ma la sua mente divagava, e non gli riusciva di mettere assieme la lettera.
"Cara Natascia, non posso partire sotto l'impressione penosa della discussione di ieri con Ignati Nikiforovic'..." aveva cominciato a scrivere. "E poi? Devo pregarlo di perdonarmi le mie parole di ieri? Ma ho detto quello che pensavo. Crederebbe che mi stia ritrattando. E poi quel suo modo di ficcare il naso nei miei affari... No, non posso!", e sentendo rinascere dentro di sé l'odio per quell'uomo presuntuoso, estraneo e incapace di capirlo, Necliudov si ficcò in tasca la lettera incominciata e dopo aver pagato l'oste, uscì in strada per raggiungere in carrozza il convoglio.
Il caldo era aumentato ancora. I muri e i ciottoli della strada sprigionavano vampe d'aria infuocata. Ci si sentiva scottare i piedi sul selciato rovente, e Necliudov provò come una scottatura posando la mano sul parafango laccato della carrozza. Il cavallo si trascinava a un trotto fiacco, battendo con ritmo uniforme il selciato polveroso e disuguale. Il cocchiere s'appisolava di continuo. Necliudov sedeva senza pensare a nulla, guardando davanti a sé come intontito.
A un pendio della strada, davanti al portone di una casa signorile, s'era formato un capannello di gente; vi era anche un soldato della scorta col fucile.
Necliudov fece fermare la carrozza.
- Che succede? - domandò al portiere.
- Qualcosa con un prigioniero...
Necliudov scese di vettura e si accostò al capannello. Vicino al marciapiede, sulle pietre disuguali del selciato in pendio, giaceva con la testa più bassa delle gambe un detenuto non più giovane, con la barba fulva, la faccia rossa e il naso piatto, in divisa da forzato. Giaceva supino, le palme delle mani lentigginose rivolte verso il basso. A lunghi intervalli regolari un rantolo gli scuoteva il petto largo e possente, mentre gli occhi iniettati di sangue fissavano il cielo. Gli stavano intorno una guardia urbana con l'aria accigliata, un venditore ambulante, un portalettere, un commesso, una vecchia con l'ombrellino e un ragazzetto dai capelli corti con un cestino vuoto .
- Si sono indeboliti a stare in prigione, non hanno più resistenza e li fanno marciare con questo caldo infernale! - criticava il commesso, rivolgendosi a Necliudov che si era avvicinato.
- Muore, credo! - diceva la vecchia dall'ombrellino, con voce piagnucolosa.
- Bisognerebbe aprirgli la camicia, - disse il portalettere. La guardia, con le dita grosse che gli tremavano, cominciò goffamente a slacciargli i legacci sul collo rosso, venoso. Era evidentemente commosso e turbato, ma si credette tuttavia in dovere di rivolgersi alla folla.
- Perché state qui? Fate ancor più caldo e impedite all'aria di passare.
- Il medico dovrebbe rilasciare un certificato! E trattenere i più deboli... L'han portato qua mezzo morto, - proseguì il commesso che voleva far vedere che conosceva il regolamento.
La guardia, sciolti i legacci della camicia, si raddrizzò e si voltò a guardare. - Andatevene, vi dico! Non è affar vostro. Che cosa volete vedere, ancora? - disse rivolgendosi a Necliudov come per avere la sua approvazione, ma non avendo incontrato nel suo sguardo alcuna simpatia, guardò il soldato di scorta. Ma il soldato si teneva in disparte. Esaminava il tacco rotto del suo stivale, indifferente alle difficoltà della guardia.
- Si direbbe che non sia affar loro! Non se la danno neppure per inteso. E' forse nel regolamento di far morire la gente?
- Un prigioniero, anche se è prigioniero, è sempre un uomo, - si diceva tra la folla.
- Alzategli la testa e dategli da bere! - disse Necliudov.
- Sono andati a prendere l'acqua, - rispose la guardia e, preso sotto le ascelle il prigioniero, ne trascinò faticosamente il corpo inerte.
- Che cos'è questa ressa? - gridò ad un tratto una voce decisa di comando, e al crocchio di gente attorno al detenuto si avvicinò rapidamente un commissario di polizia dall'uniforme incredibilmente candida e smagliante, con un paio di stivaloni ancor più lustri.
- Via di qua! Che ci state a fare? - gridò alla folla, prima ancora di sapere il perché di quell'assembramento.
Quando fu più vicino ed ebbe visto il prigioniero morente, approvò con la testa, come ad indicare che se lo era aspettato, e si rivolse alla guardia.
- Cosa è successo?
La guardia riferì che il detenuto era caduto durante il passaggio del convoglio e l'ufficiale di scorta aveva comandato di lasciarlo indietro.
- Ebbene? Bisogna portarlo al commissariato. Chiamate una carrozza.
- C'è andato il portiere, - disse la guardia, portando la mano al berretto.
Il commesso cominciò a parlare del caldo.
- E' forse affar tuo, eh? Va' per la tua strada, - borbottò il commissario così severamente che l'altro tacque. - Bisogna dargli un po' d'acqua, - ripeté Necliudov. Il commissario lanciò un'occhiataccia anche a lui ma non disse nulla. Quando poi il portiere fu di ritorno con un boccale d'acqua, ordinò alla guardia di dar da bere al prigioniero.
La guardia sollevò la testa penzolante e cercò di versargli l'acqua in bocca, ma il detenuto non la mandò giù: il liquido colava lungo la barba, inzuppando il davanti della giacca e la camicia di canapa tutta impolverata.
- Versagliela in testa! - ordinò il commissario, e la guardia, toltogli il berretto piatto, versò l'acqua sui capelli rossi e ricciuti e sul mezzo cranio rasato.
Gli occhi del prigioniero si spalancarono ancor di più, come intimoriti, ma il corpo non mutò posizione. Sulla faccia gli scorrevano rivoli impolverati, mentre dalla bocca usciva ancora un rantolo uniforme che lo faceva sussultare tutto.
- E quella che cos'è? Prendete quella, - si rivolse il commissario alla guardia facendo segno alla vettura di Necliudov. - Fatti avanti, ehi, tu!
- Sono occupato, - borbottò cupo il cocchiere, senza alzare gli occhi.
- E' la mia carrozza, ma prendetela pure. Pago io, soggiunse Necliudov, rivolgendosi al vetturino.
- Be', che cosa aspettate? - urlò il commissario, spicciatevi!
La guardia, alcuni portieri e il soldato di scorta sollevarono il morente, lo trasportarono alla carrozza e lo adagiarono sul sedile. Ma egli non si reggeva da solo; la testa gli si rovesciava all'indietro e tutto il corpo scivolava giù.
- Adagiatelo! - comandò il commissario.
- Non importa, Eccellenza, lo porterò così, - rispose la guardia, puntandosi forte sul sedile, accanto al morente, e cingendolo sotto l'ascella col braccio destro robusto.
Il soldato di scorta sollevò i piedi calzati coi "koti" e li allungò con cura sotto la serpa.
Il commissario si guardò in giro e scorgendo sul selciato il berretto piatto del detenuto, lo raccolse e glielo mise sulla testa bagnata che s'era rovesciata.
- Via! - comandò.
Il vetturino gli lanciò un'occhiata di traverso, scosse la testa e, seguito dal soldato, tornò indietro al passo verso il commissariato.
La guardia che sedeva accanto al prigioniero cercava inutilmente di sostenere il corpo abbandonato, con la testa ciondoloni. Il soldato che camminava vicino gli accomodava le gambe. Necliudov li seguì.
Al commissariato, passando davanti a un pompiere di sentinella, la vettura col prigioniero entrò nel cortile dell'ufficio di polizia, e si arrestò a uno degli ingressi. Nel cortile i pompieri, con le maniche rimboccate, parlando a voce alta e ridendo, lavavano alcuni carri.
Non appena la vettura si fu fermata, alcune guardie la circondarono, afferrarono per le ascelle e per le gambe il corpo esangue del prigioniero e lo tolsero dalla vettura che cigolava per il peso.
La guardia che l'aveva accompagnato discese di carrozza e, scuotendo il braccio intorpidito, si tolse il berretto e si segnò.
Il morto fu portato attraverso una porta e poi su per la scala, al piano superiore. Necliudov li seguì. Nella stanza piccola e sudicia in cui fu portato il cadavere, vi erano quattro cuccette.
Su due erano seduti due ammalati in casacca, uno con la bocca storta e il collo bendato, l'altro tisico.
Due cuccette erano libere. Su una fu disposto il morto. Un ometto piccolo dagli occhi luccicanti e dalle sopracciglia mobilissime, con la sola biancheria di sotto e le calze, si avvicinò a passi rapidi e lievi al prigioniero, lo esaminò, poi esaminò Necliudov e scoppiò in una risata sonora. Era un pazzo tenuto lì in osservazione.
