Lev Tolstoj
RESURREZIONE
(Parte Terza)
PARTE TERZA
Il convoglio di cui faceva parte la Màslova, aveva percorso circa cinquemila verste. Fino a Perm essa aveva viaggiato in ferrovia e sul vapore coi comuni. Solo in questa città Necliudov riuscì a ottenere che fosse messa coi politici. Così gli aveva consigliato la Bogoducòvskaia, che andava con lo stesso scaglione.
Il viaggio fino a Perm era stato molto pesante per la Màslova, sia fisicamente che moralmente. Fisicamente, per la calca, la sporcizia e gli insetti ripugnanti, che non le davano tregua.
Moralmente per gli uomini altrettanto ripugnanti che, proprio come gli insetti, sebbene ad ogni tappa si cambiassero, erano ovunque monotonamente importuni, attaccaticci, e non la lasciavano in pace.
Fra detenute e detenuti, sorveglianti e soldati di scorta si erano stabiliti rapporti così depravati e cinici, che ogni donna, specialmente se giovane, doveva star continuamente all'erta. E questo stato continuo di paura e di lotta era assai pesante. La Màslova poi era particolarmente esposta agli attacchi per il suo aspetto attraente e per il suo passato, noto a tutti. La resistenza ostinata che essa adesso opponeva agli uomini, sembrava loro offensiva e li faceva diventare persino malevoli nei suoi riguardi. Le era di sollievo, in questo senso, la vicinanza di Fedossia e di Taràs che, venuto a sapere a quali persecuzioni era esposta sua moglie, aveva preferito farsi arrestare per poterla difendere. Da Nizni viaggiava come detenuto, insieme coi reclusi.
Il trasferimento nel reparto dei politici aveva migliorato le condizioni della Màslova sotto tutti i rapporti. Prescindendo dal fatto che i politici erano meglio alloggiati, nutriti meglio e meno esposti alle volgarità, quel trasferimento l'avvantaggiò soprattutto in quanto gli uomini cessarono di molestarla. Poteva vivere senza che ad ogni minuto le ricordassero quel suo passato che voleva tanto dimenticare. Ma il principale vantaggio fu quello di conoscere alcune persone che ebbero su di lei un influsso decisivo e assai benefico.
La Màslova aveva il permesso di stare coi politici durante le tappe; ma durante le marce, nella sua qualità di donna sana, doveva andare coi comuni. Così, da Tomsk, aveva sempre camminato.
Andavano a piedi con lei anche due politici: Mària Pàvlovna Scetìnina, quella bella ragazza dagli occhi sporgenti che aveva fatto colpo su Necliudov il giorno del suo colloquio con la Bogoducòvskaia, e un certo Sìmonson, esiliato nella regione di Irkutsk, l'uomo arruffato, nero, dalla fronte sporgente sopra gli occhi profondamente incassati, che Necliudov aveva notato in quella stessa occasione. Mària Pàvlovna andava a piedi perché aveva ceduto il suo posto nel carro a una comune incinta; e Sìmonson perché riteneva ingiusto approfittare di un privilegio di classe. Questi tre si mettevano in cammino di buon'ora coi condannati comuni, diversamente dai politici che partivano più tardi sui carri. Così era stato anche all'ultima tappa prima di giungere a una grande città, dove un nuovo ufficiale di scorta aveva preso il comando della spedizione.
Era un piovoso mattino di settembre. Un po' nevicava, un po' pioveva, e tirava un vento gelido. Tutti i detenuti del convoglio - quattrocento uomini e una cinquantina di donne - erano già nel cortile del luogo di sosta. Alcuni si accalcavano intorno al sottufficiale della scorta, che distribuiva ai capigruppo il denaro per il vitto di due giorni. Sopra il vociare dei detenuti che contavano i soldi e compravano i viveri, si sentiva la parlata stridula delle venditrici.
Katiuscia e Mària Pàvlovna, tutte e due con gli stivali, il pellicciotto e lo scialle in testa, uscirono nel cortile e si avvicinarono alle venditrici, che per ripararsi dal vento s'erano sedute contro il lato settentrionale delle tende e, l'una dopo l'altra, offrivano la loro mercanzia: pane nero fresco, focacce, pesce, pasta, polenta, fegato, carne, uova, latte. Una aveva persino un maialino arrosto.
Sìmonson, in giacca di guttaperca e calosce di gomma, fermate sopra le calze di lana da semplici legacci - era un vegetariano e non voleva usare le pelli di animali uccisi - era anche egli nel cortile, in attesa che il convoglio partisse. Stava sull'ingresso e annotava sopra un'agenda un pensiero che gli era venuto in mente.
Il pensiero era questo: "Se un batterio potesse osservare e analizzare l'unghia di un uomo, la riterrebbe sostanza inorganica.
Allo stesso modo noi, esaminandone la corteccia, riteniamo che il globo terrestre sia fatto di sostanza inorganica. Ciò non è esatto".
Dopo aver comperato uova, un mazzo di ciambelle, pesce e pane fresco, la Màslova stava riponendo ogni cosa nel sacco, e Mària Pàvlovna finiva di pagare le venditrici, quando nel cortile tutti cominciarono ad agitarsi, poi si fece un silenzio improvviso e la gente formò le file. Uscì l'ufficiale e diede le ultime disposizioni prima della partenza. Secondo il solito si contarono i prigionieri, si verificarono le catene, si misero le manette a quelli che dovevano camminare a coppie. Ma ad un tratto risuonò un comando rabbioso dell'ufficiale, seguito da un rumore di schiaffi e da un pianto infantile. Per un attimo vi fu un profondo silenzio. Poi un mormorio sordo serpeggiò per tutta la folla.
La Màslova e Mària Pàvlovna si accostarono al luogo donde proveniva il rumore.
Giunte sul posto, Mària Pàvlovna e Katiuscia videro questa scena:
l'ufficiale, un omaccione dai grandi baffi biondi, con la mano sinistra si fregava furibondo la palma della destra, con cui aveva schiaffeggiato a sangue un detenuto. Dalla sua bocca usciva un fiotto continuo di improperi volgari e indecenti.
Davanti a lui, asciugandosi con una mano il viso insanguinato e tenendo con l'altra una bambina avviluppata in uno scialle, che lanciava strilli acutissimi, stava un detenuto lungo e magro, dalla testa rasa a metà; indossava una casacca corta e un paio di calzoni ancora più corti.
- T'insegnerò io - (una bestemmia indecente) - a protestare - (un'altra bestemmia indecente); - andrà con le donne! - gridava l'ufficiale. - Ammanettatelo!
L'ufficiale esigeva che fossero messe le manette a un condannato al semplice esilio, che per tutta la strada aveva sempre portato in braccio la sua bambina, lasciatagli dalla moglie morta di tifo a Tomsk. La protesta del detenuto che diceva di non poter portare la piccola con le manette aveva irritato l'ufficiale già di cattivo umore; e poiché il prigioniero non s'era arreso subito l'aveva schiaffeggiato (1).
Di fronte al colpito stavano un soldato e un detenuto con la barba nera e la destra ammanettata, che guardava in tralice, cupamente, ora l'ufficiale, ora il detenuto con la bambina.
L'ufficiale ripeté al soldato l'ordine di prendere la bambina. Fra i detenuti lo schiamazzo si faceva sempre più forte.
- Fin da Tomsk è venuto senza manette! - s'udì una voce rauca dalle ultime file.
- Non è un cane, ma una bambina. Dove deve metterla la bambina?
Non è giustizia questa! - disse qualcun altro.
- Chi ha parlato? - scattò l'ufficiale come se fosse stato punto da una vespa, buttandosi sulla folla. - Te la darò io la giustizia! Chi è stato? Tu? Tu?
- Tutti hanno parlato. Perché... - disse un detenuto tarchiato, dalla faccia larga.
Non finì la frase. L'ufficiale, con tutte e due le mani, cominciò a colpirlo sul viso.
- Ah, vi ribellate? Ve lo insegnerò io a ribellarvi! Vi ammazzo come cani. E i superiori mi ringrazieranno soltanto. Prendi la bambina!
La folla ammutolì. La bimba, che strillava disperata fu strappata a forza da un soldato. Un altro infilò le manette al prigioniero che, rassegnato, porgeva la mano.
- Portala alle donne! - gridò al soldato l'ufficiale accomodandosi il cinturone della sciabola.
La bambina col viso paonazzo a furia di strillare, cercava di liberare le manine dallo scialle.
Dalla folla uscì Mària Pàvlovna, e si avvicinò all'ufficiale.
- Signor ufficiale, permettetemi di prendere la bambina...
Il soldato con la bambina si fermò.
- Tu chi sei? - domandò l'ufficiale.
- Una politica.
Il bel viso di Mària Pàvlovna coi suoi magnifici occhi sporgenti fece evidentemente effetto sull'ufficiale che l'aveva già notata alla consegna. Egli la guardò in silenzio, come rimuginando fra sé.
- Per me fa lo stesso, portatela, se volete. Capisco che vi faccia compassione, ma se scappa chi ne risponderà?
- Come potrebbe scappare con la bambina? - disse Mària Pàvlovna.
- Non ho tempo di discutere con voi. Prendetela, se volete.
- Devo dargliela? - domandò il soldato.
- Dagliela.
- Vieni con me... - disse Mària Pàvlovna, cercando di ingraziarsi la bambina.
Ma la piccola, che dalle braccia del soldato si protendeva verso il padre, continuava ad urlare e non voleva andare con Mària Pàvlovna.
- Aspettate, Mària Pàvlovna, con me ci verrà, - disse la Màslova, prendendo dal sacco una ciambella.
La bambina, vedendo la Màslova, che conosceva già, con una ciambella in mano, si avvicinò. La calma si ristabilì. Si spalancarono le porte. Il convoglio uscì dal cortile, e si dispose in ordine di marcia. I detenuti furono contati per la seconda volta. si legarono e si misero a posto i sacchi, i più deboli salirono sui carri.
La Màslova con la bambina in braccio, si unì alle donne mettendosi accanto a Fedossia.
Sìmonson, che aveva seguito attentamente la scena, a passi lunghi e risoluti si avvicinò all'ufficiale, che date le ultime disposizioni, stava per salire nella sua vettura.
- Avete agito male, signor ufficiale, - gli disse.
- Andatevene al vostro posto, non è un affare che vi riguardi.
- Ritengo mio dovere di dirvelo, e ve lo dico, che avete agito male, - replicò Sìmonson, fissando l'ufficiale da sotto le sopracciglia folte.
- Pronti? Compagnia avanti, - comandò l'ufficiale senza badare a Sìmonson, e appoggiandosi alla spalla del soldato-cocchiere salì sulla carrozza.
La spedizione si mise in moto e si snodò, allungandosi, sulla strada fangosa di terra battuta, fiancheggiata da due fossati che s'inoltrava in una fitta foresta.
NOTE:
Dopo la vita corrotta che aveva condotto gli ultimi sei anni in città fra lussi e mollezze, e dopo i due mesi di prigione coi comuni, la vita attuale coi politici, nonostante la sua durezza, sembrava a Katiuscia un paradiso. Le tappe di venti, trenta verste a piedi, il vitto buono, e un giorno di riposo dopo due di marcia, l'avevano fisicamente rinvigorita, mentre d'altra parte la nuova compagnia le aveva dischiuso orizzonti, di cui fino allora aveva ignorato l'esistenza.
Non solo non aveva mai conosciuto persone così straordinarie, diceva, come i suoi nuovi compagni di cammino, ma neppure si sarebbe immaginata che potessero esistere individui simili.
- E pensare che ho pianto quando mi hanno condannata! - diceva. - Invece dovrei ringraziare Iddio per l'eternità. Ho imparato cose che avrei ignorato per tutta la vita.
Senza fatica e senza sforzo aveva afferrato gli ideali che guidavano quelle persone, e come figlia del popolo se ne era entusiasmata. Comprese che lottavano per i poveri contro i ricchi; e poiché sapeva che essi stessi appartenevano alla classe dei signori, l'idea che per il popolo avevano rinunciato ai privilegi, alla libertà e alla vita, glieli faceva particolarmente stimare e ammirare.
Ammirava tutti i suoi camerati, ma più di tutti Mària Pàvlovna.
Non solo l'ammirava, ma provava per lei un affetto speciale, devoto ed entusiasta. Era rimasta colpita dal fatto che quella bella ragazza, che parlava tre lingue, figlia di un ricco generale, si comportasse come un'operaia qualunque, desse agli altri tutto ciò che le mandava il ricco fratello, e vestisse e calzasse modestamente, anzi poveramente, senza dar alcun peso alla propria bellezza. Era questo particolare - l'assoluta mancanza di civetteria - che più di tutto stupiva la Màslova e l'affascinava.
Mària Pàvlovna - Katiuscia lo vedeva bene - sapeva di esser bella, mentre non si rallegrava affatto, anzi aveva paura, dell'impressione che la sua bellezza produceva sugli uomini, poiché provava per l'amore un vero senso di terrore e di repulsione.
I suoi compagni lo sapevano, e pur subendone il fascino, non si permettevano di dimostrarglielo, e la trattavano come se fosse un uomo, un camerata. Ma gli estranei la importunavano spesso, ed essa raccontava che per liberarsi dalla loro insistenza, doveva ricorrere alla forza dei suoi muscoli di cui andava molto fiera.
- Un giorno, - raccontava ridendo, - un signore mi seguì per la strada e non voleva assolutamente lasciarmi in pace. Io, allora, gli detti uno spintone così forte che scappò atterrito.
Era diventata una rivoluzionaria, raccontava, perché fin dall'infanzia aveva detestato la vita signorile: le piaceva la vita della gente semplice. Dovevano sempre sgridarla perché stava nella camera della servitù, in cucina, nella scuderia, invece che in salotto.
- Ma io con le cuoche e i cocchieri mi divertivo, con i signori e le signore, invece, mi annoiavo, - diceva. - Poi quando ho cominciato a capire, mi son resa conto che il nostro modo di vivere è proprio detestabile. Mia madre era morta, a mio padre non volevo bene. A diciannove anni con una mia compagna lasciai la casa e mi impiegai come operaia in una fabbrica.
Dopo la fabbrica aveva vissuto qualche tempo in campagna, poi, ritornata in città, era stata arrestata in un appartamento dove era una tipografia clandestina e condannata ai lavori forzati.
Mària Pàvlovna non lo raccontava mai, ma Katiuscia aveva saputo da altri che era stata condannata ai lavori forzati per essersi addossata la colpa di una revolverata sparata al buio da un rivoluzionario, durante una perquisizione.
Da quando l'aveva conosciuta, Katiuscia non l'aveva mai vista preoccuparsi di sé; dovunque fosse e in qualsiasi condizione si trovasse, il suo pensiero costante era quello di rendersi utile, di aiutare il prossimo nelle cose grandi e nelle piccole. Uno dei suoi compagni del convoglio, Novodvorov, diceva di lei, ridendo, che s'era votata allo sport della carità. Ed era vero. Come lo scopo del cacciatore è quello di stanare la selvaggina, così l'unico scopo della sua vita consisteva nella ricerca di un'occasione per aiutare gli altri. Questo sport era diventato per lei un'abitudine, la ragione della sua vita. E lo faceva con tanta semplicità, che tutti quelli che la conoscevano la ritenevano una cosa naturale e ne approfittavano.
Quando la Màslova passò nel loro reparto, Mària Pàvlovna provò per lei avversione e disgusto. Katiuscia se n'era accorta, poi aveva notato che Mària Pàvlovna, facendo uno sforzo su se stessa, era divenuta con lei particolarmente gentile e buona. E la gentilezza e la bontà di quella creatura eccezionale l'avevan così profondamente commossa che si era data a lei con tutta l'anima sua. Inconsciamente ne assumeva le idee e senza volerlo l'imitava in tutto. Quest'adorazione devota di Katiuscia aveva intenerito Mària Pàvlovna, ed anch'essa le si affezionò.
Inoltre, un sentimento comune univa le due donne, la avversione che esse provavano per l'amore sessuale. Una l'odiava per averne conosciuti gli orrori, l'altra perché, non avendolo mai provato, lo considerava come qualcosa di incomprensibile e, insieme, di ripugnante: un affronto alla dignità umana.
L'influsso esercitato da Mària Pàvlovna sulla Màslova derivava dal fatto che Katiuscia le voleva bene. Ma un'altra persona esercitava una grande influenza su di lei: Sìmonson, e questo nasceva dal fatto che Sìmonson s'era innamorato di Katiuscia.
Tutti gli uomini vivono e agiscono in parte secondo le proprie idee e in parte secondo le idee degli altri.
E una delle principali differenze tra uomo e uomo consiste nella diversa misura con cui vivono pensando con la propria testa o con quella degli altri.
Gli uni, nella maggioranza dei casi, considerano le proprie idee come un gioco intellettuale; si servono della ragione come di un volante cui sia stata tolta la cinghia trasmittente, e nelle loro azioni si sottomettono alle idee altrui: alla consuetudine, alle tradizioni, alla legge. Gli altri, invece, considerano il proprio pensiero come il principale motore della loro condotta e quasi sempre danno ascolto e si sottomettono alle esigenze della ragione. Solo raramente, e sempre dopo un vaglio critico, seguono le decisioni altrui.
Sìmonson apparteneva a questa seconda categoria di uomini. Egli vagliava tutto, decideva secondo la sua ragione e, quando aveva preso una decisione, la metteva in pratica.
Così, quand'era ancora al ginnasio, essendo convinto che la ricchezza accumulata da suo padre, un ex intendente di finanza, era una ricchezza mal guadagnata, aveva dichiarato al padre che era suo dovere dividerla col popolo. E quando il padre invece di ascoltarlo lo aveva rimproverato aspramente, non aveva esitato ad abbandonare la casa paterna, rifiutandosi di vivere di quel danaro. Più tardi aveva deciso che l'ignoranza del popolo è la fonte di ogni male; perciò, terminata l'università, s'era unito ai populisti e si era fatto nominare maestro di un villaggio, dove faceva coraggiosamente propaganda tra gli scolari e i contadini, insegnando la verità di ciò che gli appariva giusto e la falsità di ciò che considerava una menzogna.
L'avevano arrestato e processato.
Durante il processo, aveva deciso che i giudici non avevano il diritto di giudicarlo, e lo aveva dichiarato. E poiché i giudici, che non erano d'accordo con lui, continuavano il processo, s'era rifiutato di rispondere alle loro domande, e non aveva più aperto bocca.
Esiliato nella provincia di Arcangelo, là egli si era elaborato una dottrina religiosa cui uniformava la sua condotta. Secondo questa dottrina tutto, al mondo, ha vita; la morte non esiste, e gli oggetti inorganici, che noi crediamo morti, sono soltanto parte di un immenso organismo che noi non possiamo abbracciare.
Perciò il compito dell'uomo, in quanto particella di questo organismo, consiste nel mantenere vivo l'organismo stesso e tutte le sue parti. Considerava perciò un delitto distruggere la vita:
era contrario alla guerra, alla pena capitale e ad ogni forma di uccisione, sia di uomini sia di animali.
Anche nei riguardi del matrimonio Sìmonson aveva una sua teoria.
Egli pensava che la riproduzione della specie è la più bassa funzione dell'uomo, mentre la più alta sta nell'aiutare l'essere già vivente. E trovava, nell'esistenza dei fagociti del sangue, la conferma di questa sua teoria: i celibi, secondo lui, erano quegli stessi fagociti, la cui missione consisteva nell'aiutare le parti deboli, malate dell'organismo. E da quando aveva formulato questa teoria, vi si era uniformato in tutto, benché da ragazzo avesse condotto una vita ben diversa. Considerava se stesso e Mària Pàvlovna, fagociti del mondo.
Il suo amore per Katiuscia non contraddiceva alla sua teoria, poiché egli l'amava platonicamente, e riteneva che questo amore non impedisce affatto agli uomini di esercitare un'attività fagocita a vantaggio dei deboli, ma anzi le dà maggior impulso.
Oltre al risolvere a modo suo i quesiti morali, decideva a modo suo anche la maggior parte dei problemi pratici. Aveva, per le cose d'indole pratica, le sue teorie, le sue norme: quante ore bisognava lavorare, quante riposare, come ci si deve nutrire, vestire, come accendere le stufe regolare l'illuminazione.
Con tutto ciò Sìmonson era estremamente timido e modesto. Ma quando prendeva una decisione, nulla poteva più arrestarlo.
Quest'uomo, dunque, ebbe un'influenza determinante sulla Màslova, per il fatto che s'innamorò di lei. Katiuscia, con intuito femminile, se ne accorse quasi subito. E l'idea di aver potuto ispirare amore ad un uomo così straordinario, la innalzava ai suoi propri occhi. Necliudov le aveva offerto il matrimonio per generosità d'animo e per riparare al passato, ma Sìmonson l'amava così com'era, l'amava semplicemente perché l'amava. E poi intuiva che Sìmonson la stimava una donna straordinaria diversa da tutte le altre, dotata di qualità morali particolarmente elevate. Non sapeva proprio bene quali fossero queste doti che egli le attribuiva, ma, comunque, per non deluderlo, cercava con tutte le sue forze di suscitare in sé le migliori virtù che poteva immaginare. E questo la costringeva ad uno sforzo continuo per migliorare se stessa.
La cosa era cominciata ancora in prigione. Un giorno di visita, in cui tutti i politici erano in parlatorio, s'era accorta degli occhi ingenui, buoni, azzurro cupi di lui, che la fissavano con una certa insistenza da sotto la fronte e le sopracciglia sporgenti. Aveva subito notato che era un uomo singolare, che la guardava in modo diverso dagli altri, e aveva notato il contrasto davvero strano in uno stesso viso, tra la severità dei capelli irti e delle sopracciglia aggrottate, e la bontà infantile e ingenua dello sguardo.
Più tardi l'aveva rivisto a Tomsk, quando era stata trasferita fra i politici. E benché fra loro non fosse passata neppure una parola, negli sguardi che si scambiarono era la mutua confessione del ricordo e della stima reciproca. Non fecero - mai, neppure in seguito, discorsi speciali, ma la Màslova sentiva che, quando Sìmonson parlava in sua presenza s'indirizzava a lei, e che parlava per lei, cercando di spiegarsi nel modo più comprensibile.
Ma la loro vera intimità datava da quando egli si era unito ai comuni, marciando con loro.
Da Nizni a Perm, Necliudov aveva potuto vedere Katiuscia soltanto due volte: una, a Nizni, prima che i prigionieri fossero caricati sopra una barca chiusa da una rete, l'altra a Perm, nell'ufficio della prigione. Tutte e due le volte l'aveva trovata riservata e fredda. Alle sue domande se stava bene e se non aveva bisogno di nulla aveva risposto evasivamente, imbarazzata, e con quel tono di rimprovero, che gli ricordava l'ostilità già dimostrata altre volte. E questo suo umor nero, dovuto unicamente alle persecuzioni maschili cui era soggetta in quel tempo, tormentava Necliudov.
Egli temeva che, sotto l'influenza dei disagi e dell'ambiente guasto in cui si trovava durante il viaggio, ricadesse nuovamente in quello stato di disaccordo interiore e di sfiducia nella vita, che l'inaspriva contro di lui e la faceva fumare e bere per dimenticare se stessa.
Ma egli non aveva potuto aiutarla in alcun modo, poiché, in quel primo tratto di viaggio gli avevano sempre negato il permesso di vederla. Soltanto dopo il trasferimento di Katiuscia fra i politici, Necliudov non solo si persuase dell'infondatezza dei suoi timori, ma anzi poté notare in lei, ad ogni nuovo colloquio, l'accentuarsi sempre più profondo di quel cambiamento interiore che desiderava tanto di vedere. Fin dal primo colloquio a Tomsk, la ritrovò, infatti, com'era prima della partenza. Vedendolo non si rabbuiò e non si confuse, ma gli andò incontro con gioia sincera, ringraziandolo di quanto aveva fatto e, specialmente, di averle procurato la compagnia delle persone con cui si trovava adesso.
Dopo due mesi di marce a tappe, il cambiamento avvenuto in lei si manifestava anche nel suo aspetto. Era dimagrita, abbronzata dal sole, come invecchiata; sulle tempie e negli angoli della bocca le si erano formate delle piccole rughe. Non teneva più i capelli sulla fronte, ma si copriva il capo col fazzoletto; e nella pettinatura, nel vestito, nel tratto, non c'era più traccia dell'antica civetteria. Questo cambiamento, lento ma radicale, procurava a Necliudov una gioia immensa. Provava per lei un sentimento nuovo, che non aveva nulla di comune né con la prima esaltazione poetica, né ancor meno con la passione sensuale di poi, e neppure con quel senso di soddisfazione per il dovere compiuto, fatto in parte di amor proprio, provato dopo il processo, quando aveva deciso di sposarla.