- Vogliono spaventarmi, - disse; - ma non ci riusciranno!
Dietro le guardie che avevano portato il morto, entrarono il commissario di polizia e un infermiere.
Questi, avvicinatosi al cadavere, gli toccò la mano fredda, gialliccia, lentigginosa, ancora molle, ma già mortalmente pallida, la sollevò, poi la lasciò cadere. Essa s'abbandonò inerte sul ventre del morto. Spento, - disse l'infermiere scuotendo il capo. Ma, evidentemente per seguire il regolamento, aprì la camicia ruvida e bagnata del morto e, scostandosi dall'orecchio i capelli ricciuti, lo applicò al largo petto gialliccio e immobile del prigioniero. Tutti tacevano. L'infermiere si raddrizzò, scosse ancora il capo e abbassò col dito prima una poi l'altra palpebra sopra le pupille azzurre spalancate e fisse.
- Non mi fate paura, non mi fate paura! - diceva il pazzo, continuando a sputare dalla parte dell'infermiere.
- E allora? - domandò il commissario.
- E allora? - ripeté l'infermiere - Bisogna portarlo nella stanza mortuaria!
- Sentite, ne siete proprio sicuro? - domandò l'ufficiale.
- A quest'ora... - rispose l'infermiere, coprendo, chissà perché, il petto denudato del cadavere. - E poi posso mandare a chiamare Matvièi Ivànovic' che dia un'occhiata lui. Petròv, vacci tu, - soggiunse l'infermiere e si allontanò dal morto.
- Portalo nella stanza mortuaria, - disse il commissario. - E tu, poi, vieni in cancelleria a metter la firma, - si rivolse al soldato di scorta che non s'era mai mosso di un passo dal cadavere.
- Signorsì, - rispose il soldato.
Le guardie sollevarono il morto e lo riportarono giù per le scale.
Necliudov avrebbe voluto seguirli, ma il pazzo lo trattenne.
- Voi non siete del complotto, datemi dunque una sigaretta, - gli disse.
Necliudov tirò fuori il portasigarette e gliene diede una. Il pazzo, muovendo le sopracciglia e parlando in gran fretta, gli raccontò come lo tormentavano con la suggestione.
- Sapete, son tutti contro di me e coi loro medium mi tormentano, mi torturano...
- Scusatemi! - disse Necliudov e uscì fuori senza finir di ascoltarlo. Desiderava sapere dove portavano il morto.
Le guardie col loro carico avevano già attraversato tutto il cortile ed erano entrate in un sotterraneo.
Necliudov voleva raggiungerli, ma il commissario lo fermò.
- Che vi occorre?
- Nulla, - rispose Necliudov.
- E allora andatevene.
Necliudov tornò indietro e raggiunse la sua carrozza. Il cocchiere si era appisolato. Necliudov lo svegliò e si fece riportare alla stazione. Ma non aveva fatto cento passi che incontrò un carro, scortato da un soldato del convoglio col fucile. Vi era disteso un altro detenuto, evidentemente già morto. Giaceva supino e la sua testa rapata con la barba nera e il berretto piatto che gli era scivolato fin sul naso, sobbalzava e si sbatteva qua e là ad ogni scossa del carro. Il carrettiere con un grosso paio di stivali conduceva il cavallo per le redini, camminandogli di fianco. Lo seguiva una guardia. Necliudov batté sulla spalla del suo vetturino.
- Che stanno facendo? - disse questi fermando il cavallo.
Necliudov scese di vettura e seguì il carro. Passò di nuovo davanti al pompiere di sentinella, ed entrò nel cortile del commissariato.
I pompieri avevano ormai finito di lavare i carri. Il loro capo, un uomo alto e ossuto con una riga azzurra sul berretto, osservava corrucciato, con le mani in tasca, un puledro sauro dal collo grasso che un pompiere gli aveva condotto. Il cavallo zoppicava da una zampa anteriore e il capo stava parlando aspramente al veterinario. Era presente anche il commissario. Vedendo arrivare un altro morto, si appressò al carro.
- Dove l'avete raccolto? - domandò scuotendo il capo in segno di disapprovazione.
- In via Staro-Gorbàtovskaia, - rispose la guardia.
- Un detenuto? - s'informò il capo dei pompieri.
- Signorsì. Oggi è il secondo, - disse il commissario.
- Be', sono i regolamenti! E poi fa anche caldo... osservò il capo dei pompieri e, voltosi al suo subordinato che aveva condotto il sauro zoppo, gridò: - Mettilo nella stalla d'angolo! Te l'insegnerò io, figlio di un cane, a storpiare i cavalli che costano più di te, furfante!
Il morto, esattamente come il primo, fu sollevato dalle guardie e portato nella stanza di sopra.
Necliudov li seguì come trasognato. - Che volete? - gli domandò una guardia.
Necliudov proseguì senza rispondergli.
Il pazzo, seduto sulla cuccetta, fumava avidamente la sigaretta che gli aveva dato Necliudov.
- Ah, siete ritornato, - disse, scoppiando a ridere. Alla vista del morto si rabbuiò. - Di nuovo! - esclamò. - Mi hanno seccato, non sono poi un bambino, nevvero? - sorridendo interrogativamente si rivolse a Necliudov .
Intanto Necliudov osservava il morto, di cui nessuno ormai gli impediva la vista: e poteva osservarlo bene, ora che la sua faccia non era più ricoperta dal berretto.
Quanto l'altro detenuto aveva un aspetto deforme, tanto questo era straordinariamente bello di faccia e di corpo. Era un uomo nel pieno vigore delle sue forze. Nonostante che la sua testa fosse sfigurata dalla mezza rapatura, la fronte regolare, diritta, con due bozze sopra gli occhi neri ormai spenti, era assai bella, così com'era bello il naso piccolo, leggermente aquilino, sopra ai baffetti neri. Le labbra illividite erano composte in un sorriso - una barbetta corta gli incorniciava la parte inferiore della faccia; e dal lato del cranio che era stato rasato, si vedeva un orecchio piccolo, fermo, ben delineato.
L'espressione del volto era calma, severa e buona. E non soltanto il viso mostrava quali possibilità di vita spirituale fossero andate perdute in quell'uomo; anche l'ossatura sottile delle mani e dei piedi incatenati, e la forte muscolatura delle membra ben proporzionate, rivelavano quale meraviglioso, robusto, agile esemplare umano egli fosse stato. Esemplare assai più perfetto, nel suo genere, di quel puledro sauro, per cui s'era tanto infuriato il capo dei pompieri.
Eppure l'avevano fatto morire... Nessuno provava pietà per lui in quanto uomo, e nessuno lo rimpiangeva in quanto animale da lavoro inutilmente perduto. L'unico sentimento suscitato in tutti i presenti dalla sua morte, era un senso di dispetto per le noie inerenti alla necessità di allontanare quel corpo prima che si decomponesse.
Nella stanza entrò il medico con l'infermiere e il commissario. Il medico era un individuo solido, tarchiato, con una giacca di seta cruda e un paio di pantaloni della stessa stoffa, stretti e aderenti alle cosce muscolose. Il commissario era un uomo piccolo e grasso, con una faccia da luna piena resa ancor più tonda dall'abitudine di riempirsi le gote d'aria che poi soffiava fuori lentamente.
Il medico sedette sulla cuccetta accanto al morto. Proprio come l'infermiere, gli toccò le mani, auscultò il cuore e poi si alzò, stirandosi i pantaloni.
- Più morti di così non si può essere, - disse.
Il commissario si riempi la bocca d'aria e la soffiò lentamente.
- Di che carcere? - domandò al soldato di scorta.
Il soldato glielo disse e accennò alle catene che il morto aveva ancora ai piedi.
- Darò subito l'ordine di levarle - grazie al cielo di fabbri non ne mancano, - rispose il commissario e, gonfiatosi di nuovo le gote, si avviò verso la porta, soffiando fuori l'aria lentamente.
- Da che cosa dipende? - domandò Necliudov al dottore. Questi lo guardò attentamente attraverso le lenti.
- Come da che cosa dipende? che muoiano d'insolazione? Così:
stanno chiusi per tutto l'inverno senza moto, senza un raggio di luce, e poi di colpo li fanno uscire al sole, in una giornata come questa... e in massa compatta e senza un soffio d'aria. Eccoti l'insolazione. E allora perché li mandano? Questo domandatelo a loro. Ma voi chi siete?
- Un estraneo.
- Ah! i miei rispetti, non ho tempo, - disse il dottore e tirandosi indispettito i pantaloni, si diresse verso le cuccette dei malati.
- Be', come vanno le cose? - domandò all'uomo dalla bocca storta e dal collo fasciato.
Il pazzo, intanto, seduto sulla cuccetta e smesso di fumare, sputava dalla parte del dottore.
Necliudov scese nel cortile. Passò davanti ai cavalli dei pompieri, alle galline, alla sentinella dall'elmetto di rame, uscì dal portone, e sedutosi in carrozza ordinò al vetturino che si era riaddormentato di portarlo alla stazione.
Quando Necliudov giunse alla stazione, i detenuti erano già nei vagoni dietro i finestrini con le sbarre. Sulla banchina stavano alcuni accompagnatori che non avevano il permesso di accedere alle vetture.
I soldati di scorta erano particolarmente preoccupati. Nel percorso dal carcere alla stazione, oltre ai due che aveva visto Necliudov, erano morti d'insolazione altri tre uomini; uno era stato condotto, come quegli altri, alla sezione di polizia più vicina, e due erano morti lì alla stazione (1).
Le guardie non erano preoccupate per la morte di quei cinque uomini del loro convoglio, che avrebbero potuto essere ancora in vita. Di questo non si davano alcun pensiero. Erano soltanto seccati di dover compiere tutte le formalità di legge richieste in simili circostanze: consegnare a chi si doveva i morti, i loro documenti e gli oggetti personali, e cancellarli dalle liste dei detenuti da portare a Nizni. E tutto ciò era molto seccante soprattutto con quel caldo.
La scorta, dunque, era molto occupata, e perciò, finché non ebbe finito, non permisero né a Necliudov né agli altri che lo avevano chiesto di accedere alle vetture. Necliudov, tuttavia, riuscì a passare, perché aveva dato una mancia al sottufficiale di scorta, il quale l'aveva però pregato di sbrigarsi e di andarsene in fretta, prima che se ne accorgesse il comandante.
I vagoni erano diciotto, e tutti, tranne quello del comando, pieni zeppi di detenuti. Passando davanti ai finestrini, Necliudov tendeva l'orecchio a ciò che accadeva là dentro: ovunque udiva rumore di catene, bisticci, discussioni farcite di parolacce insensate. Ma neppure una parola, come Necliudov si sarebbe immaginato, sui compagni caduti per via. Si parlava per lo più dei sacchi, dell'acqua da bere e della scelta dei posti.
Necliudov sbirciò dal finestrino di un vagone: in mezzo, nel passaggio, alcuni soldati di scorta stavano togliendo le manette ai detenuti. I prigionieri porgevano le mani, un soldato apriva con la chiave il lucchetto delle manette e le levava. Un altro le raccoglieva.
Dopo esser passato davanti ai vagoni degli uomini, Necliudov giunse a quelli delle donne. Nel secondo si udiva un lamento monotono, intercalato da esclamazioni: - Oh, mio Dio! oh, mio Dio!
Necliudov passò oltre. Seguendo le indicazioni del soldato, si appressò al finestrino della terza vettura. Non appena vi affacciò la testa, fu investito da una zaffata calda impregnata di un fetore acre di esalazioni umane. Udì distintamente voci stridule di donna. Su tutte le panche sedevano donne con la faccia rossa, sudata, in casacca e camicetta che parlavano rumorosamente. Il viso di Necliudov, dietro la grata, attirò la loro attenzione. Le più vicine tacquero di botto e gli si avvicinarono.
La Màslova in camicetta e a capo scoperto sedeva al finestrino opposto. Dalla parte di Necliudov era Fedossia, bianca e sorridente. Quando lo riconobbe, diede di gomito alla Màslova e le indicò il finestrino. La Màslova si affrettò ad alzarsi, si gettò il fazzoletto sui capelli neri, e con un viso sorridente, sudato, rosso per l'animazione, si accostò al finestrino e appoggiò le mani alla grata.
- Che caldo! - disse sorridendo felice.
- Avete ricevuto la roba?
- Sì, grazie, l'ho ricevuta.
- Vi occorre qualcosa? - domandò Necliudov, sentendo uscire dal vagone arroventato un calore come di fornace. Non ho bisogno di nulla, grazie.
- Se potessimo bere... - disse Fedossia. Sì, se potessimo... - ripeté la Màslova.
- Ma come, non avete acqua?
- Sì, ce la danno, ma l'abbiamo già bevuta tutta.
- La chiederò subito al soldato. Ormai fino a Nizni non ci rivedremo.
- Partite dunque anche voi? - domandò la Màslova, come se non lo sapesse, guardando Necliudov con gioia.
- Parto col prossimo treno.
La Màslova non disse nulla: solo, di tratto in tratto, sospirava profondamente.
- E' proprio vero, signore, che han fatto morire dodici detenuti?
- domandò con voce ruvida e maschia una vecchia arcigna.
Era la Korabliòva.
- Non ho sentito che fossero dodici. Io ne ho visti due, - rispose Necliudov.
- Dicono che sono dodici. Ma è possibile che la passino liscia?
Brutti demoni!
- E fra le donne nessuna si è sentita male? - s'informò Necliudov.
- Le donne son più forti! - esclamò ridendo un'altra detenuta, piccoletta di statura. - Soltanto che una ha pensato bene di partorire. Sentitela che versi... - proseguì, additando il vagone vicino, da cui uscivano ancora gli stessi lamenti.
- Mi avete chiesto se non mi occorre nulla... - disse la Màslova, sforzandosi di contenere il suo sorriso raggiante. - Non si può lasciar quella donna così, soffre troppo. Se poteste dirlo al comandante...
- Sì, lo farò.
- E sentite un po', non si potrebbe anche farle vedere suo marito Taràs? - soggiunse, indicando con gli occhi Fedossia che sorrideva. - Lui viaggia con voi.
- Signore, è proibito parlare, - risuonò la voce di un sottufficiale di scorta. Non era il medesimo che aveva lasciato passare Necliudov.
Necliudov si allontanò e andò alla ricerca del comandante, per intercedere a favore della partoriente, e del marito di Fedossia.
Ma per un pezzo non gli riuscì di trovarlo né di farsi rispondere dai soldati di scorta. Erano tutti in grandi faccende: alcuni accompagnavano non si sa dove un detenuto, altri correvano a comperarsi provviste e sistemavano la loro roba nei vagoni, altri ancora stavano servendo una dama che partiva con l'ufficiale di scorta, e rispondevano di mala voglia alle domande di Necliudov.
Lo rintracciò che era già suonato il secondo segnale.
Asciugandosi con la mano corta i baffi che gli coprivano la bocca e alzando le spalle, l'ufficiale rinfacciava qualcosa al sergente maggiore.
- Che cosa vi occorre precisamente? - domandò a Necliudov.
- Una delle vostre detenute sta partorendo in treno, penso che bisognerebbe...
- Partorisca pure! Poi si vedrà, - rispose l'ufficiale, entrando nella sua vettura e agitando energicamente le braccia corte.
In quel momento passò il conduttore con il fischietto in mano. Si udì l'ultimo segnale seguito da un fischio e fra quelli che erano rimasti sulla banchina e fra le donne dei vagoni, uno scoppio di pianti e di lamenti.
Necliudov, ritto sulla banchina accanto a Taràs, vide sfilarsi davanti uno dopo l'altro i vagoni con le grate, attraverso le quali s'intravvedevano le teste rasate degli uomini. Poi passò il primo vagone delle donne; dai finestrini si scorgevano le loro teste scoperte o col fazzoletto. Passò il secondo, col gemito della partoriente, poi il terzo con la Màslova. Essa stava con le altre al finestrino, guardava Necliudov e gli sorrideva dolorosamente.
NOTE:
Alla partenza del treno che avrebbe preso Necliudov mancavano due ore. Egli dapprima pensò di approfittare di quell'intervallo per fare una scappatina da sua sorella. Ma dopo le impressioni del mattino si sentiva talmente turbato e stanco, che sedutosi su un divano di prima classe, fu preso da un colpo di sonno così forte, che si adagiò su un fianco, appoggiò la guancia sulla mano e si addormentò subito.
Fu risvegliato da un cameriere in frac, con un distintivo e un tovagliolo.
- Signore, signore, siete forse voi il principe Necliudov? Una signora vi cerca.
Necliudov si alzò di scatto, stropicciandosi gli occhi, ricordò dove si trovava e tutto quello che era successo durante il mattino.
Rivide col pensiero il convoglio dei detenuti, i morti, i vagoni con le sbarre e le donne che vi eran rinchiuse, tra le quali una si lamentava per i dolori di parto e un'altra gli sorrideva dolorosamente dietro la grata di ferro.
La realtà presente era tutta diversa; vedeva davanti a sé una tavola apparecchiata, carica di bottiglie, di vasi, di candelabri, con abili camerieri che si muovevano intorno. In fondo alla sala, dietro a un banco ingombro di vasi di frutta e di bottiglie, il dispensiere e la schiena dei viaggiatori che si avvicinavano al buffet.