Era, questo, un sentimento di pietà e di tenerezza, lo stesso umile sentimento provato la prima volta che le aveva fatto visita in prigione, e poi, con nuova forza, dopo l'infermeria, quando, lottando contro il disgusto, le aveva perdonato il supposto intrigo con l'infermiere - l'inconsistenza della storia era poi venuta in chiaro; era lo stesso sentimento, con la sola differenza che prima era intermittente, adesso, invece, costante. A qualunque cosa ora pensasse, qualunque cosa facesse, egli provava sempre questo impulso di pietà e di tenerezza non soltanto verso di lei, ma verso l'umanità intera.
Sembrava che nel suo animo si fosse aperta una fonte inesauribile d'amore che prima non trovava sbocco, ed ora fluiva su tutti.
Fin dal principio del viaggio, Necliudov si sentiva in uno stato di esaltazione che lo rendeva involontariamente indulgente e premuroso col prossimo, a cominciare dai cocchieri e dai soldati di scorta, fino ai direttori delle carceri e ai governatori coi quali doveva trattare.
In seguito al trasferimento della Màslova tra i politici, Necliudov aveva avuto occasione di conoscerne molti, prima a Jekaterinbùrg, dove essi godevano di una grande libertà, e stavano tutti insieme in un ampio camerone, e poi lungo le tappe, entrando in relazione specialmente coi cinque uomini e le quattro donne del gruppo della Màslova. Questi rapporti di Necliudov con gli esiliati politici avevano trasformato il suo punto di vista.
Fin dall'inizio del movimento rivoluzionario in Russia, e soprattutto dopo il primo marzo (1), Necliudov provava per i rivoluzionari un sentimento di ostilità e di disprezzo. Detestava in loro la crudeltà e i mezzi subdoli usati nella lotta contro il governo, soprattutto la ferocia degli attentati commessi, e gli ripugnava quella caratteristica comune a tutti: la grande presunzione.
Ma quando li ebbe conosciuti meglio e seppe come erano trattati dal governo, comprese che non avrebbero potuto essere diversi.
Per quanto assurdi e crudeli fossero i maltrattamenti inflitti ai cosiddetti criminali, tuttavia, prima e dopo la condanna, si procedeva verso di loro con una parvenza di legalità. Ma nelle cause politiche non c'era nemmeno questa parvenza, come Necliudov aveva potuto constatare nella faccenda della Sciustova e, più tardi, ascoltando ciò che gli dicevano i suoi nuovi conoscenti.
Procedevano coi politici come si fa nella pesca con le reti, in cui si tira a riva tutto ciò che capita e poi si scelgono i pesci grossi che servono, senza curarsi di tutta la minutaglia che si dissecca sulla spiaggia. Così, acciuffavano centinaia di innocenti, evidentemente incapaci di nuocere al governo, e li tenevano, talvolta per anni, in prigione, dove si ammalavano di tisi, impazzivano o si suicidavano. Li trattenevano unicamente perché non c'era ragione di rilasciarli, o perché avendoli a portata di mano, avrebbero potuto servire a far luce su qualche punto oscuro delle inchieste.
La sorte di tutti questi individui, spesso innocenti persino dal punto di vista del governo, dipendeva dall'arbitrio, dal buon tempo, dall'umore del gendarme, dell'ufficiale di polizia, della spia, del procuratore, del giudice istruttore, del governatore, del ministro. Se il tale impiegato si annoia o vuol mettersi in mostra, fa la retata, e a seconda dell'umore suo o dei suoi superiori, trattiene la gente in carcere o la rilascia. Il funzionario capo, poi, anche egli conforme al suo bisogno di eccellere o ai suoi rapporti col ministro, deporta in capo al mondo, o chiude in segregazione cellulare, o condanna all'esilio, ai lavori forzati, alla morte. Oppure apre le porte, se di ciò lo prega qualche nobile dama.
Trattati come nemici in tempo di guerra, i rivoluzionari naturalmente si servivano degli stessi mezzi adoperati contro di loro.
E come i militari vivono nell'atmosfera dell'opinione pubblica, che non solo nasconde loro la criminalità degli atti che compiono, ma glieli fa apparire come gesta eroiche, così pure i politici si uniformavano all'opinione del loro ambiente; e i delitti crudeli commessi a rischio della libertà, della vita e di quanto l'uomo ha di più caro, non sembravano loro azioni malvage, ma vere prodezze.
Così Necliudov si spiegava quel fenomeno straordinario per cui persone di carattere mitissimo, incapaci non solo di causare dolore agli altri, ma persino di sopportarne la vista, si preparavano tranquillamente all'assassinio; e quasi tutti sostenevano che, in determinati casi l'assassinio, quale arma di difesa personale e quale mezzo per raggiungere la meta suprema, cioè il bene dell'umanità, era legittimo e giusto.
L'alto concetto poi che i rivoluzionari avevano della loro causa, e quindi di se stessi, derivava naturalmente dall'importanza che il governo attribuiva loro, e dalla crudeltà della pena cui erano sottoposti. Quest'alto concetto di sé, li aiutava naturalmente a sopportare quel che sopportavano. Conoscendoli più da vicino, Necliudov si convinse che non erano tutti malfattori, come si immaginavano alcuni, e neppure eroi come li ritenevano altri.
Erano invece uomini comuni, tra i quali, come dappertutto, se ne trovano di buoni, di cattivi, di mediocri. Fra loro alcuni erano divenuti rivoluzionari perché sinceramente credevano di doversi battere contro il male esistente; altri avevano scelto quella strada per motivi egoistici, ambiziosi; la maggioranza, poi, era attratta alla rivoluzione dal fascino - Necliudov stesso l'aveva provato in guerra - del pericolo, del rischio, della voluttà di mettere in gioco la vita: sentimenti comuni a tutti i giovani normali e un po' esuberanti.
La differenza, tutta a loro vantaggio, fra i rivoluzionari e gli uomini comuni, consisteva nella maggior elevatezza delle loro esigenze morali, rispetto a quelle accettate nell'ambiente delle persone comuni. Essi consideravano come uno stretto dovere non solo l'astinenza, l'austerità della vita, la franchezza, il disinteresse, ma anche la capacità di sacrificare tutto, persino la vita, per la causa. E perciò quei rivoluzionari che erano al di sopra della media comune, lo erano di molto, e rappresentavano il modello di una rara elevatezza morale. Quelli che erano al di sotto della media, valevano poco davvero, dimostrandosi spesso bugiardi, dissimulatori e, nello stesso tempo, presuntuosi e orgogliosi. Perciò Necliudov per alcuni dei suoi nuovi amici provava rispetto, ed anche una viva affezione; per altri, invece, indifferenza e antipatia.
NOTE:
Necliudov s'era affezionato soprattutto a Krilzòv, un giovane tisico condannato ai lavori forzati, che faceva il viaggio con la Màslova.
Necliudov l'aveva conosciuto a Jekaterinbùrg e, durante il percorso, aveva avuto più volte occasione di conversare con lui.
Un giorno di piena estate, durante una sosta, aveva trascorso in sua compagnia quasi un'intera giornata, e Krilzòv gli aveva raccontato la sua storia, e come era diventato rivoluzionario. La sua storia fino al momento dell'arresto era molto breve. Suo padre, un ricco possidente di una provincia meridionale, era morto quand'egli era ancora bambino. Era figlio unico, allevato dalla madre. Aveva studiato senza fatica tanto al ginnasio quanto all'università, riuscendo il primo della facoltà di matematica.
Gli avevano offerto di andare a perfezionarsi all'estero per conto dell'università. Ma egli era rimasto incerto: amava una ragazza.
Pensava al matrimonio, a un impiego nell'amministrazione provinciale. Avrebbe voluto tutto e non si decideva a nulla. In quel tempo alcuni compagni di università gli avevano chiesto una somma di danaro per la causa comune. Egli sapeva che si trattava della causa rivoluzionaria, di cui allora non si interessava affatto, ma per un senso di cameratismo e di amor proprio, non volendo essere accusato di viltà, li aveva accontentati. Poco dopo i compagni erano stati scoperti e, trovato un biglietto da cui risultava che i denari erano di Krilzòv, questi era stato arrestato e rinchiuso prima in questura, poi in prigione.
- Nella prigione dove mi mandarono, - raccontava Krilzòv seduto sopra un tavolaccio alto, col petto incavato e i gomiti appoggiati alle ginocchia. Di tanto in tanto guardava Necliudov con gli occhi brillanti di febbre, occhi bellissimi, intelligenti e buoni - in quella prigione non c'era una grande severità; non solo ci comunicavamo battendo sulle pareti, ma potevamo passeggiare nel corridoio, discorrere, dividere le provviste, il tabacco. Di sera facevamo persino i cori. Avevo una bella voce. Sì. Se non fosse stato per mia madre che si disperava, in prigione mi sarei trovato bene; anzi l'avrei considerata un'esperienza piacevole e interessante. Conobbi il famoso Petròv che poi si tagliò le vene con un vetro in fortezza, e altri. Ma io non ero un rivoluzionario. Conobbi anche due vicini di cella. Erano dentro per la stessa faccenda, una storia di proclami polacchi, e dovevano processarli perché avevano tentato di sfuggire alla scorta, mentre li conducevano alla stazione. Uno era il polacco Losinski, l'altro un ebreo di nome Rosovski. Sì. Questo Rosovski era ancora un ragazzo. Diceva di aver diciassette anni ma all'aspetto ne mostrava quindici. Magrolino, piccolo, vivace, con gli occhi neri splendenti e, come tutti gli ebrei, molto musicale.
"La sua voce non era ancora formata, ma cantava meravigliosamente.
Sì. C'ero io quando li condussero al processo. Li portarono via di mattina. Ritornarono alla sera e raccontarono che erano stati condannati a morte. Nessuno se l'aspettava. Era così di poco conto, il loro caso... Avevano soltanto tentato di sfuggire alla scorta e non avevano neppure ferito nessuno. E poi sembrava così poco naturale che si potesse giustiziare un bambino come Rosovski!
Noi della prigione stabilimmo che volevano solo spaventarlo, e che la condanna non sarebbe stata confermata. Dapprima ci si emozionò ma poi ritornò la calma, e la vita riprese il suo corso. Sì. Ma ecco che una sera si appressa alla mia porta il guardiano e mi comunica misteriosamente che sono venuti i falegnami a issare la forca. In principio non capivo: di che stava parlando? di che razza di forca? Ma il vecchio guardiano era così agitato che, guardandolo, compresi che era per i nostri due. Avrei voluto battere sulla parete, parlare coi compagni, ma temevo che ci potessero sentire. Anche i compagni tacevano. Evidentemente lo sapevano tutti. In corridoio e nelle celle per tutta la sera ci fu un silenzio mortale. Non ci facemmo segnali e nessuno cantò. Alle dieci venne di nuovo il guardiano e mi riferì che il boia doveva arrivare da Mosca. Lo disse e se ne andò. Cominciai a chiamarlo che ritornasse. Ad un tratto sento che Rosovski dalla sua cella mi grida attraverso il corridoio: 'Che volete? Perché lo chiamate?'.
Gli risposi, per dir qualcosa, che volevo farmi portare del tabacco, ma lui certamente sospettava, e mi chiese perché non cantavamo più e non ci scambiavamo i soliti segnali.
"Non ricordo che cosa gli dissi, e m'allontanai in fretta per non parlargli più. Fu una notte orribile. Sempre in ascolto del più piccolo rumore. Improvvisamente, verso mattina, sento che aprono le porte del corridoio e che qualcuno viene... molti. Mi misi allo spioncino. Nel corridoio ardeva una lampada. Davanti a tutti c'era il direttore, un omone, sicuro di sé, risoluto. Il suo viso non aveva colore, depresso, come sgomento. Dietro a lui il vice, cupo, con un aspetto deciso. Ultime, le guardie. Passarono accanto alla mia porta e si fermarono davanti alla cella vicina. Ascolto: il vice grida con una voce strana: "'osinski, alzatevi, mettetevi la biancheria pulita!. Sì. Sento che la porta cigola, che entrano nella sua cella. Poi i passi di Losinski: camminava dalla parte opposta del corridoio. Vedevo soltanto il direttore: era pallido, continuava a sfilare e a infilare nervosamente un bottone nell'asola, stringendosi nelle spalle. Sì. Improvvisamente, come spaventato di qualcosa, si fece da parte. Losinski gli era passato davanti e si avvicinava alla mia porta. Era un bel ragazzo, sapete, un bel tipo di polacco: la fronte larga, dritta, una testa di capelli biondi, sottili, ricciuti; gli occhi azzurri bellissimi. Un ragazzo così fiorente, pieno di vita, di salute...
Si fermò davanti al mio spioncino, sicché potei vederlo bene in viso. Un volto spaventoso, affilato, grigio. 'Krilzòv, avete delle sigarette?'.
Volevo dargliele, ma il vice, come temendo di far tardi, cavò di tasca il suo portasigarette e glielo porse. Prese una sigaretta; il vice gli accese un fiammifero. Si mise a fumare, quasi soprappensiero. Poi parve ricordarsi di qualcosa e cominciò a dire: 'E' crudele e ingiusto. Non ho commesso nessun misfatto.
Io...'. Sul suo collo bianco, giovane, da cui non potevo staccare gli occhi, qualcosa tremò ed egli s'interruppe. Sì. In quel momento sentii Rosovski che gridava qualcosa nel corridoio con la sua sottile voce di ebreo. Losinski gettò via il mozzicone e si scostò dalla porta. E nel finestrino apparve Rosovski. Il suo viso infantile dagli occhi neri umidi era rosso e sudato. Indossava anche egli biancheria pulita. I calzoni erano troppo larghi e se li tirava sù con tutte e due le mani. Tremava. Avvicinò al mio sportello quel viso da far pietà. 'Anatoli Petrovic' non è vero che il dottore mi ha prescritto il tè per la tosse? Non sto bene, ne berrò ancora...'. Nessuno gli rispose. Egli guardava interrogativamente ora me, ora il direttore. Che cosa voleva dire, con quello, non l'ho mai capito. Sì. Ad un tratto il vice prese un'aria severa e gridò di nuovo con voce stridula: 'Che scherzi sono? Andiamo!'. Rosovski, evidentemente, non era in grado di capire quello che l'aspettava. Si mosse come se avesse fretta, passò quasi di corsa nel corridoio. Ma poi si fermò; sentivo la sua voce acuta e il suo pianto. Ci fu confusione, uno scalpiccio di passi. Egli strillava con voce penetrante e piangeva. Poi avanti, avanti ancora... La porta del corridoio sbatté, e tutto ritornò nel silenzio. Sì. Così dunque li impiccarono. Li strangolarono con le corde tutti e due. Il custode, un altro, aveva assistito, e mi raccontò che Losinski non aveva opposto resistenza, mentre Rosovski si era dibattuto a lungo, cosicché dovettero trascinarlo sul patibolo e mettergli a forza la testa nel nodo scorsoio. Sì. Quel custode era un ragazzo un po' stupido.
'Mi hanno detto, signore, che è terribile. Ma non c'è niente di terribile. Come li hanno appesi, hanno fatto così due volte con le spalle', egli mostrò come le spalle si erano alzate e abbassate spasmodicamente, 'poi il boia ha dato uno strattone perché, si capisce, il nodo tirasse meglio, ed ecco fatto: non si sono mossi più. Non c'è niente di terribile' disse Krilzòv, ripetendo le parole del guardiano. Voleva sorridere, ma invece di sorridere si mise a singhiozzare.
Per un pezzo egli non parlò più. Respirava affannosamente, inghiottendo i singulti che gli stringevano la gola.
- Da quel momento sono diventato un rivoluzionario. Sì, - disse, quando si fu calmato, e in breve raccontò la sua storia.
Apparteneva al partito dei populisti, ed era stato a capo di un gruppo di disorganizzazione, che aveva il compito di terrorizzare il governo in modo da costringerlo a rinunciare al potere in favore del popolo. A quello scopo era stato ora a Pietroburgo, ora all'estero, ora a Kiev, ora a Odessa, ovunque con successo. Un uomo di cui si fidava ciecamente l'aveva tradito. Fu arrestato, processato, trattenuto due anni in prigione e condannato alla pena capitale, commutata poi nell'ergastolo. In prigione s'era ammalato di tisi e ora, nelle condizioni in cui si trovava, gli rimanevano probabilmente pochi mesi di vita. Egli lo sapeva, ma non si pentiva di quel che aveva fatto. Diceva che se avesse avuto un'altra vita, l'avrebbe spesa per lo stesso scopo: il rovesciamento di un ordine di cose, in cui potevano avvenire i fatti che egli aveva visto.
La storia di quest'uomo e la sua amicizia chiarirono a Necliudov molte cose che prima non poteva comprendere.
Il giorno del tafferuglio fra l'ufficiale di scorta e i detenuti a causa della bambina, Necliudov, che aveva dormito all'albergo, s'era svegliato tardi. S'era poi messo a scrivere alcune lettere che voleva impostare al capoluogo della provincia e aveva perso tempo. Uscito dalla locanda, non poté raggiungere la spedizione per via, come faceva sempre, ma giunse al villaggio, dove si faceva la mezza tappa, che già imbruniva. In un albergo tenuto da una vedova attempata, grassa, dal collo incredibilmente pingue, si fece asciugare gli abiti; bevette il tè in un tinello pulito, adorno di una grande quantità di icone e di quadri, poi si affrettò ad andare alla stazione di tappa per chiedere all'ufficiale il permesso di un colloquio.
Nelle sei tappe precedenti tutti gli ufficiali di scorta, nonostante fossero sempre diversi, non avevano mai permesso a Necliudov di entrare nel luogo di sosta, sicché da più di una settimana non vedeva Katiuscia. Questa severità dipendeva dal fatto che s'aspettava la visita di un alto funzionario delle carceri. Ora finalmente era passato, senza dar neppure un'occhiata alla tappa, e Necliudov sperava che l'ufficiale, il quale aveva preso quel mattino la direzione del convoglio, gli avrebbe finalmente permesso di vedere Katiuscia. L'ostessa aveva offerto a Necliudov un "tarantàs" per recarsi all'altro capo del villaggio dove s'era fermato il convoglio, ma Necliudov preferì andare a piedi. Un giovane operaio, un gigante dalle spalle ben piantate con un paio di enormi stivali incatramati di fresco, si offrì di accompagnarlo.
Era calata una fitta nebbia, e faceva così buio che, a tre passi di distanza, dove non giungeva la luce delle finestre, Necliudov non vedeva più la sua guida, ma udiva soltanto lo sguazzo degli stivali nella melma fonda e vischiosa.
Passata la piazza della chiesa e percorsa una strada lunga, rischiarata vivamente dalla luce delle finestre, Necliudov arrivò col ragazzo in fondo al villaggio, nella più completa oscurità. Ma presto anche in quel buio apparvero, sparse qua e là nella nebbia, le luci dei fanali accesi intorno al posto di guardia. Poi le macchie rossastre delle luci diventarono più grandi e luminose: si cominciarono a distinguere i pali dello steccato, la figura nera e mobile della sentinella, una colonna a strisce e la garitta. La sentinella lanciò il consueto "Chi va là?", e, compreso che i nuovi arrivati erano estranei, intimò loro di andarsene, gridando che era proibito di fermarsi davanti alla cinta.
Ma tanta severità non scoraggiò la guida di Necliudov.
- Ehi tu, giovanotto, che tipo rabbioso! - gli disse, - chiamaci il capo, e noi aspetteremo.
La sentinella, senza rispondere, gridò qualcosa verso il cancello e si fermò, guardando fissamente il giovane che, alla luce dei fanali, toglieva con una scheggia di legno il fango appiccicato agli stivali di Necliudov. Dietro lo steccato di cinta s'udiva un brusio confuso di voci maschili e femminili.
Dopo qualche minuto d'attesa si sentì stridere la chiave, il cancello si aprì, e Necliudov vide sbucare dalle tenebre, al raggio di un fanale, un sottufficiale col cappotto buttato sulle spalle che domandò loro che cosa volevano.
Necliudov gli porse la sua carta da visita e un biglietto per l'ufficiale, in cui lo pregava di volerlo ricevere per una faccenda personale. Il sergente era meno rigido della sentinella, ma in compenso assai curioso. Voleva assolutamente sapere perché Necliudov desiderava vedere l'ufficiale, e chi era: fiutava forse la preda e temeva che gli sfuggisse di mano. Necliudov disse che si trattava di una faccenda privata, che poi l'avrebbe ringraziato, e lo pregò di consegnare il biglietto.
Il sergente lo prese e con un cenno del capo se ne andò. Poco dopo, il cancello stridette di nuovo, e ne uscirono alcune donne cariche di ceste, di bricchi e di sacchi, che ciarlavano forte nel loro speciale gergo siberiano. Erano vestite non alla campagnola, ma alla cittadina, in cappotto e mezza pelliccia, con le sottane rialzate fino al ginocchio e la testa avviluppata nello scialletto. Alla luce del fanale sbirciarono Necliudov e la sua guida con curiosità. Una poi, evidentemente contenta di ritrovare lì il giovanottone, cercò subito di lusingarlo, lanciandogli un improperio siberiano.
- Ehi tu, orco, peste bubbonica, che ci fai qui? gli disse.
- Ho accompagnato un forestiero, - rispose il giovane. - E tu che cos'hai portato?
- Il latte, e mi hanno comandato di ritornare anche domattina.
- E a dormire non t'hanno fatta restare? - domandò il ragazzo.
- Che ti si stacchi la lingua, bugiardone! - gridò lei ridendo. - Sù via, andiamo al villaggio insieme, accompagnaci.
La guida soggiunse qualcosa che suscitò l'ilarità non solo delle donne ma anche delle sentinelle, e si rivolse a Necliudov.
- E voi, ritroverete la strada da solo? Non vi perderete? . - La troverò, la troverò.
- Passata la chiesa, la seconda casa a destra dopo quella a due piani. Ma eccovi un bacchettino, - disse, porgendo a Necliudov il bastone più lungo di lui di cui s'era servito per via, e, guazzando coi suoi enormi stivali, svanì nel buio insieme con le donne.
La sua voce intercalata a quella delle donne si udiva ancora nella nebbia, quando il cancello cigolò di nuovo e ne uscì il sergente, invitando Necliudov a seguirlo dall'ufficiale.
Quella mezza tappa era simile a tutte le altre, sparse lungo la via della Siberia: nel cortile, cinto da pali aguzzi, tre case d'abitazione a un piano. In una, la più grande, con le inferriate alle finestre, alloggiavano i detenuti; in un'altra, il corpo di guardia; nella terza, il comando e gli uffici. In tutte e tre le case, le finestre vivamente illuminate davano, più che altrove, l'illusione ingannevole che fra quelle mura si stesse comodi e bene.
Alcuni fanali erano accesi davanti agli ingressi delle case, e altri cinque ardevano lungo il muro rischiarando la corte. Il sottufficiale condusse Necliudov su un passaggio di assi, fino all'ingresso della casa più piccola. Saliti tre scalini, lo introdusse in un'anticamera illuminata da una piccola lanterna, che diffondeva un puzzo asfissiante di carbone. Vicino alla stufa, un soldato coi pantaloni neri, una camicia grezza e la cravatta, aveva ai piedi un solo stivale dal gambale giallo, mentre soffiava con l'altro nel samovàr. Vedendo Necliudov, lasciò il samovàr, gli tolse la giacca di pelle ed entrò nella camera attigua.
- Eccolo, Eccellenza!
- Fallo entrare, dunque, - si udì una voce irritata. Entrate lì dentro, - disse il soldato, e si rimise subito a soffiare nel samovàr.
Nella stanza vicina, rischiarata da una lampada appesa al soffitto, davanti a una tavola ancora apparecchiata coi resti del pranzo e due bottiglie, sedeva un ufficiale con un gran paio di baffi biondi, e con la faccia molto rossa. Indossava una giubba austriaca, che gli segnava le spalle e il petto ampio. Nella stanza calda, oltre all'odore di tabacco, si sentiva un profumo molto penetrante e ordinario.
Vedendo Necliudov l'ufficiale si sollevò a metà e gli piantò gli occhi in faccia, quasi con aria sospettosa e canzonatoria.
- Che volete? - disse. E senza aspettare la risposta gridò verso la porta:
- Bernòv! e il samovàr quand'è che è pronto?
- Subito!
- Te lo darò io il tuo subito, che te lo ricorderai! urlò l'ufficiale, sprizzando scintille dagli occhi.