Mentre Necliudov cambiava posizione e da sdraiato si metteva a sedere, ritornava lentamente in sé. Notò così che tutte le persone che si trovavano nella sala osservavano incuriosite qualcosa davanti alla porta. Guardò anche egli da quella parte: un corteo di persone portava sopra una poltrona una signora, con la testa avvolta da un velo leggerissimo. Il primo portatore era un servo che a Necliudov parve di conoscere, quello dietro, col berretto gallonato, un portiere, che pure gli era noto.
Dietro la poltrona, una cameriera elegante in grembiule e coi ricci portava un fagotto, un certo che di tondo in un astuccio di pelle, e gli ombrellini. Più dietro ancora, coi suoi labbroni, il collo apoplettico e il petto sporgente, veniva il principe Korciaghin in berretto da viaggio.
Poi, ultimi, Missy, Miscia, il cugino e il diplomatico Ostén che Necliudov conosceva, col suo collo lungo, il pomo d'Adamo sporgente, come sempre allegro e di umore ottimo. Con aria ispirata, ma evidentemente in tono scherzoso, stava terminando di raccontare qualcosa a Missy, che ascoltava sorridendo. Il dottore chiudeva la fila, fumando imbronciato una sigaretta.
I Korciaghin si trasferivano dalla loro tenuta nei pressi della città, in quella della sorella della principessa, sulla strada di Nizni-Navgorod.
I portatori, la cameriera e il dottore proseguirono verso la sala delle signore, richiamando l'attenzione rispettosa di tutti i presenti.
Il vecchio principe, invece, sedette a tavola e, chiamato subito un domestico, ordinò qualcosa. Missy e Ostén si erano anch'essi fermati nella sala da pranzo, ma mentre stavano per sedersi a tavola, videro sulla porta una conoscente, e le andarono incontro.
Era Natàlia Ivànovna accompagnata da Agrafena Petrovna.
Guardandosi intorno essa entrò nel buffet e vide contemporaneamente Missy e il fratello. Prima si avvicinò a Missy, facendo a Necliudov un cenno. Ma dopo aver abbracciata Missy, si rivolse subito a lui.
- Finalmente ti ho scovato! - disse.
Necliudov si alzò, salutò Missy, Miscia e Ostén e si fermò a discorrere. Missy gli raccontò che nella loro casa di campagna era avvenuto un incendio per cui erano stati costretti a trasferirsi dalla zia.
Ostén ne approfittò per raccontare un aneddoto comico sugli incendi.
Senza dar retta ad Ostén, Necliudov si rivolse alla sorella.
- Come son contento che tu sia venuta! - le disse.
- E' un pezzo che sono qui - rispose lei. - Mi ha accompagnato Agrafena Petrovna, - e additò Agrafena Petrovna, che in cappello e impermeabile, tutta confusa, salutava Necliudov con affettuosa dignità, da lontano perché non voleva disturbarlo. - Ti abbiamo cercato dappertutto.
- Mi ero addormentato qui. Come son contento che tu sia venuta!
Avevo cominciato a scriverti una lettera, - disse lui.
- Davvero? - rispose lei spaventata. - Perché?
Missy, vedendo che tra fratello e sorella era incominciata una conversazione intima, si trasse in disparte coi suoi cavalieri.
Necliudov e la sorella invece sedettero nel vano di una finestra su un divanino di velluto, dove erano posati una coperta da viaggio e alcune scatole.
- Ieri quando vi ho lasciato, avrei voluto tornare per chiedervi scusa, ma non sapevo come lui l'avrebbe presa, - disse Necliudov.
- Non ho parlato gentilmente con tuo marito, e ciò mi dispiaceva, - proseguì.
- Lo sapevo, ne ero sicura, - riprese la sorella, che l'hai fatto senza intenzione. Tu sai bene...
Gli occhi le si riempirono di lacrime. Gli prese la mano. La frase di lei non era chiara, egli però la capì perfettamente e fu commosso per quel che significava. Le sue parole volevano dire che oltre all'amore che la possedeva tutta - l'amore per suo marito - le era molto caro e le premeva molto l'amore per lui, suo fratello, e che ogni screzio fra loro due era per lei una sofferenza penosa.
- Grazie, grazie! Ah! che cosa non ho visto quest'oggi! - egli esclamò, ricordando ad un tratto il secondo detenuto morto. - Due prigionieri uccisi...
- Come uccisi?
- Sì, uccisi. Li hanno fatti marciare con questo caldo. E due sono morti per insolazione.
- E' impossibile! Come? Oggi? Adesso?
- Sì, adesso. Ho visto i loro cadaveri.
- Ma in che modo? Chi li ha uccisi? - disse Natàlia Ivànovna.
- Li ha uccisi chi li ha obbligati a marciare, - rispose Necliudov tremante d'ira. Sentiva che lei considerava anche questa cosa con gli occhi del marito.
- Ah! mio Dio! - esclamò Agrafena Petrovna, che si era avvicinata a loro.
- Sì, noi non abbiamo neppure la più piccola idea di ciò che si fa a quei disgraziati, ma bisogna che lo sappiamo! - soggiunse Necliudov con un'occhiata al vecchio principe che, annodatosi il tovagliolo al collo, sedeva a tavola davanti a un boccale. I loro sguardi si incrociarono.
- Necliudov! - gli gridò - volete rinfrescarvi? Fa bene per il viaggio!
Necliudov si voltò da un'altra parte.
- Ma che potrai fare, tu? - seguitò Natàlia Ivànovna.
- Quello che posso. Non lo so, ma sento che devo far qualcosa. E quello che potrò, lo farò.
- Sì, sì, capisco benissimo. Be', e con quelli lì? - disse sorridendo, indicando con gli occhi i Korciaghin, è proprio finito tutto?
- Sì, e penso senza rammarico da tutte e due le parti.
- Peccato, mi dispiace. Le voglio bene. Ammettiamo pure che debba essere così. Ma per quale motivo ti vuoi legare? - soggiunse timidamente. - Perché parti?
- Parto perché è il mio dovere, - rispose Necliudov in tono serio e secco come per troncare quel discorso. Ma subito si vergognò della sua freddezza verso la sorella. "Perché non dirle ciò che penso?", egli rifletteva. "E che Agrafena Petrovna ascolti pure...", disse a se stesso, con un'occhiata alla vecchia governante. La presenza della donna lo incitava ancor di più a partecipare alla sorella le sue intenzioni.
- Parli del mio progetto di sposare Katiuscia? Vedi, io son deciso a farlo, ma lei ha rifiutato in modo fermo e risoluto, - disse, e la sua voce tremava come sempre, quando parlava di quell'argomento. - Non ne vuol sapere del mio sacrificio. Ma lei stessa ne fa uno grandissimo, date le condizioni in cui si trova, e se è un sacrificio, io non voglio accettarlo. Ecco perché vado con lei e sarò dove lei sarà, e farò del mio meglio per aiutarla e per alleviare il suo destino.
Natàlia Ivànovna non replicò nulla. Agrafena Petrovna guardava interrogativamente Natàlia Ivànovna e scuoteva la testa. In quel momento dalla stanza delle signore uscì di nuovo il corteo. Il bel domestico Filip e il portiere trasportavano come prima la poltrona con la principessa. A un tratto questa, vedendo Necliudov, fermò i portatori; gli fece cenno di venirle vicino e con un gesto languido e sofferente, come per invitarlo a non stringere troppo forte, gli porse la mano bianca e inanellata. - "Epouvantable!" - disse a proposito del caldo. Non lo sopporto. "Ce climat me tue" (1). - E quando ebbe finito di lamentarsi del clima russo, invitò Necliudov ad andare da loro e ordinò ai portatori di proseguire. - Non mancate, mi raccomando! - soggiunse, voltandosi a guardarlo con la sua faccia lunga.
Necliudov uscì sulla banchina. Il corteo della principessa si diresse a destra, verso le vetture di prima classe. Necliudov, invece, seguito dal facchino che gli portava le valigie, e da Taràs col suo sacco sulle spalle, piegò dal lato opposto.
- Ecco il mio compagno, - disse Necliudov alla sorella, indicando Taràs di cui le aveva raccontato la storia.
- Ma come, viaggi in terza? - domandò Natàlia Ivànovna, quando Necliudov si fu fermato davanti a un vagone di terza, e il facchino con Taràs vi furono saliti coi bagagli.
- Sì, è più comodo, così viaggio con Taràs, - rispose. - Volevo dirti ancora una cosa, - soggiunse. - Finora, non ho dato ai contadini le terre di Kuzminskoe... Nel caso che morissi, erediteranno i tuoi bambini.
- Dmitri, smettila! - disse Natàlia Ivànovna.
- Se invece dovessi cederle, l'unica cosa che posso dirti è che tutto il resto sarà vostro. Chissà se mi sposerò! e in ogni caso non ci saranno figli... Perciò...
- Dmitri per piacere, non parlare così, - protestava Natàlia Ivànovna.
Ma Necliudov lesse nei suoi occhi che quelle parole le avevano fatto piacere. Più in là, davanti alla prima classe, un gruppetto di curiosi guardava ancora il vagone in cui avevano portato la principessa Korciàghina. Tutti gli altri viaggiatori erano già al loro posto. I ritardatari camminavano frettolosi sulle assi della banchina, i conduttori sbattevano gli sportelli e invitavano i viaggiatori a sedersi e gli altri ad uscire.
Necliudov entrò in un vagone puzzolente, arroventato dal sole.
Uscì subito sulla piattaforma.
Natàlia Ivànovna col suo cappello alla moda e la mantellina, stava ritta sul marciapiede accanto ad Agrafena Petrovna; evidentemente cercava un soggetto di conversazione e non lo trovava. Non poteva nemmeno dire: "écrivez", poiché lei e il fratello avevan sempre riso di quella parola che è sulla bocca di tutti i partenti. Il breve accenno alla questione dei soldi e dell'eredità aveva di colpo distrutto i rapporti teneramente fraterni che s'erano appena stabiliti fra loro; ora si sentivano estranei l'uno all'altra.
Cosicché Natàlia Ivànovna fu contenta quando il treno si mosse.
Doveva soltanto salutare col capo e dire con viso triste e carezzevole: "Addio, dunque, addio Dmitri". Ma non appena il treno fu scomparso, essa cominciò a pensare come avrebbe riferito al marito quel colloquio col fratello. Il suo viso si fece serio e preoccupato.
E Necliudov, nonostante che nutrisse i migliori sentimenti verso la sorella e non le avesse nascosto nulla, ora provava un senso di pena e di disagio, e aveva voglia di liberarsi al più presto della sua presenza. Sentiva che la Natascia di una volta, tanto vicina al suo cuore, non c'era più; ora c'era soltanto la schiava di un marito nero e peloso che gli era estraneo e antipatico. L'aveva capito chiaramente, poiché il suo viso si era rischiarato di un'animazione speciale solo quando egli aveva parlato di ciò che premeva a suo marito: della cessione della terra ai contadini e dell'eredità. E ne era rattristato.
NOTE:
In quel gran vagone di terza classe arroventato dal sole di tutta una giornata, e gremito di gente, il caldo era così soffocante che Necliudov preferì restare sulla piattaforma. Ma anche lì si soffocava. Soltanto quando il treno fu uscito dall'abitato e si formò un po' di corrente, Necliudov poté respirare a pieni polmoni. "Sì, li hanno uccisi", si ripeteva le parole dette alla sorella. E fra tutte le impressioni di quel giorno, alla sua memoria ritornò con straordinaria intensità l'immagine del secondo morto, col suo bellissimo viso, l'espressione sorridente delle labbra, la fronte severa e l'orecchio piccolo, ben delineato, sotto il cranio raso, violaceo!
"Ma il più terribile è che l'hanno ucciso, e nessuno sa chi è stato. Eppure l'hanno ucciso! L'hanno condotto alla stazione, come tutti gli altri prigionieri, per ordine di Màslennikov. E Màslennikov probabilmente non ha fatto che seguire le solite disposizioni: ha firmato con la sua stupida scrittura il foglio d'ordine con l'intestazione stampata e, naturalmente, non si sente affatto colpevole. Ancor meno colpevole si crederà il medico delle prigioni, che ha visitato tutti i detenuti. Ha fatto puntualmente il suo dovere, separando gli ammalati dai sani, e non poteva prevedere né questo caldo terribile né che li avrebbero fatti uscire così tardi e in massa.
Il direttore? Ma il direttore ha soltanto eseguito l'ordine di far partire nel dato giorno un dato numero di forzati, di esiliati; tanti uomini, tante donne. E non è neppure colpevole l'ufficiale di scorta che aveva il compito di prenderne in consegna quel certo numero nel tal posto per portarli tutti nel tal altro. Aveva diretto il convoglio come sempre e secondo il previsto. Non poteva certo supporre che uomini così robusti come i due che lui, Necliudov, aveva visto, non avrebbero resistito e sarebbero morti.
Nessuno è colpevole. Ma quegli uomini sono stati uccisi: uccisi nonostante tutto, da quelle stesse persone assolutamente innocenti della loro morte.
"Tutto questo male", pensava Necliudov, "avviene perché i governatori, i direttori, i commissari e le guardie di città ritengono che vi siano circostanze in cui si può essere dispensati dal trattare umanamente il nostro prossimo. Infatti tutti costoro - Màslennikov, il direttore, l'ufficiale di scorta - se non fossero stati governatori, direttori, ufficiali, ci avrebbero pensato venti volte prima di far marciare uno scaglione tanto numeroso con un caldo simile. Avrebbero fermato il convoglio in marcia e vedendo che uno stava perdendo le forze e che gli mancava il fiato, l'avrebbero fatto uscire dalla calca, conducendolo all'ombra, e permettendogli di bere e di riposare. E se fosse successa una disgrazia, avrebbero dimostrato un po' di compassione. Invece non lo hanno fatto, e proibiscono a tutti di occuparsene; e questo soltanto perché non vedono dinanzi a sé uomini, verso i quali hanno doveri, ma solamente il servizio e le esigenze del servizio, che pongono al di sopra delle esigenze umane. E' tutto qui", pensava Necliudov. "Se ammettiamo che, sia pure per un'ora e in un caso eccezionale, esiste qualcosa di più importante del sentimento di umanità, allora possiamo impunemente commettere qualsiasi delitto contro il prossimo, senza ritenerci colpevoli".
Necliudov era così assorto nei suoi pensieri da non accorgersi che il tempo era cambiato: il sole si era nascosto dietro una nuvola bassa, sfrangiata, minacciosa. Dalla parte occidentale dell'orizzonte si avvicinava un nuvolone compatto, grigio chiaro, che già si scioglieva sui campi e sui boschi lontani in un acquazzone obliquo. L'aria era umida di pioggia. Di tratto in tratto la nuvola era solcata da un lampo, e, sempre più spesso, al rimbombo del treno in corsa si sovrapponeva il rimbombo del tuono.
Il nuvolone si avvicinò ancora; gocce oblique di pioggia, spinte dal vento, cominciarono a bagnare la piattaforma della vettura e il soprabito di Necliudov. Egli passò dall'altra parte. Aspirava l'aria umida e fresca, il profumo del grano che veniva dalla terra riarsa, avida di pioggia; guardava i giardini che gli sfilavano davanti, i boschi, i campi biondi di segale, le strisce di avena ancora verde e i solchi neri intramezzati dal verde cupo della patata in fiore. Pareva che ad un tratto tutto si fosse coperto da uno strato di lacca: il verde era più verde, il giallo più giallo, il nero più nero.
- Ancora, ancora, - diceva Necliudov rallegrandosi alla vista dei campi, dei giardini, degli orti, ravvivati dalla pioggia benefica.
L'acquazzone non durò a lungo. La nuvola in parte s'era sciolta, in parte dispersa. Sulla terra bagnata cadevano ormai le ultime gocce dritte, minute, fitte. Il sole fece di nuovo capolino, ogni cosa tornò a risplendere; a levante si delineò sull'orizzonte un arcobaleno non grande ma nitido, con molto violetto, e interrotto solo ad un'estremità.
"Ma a che cosa stavo pensando?", si domandò Necliudov, quando tutti quei fenomeni naturali furono finiti e il treno scese in una incassatura fra due alte scarpate. "Già, pensavo che tutti costoro, il direttore, i soldati di scorta e gli altri, per la maggior parte persone buone e miti, sono diventati malvagi soltanto per le esigenze del servizio".
Ricordò l'indifferenza di Màslennikov quando gli aveva parlato di ciò che avveniva nelle prigioni, ricordò la severità del direttore, la durezza dell'ufficiale di scorta che aveva proibito ai detenuti di salire sui carri, e non s'era curato di soccorrere la donna del treno, in preda alle doglie del parto. "Tutte queste persone, evidentemente, sono refrattarie, inaccessibili al più elementare sentimento di pietà, soltanto per le esigenze del servizio. Sono impenetrabili al sentimento di umanità come questa pietraia lo è alla pioggia", pensava Necliudov, guardando la scarpata rivestita di sassi variopinti, lungo la quale, a rivoletti, scorreva l'acqua piovana, senza penetrare nel terreno.
"Forse è necessario ricoprire le scarpate di pietre, ma è triste osservare questa terra priva di vegetazione, mentre potrebbe produrre grano, erba, cespugli, alberi, come lassù, al di sopra del dirupo. Lo stesso è con gli uomini", pensava Necliudov; "forse tutti questi governatori, direttori, guardie di città sono necessari; ma è terribile vedere uomini privi della principale caratteristica umana: l'amore e la pietà reciproca.