- Eccolo! - gridò il soldato, ed entrò col samovàr.
Necliudov aspettò che il soldato posasse il samovàr mentre l'ufficiale seguiva il suo subordinato con gli occhi piccoli e cattivi, come se cercasse il punto dove colpirlo. Quando il samovàr fu a posto, l'ufficiale preparò il tè. Poi prese da una cassetta una bottiglia quadrangolare col cognac e una scatola di biscotti Albert, depose tutto sulla tovaglia e si volse nuovamente a Necliudov.
- Dunque, in che cosa posso servirvi?
- Vorrei un colloquio con una detenuta, - disse Necliudov senza sedersi.
- Una politica? Il regolamento lo vieta, - rispose l'ufficiale.
- Non è una politica... - riprese l'altro.
- Prego, accomodatevi, - disse l'ufficiale.
Necliudov sedette.
- Non è una politica, - ripeté, - ma, dietro mia richiesta, le autorità superiori le hanno concesso di stare coi politici...
- Ah! lo so, - interruppe l'ufficiale. - Una brunetta, piccolina?
Ma certo! Questo è possibile. Volete fumare?
Allungò a Necliudov una scatola di sigarette e riempiendo con cura due bicchieri di tè, ne offrì uno a Necliudov.
- Prego, - disse.
- Grazie. Desidererei vederla...
- La notte è lunga. Avete tempo... La farò chiamare. - Invece di farla chiamare, non potrei andarci io? - domandò Necliudov.
- Dai politici? E' contro il regolamento.
- Parecchie volte me l'hanno permesso. Se lo fate per paura che io passi qualcosa, potrei recapitarla lo stesso per mezzo di lei...
- Eh, no, lei la perquisiscono, rispose l'ufficiale, ridendo di un riso sgradevole.
- Be', e allora perquisite me.
- Ma possiamo farne anche a meno, - disse l'ufficiale, avvicinando al bicchiere di Necliudov la bottiglia stappata. - Permettete?
Be', come volete. A vivere in questa Siberia, è una vera gioia quando capita una persona istruita... Lo sapete anche voi, il nostro è un lavoro molto triste. E quando uno è abituato ad altro, la è dura. Da noi, naturalmente, si ha l'idea che l'ufficiale di scorta deve essere per forza un uomo rozzo, ignorante, e nessuno pensa che uno può magari essere nato per tutt'altro...
La faccia rossa dell'ufficiale, il suo profumo e l'anello, e soprattutto il riso sgradevole, davano a Necliudov un enorme fastidio. Ma quella sera, come durante tutto il viaggio, si trovava in uno stato di serietà e di comprensione che non gli permetteva di trattare con disprezzo e leggerezza nessuno, chiunque si fosse, e che lo induceva a parlare con tutti fino in fondo, come chiamava dentro di sé questo suo modo di fare.
Egli credeva che l'ufficiale si lagnasse perché gli pesava di tormentare tanta povera gente; dopo averlo ascoltato gli disse con serietà:
- Credo che nel vostro servizio potreste trovare un conforto, alleviando le sofferenze della gente, - disse.
- Quali sofferenze? Lo sapete bene che razza sono!
- Che razza sono?! - replicò Necliudov. - Sono uomini come tutti gli altri. E molti sono anche innocenti.
- Si capisce, c'è di tutto, e fanno anche compassione. Certi ufficiali non ne lasciano passare una, ma io quando posso, cerco di essere mite. E' meglio che soffra io e non loro. Certi ufficiali, appena qualcosa non va, subito fuori la legge, oppure te li sparano, ma io mi impietosisco. Posso offrire? Bevete, - disse, versandogli dell'altro tè. - Ma chi è, di preciso, la donna che desiderate vedere? - domandò.
- Una disgraziata che è andata a finire in una casa di tolleranza, dove l'hanno accusata ingiustamente di un avvelenamento. Ma è una bravissima donna, rispose Necliudov.
L'ufficiale crollò il capo.
- Già, succede. A Kazàn, vi dirò, ce n'era una... Emma, si chiamava. Ungherese di nascita, ma aveva gli occhi di un'autentica persiana, - proseguì, incapace di trattenere un sorriso, a quel ricordo. - Così "chic", che neanche una contessa...
Necliudov interruppe l'ufficiale e ritornò al discorso di prima. - Io credo che voi possiate alleviare le condizioni di questa gente, almeno per il tempo che dipendono da voi. E son certo che ne provereste una gran gioia, - disse Necliudov, scandendo le parole, come si fa con gli stranieri o i bambini.
L'ufficiale guardò Necliudov con lo sguardo lucido; evidentemente aspettava con impazienza che quello finisse, per riprendere il discorso sull'ungherese dagli occhi di persiana che gli era balzata vivida nella memoria e assorbiva tutta la sua attenzione.
- Sì, è giusto, forse è così, - disse. - E infatti mi fanno compassione. Ma volevo raccontarvi di quella Emma. Sapete che cosa faceva?
- Non mi interessa, - rispose Necliudov. - E vi dirò apertamente che, sebbene anch'io prima fossi così, ora non posso sopportare questo atteggiamento verso le donne.
L'ufficiale guardò Necliudov spaventato.
- E non volete dell'altro tè?
- No grazie.
- Bernòv! - gridò l'ufficiale, - accompagna il signore da Bakulov.
Digli di lasciarlo entrare dai politici, in una camera separata.
Vi può rimanere fino al controllo.
Accompagnato dall'attendente, Necliudov uscì di nuovo nel cortile buio, illuminato foscamente dalla luce rossa dei fanali.
- Dove? - domandò uno della scorta, venendo incontro all'accompagnatore di Necliudov.
- Stanza separata, numero 5.
- Di qua non puoi passare, è chiuso, bisogna entrare da quell'altro ingresso.
- E perché è chiuso?
- E' stato il sergente che ora è in paese.
- Be', allora passate per di qua.
Il soldato accompagnò Necliudov verso l'altra porta lungo l'assito. Dall'interno dell'edificio giungeva un vocio sordo e confuso, come di un alveare pronto a sciamare. Ma quando Necliudov fu più vicino, e il soldato aprì la porta, quel ronzio si trasformò in un baccano di voci che si chiamavano, si insultavano, ridevano, unito al suono metallico delle catene e al solito odore graveolente di escrementi e di catrame. Tutte e due le sensazioni - il rumore delle voci misto al suono delle catene, e l'orribile fetore - si fondevano sempre per Necliudov in un'impressione tormentosa di nausea morale, che diventava nausea fisica. E le due sensazioni si univano e si sopraffacevano.
Nell'andito dell'edificio, vi era un'enorme bigoncio puzzolente detto "buiolo", e la prima cosa che Necliudov vide, fu una donna seduta sull'orlo di quel recipiente, e un uomo di fronte a lei, rapato, col berretto piatto sulle ventitré. Parlavano di qualcosa.
Il detenuto, alla vista di Necliudov, strizzò l'occhio e disse:
- Anche lo zar la fa quando gli scappa...
La donna abbassò il lembo della casacca e chinò gli occhi.
Dall'andito si allungava un corridoio, su cui si aprivano le porte delle celle. La prima era la camerata per le famiglie, poi ne veniva un'altra, grande, per gli scapoli. In fondo, due piccole celle riservate ai politici. L'edificio, predisposto per dieci persone, dovendone sistemare quattrocentocinquanta, era così ristretto che non tutti i detenuti potevano entrare nelle camerate, e molti dovevano accamparsi nel corridoio.
Gli uni erano seduti o sdraiati per terra, gli altri andavano avanti e indietro, con le teiere vuote o colme di acqua bollente.
Fra questi vi era Taràs. Egli raggiunse Necliudov e lo salutò affettuosamente. Il suo viso buono era sfigurato da lividi rosso- viola sul naso e sotto un occhio.
Che cosa ti sei fatto? - domandò Necliudov.
Un brutto affare, - rispose Taràs sorridendo.
- Già, si azzuffano sempre, - disse il soldato di scorta con disprezzo.
- Per questioni di donne, - soggiunse un detenuto che li seguiva, - si sono accapigliati con Fedka il cieco.
- E Fedossia? - s'informò Necliudov.
- Non c'è male, sta bene, le porto ora l'acqua per il tè - rispose Taràs, entrando nel camerone delle famiglie.
Necliudov vi guardò di sfuggita. Il camerone era pieno di donne e di uomini, sopra e sotto le cuccette. Un vapore denso si sprigionava dagli indumenti bagnati, messi ad asciugare. Si udiva un gran vociare di donne.
La porta seguente dava nella camerata degli scapoli. Qui era ancora peggio. La gente si pigiava fin sulle porte e fuori nel corridoio: tutta una folla rumorosa di detenuti con gli abiti bagnati che si dividevano qualcosa e discutevano fra loro. Il soldato spiegò a Necliudov che il capo gruppo stava distribuendo i soldi del vitto, che essi si erano già precedentemente giocati a carte o prestati, contro una specie di ricevuta fatta con le carte stesse.
Vedendo il sottufficiale e un signore, i più vicini a loro tacquero squadrandoli ostilmente. Necliudov notò nel gruppo il forzato Fiòdorov che si teneva sempre accanto un ragazzetto miserevole, con le sopracciglia sollevate, bianco, come gonfio; e vide anche un vagabondo ripugnante, butterato, senza naso, famoso perché si diceva che durante una fuga nella "taigà" (1) avesse assassinato un compagno e si fosse nutrito della sua carne. Il vagabondo stava nel corridoio, con la casacca bagnata su una spalla, e guardava Necliudov con aria beffarda e insolente, senza neppure scostarsi. Necliudov gli girò intorno.
Quello spettacolo non gli era nuovo, poiché spesso, durante gli ultimi tre mesi, aveva visto quei quattrocento criminali nei più svariati atteggiamenti: o durante la marcia sotto la canicola, quando, trascinando le catene ai piedi, camminavano in una nuvola di polvere, o durante le soste per via, o durante le tappe fatte all'aperto, nelle giornate meno calde, in cui aveva assistito alle scene più orribili di depravazione. Eppure, nonostante tutto questo, ogni volta che capitava in mezzo a loro e si sentiva come adesso osservato, provava sempre un'impressione penosa di vergogna e di colpa, tanto più dolorosa in quanto si accompagnava a un senso invincibile di disgusto e di orrore. Egli sapeva che nella condizione in cui li avevano messi, era impossibile che fossero diversi da come erano: eppure non poteva soffocare il suo disgusto.
- Loro se la passano bene, i mangiaufo, - sentì dire Necliudov mentre si avvicinava alla porta dei politici, - nessuno gli dà noia a quei maledetti; a quel che pare han la pancia piena, - e una voce rauca aggiunse una bestemmia indecente.
Risuonò una sghignazzata ostile, beffarda.
NOTE:
Passato il camerone degli scapoli, il sottufficiale che accompagnava Necliudov, gli disse che sarebbe ritornato a prenderlo dopo il controllo e tornò indietro.
Appena il sottufficiale si fu allontanato, un detenuto scalzo, che reggeva con le mani le catene e spargeva intorno a sé un odore greve e acre di sudato, si avvicinò a Necliudov in punta di piedi e gli sussurrò furtivamente:
- Fate qualcosa voi, signore. Hanno accalappiato un ragazzo.
L'hanno ubriacato. Oggi al controllo s'è fatto passare per Karmanov. Aiutatelo, noi non possiamo, ci ammazzerebbero, - disse il detenuto, guardandosi in giro inquieto, e subito si allontanò.
Si trattava di questo: il forzato Karmanov aveva indotto un ragazzo che gli assomigliava, condannato all'esilio, a scambiar nome con lui, di modo che il forzato andasse al confino e il ragazzo all'ergastolo. Necliudov conosceva già questo storia, che quello stesso detenuto gli aveva raccontato una settimana prima.
Fece cenno con la testa che aveva capito e che avrebbe fatto qualcosa, e senza voltarsi proseguì per la sua strada.
Necliudov aveva conosciuto quel detenuto a Jekaterinbùrg, dove gli si era raccomandato pregandolo di ottenergli il permesso di condurre sua moglie in Siberia. Necliudov era rimasto stupito di quel gesto.
Era un uomo di media statura, di una trentina d'anni, un tipo comunissimo di contadino, condannato ai lavori forzati per tentata rapina e assassinio. Si chiamava Makàr Dievkin. Il suo delitto era stranissimo. Come lui stesso aveva raccontato a Necliudov, la colpa non era stata di lui, Makàr, ma di lui, il maligno. Un giorno, secondo il suo racconto, era capitato da suo padre un forestiero, e per due rubli aveva noleggiato un carro col cavallo per andare in un villaggio distante quaranta verste. Il padre aveva comandato a Makàr di accompagnarlo.
Makàr aveva attaccato il cavallo, si era vestito ed era venuto a bere un bicchiere di tè in compagnia del forestiero, il quale intanto aveva cominciato a raccontare che andava a prender moglie e che aveva con sé cinquecento rubli guadagnati a Mosca. A quelle parole, Makàr era uscito nella corte e aveva messo una scure nella slitta, nascondendola sotto la paglia.
- Non lo so neppure io perché ho preso la scure, - raccontava. - "Prendi la scure", diceva una voce e io l'ho presa. Ci sedemmo in slitta, partimmo. Si andava benone. Avevo fin dimenticato la scure. Eravamo quasi al villaggio, mancavano sei verste. In una scorciatoia verso la via maestra, la strada cominciava a salire.
Scendo, mi metto a camminare dietro la slitta e lui mi sussurra:
"Be', a che cosa pensi? Lassù in cima c'è la strada maestra che è piena di gente, poi il paese. Si porterà via il denaro. Se vuoi farlo, fallo subito, non c'è da perder tempo". Mi chinai sulla slitta come per mettere a posto la paglia, e la scure mi viene in mano da sola. Lui si voltò a guardare. "Che fai?", dice. Brandii la scure per vibrare il colpo ma lui, rapido, balzò giù dalla slitta, mi agguantò per le braccia. "Ma che stai facendo?", dice, "farabutto". Mi rovesciò nella neve e io non lottai, mi arresi subito. Mi legò le mani con la cintura, mi scaraventò nella slitta e mi portò direttamente dal commissario. Mi misero in fortezza. Ci fu il processo. La gente testimoniò che ero un brav'uomo, e non avevo mai fatto niente di male. Anche i padroni dove lavoravo testimoniarono favorevolmente. Ma non c'erano mezzi per prendere un "abbacato", - diceva Makàr; - e perciò mi condannarono a quattro anni.
Ed ora quest'uomo, per salvare un compaesano, aveva svelato a Necliudov un segreto dei detenuti, pur sapendo che con le sue parole rischiava la vita, poiché se soltanto fossero venuti a sapere che aveva fatto una cosa simile. Lo avrebbero senz'altro strangolato.
I politici erano alloggiati in due camerette che si aprivano su un pezzo di corridoio separato dal resto da un tramezzo. Entrando in questa parte del corridoio, la prima faccia che Necliudov vide fu quella di Simonson. In giacca e con un ciocco di pino in mano, stava accoccolato davanti allo sportello che vibrava per la vampa della stufa accesa. Vedendo Necliudov gli stese la mano senza sollevarsi, guardandolo dal basso, di sotto le sopracciglia sporgenti.
- Sono contento che siate venuto, avevo bisogno di vedervi, - disse con aria significativa, guardando Necliudov negli occhi.
- Di che si tratta? - domandò Necliudov.
- Dopo. Ora sono occupato.
Sìmonson si dedicò nuovamente alla stufa, che egli accendeva secondo la sua personale teoria del minimo spreco di calore.
Necliudov stava per entrare nella prima camera, quando dall'altra vide uscire la Màslova, curva, con uno scopetto in mano con cui spingeva verso la stufa un gran mucchio di spazzatura e di polvere. Aveva una camicetta bianca, la sottana rimboccata e le calze. La testa era stretta fino alle sopracciglia da un fazzoletto bianco. Vedendo Necliudov si raddrizzò tutta rossa e animata, posò lo scopino, e fregate le mani nella sottana si fermò proprio davanti a lui.
- Fate pulizia? - disse Necliudov, stendendo la mano.
- Sì, la mia vecchia occupazione, - rispose lei sorridendo. - C'è una sporcizia che non ci s'immagina. Continuiamo a pulire, a pulire... E il "plaid" è asciutto? - domandò a Sìmonson.
- Quasi, - egli rispose, guardandola in un modo strano, con uno sguardo che stupì Necliudov.
- Be', allora lo verrò a prendere e intanto porterò le pellicce ad asciugare. I nostri son tutti qua dentro, - disse lei a Necliudov, indicandogli la porta più vicina ed entrando nell'altra camera.
Necliudov aprì la porta e si trovò in una cameretta debolmente illuminata da una piccola lampada di metallo, bassa sul tavolaccio. Nella stanza faceva freddo e c'era odore di polvere smossa, di umidità e di tabacco.
La lampada di latta rischiarava vivamente quelli che le stavano più vicino, ma le cuccette erano al buio e sui muri si riflettevano ombre tremolanti.
Tranne due uomini addetti agli approvvigionamenti, che erano usciti per prendere l'acqua bollente e le provviste, nella cameretta c'erano tutti.
C'era Viera Efrèmovna, la vecchia conoscente di Necliudov, sempre più magra e gialla, coi suoi occhi enormi, spaventati e una vena gonfia sulla fronte, in camicetta grigia e coi capelli corti.
Sedeva davanti a un foglio di giornale su cui era sparso del tabacco, e con gesti bruschi riempiva i tubetti di carta.
Vi era anche una delle politiche più simpatiche a Necliudov.
Emilia Rànzeva, che, preposta alle cure domestiche, sapeva sempre render l'ambiente, anche nelle condizioni più disagevoli, intimo e ospitale. Sedeva vicino alla lampada e con le maniche rimboccate strofinava con le sue mani belle, abbronzate e agili i boccali e le tazze, disponendoli su un asciugamano steso sopra il tavolaccio.
La Rànzeva era una donna giovane, e benché non fosse bella, aveva un viso dolce e intelligente che sapeva trasformarsi tutto nel sorriso, diventando allegro, energico, affascinante. Con uno di questi sorrisi accolse Necliudov.
- Ma noi credevamo che foste ritornato in Russia! - disse.
Più lontano in un angolo buio, vi era anche Mària Pàvlovna che badava a una bambinetta bionda, cinguettante con la sua graziosa vocina infantile.
- Come avete fatto bene a venire! Avete visto Katia? - essa domandò a Necliudov. - Guardate un po' che ospite abbiamo! - soggiunse indicando la bambina.
C'era anche Anatoli Krilzòv. Pallido ed emaciato, con le gambe ripiegate sotto di sé e le scarpe di feltro, sedeva tutto curvo e tremante in un cantuccio della cuccetta e con le mani nelle maniche del pelliciotto guardava Necliudovconocchi febbricitanti.
Necliudov stava per andare da lui, ma a destra della porta sedeva un uomo coi capelli rossi e crespi, con gli occhiali e la giacca di guttaperca che, frugando nel suo sacco, chiacchierava con la Grabez, una ragazza graziosa e sorridente. Era il famoso rivoluzionario Novodvorov, e Necliudov si affrettò a salutarlo, proprio perché, di tutti i politici di quello scaglione, era l'unico che gli riuscisse antipatico. Novodvorov guardò Necliudov con gli occhi azzurri che balenarono attraverso le lenti e aggrottando la fronte, gli tese la mano stretta.
- E allora, vi piace il vostro viaggio? - gli domandò in tono sarcastico.
- Sì, è molto interessante, rispose Necliudov, fingendo di non aver rilevato l'ironia della frase, altrimenti gentile, e si avvicinò a Krilzòv.
Cercava di mostrarsi indifferente, ma in realtà le parole di Novodvorov e il suo evidente desiderio di fargli cosa sgradita, avevano turbato la benevola disposizione in cui si trovava Necliudov.
Si sentì solo e triste:
- Come va la salute? - disse, stringendo la mano fredda e tremante di Krilzòv.
- Non c'è male, soltanto non riesco a scaldarmi. Son tutto zuppo, - rispose Krilzav, affrettandosi a nascondere la mano nella manica del pelliciotto. - Anche qui fa un freddo cane. Guardate là i vetri rotti, - indicò i due vetri mancanti dietro le inferriate. - E voi come mai non siete più venuto?
- Non mi lasciano. Le autorità sono severe. Solo oggi ho trovato un ufficiale più conciliante.
- Già, proprio conciliante! - disse Krilzòv. - Domandate a Mascia ciò che ha fatto stamattina.
Mària Pàvlovna, senza alzarsi dal suo posto, raccontò la scena successa quel mattino per la bambina, alla partenza del convoglio.
- Secondo me, abbiamo il dovere di fare una protesta collettiva, - disse Viera Efrèmovna con voce recisa, guardando incerta e spaventata ora l'uno ora l'altro; - Vladimir ha protestato, ma non basta.
- Che protesta? - esclamò Krilzòv, corrugando la fronte indispettito. Evidentemente la mancanza di semplicità, il tono artificioso e il nervosismo di Viera Efrèmovna lo infastidivano già da tempo. - Cercate Katia? - si rivolse a Necliudov. - Lavora sempre, pulisce... ha pulito qui da noi uomini e adesso sta pulendo di là dalle donne. Ma con le pulci non c'è niente da fare.
Ci morsicano anche l'anima. E Mascia, che sta facendo laggiù? - domandò, accennando all'angolo dove era Mària Pàvlovna.
- Pettina la sua figlia adottiva, - rispose la Rànzeva.
- E non ci regalerà qualche insetto? - disse Krilzòv.
- No, no, ci sto attenta. Adesso è tutta pulita, - rispose Mària Pàvlovna. - Prendetela voi, - si rivolse alla Rànzeva, - che io vado ad aiutare Katia. E gli porterò il "plaid".
La Rànzeva prese la bambina e stringendo a sé con tenerezza materna i braccini nudi e paffuti della piccola, se la mise a sedere sulle ginocchia e le offrì una zolletta di zucchero.
Mària Pàvlovna uscì. Subito dopo entrarono due uomini con l'acqua bollente e le provviste.
Dei nuovi arrivati, il primo era un giovanotto magro di media statura col pellicciotto chiuso e gli stivali. Camminava con passo leggero e svelto, portando due grandi teiere piene di acqua bollente e il pane, che teneva sotto l'ascella avvolto in un fazzoletto.
- Ah! Il nostro principe è ricomparso, - disse, appoggiando le teiere tra le tazze e porgendo il pane alla Màslova. - Abbiamo fatto magnifici acquisti, - continuò, togliendosi il pellicciotto e buttandolo al di sopra della testa in fondo a una cuccetta. - Markel ha comperato il latte e le uova; avremo un vero festino quest'oggi! E la Kirillovna ci ammannirà tutto con la sua estetica pulizia, - disse, guardando la Rànzeva con un sorriso. - Adesso però versaci il tè, - le disse.
Da tutto l'aspetto di quest'uomo, dai movimenti, dal suono della voce, dallo sguardo, spiravano energia e buon umore.
Il suo compagno, invece, aveva un'aria cupa e triste. Era anche lui un uomo di media statura, ma ossuto, con gli zigomi assai sporgenti, e le guance infossate, grige, le labbra sottili e due bellissimi occhi verdi molto distanti. Indossava un vecchio pastrano ovattato e gli stivali con le calosce. Portava due recipienti e due ceste. Deposto il suo carico davanti alla Rànzeva, salutò Necliudov piegando il collo, senza distaccare gli occhi da lui. Poi gli tese freddamente la mano sudata e cominciò con lentezza a togliere dalla cesta le provviste.
Tutti e due questi politici venivano dal popolo: il primo, Nabatov, un contadino, il secondo Markel Kondratiev, un operaio.
Markel era entrato nel movimento rivoluzionario a trentacinque anni, già uomo maturo, Nabatov, invece, a diciotto. Nella scuola del suo villaggio aveva mostrato tali disposizioni che era stato mandato al ginnasio, dove s'era mantenuto tutto il tempo con le lezioni private. Ma benché fosse uscito dal ginnasio con una medaglia d'oro, s'era rifiutato di proseguire gli studi all'università, avendo deciso, già in settima classe, di ritornare in mezzo al popolo da cui era uscito, per dedicarsi all'istruzione dei suoi fratelli dimenticati. E così aveva fatto.
Trovato un posto di scrivano in un grosso villaggio, era stato arrestato quasi subito perché leggeva ai contadini ogni sorta di opuscoli, e aveva organizzato fra loro una cooperativa di produzione e consumo. La prima volta l'avevano tenuto in carcere otto mesi, poi sotto sorveglianza speciale. Riavuta la libertà, aveva cambiato provincia, e s'era impiegato come maestro in un altro villaggio, dove aveva ripreso la sua opera. Arrestato nuovamente, questa volta l'avevano trattenuto in prigione un anno e due mesi; ma in prigione s'era rafforzato ancor più nei suoi principi.