Tutto dipende dal fatto", pensava Necliudov, "che costoro considerano legge ciò che non lo è, e non riconoscono invece la vera legge, quella che è eterna, immutabile, urgente, scritta da Dio stesso nel cuore degli uomini. E' perciò che io mi trovo tanto a disagio in loro compagnia. Ne ho semplicemente paura. Perché sono in realtà terribili, più terribili dei briganti. Il brigante può provare compassione, ma costoro no. Sono refrattari alla pietà, come queste pietre alla vegetazione. Proprio per questo sono terribili. Si dicono terribili i Pugaciòv, i Razin (1) - ma questi lo sono mille volte di più...", continuava a pensare.
"Immaginiamoci di porre il problema psicologico: come fare affinché uomini di sentimenti cristiani, in una parola buoni, possano oggi commettere le più grandi malvagità, senza sentirsi colpevoli? La soluzione è una sola: lasciare le cose esattamente come sono... Fare di questi uomini tanti governatori, direttori, ufficiali, poliziotti: cioè, anzitutto, convincerli che esiste un'attività chiamata servizio governativo, in cui è lecito trattare gli uomini come cose, senza alcun sentimento di fratellanza umana. In secondo luogo, creare in questi funzionari governativi un tale legame di omertà, che su nessuno di essi separatamente possa ricadere la responsabilità per le conseguenze dei loro atti. Prescindendo da queste condizioni, nessuno, ai nostri giorni, può compiere azioni tanto malvage come quelle di oggi. Tutto sta nel fatto che gli uomini ammettono l'esistenza di circostanze in cui è lecito trattare il prossimo senza amore, mentre queste circostanze non esistono. Verso le cose si può agire senza amore: senza amore si possono abbattere gli alberi, cuocere i mattoni, si può forgiare il ferro; ma tra uomo e uomo l'amore è così indispensabile, com'è indispensabile la prudenza nel trattare le api, perché questa è la caratteristica delle api. Se le tratterai senza prudenza, nuocerai a te e a loro. Altrettanto è con gli uomini. E ciò è giusto, poiché l'amore reciproco fra gli uomini è la legge fondamentale dell'esistenza. E' vero che l'uomo non può costringere se stesso ad amare il prossimo, come invece può costringersi a lavorare.
Ma non ne consegue che sia lecito trattare gli uomini senza amore, soprattutto se si esige da loro qualcosa. Se non ami il tuo prossimo, stattene tranquillo", pensava Necliudov, parlando a se stesso, "occupati di te, delle cose che ti piacciono, ma non dei tuoi simili.
Come si può mangiare senza danno e con profitto soltanto quando si ha appetito, così si può trattare con gli uomini senza danno e con profitto soltanto amandoli. Permettiti di trattarli senz'amore, come hai fatto ieri con tuo cognato, e la durezza e la brutalità umane non avranno più limiti, come hai visto oggi; e non avranno più limite le tue sofferenze personali, come hai imparato da tutta la tua vita. Sì, sì, è così!", pensava. "E' giusto! giusto!", si ripeteva, provando un godimento doppio, per il refrigerio dopo la calura opprimente e per la consapevolezza di essersi chiarito le idee sull'argomento che da tanto tempo gli stava a cuore.
NOTE:
La vettura dove era il posto di Necliudov era occupata soltanto a metà. C'erano domestici, artigiani, operai, macellai, ebrei, commessi, donne, mogli di operai; c'erano un soldato e due signore - una giovane, l'altra anziana, coi braccialetti sul braccio nudo - un signore dall'aria seria, con una coccarda sul berretto nero.
Tutte queste persone, dopo essersi tanto agitate per trovare un posto, sedevano quiete, chi sgranocchiando semi, chi fumando una sigaretta, chi parlando animatamente coi vicini.
Seduto con un'aria raggiante a destra del passaggio, Taràs curava il posto di Necliudov e discorreva animatamente con un uomo robusto che gli sedeva di fronte, in giubbetto di panno sbottonato. Un giardiniere che si recava sul posto del suo lavoro, come poi seppe Necliudov. Senza arrivare fino a Taràs, Necliudov si fermò nel passaggio, accanto a un vecchio con la barba bianca, dall'aspetto venerabile, in giubbetto di nanchino, che stava discorrendo con una giovane vestita alla campagnola. Accanto alla donna, coi piedi che non toccavano terra, sedeva una bambina di sette anni col "sarafan" (1) nuovo e una treccina di capelli quasi bianchi, intenta a sgranocchiare un seme dopo l'altro.
Con un'occhiata a Necliudov, il vecchio raccolse dalla panca lustra che occupava da solo le falde del suo giubbetto e disse gentilmente: - Sedetevi, prego!
Necliudov lo ringraziò e gli sedette accanto. Appena si fu accomodato, la donna riprese il racconto interrotto. Stava raccontando come l'aveva accolta il marito, che era andata a trovare in città, donde ora ritornava.
- Ci ero andata per carnevale, e adesso grazie a Dio, gli ho fatta quest'altra visitina, - diceva. - Se Dio vorrà, ci ritornerò a Natale...
- E' una bella cosa, - disse il vecchio guardando Necliudov, - fai bene ad andarlo a trovare, se no un uomo giovane si guasta, vivendo in città.
- Eh no nonnino, il mio uomo non è così. Non ne sa niente di sciocchezze, è come una ragazza. Manda a casa tutto il denaro fino all'ultimo centesimo. E com'era contento della bambina, tanto contento che non si può dire, - rispose la donna sorridendo.
La bambina, che sputava le bucce dei semi e ascoltava, guardò coi suoi occhi calmi e intelligenti il vecchio e Necliudov, quasi per confermare le parole della madre.
- Tanto meglio se è giudizioso, - disse il vecchio. - E quello gli piace? - soggiunse, accennando con gli occhi a una coppietta, marito e moglie, evidentemente operai che sedevano dall'altra parte del passaggio. Il marito con la testa rovesciata all'indietro e la bottiglia alla bocca, tracannava la vodca; mentre la moglie, reggendo in mano il sacco da cui la bottiglia era stata tolta, lo stava a guardare incantata.
- No, il mio non beve e non fuma, - disse l'interlocutrice del vecchio, cogliendo a volo l'occasione per lodare ancora una volta suo marito. - Di uomini come lui, la terra ne produce ben pochi...
Ecco com'è, - disse rivolgendosi a Necliudov.
- Tanto meglio, - ribatté il vecchio, osservando l'operaio che beveva.
Costui, dopo aver bevuto, passò la bottiglia alla moglie che la prese, e ridendo e dondolando la testa, a sua volta se la portò alla bocca. Sentendosi guardato da Necliudov e dal vecchio, l'operaio si rivolse loro:
- Che c'è, signore? Guardate perché beviamo? Nessuno vede quando lavoriamo, ma se si beve, ci vedono tutti. Me li sono guadagnati, e ora bevo e faccio onore a mia moglie. Nient'altro.
- Già, già, - disse Necliudov, non sapendo che rispondere.
- Vero, signore? Mia moglie è una donna energica. Sono contento di lei perché mi può compatire. Dico bene, Mavra?
- To', prendi sù. Io ne ho abbastanza, - disse la donna, passandogli la bottiglia. - Ma che stupidaggini dici, - soggiunse.
- Ecco com'è, - riprese l'operaio, - un po' è buona, un po' si mette a stridere come un carro arrugginito. Mavra, dico bene?
Mavra ridendo, fece con la mano un gesto da ubriaca.
- Eh! adesso che ci si mette...
- Proprio così. E' buona fino a un certo punto. Se però le mettono le redini sotto la coda, fa delle cose che uno neppure se le immagina. Dico sul serio. Voi, signore, mi dovete scusare. Ho bevuto, be' che farci? - disse l'operaio e si accomodò per dormire, appoggiando la testa sulle ginocchia della moglie sorridente.
Necliudov si trattenne un po' vicino al vecchio che gli raccontò di sé. Faceva lo stufaio, lavorava da cinquantatré anni e in vita sua aveva fatto tante stufe che non sapeva neanche più quante.
Adesso pensava di riposarsi, ma non ne aveva il tempo. Era stato in città a trovar posto ai figli e ora tornava al paese per salutare i familiari.
Finito di ascoltare il racconto del vecchio, Necliudov si alzò per andare al posto che Taràs gli aveva tenuto.
- Sedetevi, signore. Possiamo mettere il sacco da questa parte, - disse gentilmente il giardiniere, seduto dirimpetto a Taràs, sollevando lo sguardo su Necliudov.
- Stretti ma in buon armonia, - disse con voce cadenzata il sorridente Taràs e con le sue braccia robuste sollevò come una piuma il sacco d'una trentina di chili e lo trasportò vicino alla porta. - C'è posto per tutti, e poi si può anche stare in piedi, e sotto la panca. Pur di stare in pace. Perché litigare? - disse, raggiante di bonarietà e di gentilezza.
Taràs diceva di sé che quando non beveva gli mancavano le parole, mentre il vino gli rendeva la parola facile e poteva dir tutto. E in realtà, quand'era sobrio, Taràs per lo più taceva. Quando invece aveva bevuto, il che succedeva di rado e solo in circostanze eccezionali, diventava di una loquacità assai piacevole. Allora parlava molto bene, con grande semplicità, con sincerità e, soprattutto, con una gentilezza che gli traspariva dagli occhi azzurri buoni e dal sorriso affabile, costantemente sulle labbra.
In tale stato si trovava allora. La presenza di Necliudov arrestò per un momento la sua parlantina. Ma, sistemato il sacco, riprese il suo posto e, appoggiate sulle ginocchia le forti mani da lavoratore, continuò il suo racconto, guardando il giardiniere dritto negli occhi.
Stava raccontando al nuovo conoscente con ampiezza di particolari la storia di sua moglie; perché l'avevano deportata e perché ora la seguiva in Siberia.
Necliudov non aveva mai sentito i particolari di quella storia, ed ascoltava perciò con interesse. Sorprese la narrazione al punto in cui l'avvelenamento era già avvenuto, e in famiglia ormai sapevano che era stata Fedossia.
- Sto parlando dei miei guai, - disse Tàras con amichevole cordialità a Necliudov. - E' un uomo assai di cuore... abbiamo attaccato discorso e adesso tocca a me.
- Bene, bene! - disse Necliudov.
- Ecco dunque, fratello mio, in che modo si è saputa la cosa. La mamma prese quella frittella e: "Vado", dice, "dal maresciallo".
Mio padre è un vecchio giusto. "Aspetta", dice, "vecchia, è ancora una bambina, non sapeva quel che faceva, bisogna compatirla. Può darsi che torni in sé". Macché, non voleva sentir ragioni. "Finché la terremo in casa", dice, "ci ammazzerà tutti come scarafaggi".
Se ne andò, fratello, dal maresciallo. E quello, via di corsa da noi... Subito i testimoni.
- Be', e tu? - domandò il giardiniere.
- Io, fratello, mi rotolavo per il mal di ventre e vomitavo.
Sentivo rivoltarmi i visceri e non potevo parlare. Il babbo attaccò subito il carro, vi fece sedere Fedossia, e poi via al commissariato e dal giudice istruttore. E lei, fratello, come fin dal principio aveva confessato tutto, così anche dal giudice istruttore spiattellò ogni cosa. E dove aveva preso l'arsenico e come aveva impastato le frittelle. "Perché", dice, "l'hai fatto?".
- "Perché", dice, "non lo posso più soffrire. Preferisco andare in Siberia che vivere con lui". Con me, cioè, - sottolineò Taràs sorridendo. - Confessò dunque ogni cosa. Il fatto era evidente; in fortezza subito. Il babbo ritornò da solo. Veniva la stagione dei lavori e l'unica donna in casa era mia madre, e per di più poco in gamba. Si pensava come fare, forse si poteva pagare una garanzia.
Il babbo andò da un funzionario: niente. Andò da un altro. Ne visitò cinque. Stava già per rinunciare, quando gli capitò un tale, un impiegato della cancelleria. Un furbone, come se ne trovan pochi. 'Dammi un biglietto da cinque e te la faccio uscire'. Si accordarono su tre. Be', fratello, ho impegnato le sue lenzuola, e glieli diedi. Appena ebbe scritta la carta. - disse Taràs allungando le parole, come se parlasse di uno sparo, - tutto fu fatto in un baleno. Intanto anch'io m'ero rimesso, e andai in città a prenderla.
- Arrivai dunque in città. Lasciai la giumenta all'albergo, presi la carta ed eccomi in prigione. "Che vuoi?" "Così e così", dico, "la mia donna è rinchiusa qui da voi" "E la carta", dice, "ce l'hai?". Subito gliela diedi. Lui guardò. "Aspetta", dice. Sedetti su una panchina. Il sole aveva già passato il mezzogiorno. Viene un capo. "Tu", dice, "sei Bargusciòv?". "Io in persona". "Be', prendila", dice. Aprirono subito la porta. La fecero venire vestita con la sua roba, come si deve. "Ebbene, andiamo". "Ma tu sei venuto a piedi?". "No, col cavallo". Andammo all'albergo; pagai per lo stallaggio, attaccai la cavalla, e misi nel sacco l'avena che era rimasta. Lei sedette, s'imbacuccò nello scialletto. Partimmo. Lei tace e io taccio. In vicinanza della casa lei dice: "E la mamma come sta, bene?". Io dico: "Bene". "E il babbo sta bene?"'. "Bene". "Perdonami, Taràs", dice, "per la mia sciocchezza. Non sapevo neppure io quel che facevo". E io dico: "Son chiacchiere inutili. Ti ho perdonato da un pezzo". E altro non ho detto. Arrivati a casa, lei si buttò in ginocchio davanti alla mamma. La mamma dice: "Dio ti perdoni". Il babbo la saluta e dice: "Lasciamo il passato. Cerca di far del tuo meglio!
Oggi", dice, "non è più quel tempo come allora, tutto è cambiato, bisogna sbrigarsi con la campagna. Oltre Skoròdnoie, con una "osmina" (2) di concime, la segala, grazie a Dio, è cresciuta così bene, che nemmeno il forcone fa presa. Si è tutta intrecciata e si piega. "E' ora di mieterla. Vacci tu domani con Taràs". E da quel momento come s'è messa a lavorare, fratello! Lavorava tanto che era una meraviglia. Avevamo allora tre dessiatine in affitto e, grazie a Dio, sia la segala sia l'avena sono cresciute in tale abbondanza che è una rarità. Io falcio, lei lega i covoni, oppure si mieteva tutti e due. Io sono bravo nel lavoro, la roba non mi scappa dalle mani, ma lei era ancor più brava, qualunque lavoro facesse. Una donna in gamba, svelta, giovane. E del lavoro, fratello, era diventata così gelosa, che la dovevo sgridare perché la smettesse. Torniamo a casa con le dita gonfie, le mani fanno male, bisognerebbe riposare, ma lei ancor prima di mangiare corre nel granaio a preparare i giunchi per il mattino seguente. Che donna era diventata!
- E con te s'era fatta più gentile? - domandò il giardiniere.
- Non parliamone, mi si era talmente attaccata che facevamo come un'anima sola. Quel che mi passa per la testa, lei lo capisce subito. Persino la mamma che prima era così arrabbiata, diceva:
"La nostra Fedossia l'han cambiata, è diventata un'altra!".
"Un giorno s'andò noi due a prendere i covoni, tutti e due davanti sul carro. Io le dico: "come mai Fedossia t'è venuta in mente quella roba?". "Come m'è venuta?", dice, "non volevo vivere con te. 'Preferisco morire' pensavo 'che vivere con lui'. "E adesso?", dico. "Adesso", dice, "tu sei nel mio cuore".
Taràs s'interruppe sorridendo con beatitudine, scosse la testa meravigliato. - Terminato il lavoro nei campi, portai la canapa al macero. Arrivo a casa, - egli tacque un momento, - leggo la notifica: il processo... E noi che c'eravamo scordati persino la ragione del processo!
- Non può essere che il maligno, - disse il giardiniere, - forse che a un uomo verrebbe in mente di rovinare un'anima? Una volta anche da noi un uomo... - Il giardiniere voleva già raccontare qualcosa, ma il treno stava per fermarsi. - Una fermata, - disse, - andiamo a bere.
Il discorso s'interruppe, Necliudov dietro al giardiniere scese dal vagone sulle assi bagnate della banchina.
NOTE:
Necliudov, prima ancora di discendere dalla vettura, notò sul piazzale della stazione parecchi equipaggi di lusso; tiri a quattro e a tre cavalli ben pasciuti e tintinnanti di sonagli.
Sceso sulla banchina fradicia, resa nera dalla pioggia, vide, davanti a una vettura di prima, un gruppo di persone. In mezzo a tutti spiccava la figura di una signora alta e grossa, con l'impermeabile e un cappello guarnito di ricche piume, e quella di un giovanotto allampanato dalle gambe magrissime, in abito da ciclista, con un enorme cane ben nutrito che portava un collare di lusso.