In seguito l'avevano esiliato nella provincia di Perm. Riuscito a scappare, l'avevano arrestato di nuovo e dopo sette mesi confinato nella provincia di Arcangelo. Ma essendosi rifiutato di giurare al nuovo zar, l'avevano deportato in un'altra località ancora, nel distretto di Iakùtsk. Così aveva trascorso metà della sua gioventù in carcere o in esilio.
Tutte queste vicende non l'avevano inasprito per nulla, e invece di fiaccare la sua energia, l'avevano rinfocolata.
Era un uomo attivo, con un ottimo tubo digerente, sempre ugualmente operoso, allegro ed energico. Non si pentiva mai di nulla e non si preoccupava dell'avvenire, ma dedicava all'oggi tutte le forze del suo ingegno, della sua abilità, del suo senso pratico.
In libertà, lavorava per lo scopo che si era prefisso:
l'istruzione e l'unione dei lavoratori, soprattutto dei contadini.
In prigione, adoperava tutta la sua energia e il suo senso pratico per mantenere i contatti col mondo esterno e per sistemare nel migliore dei modi, date le condizioni del momento, non soltanto la sua vita, ma anche quella dei compagni.
Era essenzialmente altruista. Per sé non aveva alcun bisogno, poiché si contentava di pochissimo, ma per i compagni esigeva molto e poteva fare qualsiasi lavoro fisico e intellettuale senza riposarsi, rinunciando al sonno e al cibo.
Come contadino amava il lavoro, era accorto, destro, sobrio, cortese per natura, e rispettoso dei sentimenti e delle opinioni altrui. La sua vecchia madre, una vedova analfabeta e piena di superstizioni, era ancora viva. Nabatov l'aiutava e quand'era in libertà l'andava a trovare. Durante le sue permanenze a casa, s'interessava di tutti i particolari della sua vita, l'aiutava nei lavori e frequentava i contadini, suoi antichi compagni d'infanzia. Fumava con loro il "tiutiùn" (1) nella "zampa di cane" (2) giocava a pugni e spiegava l'inganno in cui la società li teneva e da cui dovevano liberarsi.
Nei suoi pensieri e nei suoi discorsi sulla rivoluzione del popolo, non sognava per la sua gente condizioni di vita molto diverse dalle attuali; vedeva il popolo così com'era, soltanto con la terra e senza i padroni e i funzionari. La rivoluzione, secondo lui, non doveva cambiare le forme sostanziali della vita del popolo - in ciò non era d'accordo con Novodvorov e col suo seguace Markel Kondratiev - non doveva abbattere, ma soltanto modificare la sistemazione interna di quel vecchio, gigantesco, meraviglioso, solido edificio da lui ardentemente amato.
Anche dal punto di vista religioso, era un contadino tipico: non pensava mai ai problemi metafisici, al principio di tutti i principi, alla vita d'oltretomba. Dio era per lui, come per Arago (3), un'ipotesi della quale non sentiva la necessità. Poco gli importava di sapere come era cominciato il mondo, se secondo Mosè, o secondo Darwin. E il darwinismo al quale i suoi compagni attribuivano tanta importanza, era per lui un gioco intellettuale come la creazione in sei giorni. La questione dell'origine del mondo, appunto perché aveva sempre davanti agli occhi il problema del come viverci meglio gli era indifferente. E non pensava mai neppure alla vita futura, poiché aveva in fondo all'anima la ferma e tranquilla convinzione ereditata dagli avi e comune a tutti i lavoratori della terra, che come nel mondo degli animali e delle piante nulla perisce, ma tutto si trasforma - il concime in grano, il grano in gallina, il girino in rana, il verme in farfalla, la ghianda in quercia - così anche l'uomo non muore, ma soltanto si tramuta.
Convinto di ciò, guardava in faccia alla morte con coraggio e persino con animo lieto, sopportando con fermezza le sofferenze, ma di quest'argomento, non gli piaceva e non sapeva parlare. Amava il lavoro, le occupazioni utili e pratiche, e incitava i compagni a imitarlo.
L'altro detenuto politico che veniva dal popolo, Markel Kondratiev, era un uomo di tempra diversa. Entrato in una fabbrica all'età di quindici anni, s'era subito messo a fumare e a bere, per soffocare una confusa sensazione di offesa. Questa sensazione l'aveva sentita, per la prima volta, un lontano giorno di Natale in cui lui e i suoi compagni erano stati condotti all'albero preparato dalla moglie del principale, e avevano avuto in dono un piffero da un soldo, una mela, una noce dorata e un fico secco; mentre i figli del padrone avevano ricevuto giocattoli che a lui sembravano fiabeschi e che erano costati cinquanta rubli.
Aveva una ventina d'anni, quando era entrata a lavorare nella fabbrica, come operaia, una rivoluzionaria che, notata la sua intelligenza, gli aveva prestato libri e opuscoli e s'era messa a discutere con lui, mostrandogli tutta la miseria della sua condizione, le cause che la determinavano e i mezzi per migliorarla.
Allora soltanto aveva visto chiaramente la possibilità di liberare sé e gli altri dall'oppressione in cui vivevano; l'ingiustizia gli era sembrata ancor più dura e insopportabile di prima, e una voglia pazza di liberarsene e di punire chi l'aveva organizzata e consolidata s'impadronì di lui. E poiché gli avevano detto che il mezzo per raggiungere la liberazione era la cultura, si era buttato con ardore alla sua conquista. Veramente non capiva bene in che modo l'ideale socialista potesse realizzarsi attraverso il sapere, ma aveva fede che come il sapere gli aveva fatto comprendere l'ingiustizia della sua condizione, l'avrebbe anche aiutato a raddrizzarla. E poi la cultura lo innalzava nella stima di sé al di sopra degli altri uomini. Perciò, smesso di bere e di fumare, aveva dedicato allo studio tutto il tempo libero, di cui disponeva in maggior misura da quando l'avevano fatto magazziniere.
La rivoluzionaria gli insegnava, ed era stupita della facilità sorprendente con cui assimilava senza saziarsene qualsiasi nozione. In due anni aveva imparato l'algebra, la geometria, la storia, che era la sua materia preferita, aveva letto tutte le opere letterarie, critiche e, soprattutto, sociali.
Poi la rivoluzionaria era stata arrestata, e Kondratiev trovato in possesso di libri proibiti, aveva seguito la sua sorte. Dopo la prigione, era stato esiliato nella provincia di Vologda, dove aveva conosciuto Novodvorov e letto altri libri rivoluzionari, imprimendosi tutto nella memoria e rafforzandosi sempre più nelle sue idee socialiste.
Scontato l'esilio, aveva organizzato un grande sciopero operaio, conclusosi con la devastazione della fabbrica e l'assassinio del direttore. Arrestato, fu condannato alla perdita dei diritti civili e a un nuovo esilio.
Il suo atteggiamento nei confronti della religione era negativo, come quello verso l'ordinamento economico. Convinto dell'assurdità della fede in cui era cresciuto ed essendo riuscito a liberarsene, s'era messo, dapprima con terrore e poi con entusiasmo, quasi per vendicarsi dell'inganno in cui avevano tenuto lui e i suoi avi, a farsi beffe con ira velenosa dei preti e dei dogmi religiosi.
Aveva abitudini di asceta, si accontentava del minimo indispensabile, ed essendo dotato di buoni muscoli, come tutti gli uomini abituati a lavorare fin dall'infanzia, poteva fare qualsiasi lavoro manuale senza fatica, a lungo e con destrezza.
Ma più di tutto apprezzava i momenti liberi che gli consentivano, nelle prigioni e durante le tappe, di dedicarsi ai suoi studi.
Stava ora studiando il primo volume di Marx, che teneva nascosto nel suo sacco come un tesoro prezioso. Coi compagni era riservato, indifferente, ma non con Novodvorov, al quale era molto devoto e di cui accettava le opinioni su qualsiasi argomento, come verità infallibili.
Verso le donne poi, che considerava un inciampo in tutte le questioni importanti, nutriva un disprezzo invincibile. Ma della Màslova aveva compassione e la trattava con gentilezza, poiché vedeva in lei un esempio tipico dello sfruttamento della classe inferiore da parte di quella superiore.
Per lo stesso motivo non gli piaceva Necliudov, era con lui poco loquace, e non gli stringeva la mano, limitandosi a farsela stringere quando Necliudov lo salutava.
NOTE:
La stufa si era accesa e riscaldata. Il tè appena pronto fu versato nei bicchieri e nei boccali e allungato col latte; si tirarono fuori ciambelline, pane fresco nero e bianco, uova sode, burro, testina e zampe di vitello. Tutti si avvicinarono al tavolaccio che sostituiva la tavola, e si misero a bere, a mangiare e a chiacchierare. La Rànzeva, seduta sopra una cassetta versava il tè. Intorno a lei s'eran raggruppati gli altri, meno Krilzòv, che, toltosi di dosso il pellicciotto bagnato, e avviluppatosi nel "plaid" asciutto, s'era steso sulla cuccetta e discorreva con Necliudov .
Dopo il freddo e l'umidità sofferti durante la marcia, dopo la sporcizia e la confusione che avevano trovato e dopo la fatica per mettere in ordine, il cibo e il tè bollente avevano infuso nei loro animi un senso di benessere e di serenità.
Lo scalpiccio, le grida e le bestemmie dei comuni che si udivano di là dalla parete, quasi per contrasto aumentavano in loro questo senso di benessere. Come in una isoletta in mezzo al mare, si sentivano temporaneamente riparati dalle umiliazioni e dalle sofferenze che li circondavano: e ciò li metteva come in uno stato di esaltazione, di ebbrezza intellettuale. Parlavano di tutto fuorché del loro presente e di ciò che li aspettava. Inoltre, come sempre succede fra uomini e donne giovani, soprattutto se costretti a vivere insieme, si erano stabiliti rapporti di simpatia più o meno corrisposti e variamente intrecciati. Quasi tutti erano innamorati.
Novodvorov lo era della graziosa Grabez, sempre sorridente: una giovane studentessa, che pensava pochissimo ed era del tutto indifferente ai problemi rivoluzionari. Ma, subendo l'influsso dei tempi, si era in certo qual modo compromessa e l'avevano deportata. La sua principale preoccupazione era sempre stata quella d'aver successo con gli uomini, ed anche in prigione non pensava ad altro. Ora, durante il tragitto, si consolava perché Novodvorov s'era innamorato di lei e lei di lui.
Viera Efrèmovna, che s'innamorava facilmente ma difficilmente faceva innamorare di sé, sperava sempre di essere corrisposta, ed era innamorata ora di Nabatov ora di Novodvorov. Krilzòv provava per Mària Pàvlovna qualcosa di simile a un innamoramento. Egli l'amava come gli uomini amano le donne, ma conoscendo le sue idee sull'amore, nascondeva abilmente il suo sentimento sotto forma di amicizia e di riconoscenza per le cure affettuose che la ragazza gli prodigava.
Una strana relazione amorosa legava Nabatov e la Rànzeva. Come Mària Pàvlovna era in tutti i sensi una vergine casta, così la Rànzeva era in tutti i sensi una casta moglie.
A sedici anni, ancora al ginnasio s'era innamorata di Ranzev, allora studente all'università di Pietroburgo, e a diciannove anni l'aveva sposato, prima che si laureasse.
Al quarto corso suo marito, coinvolto in una sommossa universitaria, era stato esiliato da Pietroburgo e s'era dato alla politica. E lei, lasciati gli studi di medicina, lo aveva seguito ed era divenuta anch'essa rivoluzionaria. Se suo marito non fosse stato per lei l'uomo più buono e più intelligente del mondo non lo avrebbe amato, e non amandolo, non lo avrebbe sposato. Ma essendosi innamorata, e avendo sposato l'uomo secondo lei migliore e più intelligente del mondo, naturalmente concepiva la vita e i suoi ideali proprio come li concepiva lui, il migliore e il più intelligente uomo del mondo. In principio lo scopo della vita di lui era stato lo studio, e lei aveva condiviso lo stesso ideale.
Poi lui s'era fatto rivoluzionario, e rivoluzionaria era divenuta anche lei. Sapeva dimostrare benissimo come l'attuale ordinamento sociale sia ingiusto e come ogni uomo abbia il dovere di combatterlo, per instaurare un nuovo sistema politico ed economico che permetta alla personalità umana di evolversi liberamente. E così di seguito.
E le sembrava che questi fossero realmente i suoi pensieri e i suoi sentimenti, mentre in realtà pensava soltanto che le opinioni del marito erano verità indiscutibili, e cercava una cosa sola, l'unica che l'appagasse moralmente: un pieno accordo e la perfetta fusione delle loro anime.
Il distacco dal marito e dal bambino, che sua madre aveva preso con sé, le era stato penoso. Ma sopportava il suo dolore con fermezza e con calma, sapendo di sacrificarsi per il marito e per una causa che doveva essere giusta, giacché egli le si era consacrato. Col pensiero gli era sempre vicina, e come non aveva amato nessun altro prima di lui, così adesso poteva amare solo lui. Ma l'amore devoto e puro di Nabatov la commuoveva e la turbava. Lui, un uomo morale e forte, amico di suo marito, si sforzava di trattarla come una sorella, ma nei loro rapporti traspariva qualcosa di più che li spaventava e, nello stesso tempo, abbelliva la loro vita difficile.
Sicché in quel gruppo, gli unici immuni dall'amore erano Mària Pàvlovna e Kondratiev.
Contando di parlare a tu per tu con Katiuscia come faceva di solito dopo il tè e la cena, Necliudov sedeva accanto a Krilzòv discorrendo con lui. Fra l'altro gli aveva raccontato il suo incontro con Makàr e la storia del suo delitto. Krilzòv ascoltava attentamente, senza mai distogliere lo sguardo febbricitante dal volto di Necliudov.
- Sì, - disse ad un tratto. - Spesso mi colpisce il pensiero che noi marciamo con loro, a fianco a fianco... Ma chi sono questi "loro"? La stessa gente per cui ci hanno esiliati, ma che non conosciamo e non vogliamo conoscere. Loro poi, ancor peggio! ci odiano e ci considerano nemici. E questo è terribile.
- Non c'è niente di terribile, - disse Novodvorov, che aveva ascoltato il discorso. - Le masse adorano sempre e soltanto il potere, - proseguì con la sua voce stridente. - Il potere è in mano del governo ed essi adorano il governo e odiano noi; se domani sarà in mano nostra, adoreranno noi...
In quel momento di là della parete s'udì lo scoppio di un litigio:
rumori di catene di corpi che sbattevano contro il muro, strilli e urla.
Picchiavano qualcuno, una voce gridava: "Aiuto!".
- Eccole, le bestie feroci. Che rapporti ci possono essere fra loro e noi? - disse calmo Novodvorov.
- Bestie feroci, tu dici? Proprio ora Necliudov ha finito di raccontarmi un certo atto che... - disse Krilzòv esasperato. E narrò come Makàr avesse rischiato la vita per salvare un compaesano. - Non è un atto da bestia feroce, questo. E' un gesto eroico!
- Sentimentalismi! - esclamò Novodvorov ironicamente. - E' difficile per noi capire gli impulsi emotivi e le ragioni dei loro atti... Tu ci vedi un segno di elevatezza d'animo, e può darsi che invece sia tutta invidia per quell'altro detenuto...
- Perché non vuoi mai vedere niente di buono negli altri? - disse improvvisamente accalorandosi Mària Pàvlovna, che dava del tu a tutti.
- Non si può vedere ciò che non c'è.
- Come non c'è, se uno si espone al rischio di compiere una morte orribile?
- Io penso, - disse Novodvorov, - che se noi vogliamo servire la nostra causa, la prima condizione è di non perdersi in fantasticherie ma di guardare le cose come sono.
Mentre parlava, Kondratiev aveva deposto il libro che stava leggendo vicino alla lampada, e s'era messo ad ascoltare con attenzione le parole del maestro.
- Abbiamo il dovere di far tutto per le masse, senza aspettarci niente da loro. Le masse formano l'oggetto della nostra attività, ma non possono essere le nostre collaboratrici finché sono così inerti come ora, - cominciò a dire, quasi tenesse una conferenza.
- Ed è perciò un'illusione aspettarsi da loro un aiuto finché non sia maturato un processo di evoluzione; quel processo di evoluzione cui noi stiamo per l'appunto preparando.
- Quale processo di evoluzione? - cominciò a dire Krilzòv arrossendo. - Noi ci diciamo contrari agli arbitri e al dispotismo: ma questo non è forse il peggiore di tutti?
- Non c'è alcun dispotismo, - rispose imperturbabile Novodvorov. - Dico soltanto che conosco il cammino che il popolo deve percorrere e glielo posso mostrare.
- Ma come puoi esser certo che il cammino indicato da te sia proprio quello giusto? Non è forse questo il dispotismo che ha generato l'inquisizione e i delitti della rivoluzione francese?
Anch'essi erano matematicamente sicuri di seguire l'unica via giusta.
- Che loro si siano sbagliati non basta a dimostrare che mi debba sbagliare anch'io... E poi c'è una grande differenza tra i vaneggiamenti degli ideologhi e i dati positivi della scienza economica.
La voce di Novodvorov faceva rintronare la stanza. Lui solo parlava. Gli altri tacevano.
- Sempre discutono, - disse Mària Pàvlovna quando egli tacque per un attimo.
- E voi, personalmente, che ne pensate? - domandò Necliudov a Mària Pàvlovna.
- Penso che Anatoli ha ragione, che non si possono imporre al popolo le nostre idee.
- E voi, Katiuscia? - domandò sorridendo Necliudov. Aspettava la sua risposta col timore che dicesse qualcosa di stonato.
- Io penso che la povera gente è trattata male, - essa rispose avvampando, - è molto, molto maltrattata.
- Giusto, Micàilovna, giusto, - gridò Nabatov.
- Eccome che è maltrattata! Bisogna fare in modo che non lo sia più. Qui sta il nostro vero lavoro...
- Strano concetto dei compiti della rivoluzione, - disse Novodvorov, e tacque mettendosi furiosamente a fumare.
- Non posso parlare con lui, - sussurrò Krilzòv e non aggiunse altro.
- E' molto meglio non farlo, - rispose Necliudov.
Sebbene Novodgorov godesse della considerazione di tutti i rivoluzionari, fosse molto colto e si credesse molto intelligente, per Necliudov apparteneva a quella categoria di rivoluzionari che, per la loro fisionomia morale erano molto al di sotto del livello medio. Le capacità intellettuali di quest'uomo - il suo numeratore - erano notevoli; ma il concetto che egli aveva di sé - il suo denominatore - era così elevato che, da un pezzo, aveva superato le sue forze intellettuali.
Spiritualmente era il tipo opposto di Simonson. Questi apparteneva alla categoria di persone a carattere prevalentemente virile le cui azioni derivano dall'attività del pensiero, e ne portano l'impronta.
Novodvorov, invece, apparteneva alla categoria di persone a carattere prevalentemente femminile, nei quali l'attività del pensiero è rivolta in parte al raggiungimento degli scopi indicati dal sentimento, in parte alla giustificazione degli atti provocati dal sentimento stesso.
Tutta l'attività rivoluzionaria di Novodvorov, nonostante che egli sapesse eloquentemente spiegarla con argomenti molto persuasivi, era basata, per quel che ne sembrava a Necliudov, soltanto sulla vanità, e sul desiderio di primeggiare. Dapprincipio, grazie alla sua capacità di assimilare i pensieri altrui e di ritrasmetterli tali e quali, egli nel periodo dei suoi studi - ginnasio, università, laurea - trascorsi nell'ambiente scolastico, dove quella capacità era altamente apprezzata, era sempre il primo e non desiderava altro. Ma quando ebbe preso la laurea e finì per lui il periodo dei primati, egli ad un tratto, come Necliudov seppe da Krilzòv che non lo poteva soffrire, per conquistare il primato in un altro campo, cambiò radicalmente le sue idee e da liberale progressista divenne un populista fanatico. Privo com'era di quei principi morali ed estetici che generano i dubbi e le incertezze, raggiunse assai presto nel mondo rivoluzionario la posizione di capo-partito, appagando con ciò la propria ambizione.
Fatta la sua scelta, non s'era mai lasciato prendere dal dubbio - non ammetteva di potersi sbagliare. Tutto gli sembrava estremamente semplice, chiaro, inoppugnabile.
E data la ristrettezza e l'unilaterità delle sue vedute, tutto era effettivamente molto semplice e chiaro: bastava, com'egli diceva, essere logici. La sua presunzione era così grande che poteva soltanto o respingere le persone o sottometterle. E poiché egli operava fra i giovanissimi, che scambiavano quella presunzione illimitata per profondità e saggezza di pensiero, la maggioranza gli si sottometteva, sicché aveva un grande successo nei circoli rivoluzionari. La sua attività consisteva nel preparare l'insurrezione, in cui si sarebbe impadronito del potere e avrebbe convocato la costituente. Aveva già compilato un programma di riforme da presentare a quell'assemblea, così esauriente che non poteva non essere accettato. Ne era perfettamente convinto.
I compagni lo stimavano per la sua audacia e per la sua risolutezza, ma non gli volevano bene. In quanto a lui, poi, non amava nessuno e considerava come rivali tutti quelli che emergevano; se avesse potuto, li avrebbe volentieri trattati come i vecchi scimmioni trattano le scimmie giovani. Avrebbe strappato tutta l'intelligenza, tutte le doti agli altri uomini, purché non impedissero l'esplicazione delle sue capacità.
Trattava bene soltanto quelli che gli rendevano omaggio, come ora, durante il percorso, trattava bene l'operaio Kondratiev che aveva accettato ciecamente le sue idee, Viera Efrèmovna e la graziosa Grabez tutte e due innamorate di lui. In teoria egli era partigiano dell'emancipazione della donna, ma in fondo al cuore considerava tutte le donne stupide e vuote tranne quelle di cui gli capitava spesso di innamorarsi sentimentalmente, come ora della Grabez; donne eccezionali queste, i cui meriti soltanto lui sapeva scorgere.
Il problema dei rapporti sessuali, come tutti gli altri problemi, gli sembrava molto semplice e chiaro e perfettamente risolto dal libero amore.
Aveva una moglie fittizia (1), un'altra autentica da cui s'era separato dopo essersi persuaso che fra loro non esisteva il vero amore. Ora aveva intenzione di contrarre un'altra unione libera con la Gràbez.
Disprezzava Necliudov per "le smorfie" - così le chiamava - con la Màslova; ma soprattutto perché si permetteva di pensare ai difetti dell'ordinamento sociale e ai mezzi per migliorarlo, non come la pensava; lui, Novodvorov, parola per parola; ma a modo suo, da principe, cioè da stupido. Necliudov conosceva l'opinione che Novodvorov aveva di lui, e con vero dispiacere, sebbene il suo animo in quel periodo fosse sempre disposto alla benevolenza, sentiva di ripagarlo della stessa moneta e non riusciva a vincere la fortissima antipatia che provava per lui.
NOTE:
Nella camera attigua risuonarono alcuni comandi. Si fece un profondo silenzio e subito dopo entrò nella camerata il sottufficiale con due soldati di scorta, per fare il controllo. Il sergente contò tutti, indicandoli col dito. Quando arrivò a Necliudov, gli disse con un tono bonariamente familiare:
- Ora, principe, dovete andarvene. Dopo il controllo è vietato fermarsi.
Necliudov, che conosceva il significato di quelle parole, gli si avvicinò e gli mise in mano tre rubli.
- Be', che posso fare con voi? Fermatevi ancora un po'...
Il sergente stava per uscire, quando entrò nella camerata un altro sottufficiale seguito da un detenuto alto e magro con un occhio pesto e una barbetta rada.
- Son venuto per la bambina, - disse il detenuto.
- Ecco il mio papà, - squillò ad un tratto una vocetta infantile, e una testolina bionda comparve dietro la Rànzeva che stava cucendo con Mària Pàvlovna e Katiuscia un abitino nuovo per la bambina, fatto con una vecchia sottana della Rànzeva.
- Son io, bambina mia, son io, - disse dolcemente Buzovkin.
- Sta bene qui con noi! - esclamò Mària Pàvlovna osservando con pena il viso pesto di Buzovkin. - Lasciatela con noi...
- Le signore mi fanno un vestitino nuovo, - disse la bambina, mostrando al padre il lavoro della Rànzeva. - Un bel vestitino rosso!, - balbettò.
- Vuoi dormire con noi? - domandò la Rànzeva accarezzando la bambina.
- Sì. Anche il papà...
La Rànzeva sorrise col suo sorriso luminoso.
- Il papà non può, - disse . - Lasciatela, - si rivolse al padre.
- Io direi di lasciarla, - disse il sergente soffermandosi sulla porta, e uscì con l'altro sottufficiale.
Appena usciti i carcerieri Nabatov s'avvicinò a Buzovkin e toccandogli la spalla disse:
- E' vero, fratello, che Karmanov vuol fare un cambio con un altro?
Il viso bonario e affettuoso di Buzovkin improvvisamente divenne serio, i suoi occhi si velarono.
- Noi non ne sappiamo niente. Non c'è da crederci - disse e con gli occhi sempre velati soggiunse: - be' Aksiutka, goditela pure con le signore, - e s'affrettò a uscire.
- Sa tutto ed è vero che si son scambiati, - disse Nabatov. - E voi che cosa avete intenzione di fare?
- Ne informerò le autorità cittadine. Li conosco tutti e due di vista, - rispose Necliudov.
Tutti tacevano. Evidentemente temevano di veder ricominciare le discussioni.
Simonson, che non aveva mai aperto bocca, sdraiato in un angolo della cuccetta con le mani intrecciate dietro il capo, s'alzò bruscamente e girando cautamente dietro ai compagni seduti si avvicinò a Necliudov.
- Potete ascoltarmi adesso?
- Si capisce, - rispose Necliudov e si alzò per seguirlo.
Vedendolo alzarsi e incontrando il suo sguardo, Katiuscia arrossì e scosse la testa perplessa.
- Ecco di che si tratta, - cominciò Simonson quando furono nel corridoio. In corridoio si sentiva fortissimo il rumore e gli scoppi di voce dei detenuti comuni. Necliudov aggrottò le sopracciglia ma Simonson parve non accorgersene.
- Sapendo in che rapporti siete con Jekatierina Micàilovna, - cominciò a dire, guardando attentamente in faccia il principe coi suoi occhi buoni, - mi ritengo in dovere... - proseguì, ma fu costretto a interrompersi perché dietro alla porta due voci gridavano contemporaneamente, litigando.
- Ti dico, gioia, che non sono miei, - gridava una voce.
- Impiccati, demonio, - sibilava l'altra.
In quel momento Mària Pàvlovna uscì nel corridoio.
- Ma come fate a discorrere qui? - disse, - venite dentro; c'è soltanto Vièroc'ka. - E li introdusse nella seconda camera, una minuscola cella, evidentemente una segreta, messa a disposizione delle donne del reparto politico. Viera Efrèmovna era distesa sulla cuccetta col capo coperto.
Ha l'emicrania. Dorme e non sente. Io me ne vado - disse Mària Pàvlovna.
- Ma no, resta, - disse Sìmonson, - non ho segreti per nessuno, e tanto meno per te.
- Come vuoi, - rispose Mària Pàvlovna, sedendosi ben addentro nella cuccetta con una mossa alterna del corpo, piena di grazia infantile, e si dispose ad ascoltare, guardando lontano coi suoi bellissimi occhi sporgenti.
- Dunque, dicevo, - ripeté Sìmonson, - che conoscendo i vostri rapporti con Jekatierina Micàilovna, mi ritengo in dovere di mettervi a parte dei miei sentimenti per lei.
- Come sarebbe a dire? - domandò Necliudov, ammirando suo malgrado la semplicità e la franchezza con cui Sìmonson gli parlava.
- Vale a dire che vorrei sposare Jekatierina Micàilovna...
- Davvero? - esclamò Mària Pàvlovna guardando Sìmonson.
- ... e ho deciso di chiederle di diventare mia moglie, - proseguì Sìmonson.
- Che c'entro io? Questo dipende da lei, - disse Necliudov.
- Sì, ma lei non risponderà senza il vostro consenso.
- Perché?
- Perché non può prendere nessuna decisione finché non siano definitivamente sistemati i vostri rapporti.
- Da parte mia è una questione già decisa. Ho fatto quello che credevo il mio dovere e ho cercato di alleviare le sue condizioni, ma non voglio in alcun modo esserle d'impaccio...
- Sì, ma lei non vuole il vostro sacrificio.
- Non c'è nessun sacrificio.
- So anche che non ritornerà mai sulla sua decisione.
- Ma allora perché parlarmene? - disse Necliudov.
- Ha bisogno che anche voi ne siate persuaso.
- Come posso persuadermi che non devo fare ciò che considero il mio dovere? L'unica cosa che posso dire è che io non sono libero, ma lei sì.
Sìmonson taceva, soprappensiero.
- Benissimo. Lo riferirò a lei. Non crediate che ne sia innamorato, - proseguì. - L'amo come si può amare una creatura meravigliosa, rara, che ha molto sofferto. Non voglio niente da lei, ma ho un terribile desiderio di aiutarla, di alleviare le sue condizioni...
Necliudov si stupì di udire un tremito nella voce di Sìmonson.
- ... alleviare le sue condizioni, - proseguì Sìmonson. - Se non vuole accettare il vostro aiuto, che almeno accetti il mio. Se accettasse, chiederei di essere mandato dove hanno destinato lei.
Quattro anni non sono un'eternità. Le vivrei vicino e, forse le renderei la vita meno dura... - s'interruppe di nuovo, per l'emozione.
- Che posso dire? - fece Necliudov. - Sono contento che abbia trovato un protettore come voi...
- Questo io volevo domandarvi, - riprese Sìmonson. - Volevo sapere se, amandola e desiderando il suo bene, voi giudicate un bene il suo matrimonio con me.
- Oh sì! - rispose Necliudov deciso.
- Tutto dipende da lei. Io desidero soltanto che quella povera anima trovi un po' di pace - disse Sìmonson, guardando Necliudov con una tenerezza fanciullesca quale nessuno si sarebbe mai immaginato di trovare in un uomo dall'aspetto così grave.
Sìmonson si alzò e afferrata la mano di Necliudov, tese verso di lui la faccia, sorrise timidamente e lo baciò.
- Vado a dirle tutto, - disse, e uscì.
- Eh, che ve ne pare? - esclamò Mària Pàvlovna. - Innamorato, innamorato cotto. Questa proprio non me la sarei aspettata, che Vladimir Sìmonson s'innamorasse come un ragazzino qualsiasi.
Strano! e mi dispiace anche, se devo dire la verità, - concluse sospirando.
- Ma lei, Katia? Cosa credete che ne pensi? - domandò Necliudov.
- Lei? - Mària Pàvlovna si fermò desiderando evidentemente di dare una risposta il più possibile esatta.- Lei? Lei, vedete, nonostante il suo passato, è una natura profondamente morale, e ha sentimenti delicatissimi... Vi ama... vi ama di un amore buono, ed è felice di potervi dare se non altro un bene negativo: quello di non coinvolgervi nella sua vita. Il suo matrimonio con voi sarebbe per lei una caduta spaventosa, peggiore di tutte le precedenti.
Non accetterà mai. Ma nello stesso tempo si sente turbata dalla vostra presenza.
- Che devo fare, allora? Scomparire? - disse Necliudov.
Mària Pàvlovna sorrise del suo sorriso gentile e fanciullesco.
- Sì,... in parte.
- Come, in parte?
- Ho scherzato... Volevo dirvi che lei probabilmente considera assurdo questo amore un po' esaltato di Sìmonson, per quanto lui non gliene abbia mai parlato. Ne è lusingata e intimorita. Sapete, io non sono competente in queste cose, ma mi sembra che da parte di Sìmonson si tratti di un sentimento comunissimo, sebbene mascherato. Lui pretende che il suo amore sia platonico e gli infonda energia. Ma so benissimo che in fondo in fondo anche qui c'è qualcosa di sporco... come nel sentimento di Novodvorov per Liùboc'ka.
Mària Pàvlovna, toccato il suo tema favorito, s'era allontanata dall'argomento principale.
- Ma che devo fare? - domandò Necliudov.
- Io credo che dobbiate parlarne con lei. E' sempre meglio mettere le cose in chiaro. Parlate con lei, io ve la chiamerò. Volete? - disse Mària Pàvlovna.
- Ve ne prego, - rispose Necliudov, e Mària Pàvlovna uscì.
Una strana sensazione s'impadronì di Necliudov mentre, rimasto solo nella cameretta, ascoltava il respiro leggero, rotto di tratto in tratto da gemiti, di Viera Efrèmovna, e il frastuono dei comuni che giungeva ininterrottamente attraverso due porte.
Le parole di Sìmonson lo liberavano dall'impegno che s'era assunto. Impegno che nei momenti di debolezza gli sembrava gravoso e stravagante. Eppure qualcosa lo turbava e lo faceva soffrire. In questo miscuglio di sentimenti vi era anzitutto la coscienza che la proposta di Sìmonson toglieva al suo gesto il carattere di eccezionalità, diminuiva ai suoi occhi e agli occhi del mondo il valore del sacrificio che egli si era imposto. Se un uomo così buono come Sìmonson, senza essere tenuto a farlo, desiderava unire il suo destino a quello di lei, allora il sacrificio di lui, Necliudov, non era più così eroico. Nella sofferenza che egli provava forse vi era anche un po' di gelosia: s'era tanto abituato all'idea di essere amato da Katiuscia che non poteva sopportare l'idea che essa amasse un altro. Gli rincresceva anche di veder crollare il piano che s'era fatto di viverle accanto, finché avesse espiato la sua condanna. Se ora sposava Sìmonson, la sua presenza diventava inutile, ed avrebbe dovuto cambiare l'assetto della sua vita.
Mentre era in preda ai suoi tristi pensieri, la porta si aprì, ed egli fu investito dal frastuono assordante che giungeva dal reparto comune dove evidentemente quel giorno stava succedendo qualcosa. E nella stanza entrò Katiuscia.
Con passo rapido s'avvicinò a lui.
- Mària Pàvlovna mi ha detto di venire, - mormorò, fermandoglisi accanto.
- Sì, ho bisogno di parlarvi. Ma sedete... Vladimir Ivànovic' mi ha parlato.
Essa sedette, abbandonando le mani sulle ginocchia. Apparentemente era calma, ma appena Necliudov pronunciò il nome di Sìmonson, si fece di fiamma.
- Che cosa vi ha detto? - domandò.
- Che vuole sposarvi.
Il viso di lei si contrasse, come per una improvvisa sofferenza.
Non disse nulla, soltanto abbassò gli occhi.
- Chiede il mio consenso o un consiglio. Gli ho detto che tutto dipende da voi... sta a voi decidere...
- Ah, che dite! Perché? - essa proruppe e lo guardò negli occhi col suo sguardo un po' strabico, che aveva sempre avuto il potere di turbarlo. Per qualche istante si guardarono così, senza parlare. E quello sguardo disse molto all'uno e all'altra.
- Sta a voi decidere, - ripeté Necliudov.
- Che cosa devo decidere? - essa disse. - Ho già deciso da un pezzo.
- No, dovete decidere se accettate la proposta di Vladimir Ivànovic' - disse Necliudov.
- Che moglie posso essere io, una forzata! Perché dovrei rovinare anche Vladimir Ivànovic'? - esclamò, rabbuiandosi.
- E se giungesse la grazia?
- Ah, lasciatemi! Meglio non parlarne, - rispose lei, e alzatasi, uscì dalla cella.
Quando Necliudov rientrò nella camerata degli uomini subito dopo Katiuscia, trovò tutti in preda all'emozione. Nabatov che andava dappertutto, conosceva tutti e osservava tutto, aveva portato una notizia molto conturbante. Aveva trovato sopra un muro uno scritto del rivoluzionario Petlin, condannato ai lavori forzati. Si credeva che egli fosse a Kara già da un pezzo, ed ora risultava che era passato di lì recentemente, solo in un convoglio di comuni.
Il biglietto diceva: "17 agosto. Parto solo coi criminali.
Nevierov era con me, ma si è impiccato nel manicomio di Kazàn. Io sto bene di corpo e di spirito e spero per il meglio".
Tutti commentavano il caso di Petlin e le cause del suicidio di Nevierov. Krilzòv taceva con aria assorta, fissando il vuoto con gli occhi febbricitanti.
- Mio marito mi diceva che Nevierov soffriva di allucinazioni ancora a Pietropavlosk, - disse la Rànzeva.
- Sì, era un poeta, un sognatore. Quella gente lì non sopporta la segregazione cellulare, - disse Novodvorov. - Quando ero rinchiuso in cella, io non facevo lavorare la fantasia e distribuivo il mio tempo in modo sistematico. Per questo l'ho sempre sopportata bene.
- E perché non si dovrebbe sopportarla bene? Tante volte io ero addirittura felice quando mi chiudevano in cella, - disse Nabatov con voce energica, apposta per dissipare l'atmosfera cupa. - Quando si è fuori si ha paura di tutto: di essere presi, di compromettere gli altri, e di nuocere alla causa. Ma quando si è dentro, son finite le responsabilità. Non c'è da far altro che sedere e fumare.
- Lo conoscevi bene, tu? - domandò Mària Pàvlovna sbirciando inquieta il viso affilato di Krilzòv, che si era improvvisamente cambiato.
- Nievierov un sognatore? - proruppe ad un tratto Krilzòv, ansimando come se avesse gridato o cantato a lungo. - Di uomini sul tipo di Nievierov "la terra ne produce pochi", per usare l'espressione di un nostro portiere. Sì... era un uomo adamantino, ci si vedeva attraverso. Sì... oltre che incapace di mentire, non sapeva simulare. Aveva una sensibilità finissima: non solo i nervi a fior di pelle ma addirittura scoperti. Sì... una natura composita, ricca, non una di quelle che... Be', a che serve parlarne? - egli tacque un istante. - Gli uomini della tempra di Nievierov si domandano dubbiosi che cosa sia meglio, - riprese con sdegno, aggrottando la fronte, - se prima istruire il popolo e poi cambiare le forme di vita, o prima cambiare le forme di vita e dopo... come lottare: se con la propaganda pacifica o col terrore.
Sì, si discute. Ma loro non discutono; loro sanno quel che devono fare, per loro è perfettamente uguale che ci rimettano la vita migliaia di uomini e di quali uomini! Anzi, hanno proprio bisogno che i migliori periscano. Sì, Herzen (1) diceva che quando han tolto di mezzo i decembristi, il livello sociale della Russia s'è abbassato. Certo, che s'è abbassato. Poi tolsero di mezzo anche Herzen e quelli intorno a lui. Ora è la vo1ta dei Nievierov...
- Non ce la faranno a distruggerci tutti, - disse Nabatov con la sua voce energica. - Ne rimarranno sempre per il cambio della guardia!
- No, non ne resterà neppure uno se noi continueremo a trattare loro coi guanti, - proruppe Krilzòv alzando la voce e non lasciandosi interrompere. - Dammi una sigaretta.
- Lo sai che ti fa male, Anatoli, - disse Mària Pàvlovna, per favore non fumare!
- Lascia perdere! - rispose lui arrabbiato, e accese una sigaretta. Ma fu preso da un accesso di tosse, e quasi gli venne da vomitare. Dopo aver espettorato proseguì:
"Abbiamo sbagliato metodo, abbiamo... Non dovevamo perderci a discutere, ma riunirci tutti e distruggerli...
- Anche loro sono uomini, - osservò Necliudov.
- No, non sono uomini... se han potuto far quel che hanno fatto...
Anzi, si dice che hanno inventato le bombe e i palloni. Sì, sollevarsi su un pallone, e sterminarli con le bombe finché non ne rimanga più uno... Sì, perché... - cominciò, ma divenuto ad un tratto paonazzo, fu preso da un accesso di tosse ancor più forte, e un fiotto di sangue gli sgorgò dalla bocca.
Nabatov corse a prendere la neve. Mària Pàvlovna cercò le gocce di valeriana e gliele porse, ma egli, tenendo gli occhi chiusi, la respinse con la mano bianca e scarnita. Il suo respiro era affannoso e frequente. Quando la neve e l'acqua fredda gli ebbero dato un po' di ristoro e i suoi compagni lo misero a letto, Necliudov salutò tutti e uscì nel corridoio, dove il sottufficiale che era venuto a prenderlo lo aspettava già da un pezzo.
I comuni s'erano calmati. Quasi tutti dormivano. Nonostante che si fossero sdraiati nelle cuccette, sotto le cuccette e nei passaggi, non c'era posto per tutti e una parte s'era coricata per terra nel corridoio, coi sacchi sotto la testa e le casacche umide per coperta. Nelle camerate e nei corridoi s'udiva russare, gemere e parlare nel sonno. Dappertutto si vedevano figure umane, ammonticchiate per terra, coperte dalla casacca. Soltanto nella camerata dei celibi alcuni non dormivano ma si eran raccolti in un cantuccio attorno a un mozzicone di candela, che vedendo il soldato s'affrettarono a spegnere. Nel corridoio un vecchietto sedeva nudo sotto la lampada, intento a cercarsi i pidocchi nella camicia. L'aria fetida del reparto politico sembrava purissima, in confronto al lezzo pesante di quel corridoio. La lampada fumosa mandava un chiarore soffuso di nebbia. Si faceva fatica a respirare. Per passare nel corridoio senza inciampare in qualche dormiente, bisognava cercare prima lo spazio dove mettere il piede e poi fare il passo. Tre detenuti che non avevano trovato posto neppure nel corridoio giacevano nell'andito proprio vicino al bigoncio fetido, che, perdeva dalle giunture. Uno era un vecchio scemo che Necliudov aveva più volte incontrato nelle tappe. Un ragazzo sui dieci anni giaceva tra i due uomini e dormiva con una mano sotto la guancia, appoggiato alla gamba di uno dei compagni.
Uscito all'aperto, Necliudov si fermò e respirò più volte a pieni polmoni l'aria gelata e ristoratrice.
NOTE:
Fuori brillavano le stelle. Il fango s'era indurito per il gelo e solo qua e là filtrava ancora. Arrivato al suo albergo, Necliudov bussò alla finestra buia e il solito garzone nerboruto gli venne ad aprire a piedi nudi e lo fece entrare nell'andito. A destra, s'udiva il russare sonoro dei vetturali che dormivano nel rustico, più avanti, oltre a una porta che dava nella corte, il rumore dei cavalli che ruminavano l'avena. Una porta a sinistra conduceva nella saletta. La camera era pulita, odorava di assenzio e di sudore. Dietro un tramezzo s'udiva il ronfare regolare e sano di possenti polmoni. In un vetro rosso una piccola lampada ardeva davanti all'icona. Necliudov si svestì, stese il "plaid" sopra un divano d'incerato, girò il suo guanciale di cuoio e si coricò, riandando con la mente alle cose viste e udite nella giornata: più di tutto l'ossessionava l'immagine del ragazzo che dormiva sulla gamba del detenuto.
Sul colloquio con Sìmonson e con Katiuscia egli non si soffermò a lungo; per quanto importante e impreveduto, era un pensiero troppo complesso e vago. Non ci voleva pensare.
Vivissimo era invece in lui il ricordo di tutti gli infelici che soffocavano in quell'aria asfissiante, sdraiati sulla broda fetida che colava dal bigoncio. L'immagine del povero ragazzo dal viso innocente addormentato sulla gamba del forzato non gli dava tregua.
Altro è sapere che, in un dato luogo magari lontanissimo, c'è chi tormenta e corrompe i propri simili esponendoli a ogni sorta di umiliazioni e di sofferenze inumane, altro è assistere per tre mesi consecutivi allo spettacolo di questi maltrattamenti inflitti dagli uni e subiti dagli altri. E Necliudov ne faceva la prova.
Più di una volta, nel corso di quei tre mesi, s'era domandato:
"Sono pazzo io che vedo cose che agli altri sfuggono, oppure sono pazzi gli altri che le fanno e le tollerano?". Ma gli altri - ed erano molti - agivano con la tranquilla certezza di compiere non soltanto il loro dovere, ma un dovere molto importante e utile.
Stentava a credere che fossero tutti pazzi, e d'altra parte non poteva ammettere d'essere pazzo lui, perché le sue idee gli sembravano chiare e giuste. E perciò non sapeva a che partito appigliarsi.
Ma da quanto aveva veduto nel corso di quei tre mesi, poteva trarre le seguenti conclusioni: in primo luogo la magistratura e gli organi amministrativi sceglievano fra gli uomini liberi, i più nervosi, ardenti ed eccitabili, insomma quelli che, essendo i più dotati e vigorosi, erano anche i meno astuti e cauti; e benché costoro non fossero più colpevoli e pericolosi degli altri, li chiudevano nelle case di pena, costringendoli per mesi e anni ad un ozio assoluto, con la vita materiale assicurata, lontani dalla natura, dalla famiglia, dal lavoro, cioè da ogni condizione di vita naturale e morale.
In secondo luogo, in questi stabilimenti penali le persone subivano una quantità di inutili umiliazioni come le catene, la testa rasa, l'abito da forzato. Umiliazioni che le privava di tutto ciò che costituisce per i deboli il principale sprone ad una vita onesta, vale a dire la preoccupazione dell'opinione pubblica, la vergogna, la coscienza della dignità umana.
In terzo luogo questi uomini si trovavano esposti costantemente a pericoli mortali, anche prescindendo dai casi eccezionali di insolazione, di annegamento, d'incendio, di malattie infettive - immancabili nei luoghi di reclusione - di esaurimento, di percosse. Essi perciò si trovavano sempre in quello stato d'animo in cui anche l'uomo più buono e più onesto è portato dall'istinto di conservazione a compiere e a giustificare le azioni più turpi ed efferate.
In quarto luogo costoro, costretti a stare in compagnia di viziosi, di assassini, di malfattori - esseri corrotti esclusivamente dalla vita e in particolare dagli stabilimenti penali - ne subivano l'influenza; e tutta quella corruzione, in chi non era ancora completamente guastato dai mezzi in vigore, operava come il lievito nella pasta.
In quinto luogo, infine, a tutte le persone sottoposte a questo trattamento veniva inculcato nel modo più persuasivo, e cioè per mezzo di tutta una serie di atti inumani - la tortura dei bambini, delle donne, dei vecchi, le percosse, la fustigazione con verghe e fruste, l'assegnazione di premi a chi consegnava vivo o morto un fuggitivo, la separazione dei mariti dalle mogli e la coabitazione forzata delle mogli degli uni coi mariti delle altre, le fucilazioni e le impiccagioni - s'inculcava nel modo più persuasivo il principio che violenze, crudeltà, bestialità d'ogni sorta non solo non erano vietate, ma anzi erano raccomandate dal governo quando gli recavano un utile. E perciò tanto più lecite a uomini privi della libertà, ridotti alla miseria e alla disperazione.
Sembrava quasi che queste misure fossero state inventate apposta per ottenere un concentrato di depravazione e di vizio, da diffondere in tutti gli strati del popolo. In nessun altro modo ciò sarebbe stato possibile. "Quasi si fossero assegnato il compito: come corrompere meglio e sicuramente un maggior numero di persone", pensava Necliudov, meditando su ciò che avveniva nelle case di pena. Centinaia di migliaia di persone erano portate ogni anno al punto massimo di depravazione e poi rilasciate in libertà perché diffondessero in tutto il paese la corruzione di cui s'erano saturate nelle carceri.
Nelle prigioni di Tiumen, Jekatierinbùrg, Tomsk e nelle tappe, Necliudov aveva potuto constatare come questo scopo, che sembrava rispondere a un piano sociale, fosse raggiunto con successo. Gente semplice, comune, con saldi principi di una morale sociale cristiana e contadina, abbandonava questi concetti e ne assorbiva altri di marca carceraria, consistenti soprattutto nell'ammettere che qualsiasi affronto o sopruso contro la personalità umana fino all'annientamento di essa è lecito se è vantaggioso.
Chi viveva nelle prigioni, assistendo ai maltrattamenti inflitti ai detenuti, si persuadeva intimamente che le sacre leggi di rispetto e di carità del prossimo, predicate dai maestri della Chiesa e della morale, erano tutte menzogne, alle quali non erano tenuti ad ubbidire.
Necliudov ne trovava la conferma in tutti i detenuti che conosceva: in Fiòdorov, in Makàr e anche in Taràs, che dopo due mesi di tappa lo aveva sbalordito per l'immoralità dei suoi giudizi. Lungo il percorso aveva saputo che i vagabondi fuggono nelle taighe convincendo qualche compagno a seguirli, e poi l'uccidono e lo mangiano. Ne aveva conosciuto uno, reo confesso. E purtroppo questi casi di antropofagia non erano isolati ma assai diffusi.
Solo coltivando il vizio intensamente come si faceva negli stabilimenti penali, era possibile portare un russo al punto di abiezione toccato dai vagabondi. Costoro, precursori avanti lettera della recentissima dottrina di Nietzsche per cui tutto è lecito e nulla è proibito, ne diffondevano l'insegnamento dapprima fra i detenuti, poi in seno al popolo.
Secondo i libri, tutte queste misure trovavano la loro giustificazione nella necessità di segregare gli individui pericolosi, di intimorirli, di correggerli, di ricorrere alla rappresaglia legale. Ma in realtà non vi era neppur l'ombra di tutto ciò; le cose erano assai diverse. Invece di segregare, si propagava la delinquenza, invece di intimidire si incoraggiava al delitto, giacché molti, come i vagabondi, andavano in prigione di loro spontanea volontà. Invece di correggere si diffondeva il contagio sistematico di tutti i vizi, e in quanto poi alla rappresaglia, le punizioni legali non la mitigavano affatto, ma ne diffondevano l'idea nel popolo, dove non esisteva.
"Ma perché, allora, fanno tutto questo?", si domandava Necliudov, e non trovava risposta.
Lo stupiva moltissimo che tutto questo avvenisse non per un caso, per qualche malinteso o sporadicamente, ma sempre, da centinaia d'anni, con la sola differenza che una volta si strappavano narici e orecchie, si bollava col fuoco, si torturava con le verghe di ferro, e ora si mettevano le manette e si trasportavano i reclusi per ferrovia invece che sui carri.
Da quanto gli aveva detto il personale, quel complesso di cose che lo indignava tanto dipendeva dall'imperfetta organizzazione delle case di pena, e avrebbe potuto essere migliorato ricorrendo a un nuovo tipo di prigioni. Ma questo ragionamento non appagava Necliudov. Egli capiva infatti che il male deprecato non dipendeva da un'organizzazione più o meno perfetta dei reclusori; aveva letto di prigioni modernissime coi campanelli elettrici, di esecuzioni con la sedia elettrica, consigliate da Tarde, e questo perfezionamento della violenza l'aveva indignato ancor più.
Necliudov ardeva di sdegno all'idea che i giudici e i funzionari ministeriali percepissero lauti stipendi succhiati al popolo, semplicemente per leggere in certi libri scritti coi medesimi fini da altri impiegati uguali a loro, quali articoli di legge da loro compilati si potevano applicare alle azioni della gente che le trasgrediva; e secondo tali articoli si sbarazzavano delle persone mandandole in luoghi, dove trovandosi in assoluta balia di direttori, di carcerieri, di scorte crudeli e abbrutite, morivano a milioni spiritualmente e materialmente.
Dopo una conoscenza più diretta con le prigioni e le tappe, Necliudov s'era reso conto che i vizi diffusi tra i carcerati, come l'ubriachezza, il giuoco, la crudeltà e tutti gli efferati delitti commessi dai criminali compreso il cannibalismo, non sono fenomeni sporadici o la manifestazione anormale di un preteso delinquente-tipo, come blaterano, a profitto dei governi, ottusi scienziati, ma l'inevitabile conseguenza di un'aberrazione mostruosa, nata dal presupposto che alcuni uomini hanno il diritto di giudicarne altri.
Necliudov comprendeva che il cannibalismo non aveva le sue radici nella "taigà", ma nei ministeri, nei comitati e nei dicasteri.
Comprendeva che uomini come suo cognato e tutti i vari giudici e funzionari, dal cancelliere fino al ministro, se ne lavavano le mani della giustizia e del bene del popolo di cui tanto parlavano; e miravano unicamente ad intascare i rubli che venivano loro corrisposti perché svolgessero l'opera da cui nascevano tante sofferenze e tanta corruzione. Ciò era evidentissimo.
"Possibile che sia tutto effetto di un malinteso? Come conservare a tutti questi funzionari il loro stipendio e anzi premiarli purché si astengano dal fare ciò che fanno?", pensava Necliudov. E su questa considerazione, già dopo il secondo canto dei galli, nonostante le pulci che al minimo movimento gli saltellavano addosso come gli spruzzi di una fontana, s'addormentò di un sonno profondo.
Quando si svegliò, i vetturini se n'erano già andati da un pezzo.
La padrona aveva bevuto il tè, e asciugandosi col fazzoletto il collo grasso e sudato, venne a dirgli che un soldato della tappa aveva portato un biglietto per lui.
Il biglietto era di Mària Pàvlovna. Scriveva che Krilzòv aveva avuto un attacco più grave di quanto essi pensassero. "Pensavamo di lasciarlo qui e di rimanere con lui, ma non ce l'hanno permesso. Lo portiamo via, molto preoccupati. Forse in città potreste ottenere che, se lo lasciano indietro, qualcuno di noi si fermi con lui. Se fosse necessario, acconsentirei anche a sposarlo.
Necliudov mandò il garzone a prendere i cavalli alla stazione di posta e si affrettò a prepararsi. Non aveva ancora finito il secondo bicchiere di tè, che udì tintinnare i sonagli e cigolare le ruote della troica sul fango gelato, duro come il lastrico. La vettura si fermò davanti all'ingresso.
Pagata l'ostessa dal collo grasso, Necliudov uscì subito e sedutosi sulla traversa della teliega, ordinò al vetturino di correre per raggiungere al più presto lo scaglione. Non lontano dalle porte del paese trovò infatti gli ultimi carri della colonna, carichi di fagotti e di ammalati, che rotolavano con fracasso sul fango gelato che cominciava a sciogliersi.
L'ufficiale era andato avanti. I soldati, un po' brilli, chiacchieravano, seguendo i carri dal margine della strada. I carri erano molti. In quelli di testa sedevano pigiati i detenuti comuni più deboli, in sei per carro.
I politici, invece, in tre per carro, viaggiavano su quelli di coda. Nell'ultimo Novodvorov, la Grabez e Kondratiev, davanti la Rànzeva, Nabatov e la donna malata di reumatismi alla quale Mària Pàvlovna aveva ceduto il posto; nel terz'ultimo Krilzòv, steso sulla paglia e sui cuscini. Vicina a lui, sulla sponda del carro, Mària Pàvlovna; Necliudov fece fermare la carrozza e si avvicinò.
Un soldato della scorta, un po' brillo, gli fece segno di andarsene, ma Necliudov non gli badò, e accostatosi al carro, gli si mise a fianco, reggendosi con una mano alla sponda.
Avvolto in una pelliccia di montone, con un berretto di agnello e un fazzoletto annodato intorno alla bocca, Krilzòv sembrava ancor più magro e pallido del solito. I suoi magnifici occhi erano straordinariamente grandi e lucenti. Sobbalzando passivamente ad ogni scossone del carro, guardava fisso Necliudov, e quando questi gli domandò come stava, si limitò a chiudere gli occhi crollando irritato la testa. Si capiva che lottava con tutte le sue forze per resistere ai sobbalzi del carro. Mària Pàvlovna sedeva dall'altra parte. Essa scambiò con Necliudov un'occhiata significativa in cui vi era tutta la sua ansia per lo stato di Krilzòv; e subito cominciò con voce allegra:
- Si vede che l'ufficiale ha avuto vergogna - gridava per farsi udire da Necliudov, attraverso il fracasso delle ruote.
- A Buzovkin han levato le manette e gli lascian la bambina. Ci son con lui Katia, Sìmonson e Viéroc'ka che ha preso il mio posto.
Krilzòv disse qualcosa che non si riuscì ad afferrare, indicando Mària Pàvlovna, e aggrottate le sopracciglia nello sforzo palese di non tossire, scosse la testa. Necliudov avvicinò l'orecchio per sentir meglio. Allora Krilzòv scostò la bocca dal fazzoletto e mormorò:
- Adesso va molto meglio. Basta che non mi buschi un raffreddore.
Necliudov approvò con un segno del capo e scambiò un'occhiata con Mària Pàvlovna.
- Be', e il problema dei tre corpi, come va? - sussurrò ancora Krilzòv e sorrise a fatica, con pena. - E' difficile da risolvere?
Necliudov non capiva, ma Mària Pàvlovna gli spiegò che si trattava di un famoso quesito matematico relativo ai rapporti fra i tre corpi astronomici del sole, della luna e della terra, che Krilzòv, scherzando, aveva applicato ai rapporti fra Necliudov, Katiuscia e Sìmonson. L'ammalato approvò con un cenno del capo la spiegazione di Mària Pàvlovna.
- La soluzione non dipende da me, - disse Necliudov.
- Avete ricevuto il mio biglietto? Ve ne occuperete? - domandò Mària Pàvlovna.
- Senza dubbio, - rispose Necliudov, e notando sul viso di Krilzòv un'espressione di malcontento, ritornò alla sua vettura, montò sull'alto sedile, e tenendosi alle sponde della teliega che lo faceva sussultare sulle asperità della strada accidentata, andò a raggiungere la fila lunga una versta di cappe grige e di pellicciotti, di piedi con le catene e di ammanettati in coppia.
Sul lato opposto della strada riconobbe il fazzoletto azzurro di Katiuscia, il cappotto nero di Viera Efrèmovna, la giacchetta, il berretto a maglia, le calze di lana bianca legate con lacci come i sandali di Sìmonson. Questi camminava accanto alle donne e parlava infervorato.
Vedendo Necliudov, le donne lo salutarono e Sìmonson sollevò il berretto con aria esultante. Necliudov che non aveva niente da dire passò via senza fermare la carrozza. Giunti di nuovo sulla strada Uscia, il vetturino accelerò la corsa, ma doveva continuamente uscire dalla strada buona per lasciar passare i carri che sfilavano da una parte e dall'altra.
La strada, tutta solchi profondi, s'inoltrava in una buia foresta di conifere, dove il fogliame delle betulle e dei larici presentava variopinte sfumature, dal giallo chiaro al giallo sabbia. A metà del percorso, la foresta finì, ai due lati della via si aprirono i campi, e apparvero le croci e le cupole dorate di un monastero.
Il tempo s'era rasserenato, dileguate le nuvole, il sole s'era alzato al di sopra del bosco, e faceva scintillare il fogliame bagnato, le pozzanghere, le cupole e le croci delle chiese.
Lontano, a destra, sull'orizzonte grigio-azzurro spiccavano le montagne, tutte bianche. La troica entrò in un grosso villaggio nelle vicinanze della città. La via era piena di gente - russi e indigeni coi loro caratteristici gabbani e berretti.
Persone d'ambo i sessi ubriache e sobrie si pigiavano rumorosamente davanti alle botteghe, alle trattorie, alle bettole e ai carri. Si sentiva la vicinanza della città.
Con una frustata e uno strattone al cavallo di destra, il cocchiere sedette di fianco in modo da avere le redini a destra, evidentemente per far bella figura, e percorsa di carriera la strada grande, arrivò senza rallentare al fiume che s'attraversava sopra un traghetto.
La zattera era in mezzo al fiume e stava avvicinandosi alla riva.
Sull'altra sponda aspettavano una ventina di carri. Ma Necliudov non dovette attender molto. Sollevandosi contro corrente, la zattera portata dalle acque rapide non tardò a raggiungere il molo.
Alcuni battellieri in pellicciotto, alti, larghi di spalle, muscolosi e taciturni, gettarono, con gesti abili e meccanici, gli ormeggi, e li fissarono ai pali; poi, aperta la sbarra, fecero uscire dalla chiatta i carri e ne caricarono altri, riempiendola tutta di veicoli e di cavalli che recalcitravano davanti all'acqua. L'ampio fiume rapido sferzava i bordi della chiatta tendendo i canapi. Quando la zattera fu piena e la teliega di Necliudov coi cavalli staccati fu stipata in mezzo agli altri veicoli su un fianco della zattera, i barcaioli chiusero la sbarra, senza badare alle proteste di quelli che erano rimasti a terra, sciolsero gli ormeggi e presero il largo. Sulla chiatta vi era una gran calma; s'udivano soltanto i passi dei battellieri e lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli sulle assi.
Necliudov, in piedi sull'orlo della chiatta, guardava il fiume ampio e rapido. Nella sua immaginazione si alternavano due immagini: la testa sussultante per gli scossoni di Krilzòv moribondo e irritato, e la figura di Katiuscia sul filo della strada, che camminava sicura al fianco di Sìmonson. L'immagine del moribondo Krilzòv che non si rassegnava a morire, era penosa e triste; l'altra, della coraggiosa Katiuscia, che aveva trovato l'amore di un uomo come Sìmonson ed era ormai avviata sulla via sicura e giusta del bene, avrebbe dovuto dargli un senso di gioia, e gli dava invece una gran pena: una pena che non sapeva vincere.
Dalla città arrivò portato dall'acqua il rintocco vibrante e metallico di una grossa campana. Il vetturale di Necliudov, in piedi accanto a lui, e tutti i carrettieri si tolsero l'uno dopo l'altro il berretto e si segnarono. Invece un vecchietto tutto arruffato di cui Necliudov non si era accorto, che stava vicino alla sponda, non li imitò. Guardava Necliudov a testa alta.
Indossava una veste tutta toppe, pantaloni di panno e scarpe logore, pezzate. Portava sulla schiena una bisaccia, in testa un berrettone frusto di pelle.
- E tu, vecchio, perché non preghi? - gli domandò il vetturino di Necliudov, rimettendosi il berretto in capo. - Non sei battezzato forse?
- E chi dovrei pregare? - rispose il vecchio con piglio deciso e scandendo in fretta le parole.
- Si sa chi... Iddio! - esclamò ironicamente il vetturino.
- Mi sai far vedere dov'è, Lui? il tuo Dio?
Nell'espressione del vecchio vi era qualcosa di così duro, di così grave, che il vetturino, sentendo di aver di fronte una volontà forte, si confuse un po'. Ma non se ne fece accorgere, e, per non fare brutta figura davanti al pubblico che lo stava ascoltando, rispose in fretta:
- Dov'è? Ma lo san tutti, in cielo.
- Ci sei stato, tu?
- Per esserci, non ci sono stato, ma tutti sanno che bisogna pregare Dio.
- Dio, non l'ha mai visto nessuno. Il figlio unigenito, che è nel seno del padre, l'ha detto, - fece il vecchio accigliato, con la sua parlata rapida.
- Allora tu non sei cristiano! Non preghi niente. Il vuoto preghi!
- disse il vetturino, infilando la frusta nella cintura e aggiustando il sottocoda ad uno dei cavalli laterali.
Qualcuno rise.
- Ma tu, nonno, di che religione sei? - domandò un uomo non più giovane, che stava col suo carro sull'orlo della chiatta.
- Io? Non ne ho di religione, io Non credo a nessun altro fuorché a me stesso, - rispose sempre in fretta e risolutamente il vecchio.
- Ma come si fa a credere a se stessi? - intervenne Necliudov. - Uno può sbagliarsi...
- No e poi no, - rispose pronto il vecchio crollando capo.
- E come mai allora ci sono tante religioni? - domandò Necliudov.
- Perché la gente ha fede negli altri e non in sé. Anch'io credevo negli uomini e ho errato come in una "taigà", e mi ero talmente smarrito, che non credevo più di uscirne. E vecchi credenti e nuovi credenti e sabbatisti e flagellanti e clistì e popovzi e non popovzi e molocani e skopzì. Tutte sette che pretendono d'essere nel giusto, che si trascinano di qua e di là come cuccioli ciechi.
Di religioni ce ne sono tante ma lo spirito è uno. In te, in me, in lui. Se dunque ciascuno crederà allo spirito che ha in sé, tutti saranno uniti. Che ciascuno sia con se stesso e tutti saranno come uno solo.
Il vecchio parlava forte e si guardava d'attorno come se volesse farsi ascoltare dal maggior numero di persone.
- E' molto tempo che andate predicando a questo modo? - gli domandò Necliudov.
- Io? Da un pezzo. E' da ventitré anni che mi perseguitano.
- Come, perseguitano?
- Come hanno perseguitato Cristo, perseguitano anche me. Mi acciuffano e mi trascinano davanti ai tribunali, a preti, a scribi e farisei; in manicomio mi han ficcato. Ma non mi si può far nulla perché sono libero. "Come ti chiami?", mi domandano. Credono che io abbia un nome. Ma io non ne ho nessuno. Ho rinunciato a tutto:
non ho nome, né paese, né patria... nulla ho. Io sono io. "Come ti chiami?". "Uomo". "Quanti anni hai?". "Io", dico, "non li conto e neppure li posso contare, perché sempre sono stato e sempre sarò".
"Chi sono tuo padre e tua madre?". "Non ho padre né madre, tranne Dio e la terra. Dio è mio padre, la terra, mia madre". "E lo zar", mi domandano, "lo riconosci?". "E perché no! Lui è zar per conto suo e io son zar per conto mio". "Be'", dicono, "non c'è gusto a parlare con te". E io: "Ma non son io che l'ho domandato". Così mi continuano a tormentare.
- E adesso dove andate? - domandò Necliudov.
- Dove Dio mi manda. Lavoro, e se non trovo lavoro, chiedo la carità, - concluse il vecchio.
E vedendo che la chiatta stava per raggiungere la riva opposta, guardò i suoi ascoltatori con aria trionfante.
La chiatta attraccò.
Necliudov tirò fuori il borsellino e offrì al vecchio un po' di denaro. Il vecchio rifiutò.
- Soldi non ne accetto. Solo il pane.
- Scusa.
- Non c'è nulla da scusare. Non mi hai offeso. Nessuno può offendermi, - disse il vecchio buttandosi la bisaccia sulle spalle.
Nel frattempo la vettura era stata scaricata e i cavalli attaccati.
- Avete voglia, signore, di discorrere! - disse il vetturino a Necliudov, quando questi, dopo aver dato la mancia ai robusti barcaioli, montò sulla teliega. - Non è che un vagabondo senza cervello.
Salendo per la strada che portava in città, il vetturino si voltò.
- A che albergo devo condurvi?
- Qual è il migliore?
- Il Siberia. Ma si sta bene anche da Diukov.
- Dove vuoi.
Il vetturino tornò a sedersi di fianco e partì al galoppo.
La città era simile a tutte le città: le stesse case coi mezzanini e i tetti verdi, la stessa cattedrale, le stesse botteghe che nella via principale diventano negozi, persino le stesse guardie urbane. La maggior parte delle case era però di legno e le strade non erano selciate.
In una delle vie più animate il vetturino fermò la troica davanti all'ingresso di un albergo. Ma quell'albergo era tutto occupato, sicché si dovette cercare altrove. Finalmente capitò una camera libera e Necliudov, per la prima volta dopo due mesi, ritrovò in parte le sue vecchie abitudini di pulizia e di comodità.
Per quanto la camera che gli avevano assegnata fosse messa con poco lusso, egli provò un senso di grande sollievo, dopo il viaggio sulle vetture postali, le locande e le tappe. Sentiva soprattutto il bisogno di ripulirsi dai pidocchi, di cui, visitando le tappe, non s'era mai potuto liberare completamente.
Deposto il bagaglio, andò subito nel bagno, dove si mise in abito di città: indossò una camicia inamidata, un paio di pantaloni con la piega, la redingote e il cappotto, e si recò dal governatore della provincia.
Chiamato dal portiere dell'albergo, un tintinnante carrozzino tirato da un cavallo chirghiso grosso e ben pasciuto lo portò davanti a un edificio imponente accanto al quale stavano sentinelle e guardie di città.
La casa era circondata da un giardino, in cui, tra i rami ritti e spogli dei pioppi tremuli e delle betulle, appariva il verde cupo e frondoso degli abeti e dei pini.
Il generale era indisposto e non riceveva. Necliudov tuttavia pregò il servitore di passare il suo biglietto da visita, e questi ritornò con una risposta favorevole.
- Potete passare.
L'anticamera, il lacché, l'ordinanza, la scala, il salone col pavimento di legno lucidato a cera, ricordavano Pietroburgo, con meno pulizia e più pompa. Necliudov fu introdotto nello studio.
Il generale, un uomo sanguigno e gonfio, col naso a patata, le bozze frontali sporgenti, il cranio calvo e le borse sotto gli occhi, sedeva in una vestaglia tartara di seta, e tenendo fra le dita una sigaretta, beveva il tè da un bicchiere montato in argento.
- Buongiorno, mio caro. Scusatemi se vi ricevo in vestaglia.
Sempre meglio che non ricevervi affatto... - disse, tirandosi la veste sulla nuca tutta a pieghe di grasso. Sono un po' indisposto e non esco. Qual buon vento vi ha portato nel nostro sperduto regno?
- Ho seguito un convoglio di detenuti, di cui fa parte una persona che mi è cara, - disse Necliudov, - e son venuto a pregare Vostra Eccellenza a proposito di questa persona ed anche per un altro favore.
Il generale aspirò una boccata di fumo, bevve un sorso di tè, spense la sigaretta nel posacenere di malachite e senza distogliere gli occhi stretti umidi e brillanti, dal viso di Necliudov, si mise ad ascoltarlo attentamente. Lo interruppe soltanto per chiedergli se voleva fumare.
Il generale apparteneva a quella categoria di militari colti che credono di poter conciliare il liberalismo e le idee umanitarie con la loro professione. Ma essendo un uomo intelligente e buono, si era accorto molto presto dell'inutilità dei suoi sforzi, e per sfuggire al contrasto spirituale in cui si trovava di continuo, s'era dato sempre più al vino, vizio assai diffuso fra i militari.
E ci aveva fatto talmente l'abitudine, che dopo trentacinque anni di servizio era divenuto quel che i medici chiamano un alcolizzato. Era completamente imbevuto d'acquavite. Qualsiasi liquido lo rendeva ubriaco. Il bere era per lui una necessità vitale, sicché ogni giorno arrivava a sera completamente brillo.
Eppure ci si era così bene assuefatto che nessuno l'aveva mai visto barcollare o sentito dire sciocchezze. Ed anche le avesse dette, occupava una posizione così elevata ed importante che qualsiasi stupidaggine uscita dalla sua bocca sarebbe stata accolta come un discorso pieno di senno.
Soltanto al mattino, appunto all'ora in cui Necliudov si era recato da lui, aveva l'aspetto di una persona ragionevole ed era in grado di capire ciò che gli si diceva, mettendo in pratica, più o meno con successo, il proverbio che gli piaceva ripetere:
ubriaco e intelligente son virtù di poca gente.
Le autorità superiori sapevano che era un ubriacone, ma trattandosi di un uomo più colto degli altri - sebbene la sua cultura si fosse fermata al punto in cui era subentrata l'ubriachezza - ed essendo coraggioso, abile, imponente e pieno di tatto, anche in stato di ebrietà, per tutte queste ragioni gli avevano dato quella carica importante, e ce lo lasciavano.
Necliudov gli raccontò che la persona di cui si interessava era una donna, condannata ingiustamente; e gli disse del ricorso di grazia.
- Bene. E allora? - domandò il generale.
- Mi hanno promesso a Pietroburgo che entro questo mese mi sarà data notizia della sua sorte. Mi scriveranno qui...
Senza distogliere gli occhi da Necliudov, il generale allungò verso la tavola la mano tozza, suonò il campanello e continuò ad ascoltare in silenzio, soffiando via il fumo della sigaretta e tossendo rumorosamente.
- Vorrei pregarvi, se è possibile, di trattenere qui questa donna finché non si sappia l'esito della domanda di grazia.
Entrò il lacché, un'ordinanza in uniforme.
- Informati se Anna Vassilievna è alzata, - disse il generale all'ordinanza, - e porta dell'altro tè. E poi che c'è ancora? - si rivolse il generale a Necliudov.
- L'altra mia preghiera, - proseguì Necliudov, - riguarda un prigioniero politico, che fa parte anche lui di questo convoglio.
- Ma guarda! - disse il generale, scuotendo il capo con aria espressiva.
- E' gravemente ammalato... sta per morire. Probabilmente lo lasceranno qua all'infermeria. Una detenuta politica desidererebbe fermarsi con lui.
- E' una sua parente?
- No, ma è disposta a sposarlo, se questo può darle il diritto di fermarsi.
Il generale continuava a fumare e guardava fissamente Necliudov coi suoi occhi luccicanti senza dir parola, come se col suo sguardo volesse metterlo in imbarazzo. Quando Necliudov s'interruppe, prese un libro dal tavolo, e voltando rapidamente le pagine col dito bagnato di saliva, trovò il paragrafo sul matrimonio e lesse.
- A che pena è condannata? - domandò, alzando gli occhi dal libro.
- Lei? Ai lavori forzati.
- Be', la condizione di un condannato non può migliorare in seguito al matrimonio.
- Ma vedete...
- Scusate. Se si sposasse con un uomo libero, dovrebbe comunque scontare la sua condanna. Qui sta la questione: chi deve subire la pena più dura, lui o lei?
- Sono condannati tutti e due ai lavori forzati. - Allora siam pari e patta, - disse ridendo il generale. - Tanto a lui quanto a lei. Lui può essere trattenuto per malattia, - proseguì, - e, naturalmente si farà tutto il possibile per alleggerire la sua sorte; ma lei, anche sposandolo, non può fermarsi...
- La generalessa prende il caffè, - riferì il domestico.
Il generale fece un cenno d'assenso e proseguì:
- Del resto, ci penserò ancora. Come si chiamano? Scrivetemi un po' qua i loro nomi.
Necliudov li scrisse.
- Non posso concedervi neppur questo, - disse il generale, quando Necliudov gli chiese il permesso di vedere il malato. - Non che io sospetti di voi, s'intende! Ma voi vi interessate di costoro e avete mezzi. Ora, qui da noi, si vende tutto. Mi si dice di sradicare la venalità. Ma come potrei sradicarla quando tutti si vendono? Soprattutto nei gradi più bassi? E poi come sorvegliare una estensione di cinquemila verste? Ogni funzionario è un piccolo zar, sul suo territorio, come lo sono io qua, - e si mise a ridere. - Voi certo vi siete incontrato coi politici; avrete profuso denaro e vi avranno lasciato passare... - disse sorridendo. - Non è vero?
- Sì, è vero.
- Capisco che abbiate agito così. Volete vedere un politico. Vi fa pena. E il direttore o il capo della scorta accettano il vostro denaro, perché quei quattro soldi che ricevono di paga non bastano alla famiglia. Anch'io, nel panni loro o nei vostri, agirei allo stesso modo. Ma al mio posto non posso permettermi di derogare alla più rigida osservanza della legge, appunto perché sono un uomo e posso lasciarmi impietosire. Sono un semplice esecutore, io: mi hanno assegnato un posto di fiducia a determinate condizioni, e devo dimostrare di sapermela meritare. Dunque questo argomento è chiuso. E adesso ditemi un po', che si fa da voi nella metropoli?
E il generale cominciò a fare un mucchio di domande e di discorsi evidentemente ansioso sia di conoscere le novità, sia di dimostrare tutta la sua importanza e il suo senso umanitario.
- Bene, bene. Ma ditemi un po', dove siete alloggiato? Da Diukov?
Uff, anche là si sta male. Venite a pranzo da me, - disse il generale, congedando Necliudov, - alle cinque. Parlate l'inglese?
- Sì, lo parlo.
- Allora benissimo. Abbiamo qui un inglese, un turista. Sta studiando le prigioni e l'esilio in Siberia. Pranzerà da noi quest'oggi. Venite anche voi. Si mangia alle cinque, e mia moglie esige la puntualità. Così vi darò una risposta in merito alla vostra donna e al vostro malato. Chissà che non sia possibile lasciargli vicino qualcuno.
Salutato il generale, Necliudov andò alla posta. Si sentiva molto eccitato e pieno di energia.
L'ufficio postale era una stanza bassa, a volta: gli impiegati seduti dietro gli sportelli, distribuivano la corrispondenza alla gente che faceva ressa. Un impiegato, con la testa china da un lato timbrava senza mai fermarsi le buste che faceva scorrere destramente l'una dopo l'altra. Necliudov non dovette aspettare molto. Saputo il suo nome, gli fu subito consegnato un grosso pacco di corrispondenza. Vi erano i denari, parecchie lettere, libri e l'ultimo numero del "Messaggero d'Europa" (1).
Avute le sue lettere, Necliudov si appartò su una panca di legno accanto a un soldato che stava lì, aspettando con un libretto fra le mani. Passando le lettere, ne vide una raccomandata, una bellissima busta con un grosso sigillo rosso vivo. La dissuggellò, e vedendo una lettera di Selenin, e un documento ufficiale, sentì che il sangue gli affluiva al viso e che il cuore gli si stringeva. Era la risposta per Katiuscia. Qual era questa risposta? Forse un rifiuto? Necliudov scorse in fretta la scrittura minuta, quasi indecifrabile, a linee ferme e spezzate, e trasse un sospiro di gioia: la risposta era favorevole.
"Caro amico", scriveva Selenin, "il nostro ultimo colloquio ha lasciato in me una profonda impressione. Avevi ragione riguardo alla Màslova. Ho esaminato accuratamente l'incartamento e mi son convinto che è stata commessa ai suoi danni una imperdonabile ingiustizia. Soltanto la Commissione per le domande di grazia, dove tu ti sei rivolto, poteva rimediarci. Avendo contribuito in quella sede al buon esito della questione, ti mando copia del decreto di grazia all'indirizzo che mi ha dato la contessa Jekatierina Ivànovna. Il documento originale è stato spedito nella località dove ha avuto luogo il processo, e con tutta probabilità verrà rimandato subito all'amministrazione centrale della Siberia.
Mi affretto a comunicarti la buona notizia e ti stringo affettuosamente la mano - Tuo Selenin".
Il documento era così formulato: "Cancelleria di Sua Maestà Imperiale, Ufficio grazie, Sezione tale, tavola tale, data tale.
Per ordine del direttore generale della cancelleria di Sua Maestà Imperiale ufficio grazie, si comunica alla borghese Jekatierina Màslova che Sua Maestà Imperiale, visto il rapporto presentato, accoglie la richiesta della Màslova, degnandosi di commutare la condanna ai lavori forzati in quella dell'esilio in una località non lontana della Siberia".
La notizia era bella e importante. Si avverava tutto ciò che Necliudov poteva sperare per Katiuscia e anche per sé. E tuttavia quel cambiamento avrebbe complicato maggiormente i loro rapporti.
Finché rimaneva ai lavori forzati, il matrimonio che egli le aveva offerto non poteva essere che fittizio e non aveva altro scopo che di alleviare le sue condizioni. Ora invece nulla avrebbe più ostacolato la loro vita in comune, e a ciò Necliudov non era preparato. E i suoi rapporti con Sìmonson? Che significavano le sue parole della sera prima? Se essa avesse accettato l'unione con Sìmonson, era un bene per lui? o un male?
Non gli riusciva di raccapezzarsi in quel groviglio di pensieri.
"Deciderò poi", pensò, "ora devo vederla al più presto per comunicarle la lieta notizia e farla uscire".
Egli credeva che la copia di cui era in possesso sarebbe stata sufficiente allo scopo. Uscito dalla posta, ordinò al vetturino di condurlo al carcere.
Sebbene il governatore quel mattino gli avesse rifiutato il permesso di entrarvi, Necliudov sapeva per esperienza che ciò che non si può ottenere dalle autorità superiori spesso si ottiene da quelle inferiori. Decise perciò di tentare ugualmente l'accesso al carcere, per comunicare subito a Katiuscia la bella novità, e forse per farla uscire. E poi desiderava avere notizie di Krilzòv e riferire a lui e a Mària Pàvlovna ciò che il generale gli aveva detto.
Il direttore del carcere era un uomo grande e grosso dall'aspetto imponente, coi baffi e le fedine che si ripiegavano agli angoli della bocca. Accolse Necliudov con aria burbera, e gli dichiarò apertamente che senza il permesso dell'autorità gli estranei non potevano entrare. E quando Necliudov gli fece osservare che anche nelle grandi città gliel'avevano sempre permesso, rispose:
- Può darsi, ma io non posso.
Il tono della sua voce diceva chiaramente: "Voi, signori della capitale, credete di meravigliarci e di confonderci: ma noi, anche nella Siberia orientale, sappiamo benissimo i regolamenti e forse possiamo insegnarveli".
Neppure la copia del decreto che veniva dalla cancelleria privata di Sua Maestà gli fece effetto: si rifiutò recisamente di lasciar entrare Necliudov fra le mura delle carceri. All'ingenua domanda di Necliudov se la copia del decreto fosse sufficiente per fare uscire la Màslova, si limitò a sorridere con disprezzo, dichiarando che per dimettere chiunque si fosse ci voleva un ordine del suo superiore. Gli promise però che avrebbe comunicato alla Màslova l'esito della domanda di grazia e che, non appena ricevuto l'ordine, l'avrebbe rilasciata immediatamente. Si rifiutò anche di dare qualsiasi informazione sulla salute di Krilzòv, dicendo che non sapeva nemmeno che esistesse un detenuto di quel nome. Sicché, senza aver cavato un ragno dal buco, Necliudov montò di nuovo in carrozza e si fece ricondurre all'albergo.
La severità del direttore dipendeva soprattutto dal fatto che nella prigione, affollata il doppio del normale, era scoppiata un'epidemia di tifo. Necliudov l'aveva saputo dal vetturino, che lungo la strada gli aveva detto: "In prigione muoiono come le mosche. Li ha colpiti non si sa che malanno. Ogni giorno c'è da seppellirne una ventina...".
NOTE:
Nonostante l'insuccesso, Necliudov non si perse d'animo: pieno di entusiasmo e di spirito d'iniziativa si recò alla cancelleria del governatore, per informarsi se era giunta la grazia della Màslova.
Il documento non c'era, e perciò Necliudov, ritornato all'albergo, si affrettò, senz'altro indugio, a scrivere a Selenin e all'avvocato.
Quand'ebbe finito guardò l'orologio: era già l'ora di andare a pranzo dal governatore.
Ma lungo la strada si chiese ancora come Katiuscia avrebbe accolto la grazia. Dove l'avrebbero mandata? Come avrebbe vissuto con lei?
E Sìmonson? Che cosa sentiva per lui Katiuscia? Pensò al cambiamento che era avvenuto in lei e pensò anche al suo passato.
"Bisogna dimenticare, cancellare tutto", si disse, sforzandosi nuovamente di allontanare quel pensiero. "Vedremo poi", concluse, e cominciò a pensare a ciò che avrebbe detto al generale.
Il pranzo in casa del generale, preparato con tutto il lusso cui Necliudov era abituato, caratteristico della gente ricca e dei funzionari d'alto rango, gli riuscì molto gradito, dopo la lunga privazione non solo del superfluo ma persino del necessario.
La padrona, una "grande dame" di Pietroburgo, ex dama di Corte all'epoca dell'imperatore Nicola (1), era una signora di stampo antico che parlava bene il francese e male il russo.
Si teneva molto impettita e muoveva le mani senza distaccare i gomiti dai fianchi. Trattava il marito con un rispetto pacato e un poco triste, e gli ospiti con una gentilezza straordinaria, pur usando differenti sfumature a seconda delle persone. Accolse Necliudov come uno di casa, con quella adulazione sottile e impercettibile che ancora una volta lo rese conscio dei propri meriti e piacevolmente soddisfatto. Gli fece capire che conosceva il motivo, un po' originale ma onesto, per cui era venuto in Siberia, e che lo stimava un uomo d'eccezione.
La sottile lusinga e l'atmosfera di eleganza raffinata che regnava in casa del generale, fecero sì che Necliudov si abbandonasse tutto al piacere di quell'ambiente bello, del pranzo eccellente e dei rapporti facili e piacevoli con persone ben educate del suo mondo. Come se la vita che aveva vissuto negli ultimi tempi fosse stato un sogno dal quale si fosse improvvisamente destato alla realtà presente.
Al pranzo, oltre ai familiari - una figlia del generale col marito e l'aiutante - partecipavano l'inglese, un proprietario di miniere d'oro e il governatore di una lontana città siberiana, di passaggio. Tutte persone che Necliudov trovò simpatiche.
L'inglese, un uomo sano, rubicondo, che parlava malissimo il francese, ma in compenso singolarmente bene la sua lingua, in cui si esprimeva con eloquenza affascinante, aveva viaggiato molto e avvinceva l'attenzione di tutti coi suoi racconti sull'America, l'India, il Giappone e la Siberia.
Il giovane commerciante, figlio di contadini e proprietario di una miniera d'oro portava un frac di marca londinese coi gemelli di brillanti alla camicia; possedeva una grande biblioteca, spendeva largamente in opere di beneficenza e professava le idee liberali europee. Necliudov lo trovava simpatico e interessante; vedeva in lui un tipo nuovo e ben riuscito, risultato dall'innesto della cultura europea sul tronco vigoroso e rustico della razza russa.
Il governatore della remota città siberiana, era quello stesso ex capo divisione di cui s'era tanto parlato quando Necliudov era a Pietroburgo: un uomo paffuto coi capelli radi e ricciuti, due occhi azzurri dall'espressione dolce; la parte inferiore del corpo molto grassa, le mani ben curate e piene di anelli, e un sorriso simpatico.
Il padrone di casa lo apprezzava molto perché, fra tanta gente venale, era l'unico che non lo fosse.
In quanto alla padrona di casa, ottima pianista e grande cultrice di musica, lo stimava molto perché era un buon musicista e suonava con lei a quattro mani. Necliudov si trovava in uno stato d'animo così ben disposto verso tutti, che neppure quell'uomo gli riuscì antipatico.
L'aiutante, un tipo allegro, energico, senza barba, servizievole con tutti, riusciva simpatico per il suo carattere bonario.
Ma più di tutti piacque a Necliudov la giovane e gentile coppia di sposi: la figlia del generale e suo marito. Lei non si poteva dir bella, ma era molto semplice e innamorata dei suoi due bambini.
Lui, che essa aveva sposato per amore dopo una lunga lotta coi genitori, s'era laureato all'università di Mosca; di idee liberali, modesto e molto intelligente, era impiegato e si occupava di statistica, specialmente dei popoli indigeni che studiava con amore, nella speranza di poterli salvare dall'estinzione.
Con Necliudov erano tutti premurosi e gentili, evidentemente lieti della conoscenza nuova e interessante.
Il generale, venuto a tavola in divisa con la croce bianca al collo, salutò Necliudov come un vecchio amico, e subito invitò gli ospiti a servirsi di antipasti e di vodca.
Necliudov, richiesto dal generale che cosa avesse fatto nella giornata, gli raccontò che era andato alla posta, dove aveva ricevuto la notizia della grazia per la persona di cui gli aveva parlato; e gli rinnovò la preghiera di poter entrare nel carcere.
Il generale, visibilmente seccato che si parlasse di affari a tavola, aggrottò la fronte e non disse nulla.
- Volete un po' di vodca? - domandò in francese all'ospite inglese che si era avvicinato.
L'inglese, sorseggiando l'acquavite, raccontò che quel giorno aveva visitato la cattedrale e una fabbrica, ed espresse il desiderio di poter visitare anche il grande reclusorio.
- Benissimo! - esclamò il generale, rivolgendosi a Necliudov - Potete andarci insieme. Preparate un permesso per tutt'e due, - disse all'aiutante.
- Quando ci volete andare? - domandò Necliudov all'inglese.
- Io preferisco visitare le prigioni di sera, - rispose quello, - tutti sono dentro, non si fanno preparativi, e si vedono le cose come sono in realtà.
- Ah! vuol vederli in tutto il loro splendore? Faccia pure. Io ho scritto. Non mi ascoltano... E allora che lo sappiano dalla stampa estera, - disse il generale e si avvicinò alla tavola da pranzo, dove la padrona indicava il posto agli ospiti.
Necliudov sedeva tra il padrone di casa e l'inglese.
Aveva dirimpetto la figlia del generale e l'ex capo divisione.
Durante il pranzo la conversazione si svolgeva tra un piatto e l'altro. Si parlò un po' dell'India, di cui raccontava l'inglese, un po' della spedizione nel Tonkino, che il generale disapprovava moltissimo, un po' della disonestà e della corruzione diffusa in Siberia. Tutti discorsi che interessavano poco Necliudov.
Ma dopo il pranzo, quando gli ospiti passarono in salotto a bere il caffè, s'intavolò una conversazione molto interessante, tra la padrona di casa e l'inglese, a proposito di Gladstone, e a Necliudov sembrò che egli dicesse molte cose giuste e intelligenti, rilevate anche dai suoi interlocutori.
Dopo il buon pranzo, il vino e il caffè, Necliudov, seduto su una morbida poltrona, in compagnia di persone affabili e beneducate, si sentiva sempre più a suo agio.
Quando poi, per preghiera dell'inglese, la padrona di casa e l'ex capo divisione sedettero al piano ed eseguirono molto bene a quattro mani la quinta sinfonia di Beethoven, Necliudov si sentì pienamente soddisfatto di se stesso, come da tempo non gli succedeva: quasi si accorgesse per la prima volta di essere proprio una brava persona. Magnifico lo strumento, buona l'esecuzione. O almeno così parve a Necliudov che amava e conosceva bene la sinfonia. Ascoltando l'andante meraviglioso, si sentì prudere il naso, tanto s'inteneriva su se stesso e sulle sue virtù.
Ringraziata l'ospite per il godimento che gli aveva procurato, Necliudov stava già per accomiatarsi, quando la figlia della padrona di casa gli si avvicinò risolutamente e disse arrossendo:
- Mi avete domandato dei miei bambini; volete vederli?
- Crede che tutti muoiano dalla voglia di vedere i suoi piccoli, - disse la madre sorridendo alla gentile indelicatezza della figlia.
- Al principe non interessa affatto.
- Al contrario, mi interessa moltissimo... - disse Necliudov, toccato da quell'esuberante e felice amor materno. - Ve ne prego, fatemeli vedere.
- Mia figlia porta il principe a vedere i suoi marmocchi, - gridò ridendo il generale dal tavolino dove giocava a carte col genero, il mercante d'oro e l'aiutante. - Pagate, pagate il vostro tributo...
Intanto la giovane, evidentemente turbata all'idea che avrebbero giudicato i suoi figli, camminava svelta davanti a Necliudov, addentrandosi nell'appartamento. Nella terza camera, alta, tappezzata di bianco e rischiarata da una piccola lampada col paralume scuro, si vedevano due lettini, tra i quali sedeva una bambinaia con la mantellina bianca e con una faccia bonaria di siberiana dagli zigomi sporgenti.
La ragazza si alzò e fece un inchino. La madre si curvò sul primo letto nel quale, con la boccuccia aperta, dormiva tranquillamente una bimba di due anni coi lunghi capelli inanellati sparsi sul guanciale.
- Questa è Katia, - disse la madre accomodando la coperta fatta a maglia a strisce azzurre, da cui usciva un piedino bianco. - Vi pare carina? Sapete, non ha che due anni...
- Adorabile!
- E questo è Vasiùk (2), come lo chiama il nonno. Tutt'altro tipo.
Un vero siberiano, non vi pare?
- Un bellissimo bambino, - rispose Necliudov, osservando un bamboccione che dormiva sul ventre.
- Vi sembra? - disse la madre, con un sorriso significativo.
Necliudov ricordò le catene, le teste rapate, le risse, la depravazione, Krilzòv moribondo, Katiuscia con tutto il suo passato... E fu colto da un senso d'invidia, sentì il bisogno di possedere anche egli una felicità così fine e pura, come gli sembrava allora quella.
Dopo aver lodato molto i bambini, e appagato, almeno in parte, la madre che beveva avidamente gli elogi, Necliudov rientrò con lei nella sala, dove l'inglese lo stava aspettando per andare insieme alle carceri, come avevano stabilito.
Salutati gli ospiti vecchi e giovani, Necliudov e il suo compagno uscirono dalla casa del generale.
Il tempo s'era cambiato. La neve cadeva a grosse falde e aveva già ricoperto la strada, il tetto, gli alberi del giardino, il portale d'ingresso, il mantice della vettura e il dorso del cavallo.
L'inglese aveva la sua vettura e Necliudov, ordinato al cocchiere di condurlo alle prigioni, montò nella propria, e con la penosa sensazione di compiere un dovere ingrato, partì nella carrozza che avanzava faticosamente, affondando nella neve molle.
NOTE:
Il tetro edificio delle carceri con la sentinella e il fanale sotto il portone, nonostante il bianco lenzuolo che ricopriva tutto - il portale, il tetto e le mura - sembrava ancor più tetro che al mattino, con quelle finestre illuminate su tutta la facciata.
Il maestoso direttore uscì sul portone, e scorso alla luce del fanale il lasciapassare di Necliudov e dell'inglese, si strinse interdetto nelle spalle erculee e obbedendo all'ordine invitò i visitatori a seguirlo. Attraversarono un cortile, e poi per una porta a destra salirono una scala e entrarono nell'ufficio.
Offerta loro una sedia, il direttore domandò in che cosa poteva servirli, e saputo da Necliudov che desiderava vedere la Màslova, mandò un carceriere a chiamarla; e intanto si preparò a rispondere alle domande che l'inglese aveva cominciato subito a rivolgergli per mezzo di Necliudov.
- Per quante persone è stata costruita questa prigione? - domandò l'inglese. - Quanti reclusi ci sono ora? Quanti uomini, quante donne? Quanti fanciulli? Quanti forzati? Quanti deportati? Quanti volontari? Quanti malati?
Necliudov traduceva le domande dell'inglese e le risposte del direttore senza approfondirne il senso. Si sentiva insolitamente turbato al pensiero dell'imminente colloquio. Quando poi, attraverso una frase che stava traducendo udì un rumore di passi e l'uscio dell'edificio si aprì, lasciando entrare come già altre volte il carceriere seguito da Katiuscia col fazzoletto in capo e una camicetta da detenuta, egli, vedendola, provò un senso di angoscia. "Voglio vivere, avere una famiglia, dei figli... vivere una vita umana!", gli passò per la testa, mentre lei, a occhi bassi, entrava a passi rapidi nella stanza.
Necliudov si alzò e le mosse incontro. Il suo volto gli sembrò duro e ostile. Aveva la stessa espressione di quando lo aveva rimproverato. Arrossiva e impallidiva, cincischiando con le dita convulse l'orlo della camicetta, e ora alzava gli occhi su di lui, ora abbassava lo sguardo.
- Lo sapete che è arrivata la grazia? - disse Necliudov.
- Sì, me l'ha detto il carceriere.
- E così appena arriverà potrete uscire e stabilirvi dove preferirete... Ci penseremo.
Lei si affrettò a interromperlo:
- Che bisogno ho di pensarci? dove andrà Vladimir Ivànovic', andrò anch'io.
Nonostante il suo gran turbamento essa pronunciò queste parole guardandolo in faccia: parlava in fretta, spiccando le sillabe, come se avesse già preparato le frasi che doveva dire.
- Ah! - disse Necliudov.
- Che volete, Dmitri Ivànovic', giacché desidera che io viva con lui... Che cosa potrei sperare di meglio? Devo ritenerla una fortuna... Che posso io...
"Una delle due: o ama Sìmonson e non sa che farsene del sacrificio che io ero pronto a fare per lei, oppure mi ama ancora e rinuncia a me per il mio bene... E brucia per sempre i suoi vascelli unendo la sua sorte a Sìmonson", pensò Necliudov e ne provò vergogna. Si sentiva arrossire.
- Se lo amate, - disse.
- Che amare o non amare! Ci ho ormai rinunciato, a questo. E poi Vladimir Ivànovic' è un uomo diverso dagli altri.
- Certamente, - disse Necliudov. - E' una bravissima persona e io credo...
Essa lo interruppe di nuovo, come temendo che egli dicesse troppo, oppure fosse ansiosa di esprimere tutto il suo pensiero.
- No, mi dovete perdonare, Dmitri Ivànovic', se non faccio come volete voi, - disse guardandolo negli occhi con quel suo sguardo strabico, misterioso. - Si vede che deve andare così. E anche voi dovete vivere.
Essa gli ripeteva le parole che egli aveva appena finito di dirsi.
Cose che egli non pensava già più, poiché altri erano i sentimenti che ora lo agitavano. Non solo provava vergogna, ma sentiva un gran rimpianto per tutto ciò che perdeva con lei.
- Questo non me lo aspettavo, - disse.
- E che mai volete viver qui e star a tormentarvi! Ve ne siete già prese abbastanza di seccature!
- Seccature? Affatto... mi sono trovato benissimo e vorrei potervi aiutare ancora.
- A noi, - e pronunciò la parola noi guardando Necliudov, - non occorre nulla. Avete già fatto abbastanza per me. Se non ci foste stato voi... - avrebbe voluto aggiungere qualcosa ma la voce le tremò.
- Non avete proprio di che ringraziarmi, - osservò Necliudov.
- Perché dobbiamo fare i conti? I nostri conti li farà Iddio... - essa proferì e nei suoi occhi neri brillarono le lacrime.
- Come siete buona... - egli disse.
- Io, buona? - replicò lei attraverso le lacrime, e un triste sorriso le illuminò il volto.
- "Are you ready?" (1) - domandò in quel momento l'inglese.
- "Directly" (2) - rispose Necliudov e le domandò di Krilzòv.
Essa si riprese dall'emozione e raccontò con voce tranquilla ciò che sapeva: Krilzòv aveva molto patito durante il percorso ed era stato immediatamente ricoverato in infermeria. Mària Pàvlovna era molto inquieta e aveva chiesto il permesso di assisterlo, ma le era stato negato.
- Posso andare? - essa disse, vedendo che l'inglese aspettava.
- Non vi dico addio, vi rivedrò ancora! - esclamò Necliudov porgendole la mano.
- Perdonate! - disse lei con voce appena udibile.
I loro occhi s'incontrarono, e nello sguardo un po' strabico, nel sorriso triste, nel tono con cui disse "perdonate" anziché "addio", Necliudov lesse chiaramente che delle due ipotesi relative alla sua condotta, la seconda era quella giusta. Essa lo amava, ma legandolo a sé gli avrebbe rovinato la vita, mentre andandosene con Sìmonson, lo avrebbe liberato per sempre! Essa ora si rallegrava per aver portato a termine il proprio impegno, e contemporaneamente soffriva nel distaccarsi da lui. Gli strinse la mano, si voltò in fretta e uscì.
Necliudov guardò l'inglese, pronto a seguirlo, ma l'inglese scriveva qualcosa sul suo taccuino. Necliudov, senza disturbarlo, sedette su un divanino di legno appoggiato alla parete e improvvisamente si senti mortalmente stanco. Non era stanco per la notte insonne, o per il viaggio o per l'emozione: si sentiva mortalmente stanco di tutta la vita.
Si appoggiò allo schienale del divano nel quale sedeva, chiuse gli occhi e si assopì per un attimo di un sonno pesante, mortale.
- Ebbene, volete visitare le camerate? - domandò il direttore.
Necliudov si riscosse e si stupì di trovarsi in quel luogo.
L'inglese terminò di scrivere i suoi appunti ed espresse il desiderio di visitare il carcere.
Necliudov, stanco, lo seguì come un automa.
NOTE:
Attraversato l'ingresso e un corridoio fetido fino alla nausea, dove, con loro gran meraviglia, trovarono due detenuti che orinavano addirittura per terra, il direttore, l'inglese e Necliudov, accompagnati dai carcerieri, entrarono nel primo camerone, destinato ai forzati.
Le cuccette erano nel mezzo e i detenuti, una settantina, si erano già coricati. Giacevano testa contro testa, e a fianco a fianco.
All'entrare dei visitatori, tutti, facendo rumore con le catene, balzarono giù dalle cuccette coi crani che luccicavano per la mezza rapatura recente. Due rimasero coricati: un giovanotto con la faccia rossa, evidentemente febbricitante, e un vecchio che continuava a lamentarsi.
L'inglese domandò se il giovane fosse ammalato da un pezzo e gli fu risposto che lo era soltanto dal mattino; l'altro, invece, già da tempo soffriva d'intestini, ma non sapevano dove metterlo, perché l'infermeria era piena zeppa. L'inglese crollò la testa con aria di disapprovazione e pregò Necliudov di tradurre ai detenuti alcune parole che desiderava dir loro. Risultava che l'inglese, oltre al primo scopo del suo viaggio - lo studio dei sistemi carcerari in Siberia - ne aveva pure un altro: predicare la salvezza mediante la fede e la redenzione.
- Dite che Cristo aveva pietà di loro, - disse, - che li amava ed è morto per salvarli. Se avranno fede in questo, si salveranno.
Mentre parlava, i detenuti stavano silenziosi accanto alle cuccette, con le braccia tese lungo i fianchi.
- Dite loro che in questo libro, - egli concluse, è spiegato tutto. C'è qualcuno capace di leggere?
Risultò che più di una ventina sapeva leggere e scrivere.
L'inglese levò da una borsa alcune copie rilegate del Nuovo Testamento, e una quantità di mani muscolose con le unghie grosse e nere si protesero dalle maniche di canapa verso di lui, respingendosi a vicenda.
L'inglese lasciò due Vangeli e passò nella camerata seguente. Qui si ripeté la stessa scena. Era la stessa mancanza d'aria, lo stesso fetore. Come nell'altra, un'immagine pendeva dirimpetto tra due finestre, e a sinistra era posato il recipiente fetido. Come nella precedente, i detenuti, ammassati a ridosso l'uno dell'altro, balzarono in piedi come un sol uomo e si misero sull'attenti, ad eccezione di tre che non si alzarono: due si alzarono un poco, il terzo rimase disteso e non si volse neppure a vedere chi entrava - erano ammalati.
L'inglese ripeté il suo discorso e distribuì altri due Vangeli.
Nella terza camerata, gli ammalati erano quattro. Alla domanda dell'inglese perché non li riunivano tutti in un solo locale, il direttore rispose che gli ammalati si rifiutavano. D'altronde non erano contagiosi, e un infermiere li sorvegliava e li assisteva.
- E' la seconda settimana che non si vede la punta del suo naso, - disse una voce.
Il direttore non rispose e passò nella camerata successiva.
Di nuovo si aprì la porta, di nuovo tutti si alzarono e smisero di parlare, di nuovo l'inglese distribuì i Vangeli: e la stessa scena avvenne nel quinto camerone, nel sesto, a destra, a sinistra, dappertutto.
Dai forzati passarono ai deportati in esilio, ai "sociali", ai volontari. Dappertutto era la stessa cosa, dappertutto gli stessi uomini assiderati, affamati, oziosi, infetti da malattie, infamati, simili a belve.
L'inglese, dopo aver distribuito un certo numero di Vangeli, non disse più parola.
Lo spettacolo opprimente, e soprattutto l'aria appestata, avevano evidentemente esaurito le sue energie. Passava da un posto all'altro, limitandosi a dire "all right" alle informazioni del direttore sui detenuti che si trovavano in ogni camerata.
Necliudov camminava come in sogno, senza trovare la forza di reagire e di andarsene; si sentiva sempre più oppresso dalla stanchezza e dallo sconforto.
NOTE:
In uno dei cameroni degli esiliati, Necliudov con grande stupore rivide lo strano vecchio scarmigliato e rugoso che aveva incontrato quella mattina sulla chiatta. Scalzo, con una camicia sudicia color cenere strappata sulla spalla e un paio di pantaloni sbrindellati, sedeva per terra accanto alla cuccetta, e guardava i nuovi entrati con cipiglio interrogativo. Il suo corpo consunto attraverso i buchi della camicia faceva compassione tant'era debole, ma il suo viso era ancor più compreso, serio e animato che sulla chiatta.
Come nelle altre camerate, i detenuti, vedendo il superiore, balzarono in piedi e si irrigidirono, ma il vecchio rimase seduto.
I suoi occhi lampeggiarono e le sopracciglia si aggrottarono piene di collera.
- Alzati! - gli gridò il direttore.
Il vecchio non si scompose, e si limitò a sorridere con disprezzo - I tuoi servi stanno in piedi davanti a te. Io non sono il tuo servo. Tu hai il marchio... - proferì il vecchio indicando la fronte del direttore.
- Co-o-sa? - domandò minaccioso il direttore, facendo un passo verso di lui.
- Conosco quest'uomo, - s'affrettò a dire Necliudov. Perché l'hanno arrestato?
- Ce l'ha mandato la polizia perché non aveva le carte. Noi insistiamo sempre perché non ce li mandino, ma è fiato sprecato, - spiegò il direttore guardando il vecchio di traverso.
- Sicché, sei anche tu dell'esercito dell'anticristo? - si rivolse il vecchio a Necliudov.
- No, sono un visitatore, - rispose Necliudov.
- Allora sei venuto ad ammirare come l'anticristo tortura gli uomini? Su, guarda pure... Ha raccolto e ingabbiato un esercito intiero. Gli uomini devono guadagnarsi il pane col sudore della fronte, ma lui li ha rinchiusi come maiali e li nutre senza che si affatichino, per abbrutirli meglio.
- Che dice? - domandò l'inglese.
Necliudov gli spiegò che il vecchio accusava il direttore di tenere la gente in prigione.
- Domandategli un po' come bisogna comportarsi coi trasgressori della legge! - disse l'inglese.
Necliudov tradusse la domanda.
Il vecchio sorrise bizzarramente, scoprendo i denti fitti.
- La legge! - ripeté con disprezzo. - Lui prima ha derubato il popolo, ha tolto agli uomini la terra, privandoli di tutta la loro ricchezza, se l'è presa per sé e ha percosso quelli che gli opponevano resistenza; poi ha fatto la legge che non si deve uccidere né rubare. Prima doveva scriverla, quella legge!
Necliudov tradusse. L'inglese sorrise.
- Ma adesso, come ci si deve comportare coi ladri e gli assassini?
Domandateglielo.
Necliudov tradusse di nuovo.
Il vecchio fece un cipiglio severo.
- Digli che si tolga il marchio dell'anticristo e non ci saranno più né ladri né assassini. Diglielo.
- "He is crazy" (1) - esclamò l'inglese quando Necliudov gli ebbe tradotto le parole del vecchio, e con un'alzata di spalle uscì dalla camera.
- Bada ai fatti tuoi e lasciali stare, loro. Ognuno badi a sé. Dio sa chi deve punire e chi premiare, ma noi no, non lo sappiamo, - proferì il vecchio. - Sii il tuo capo e non ci sarà più bisogno di capi! Ma vattene, - soggiunse irritatissimo, folgorando con lo sguardo Necliudov che indugiava nella camera. - Hai guardato bene come i servi dell'anticristo danno gli uomini in pasto ai pidocchi? Vattene, vattene!
Quando Necliudov uscì nel corridoio, l'inglese, fermo davanti a una porta aperta, domandava al direttore a che serviva quella camera vuota. Il direttore spiegò che era la camera mortuaria.
- Oh! esclamò l'inglese quando lo seppe, e volle entrare.
Era una camera piuttosto piccola, simile alle altre. Una lanterna appesa alla parete illuminava fiocamente sacchi e legna ammucchiati in un angolo, e a destra quattro cadaveri stesi sulle cuccette. Il primo, in camicia di canapa e in mutande, era un uomo alto, con la barbetta aguzza e la testa rasa a metà. Era già irrigidito; le mani violacee composte sul petto si erano disgiunte, come pure i piedi nudi che spuntavano discosti l'uno dall'altro. Accanto giaceva una vecchia con una gonna e una camicetta bianca, scalza e a capo scoperto. Aveva una trecciolina di capelli corti e radi, un viso piccolo, giallo, rugoso, col naso aguzzo. Dopo la vecchia, un altro cadavere maschile, coperto da qualcosa di lilla.
Questo colore risvegliò in Necliudov un ricordo. S'accostò e l'osservò attentamente.
Una barbetta a punta, corta e volta all'insù, una fronte bianca e spaziosa, i capelli radi e ricci. Necliudov riconobbe quei lineamenti, ma non voleva credere ai suoi occhi. Ancora la vigilia aveva osservato quel viso contratto dallo sdegno e dalle sofferenze. Ora, giaceva tranquillo, immobile e orribilmente bello. Si, era Krilzòv, o per lo meno ciò che rimaneva della sua esistenza corporea.
"Perché ha sofferto? Perché è vissuto? E conoscerà finalmente la verità?", pensava Necliudov, e gli sembrava che non ci fosse risposta e che nulla esistesse all'infuori della morte. Si sentì male.
Senza salutare l'inglese, pregò un carceriere di condurlo fuori, e provando il bisogno assoluto di rimanere solo per meditare sulle sue esperienze di quella sera, ritornò all'albergo.
NOTE:
Necliudov non si coricò. Si mise a camminare sù e giù per la camera. La sua storia con Katiuscia era finita per sempre. Essa non aveva bisogno di lui. Questo pensiero gli dava un senso di tristezza e di vergogna. Ma c'era un'altra questione che lo tormentava, e questa non solo non era conclusa, ma lo assillava più che mai ed esigeva da lui tutta la sua attività. Il male orribile che egli aveva visto e conosciuto ultimamente e più che mai quel giorno nella prigione spaventosa, quel male che aveva ucciso anche il caro Krilzòv, trionfava ovunque sovrano. E non si vedeva la possibilità di vincerlo o almeno la via per arrivarvi.
Nella sua immaginazione sorgevano le centinaia e le migliaia di esseri umani abbrutiti, rinchiusi in un'atmosfera infetta, per opera di generali, di procuratori, di direttori indifferenti.
Rivedeva il vecchietto bizzarro e libero che denunciava l'autorità ed era ritenuto pazzo. Rivedeva la stanza mortuaria e fra i cadaveri il volto bellissimo, cereo di Krilzòv, morto esasperato.
Con maggior forza lo assalì il dubbio che aveva provato altre volte e che esigeva una risposta: chi era pazzo? Lui, Necliudov, oppure coloro che si credevano saggi e agivano a quel modo? Stanco di camminare e di pensare, si sedette sul divano davanti alla lampada e aprì macchinalmente il Vangelo che gli aveva dato l'inglese e che egli, vuotando le tasche, aveva messo sulla tavola.
"Dicono che qui dentro si trovi una risposta a tutto!" pensò, e, aperta una pagina a caso, cominciò a leggere: Matteo, 18.
1. In quel momento si appressarono a Gesù i discepoli, e gli dissero: "Chi è dunque il maggiore nel regno dei cieli?".
2. E Gesù, chiamato a sé un fanciullo, lo pose in mezzo a loro, 3. e disse: "In verità vi dico, se non vi convertite e non diventate come i fanciulli, non entrerete mai nel regno dei cieli.
4. Chiunque pertanto si farà piccolo come questo fanciullo, quegli è il più grande nei cieli...".
"Sì, sì, è così", pensò ricordando che aveva gustato la pace e la gioia di vivere soltanto quando s'era fatto umile.
5. "...e chi riceve un fanciullo solo come questo in mio nome, riceve me.
6. Ma colui che scandalizzerà uno solo di questi piccoli, che in me credono, meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da asino e fosse precipitato nel profondo del mare...".
"Che vuol dire 'chi riceve'? e dove riceve? Che significa in mio nome?", egli si domandò sentendo che quelle parole non gli dicevano nulla. "E che c'entra una macina al collo e il profondo del mare? No, c'è qualcosa che non va. Non è chiaro, non è spiegato bene", pensò, ricordando come molte volte, nella sua vita, si fosse accinto a leggere il Vangelo e sempre l'oscurità di quei passi l'avesse respinto. Tuttavia lesse anche i quattro versetti successivi, sugli scandali che devono avvenire nel mondo, sulla pena mediante la geenna del fuoco e su certi angeli di fanciullini che vedono in viso il Padre celeste. "Che peccato che sia espresso così male!", pensò, "in fondo si sente che qui c'è qualcosa di buono".
11. "Poiché il Figlio dell'uomo è venuto a salvare quel che era perduto", riprese a leggere.
12. "Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore, e una di esse si sperde, non lascia egli forse le novantanove su per i monti, e se ne va in cerca della pecorella smarrita?
13. Che se gli avviene di ritrovarla, vi dico in verità che si rallegra per essa, più che per le novantanove, che non si sono sperdute.
14. Così non è volere del Padre vostro, che è nei cieli, che perisca uno solo di questi piccoli".
"Sì, non è volere del Padre che essi periscano, e intanto periscono a centinaia, a migliaia. E non c'è mezzo di salvarli", pensò Necliudov.
21. Allora Pietro - lesse più avanti - si fece avanti a dirgli:
"Signore, sino a quante volte debbo perdonare al mio fratello, se egli pecca contro di me? fino a sette?".
22. E Gesù a lui: "Non ti dico sino a sette, ma sino a settanta volte sette.
23. Per questo il regno dei cieli fu paragonato ad un re, che volle regolare i conti con i suoi servitori.
24. E quando ebbe cominciato a regolarli, gli fu condotto uno, che era debitore di diecimila talenti.
25. E non avendo costui di che pagare, il padrone comandò che fosse venduto lui e la moglie ed i figli e quanto aveva, sì che il debito fosse pagato.
26. Ma egli, gettatosi ai suoi piedi, prostrato dinanzi a lui, lo supplicava: "Signore, abbi pazienza con me e ti pagherò ogni debito".
27. E il padrone di quel servo, impietositosi, lo lasciò andar libero, e gli condonò anche il debito.
28. Uscendo fuori il servo, si imbatté in uno dei servi, suoi compagni, che gli doveva cento denari; e afferratolo lo stringeva per la gola, dicendogli: "Pagami quello che devi".
29. E quel suo compagno, gettandosegli ai piedi, lo supplicava:
"Abbi pazienza con me e ti pagherò".
30. Ma egli non volle, e andò a farlo mettere in prigione finché non avesse pagato il debito.
31. Vedendo l'accaduto gli altri compagni, ne furono grandemente rattristati e andarono a riferire al loro padrone quanto era avvenuto.
32. Allora il padrone, chiamatolo a sé, gli disse: "Servo iniquo, io ti ho condonato tutto quel tuo debito, perché tu me ne pregasti; 33. non dovevi dunque anche tu avere pietà del tuo compagno, come io ho avuto compassione di te?"...
"Che sia questa la risposta?", esclamò ad un tratto Necliudov, dopo aver letto le ultime parole. E la voce interiore di tutto il suo essere gli rispose: "Sì, questa e nessun'altra!".
Allora in Necliudov avvenne ciò che spesso si verifica in chi vive una vita spirituale. Un pensiero che dapprima gli sembrava strano, paradossale, addirittura ridicolo, trovando sempre più conferma nella vita, gli si rivelò d'improvviso come la più semplice e indubitabile verità.
Vide lucidamente che l'unico rimedio possibile al male spaventoso di cui soffrono gli uomini, consiste nel riconoscersi colpevoli dinanzi a Dio, e perciò inetti a giudicare e a punire. Comprese ad un tratto che tutto quel male di cui era stato testimone nelle case di pena e la imperturbabilità di chi lo commetteva, proveniva dal fatto che gli uomini volevano compiere un'impresa impossibile:
correggere il male, essendo essi stessi malvagi. Uomini corrotti pretendevano di correggere altri uomini corrotti e credevano di arrivare allo scopo per via meccanica. E come unico risultato, uomini bisognosi e avidi, che si eran fatti una professione di questo preteso punire e correggere la gente, erano essi stessi corrotti fino all'estremo limite e non facevano che peggiorare le persone costrette a subire i loro maltrattamenti.
Ormai vedeva chiaramente l'origine di tutti gli orrori ai quali aveva assistito, e sapeva ciò che occorreva per distruggerli. La risposta che aveva cercato invano era la stessa data da Gesù a Pietro: perdonare sempre, perdonare tutti, perdonare un numero infinito di volte, giacché non esistono uomini senza peccato e perciò nessuno è in grado di punire o di correggere. "Ma no!
impossibile che la cosa sia così semplice!", si diceva Necliudov.
E tuttavia sentiva con certezza assoluta che, per quanto strano gli fosse sembrato da principio, abituato come era a ragionare nel modo opposto, quella era l'unica soluzione, l'unico modo di risolvere il problema dal punto di vista teorico e da quello pratico. L'obiezione solita: "Che fare dei delinquenti? lasciarli impuniti?", ormai non lo turbava più. Avrebbe avuto un significato, qualora fosse dimostrabile che le punizioni diminuiscono il numero dei delitti e correggono i delinquenti. Ma poiché avviene proprio il contrario, ed evidentemente non è in potere degli uni giudicare gli altri, l'unica cosa ragionevole che potete fare è quella di desistere da azioni non soltanto inutili, ma dannose, immorali e crudeli. Da molti secoli punite gli esseri che chiamate delinquenti: ma siete forse riusciti a sterminarli?
Tutt'altro. Il loro numero è anzi aumentato, giacché vi si sono aggiunti i delinquenti depravati dalle pene, e tutti quei magistrati, procuratori, giudici istruttori e carcerieri che giudicano e puniscono.
Necliudov capì finalmente che la società e l'ordine sociale esistono ancora non per merito dei delinquenti legalizzati che giudicano e puniscono i loro simili, ma soltanto perché, a dispetto di tale corruzione, gli uomini fra di loro si compatiscono e si amano.
Sperando di trovare confermato questo pensiero nel Vangelo, Necliudov cominciò a leggerlo dal principio. Lesse il discorso della montagna che lo aveva sempre commosso, e per la prima volta vi scorse non bellissimi pensieri astratti, per lo più di difficile attuazione, ma precetti semplici, chiari, applicabili, che se fossero stati messi in pratica - cosa tutt'altro che impossibile - avrebbero creato una società umana assolutamente nuova, in cui la violenza che tanto rivoltava Necliudov si sarebbe eliminata da sola. E sulla terra sarebbe fiorito il regno di Dio, bene supremo cui l'umanità possa aspirare.
Questi precetti erano cinque.
Primo precetto (Matteo, quinto, 21-26). L'uomo non solo non deve uccidere l'uomo, ma nemmeno adirarsi contro di lui, suo fratello; non deve disprezzarlo né considerarlo 'raca'. Se avrà questionato con qualcuno dovrà riconciliarsi con lui prima di offrire i suoi doni al Signore, vale a dire prima di accostarsi a Dio con la preghiera.
Secondo precetto (Matteo, quinto, 27-32). L'uomo non solo non deve commettere adulterio, ma neppure servirsi della bellezza della donna per il proprio piacere; e se sposa una donna, deve restarle fedele per tutta la vita.
Terzo precetto (Matteo, quinto, 33-37). L'uomo non deve impegnarsi in nulla sotto giuramento.
Quarto precetto (Matteo, quinto, 38-42). L'uomo non solo non deve rendere occhio per occhio, ma quando qualcuno lo percuote su una guancia deve offrire l'altra; deve perdonare le offese, sopportarle con rassegnazione e non rifiutare nulla di ciò che gli venga richiesto.
Quinto precetto (Matteo, quinto, 43-48). L'uomo non solo non deve odiare i suoi nemici e combatterli, ma deve amarli, aiutarli e servirli.
Necliudov fissò gli occhi sul lume della lampada e si smarrì.
Ricordando tutti gli orrori dell'esistenza, si raffigurò benissimo come potrebbe diventare questa vita se si educassero gli uomini secondo tali precetti. Un impeto di entusiasmo quale da tempo non provava gli inondò l'anima come se dopo lunghe fatiche e sofferenze avesse improvvisamente trovato la pace e la libertà.
Quella notte non dormì. E come accade ai tanti e tanti che leggono il Vangelo, per la prima volta comprese il vero significato delle parole che fino ad allora aveva letto senza capire. Come la spugna l'acqua, egli assorbiva gli insegnamenti utili, importanti e luminosi che gli si rivelavano in quel libro. Tutto ciò che leggeva gli pareva noto, come se ribadisse e riportasse alla sua coscienza cose che sapeva da un pezzo, ma che aveva accettato con riserva e senza fede. Ora invece credeva fermamente che seguendo questi precetti l'umanità può raggiungere il massimo bene di cui sia capace; credeva fermamente che ogni uomo ha il dovere di mettere in pratica questi insegnamenti, l'unica ragione logica della vita; credeva fermamente che violandoli l'uomo commette un errore che porta con sé il proprio castigo.
Questa conclusione derivava da tutto il libro ed era espressa con particolare forza ed evidenza nella parabola dei vignaiuoli. I vignaiuoli avevano creduto che l'orto dove il padrone li aveva mandati a lavorare e tutto ciò che vi era dentro, appartenesse a loro: essi dovevano pensare soltanto a godersi la vita, senza preoccuparsi del padrone, uccidendo chiunque ricordasse gli obblighi contratti verso di lui.
"Così facciamo anche noi", pensava Necliudov, "viviamo nella convinzione d'essere i padroni della nostra vita, e che questa ci sia stata data per godercela. Ma ciò è assurdo. Perché, se l'uomo si trova sulla terra, è per volontà di qualcuno e per qualche ragione. Noi, invece, abbiamo deciso che siamo al mondo unicamente per il nostro piacere, e naturalmente ci sentiamo a disagio come un operaio che si rifiuta di eseguire la volontà del padrone. E la volontà del nostro padrone è espressa in questa pagina.
Se gli uomini osserveranno questi precetti conseguiranno il regno di Dio sulla terra e il più alto grado di felicità accessibile ai mortali.
"Cercate il regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato'. Noi invece cerchiamo il resto e ci sorprende di non trovarlo.
Ecco dunque lo scopo della mia vita. Appena raggiunto uno, n'è cominciato un altro!".
Da quella notte si iniziò infatti per Necliudov una vita nuova, non solo perché mutarono le condizioni della sua esistenza, ma perché tutto ciò che accadde da quel momento in poi assunse ai suoi occhi un significato diverso.
Come si concluderà il nuovo periodo della sua vita, lo dirà l'avvenire.
Mosca, 12 dicembre 1899