Dietro a loro aspettavano alcuni domestici, carichi di mantelli e di ombrellini, e il cocchiere, venuti a ricevere i padroni. Su tutto il gruppo, dalla signora grassa al cocchiere che si reggeva con la mano le falde del lungo "caftano", vi era l'impronta dell'abbondanza e di una imperturbabile serenità. Intorno al gruppo si formò subito un circolo di persone curiose e servili: il capostazione col berretto rosso, un gendarme, una ragazza magrolina in costume nazionale, con una collana di perle false, che d'estate era sempre presente all'arrivo dei treni; poi il telegrafista e alcuni passeggeri d'ambo i sessi. Nel giovanotto col cane, Necliudov riconobbe il ragazzo Korciaghin. La signora grassa era la sorella della principessa, nella tenuta della quale stavano trasferendosi i Korciaghin. Il conduttore con gli stivaloni e i galloni luccicanti aprì lo sportello della vettura e lo tenne rispettosamente aperto, mentre Filìp e un facchino col grembiule bianco facevano scendere cautamente dal treno la poltrona portatile con la principessa dalla faccia lunga.
Le due sorelle si abbracciarono, furono scambiate frasi in francese sull'opportunità di trasportare la principessa in carrozza oppure in calesse, e il corteo, chiuso dalla cameriera coi riccioli, gli ombrellini e la scatola, si avviò all'uscita.
Necliudov, che desiderava evitare l'incontro e nuovi convenevoli, si fermò prima di arrivare alla porta, aspettando che tutto il corteo fosse passato.
La principessa col figlio, Missy, il medico e la cameriera andarono avanti; il vecchio principe, invece, rimase indietro con la cognata. Necliudov senza avvicinarsi, udì qualche frammento della loro conversazione in francese. Fra le frasi pronunziate dal principe, una specialmente lo colpì, e come spesso succede, gli rimase chissà mai perché impressa nella mente, con le stesse inflessioni di voce con cui era stata pronunziata.
- Oh! "il est du vrai grand monde, du vrai grand monde" (1) diceva di qualcuno il principe, con voce sonora, sicura, e lui e la cognata, seguiti da uno stuolo di impiegati ossequienti e di facchini, uscirono dalla stazione.
In quello stesso momento, da un angolo della stazione comparve sulla banchina un gruppo di operai in "lapti", coi pellicciotti di montone e i sacchi sulle spalle. A passi soffici e fermi si appressarono alla vettura più vicina e fecero per entrarvi, ma subito furono ricacciati dal conduttore. Senza fermarsi tirarono dritto, affrettando il passo e inciampando l'uno nei piedi dell'altro, verso il vagone successivo. Cominciavano a salirvi urtando coi sacchi negli angoli e negli sportelli del vagone quando dalla porta della stazione un altro conduttore si accorse del loro tentativo, e li redarguì aspramente. Quelli che erano saliti si affrettarono a discendere, e con gli stessi passi soffici e fermi procedettero oltre, verso il terzo vagone, dove era Necliudov. Di nuovo il conduttore li trattenne. Avrebbero ubbidito, disposti a proseguire ancora, ma Necliudov disse loro che c'era posto e che entrassero pure. Essi lo ascoltarono, e Necliudov li seguì. Stavano per mettersi a sedere, quando il signore dalla coccarda e le due signore, vedendo nel loro tentativo di sistemarsi in quella vettura un'offesa personale, vi si opposero recisamente e fecero per scacciarli.
Gli operai - una ventina - vecchi o giovanissimi, tutti con le facce abbronzate, stanche, incavate, senza protestare si rimisero in moto, inciampando coi sacchi contro le panche, le pareti e le porte. Si capiva che si sentivano pienamente colpevoli e che eran pronti ad andare fin in capo al mondo e a sedere dove lo avessero permesso, magari sui chiodi.
- Dove volete cacciarvi, diavoli! Fermatevi qui! gridò un altro conduttore che veniva loro incontro.
- "Voila encore des nouvelles!" (2) - esclamò la più giovane delle due signore, perfettamente convinta di attirare, col suo bellissimo francese, l'attenzione di Necliudov.
La signora dai braccialetti, invece, non faceva altro che annusare l'aria e arricciare il naso e fare commenti sul piacere di viaggiare in compagnia di contadinacci puzzolenti.
Frattanto gli operai, col sollievo e la gioia di chi ha scansato un grande rischio, si erano fermati e cominciavano a sistemarsi, scrollandosi dalle spalle i sacchi pesanti e ficcandoli sotto i sedili.
Il giardiniere, che per parlare con Taràs aveva cambiato di posto, riprese il suo, cosicché di fianco e dirimpetto a Taràs vi erano tre posti liberi. Tre operai vi si sedettero. Ma quando Necliudov si fu avvicinato, notando il suo abito signorile si confusero a tal punto che si alzarono per uscire. Necliudov tuttavia li pregò di fermarsi; lui sedette sul bracciolo di una panca, dalla parte del passaggio.
Uno dei due operai seduti vicini, un uomo di una cinquantina d'anni, scambiò con l'altro un'occhiata diffidente e persino spaventata.
Il fatto che Necliudov, invece di insolentirli e di buttarli fuori come c'era da aspettarsi da un signore, avesse ceduto il suo posto, li stupiva enormemente e li metteva in imbarazzo. Temevano persino che per questo fatto potesse capitar loro qualcosa di male. Ma quando si accorsero che non vi era sotto alcun tranello e che Necliudov chiacchierava alla buona con Taràs, si tranquillizzarono. Dissero al più giovane di sedersi su un sacco, e pretesero che Necliudov riprendesse il suo posto.
Dapprincipio il più anziano di loro, seduto dirimpetto a Necliudov, si rattrappiva tutto, sforzandosi di tener in dentro i suoi piedi calzati di "lapti", per non toccare il signore, ma poi cominciò a chiacchierare con Necliudov e Tàras in modo così amichevole, che nei punti del discorso su cui voleva richiamare l'attenzione particolare di Necliudov, gli batteva persino la mano sul ginocchio, a palme in sù.
Narrava le sue peripezie e il suo lavoro nelle paludi di torba. Vi erano stati per due mesi e mezzo e ora ritornavano a casa con un gruzzolo di dieci rubli a testa, poiché parte del salario era già stata anticipata per l'affitto.
Un lavoro, diceva, che li costringeva a star nell'acqua fino al ginocchio dall'alba al tramonto, con un intervallo di due ore per il pasto.
- Per chi non c'è abituato è dura, si sa... - diceva, - ma se uno ci regge, non è poi così male. Basterebbe che il mangiare fosse genuino. In principio era cattivo. Già: ma poi gli operai protestarono, si mangiò bene e lavorare era più facile.
Raccontò anche che da ventott'anni non aveva fatto altro che lavorare per vivere. Tutto il suo guadagno lo aveva dato in casa, prima al padre, poi al fratello maggiore, e ora al nipote che era rimasto a capo della famiglia. In quanto a lui, dei cinquanta- sessanta rubli che guadagnava ne spendeva due-tre per i minuti piaceri, il tabacco e i fiammiferi.
- Sei un peccatore quando col resto di quei soldi ti bevi un tantino di vodca... - soggiunse, sorridendo con aria colpevole.
Raccontò ancora come in loro assenza le donne badassero alla casa e come l'appaltatore dei lavori avesse offerto a tutti, prima della partenza, un mezzo secchio di acquavite; come uno di loro fosse morto, e l'altro tornasse a casa malato. Il malato di cui parlava sedeva proprio in quella vettura, in un angolo. Era un ragazzo giovane, di un pallore grigio, con le labbra bluastre, consunto, evidentemente, dalla febbre malarica. Necliudov gli si avvicinò, ma il ragazzo alzò su di lui uno sguardo così serio e sofferente che Necliudov non volle disturbarlo con domande.
All'uomo anziano consigliò di comprare un tubetto di chinino, e gli scrisse su un foglietto il nome della prescrizione. Voleva dare il denaro, ma il vecchio operaio disse che non occorreva:
l'avrebbe dato lui.
- Be', per quanto abbia girato, un signore così non l'ho mai visto. Non solo non ci salta in testa, ma ci ha persino ceduto il posto. Si vede che ci sono signori e signori, - concluse rivolto a Taràs.
"Sì, un mondo tutto diverso, un mondo nuovo", pensava Necliudov, guardando quei corpi asciutti, muscolosi, i rozzi abiti casalinghi e i visi abbronzati, gentili e stanchi. Sentiva che tutt'intorno a lui stavano uomini nuovi, coi loro interessi seri, con le gioie e i dolori di una vita veramente operosa e umana.
"Ecco qua le vrai grand monde", pensava Necliudov, ricordando la frase del vecchio principe Korciaghin e tutta quella società sfaccendata e fastosa dei Korciaghin coi loro problemi vacui e meschini.
Provò il senso di gioia del viaggiatore cui si apre un mondo nuovo, sconosciuto e meraviglioso.
NOTE: