Terza parte
Prima parte
Indice
Gioganni Verga - Novelle Rusticane
Parte seconda
Come il bugigattolo dei portinai non
vedeva mai il sole, e avevano una figliuola rachitica, la mettevano a
sedere nel vano della finestra, e ve la lasciavano tutto il santo
giorno, sicché i vicini la chiamavano «Il canarino del
n. 15». Màlia vedeva passar la gente;
vedeva accendere i lumi la sera; e se entrava qualcuno a chiedere di
un pigionale rispondeva per la mamma, la sora Giuseppina, che stava
al fuoco, o a leggere i giornali dei casigliani. Sinché c'era un po' di luce
faceva anche della trina, con quelle sue mani pallide e lunghe; e un
giovanetto della stamperia lì dicontro, al veder sempre dietro
i vetri quel visetto, che era delicato, e con delle pèsche
azzurre sotto gli occhi, se n'era come si dice innamorato. Ma poi
seppe la storia del canarino, e di mezza la persona che era morta
sino alla cintola, e non alzò più gli occhi, quando
andava e veniva dalla stamperia. Ella pure ci aveva badato: tanto
nessuno la guardava mai! e quel po' di sangue che le restava le
tingeva come una rosa la faccia pallida, ogni volta che udiva il
passo di lui sull'acciottolato. La stradicciuola umida e scura le
sembra gaia, con quello stelo di pianticella magra che si dondolava
dal terrazzino del primo piano e quei finestroni scuri della
tipografia dirimpetto, dov'era un gran lavorìo di pulegge, e
uno scorrere di strisce di cuoio, lunghe, lunghe, che non finivano
mai, e si tiravano dietro il suo cervello, tutto il giorno. Sul muro
c'erano dei gran fogli stampati, che ella leggeva e tornava a
leggere, sebbene li sapesse a memoria; e la notte li vedeva ancora,
nel buio, cogli occhi spalancati, bianchi, rossi, azzurri, mentre si
udiva il babbo che tornava a casa cantando con voce rauca: Ella pure, la Màlia si sentiva
gonfiare in cuore la canzone, quando i monelli passavano cantando e
battendo gli zoccoli sul terreno ghiacciato, nella nebbia fitta.
Ascoltava, ascoltava, col mento sul petto, e provava e riprovava la
cantilena sottovoce, davvero come un canarino che ripassi la parte. Diventava anche civettuola. La mattina,
prima che la mettessero dietro la finestra, si lisciava i capelli, e
ci appuntava un garofano, quando l'aveva, con quelle mani scarne.
Come la Gilda, sua sorella, si attillava per andar dalla sarta, col
velo nero sulla testolina maliziosa, e cutrettolava vispa vispa nella
vestina tutta in fronzoli, la guardava con quel sorriso dolce e
malinconico sulle labbra pallide, poi la chiamava con un cenno del
capo, e voleva darle un bacio. Un giorno che la Gilda le regalò
un fiocchetto di nastro smesso, ella si fece rossa dal piacere. Alle
volte le moriva sulle labbra la domanda se nei giornali non ci fosse
un rimedio per lei. La poveretta non si stancava mai di
aspettare che quel giovane tornasse ad alzare il capo verso la
finestra. Aspettava, aspettava, cogli occhi alla viuzza, e le dita
scarne che facevano andare la spoletta. Ma poi lo vide che
accompagnava la Gilda, passo passo, tenendo le mani nelle tasche, e
si fermarono ancora a chiacchierare sulla porta. Si vedeva soltanto la schiena di lui,
che le parlava con calore, e la Gilda pensierosa raspava nel selciato
colla punta dell'ombrellino. Essa poi disse: - Qui no, che c'è la Màlia
a far la sentinella, ed è una seccatura -. Alfine un sabato sera il giovanotto
entrò anche lui insieme alla Gilda, e si misero a
chiacchierare colla sora Giuseppina, che metteva delle castagne nella
cenere calda. Si chiamava Carlini; era scapolo,
compositore-tipografo, e guadagnava 36 lire la settimana. Prima
d'andarsene diede la buona sera anche alla Màlia, che stava al
buio nel vano della finestra. D'allora in poi cominciò a
venire sovente, poi quasi ogni sera. La sora Giuseppina aveva preso a
volergli bene, pel suo fare ben educato, ché non veniva mai
colle mani vuote: confetti, mandarini, bruciate, alle volte anche una
bottiglia sigillata. Allora si fermava in casa anche il babbo della
ragazza, il sor Battista, a chiacchierare col Carlini come un padre,
dicendogli che voleva cucirgli lui il primo vestito nuovo, se mai.
Egli ci aveva là il banco e le forbici da sarto, e il ferro da
stirare, e l'attaccapanni, e lo specchio dei clienti. Adesso lo
specchio serviva per la Gilda. Mentre il giovane aspettava
l'innamorata, si metteva a discorrere colla Màlia; le parlava
della sorella, le diceva quanto le volesse bene, e che incominciava a
mettere dei soldi alla Cassa di Risparmio. Appena tornava la Gilda si
mettevano a sussurrare in un cantuccio, bocca contro bocca,
pigliandosi le mani allorché la mamma voltava le spalle. Una sera egli le diede un grosso bacio
dietro l'orecchio, mentre la sora Giuseppina sbadigliava in faccia al
fuoco, e Carlini credeva che nessuno li vedesse, tanto che alle volte
se ne andava senza pensare nemmeno che la Màlia fosse là,
per darle la buonanotte. Una domenica arrivò tutto contento
colla nuova che aveva trovata la casa che ci voleva: due stanzette a
Porta Garibaldi, ed era anche in trattative per comprare i mobili
dell'inquilino che sloggiava, un povero diavolo col sequestro sulle
spalle, per via della pigione. Il Carlini era così contento
che diceva alla Màlia: - Peccato che non possiate venire a
vederla anche voi! - La ragazza si fece rossa. Ma rispose: - La Gilda sarà contenta lei -. Ma la Gilda non sembrava molto
contenta. Spesso il Carlini l'aspettava inutilmente, e si lagnava
colla Màlia di sua sorella, che non gli voleva bene come lui
gliene voleva, e gli lesinava le buone parole e tutto il resto.
Allora il povero giovane non la finiva più coi piagnistei;
raccontava ogni cosa per filo e per segno: che piacere le aveva fatto
la tal parola, come sorrideva con quella smorfietta, come s'era
lasciata dare quel bacio. Almeno provava un conforto nello sfogarsi
colla Màlia. Gli pareva quasi di parlare colla Gilda, tanto la
Màlia somigliava a sua sorella, nell'ombra, mentre lo
ascoltava guardandolo con quegli occhi. Arrivava perfino a prenderle la mano,
dimenticando che era mezzo morta su quella seggiola. - Guardate, - le diceva. - Vorrei che
la Gilda foste voi, col cuore che avete! - Stava lì per delle
ore, colle mani sui ginocchi, finche tornava la Gilda. Almeno udiva
il trottarello lesto dei suoi tacchetti, e la vedeva arrivare con
quel visetto rosso dal freddo, e quegli occhi belli che interrogavano
in giro tutta la stanzetta al primo entrare. La Gilda era vanarella e
ambiziosa; gli aveva proibito di accompagnarla colla sua camiciuola
turchina da operaio, quando andava impettita per via. Una sera Màlia
la vide tornare a casa in compagnia di un signorino, di cui la tuba
lucida passava rasente al davanzale, e si fermarono sulla porta come
faceva prima col Carlini. Ma a costui non disse nulla. Il poveraccio s'era dissestato. La
pigione di casa, i mobili da pagare, i regalucci per la ragazza, il
tempo che perdeva: tanto che il direttore della tipografia gli aveva
detto: - Dovreste parlagliene voi a vostra
sorella -. Gilda fece una spallucciata, e rispose
alla Màlia: - Piglialo tu -. A capodanno il Carlini portò in
regalo un bel taglio di lanina a righe rosse; tanto rosse che la
Gilda diede in uno scoppio di risa, e disse che era adatta per
qualche contadina di Desio o di Gorla, come le aveva viste a Loreto.
Il giovanotto rimaneva mortificato con l'involto in mano,
ripiegandolo adagio adagio, e lo offrì alla Màlia, se
lo voleva lei. Era il primo regalo che la Màlia
riceveva e le parve una gran cosa. La sora Giuseppina, per scusare
l'uscita della Gilda, prese a dire che quella ragazza era di gusto
fine, come una signora, e non trovava mai cosa abbastanza bella pel
suo merito. - Per quella figliuola là non sto mica in pena -
soleva dire. La Gilda infatti veniva a casa ora con
una mantiglia nuova, che le gonfiava il seno tutto di frange, ora con
le scarpine che le strizzavano i piedi, ed ora con un cappellaccio
peloso che faceva ombra sugli occhi lucenti al pari di due stelle.
Una volta portò un braccialetto d'argento dorato, con una
ametista grossa come una nocciuola, che passò di mano in mano
per tutto il vicinato. La mamma gongolava e strombazzava i risparmi
che faceva la figliuola dalla sarta. La Màlia volle vedere
anche lei; e il babbo stava per stendere le mani, e lo chiese in
prestito per una sera, onde mostrarlo agli amici, dal tabaccaio e dal
liquorista lì accanto. Ma la Gilda si ribellò. Allora
il sor Battista cominciò a gridare se ella tornava a casa
tardi, e a sfogarsi con Carlini che perdeva il suo tempo e i
regalucci dietro quell'ingrata, la quale non aveva cuore nemmeno pei
genitori. Gilda un bel giorno gli levò l'incomodo di
aspettarla più. Malgrado le sbravazzate del sor
Battista nella casa ci fu il lutto. La sora Giuseppina non fece altro
che brontolare e litigare col marito tutta sera. Il sor Battista andò
a letto ubbriaco. La Màlia udì sino all'alba il Carlini
che aspettava passeggiando nella strada. Poi la sora Carolina, che vendeva i
giornali lì alla cantonata, venne a raccontare qualmente
avevano vista la Gilda in Galleria, vestita come una signora. Il
babbo giurò che voleva andare col Carlini in traccia del
sangue suo, quella domenica, e l'accompagnarono a casa che non si
reggeva in piedi. Il Carlini si era affiatato col sor
Battista. Lavorava soltanto quando non poteva farne a meno, ora qua e
là nelle piccole stamperie, l'accompagnava all'osteria, e
tornavano a braccetto. In casa s'era fatto come un della famiglia per
abitudine. Accendeva il fuoco o il gas per le scale, menava la
tromba, teneva sempre in ordine i ferri del sarto, caso mai
servissero, e scopava anche la corte, per risparmiare la sora
Giuseppina, giacché suo marito non stava in casa gran fatto.
La sora Giuseppina, per gratitudine, voleva fargli credere che la
Gilda gli volesse sempre bene, e sarebbe tornata un giorno o l'altro.
Egli scuoteva il capo; ma gli piaceva discorrerne colla vecchia, o
colla Màlia, che somigliava tutta a sua sorella. Gli pareva di
alleggerirsi il cuore in tal modo, quando ella l'ascoltava fra chiaro
e scuro, fissandolo con quegli occhi. E una volta che era stato
all'osteria, e si sentiva una gran confusione dalla tenerezza, le
diede anche un bacio. La Màlia non gridò: ma si
mise a tremare come una foglia. Già non c'era avvezza, e la
mamma per lei non stava in guardia. L'indomani, a testa riposata, Carlini
era venuto a chiacchierare come il solito, spensierato e
indifferente. Ma la poveretta si sentiva sempre quel bacio sulla
bocca, col fiato acre di lui, e vi aveva pensato tutta la notte.
Allora in principio di primavera, come se quel bacio fosse stato del
fuoco vivo, Màlia cominciò a struggersi e a consumarsi
a poco a poco. La mamma ripeteva alla sora Carolina e alla portinaia
della casa accanto che il male le saliva dalle gambe per tutta la
persona. Il medico glielo aveva detto. Il marzo era piovoso. Tutto il giorno
si udiva la grondaia che scrosciava sul tetto di vetro della
stamperia, e la gente che sfangava per la stradicciuola. Ogni po' si
fermava alla porta un legno grondante acqua, e sbattevano in furia
gli sportelli e l'usciale. - Questa è la Gilda, - esclamava
la mamma. La Màlia pallida cogli occhi fissi alla porta, non
diceva nulla, ma s'affilava in viso. Poi nell'ora malinconica in cui anche
la finestra si oscurava, passava la voce lamentevole di quel che
vendeva i giornali: Al san Giorgio, com'era tornato il bel
tempo, la giornalista lì accanto ed altri vicini progettarono
una gita in campagna. Il Carlini, che s'era fatto di casa, fu della
partita anche lui. La sera scesero dal tramvai tutti brilli, e
portando delle manciate di margheritine e di fiori di campo. Il
Carlini, in vena di galanteria, volle regalare alla Màlia
tutti quei fiori che gli impacciavano le mani. La povera malata ne fu
contenta, come se le avessero portato un pezzo di campagna. Dal suo
lettuccio aveva vista la bella giornata di là dalla finestra,
sul muro dirimpetto che sembrava più chiaro, colla pianticella
del terrazzino che metteva le prime foglie. Ella voleva che le
piantassero quei fiorellini in un po' di terra, perché non
morissero, in qualche coccio di stoviglia, che ce ne dovevano essere
tante in cucina. Un capriccio da moribonda, si sa. Gli altri
rispondevano ridendo che era come far camminare un morto. Per
contentarla ne collocarono alcuni in un bicchier d'acqua sul
cassettone, e a fine di tenerla allegra tirarono fuori il discorso
della veste a righe rosse e nere, tuttora in pezza, che la Màlia
si sarebbe fatta fare, quando stava meglio. Suo padre ci aveva le
forbici, e il refe e tutti i ferri del mestiere. La poveretta li
ascoltava guardandoli in volto ad uno ad uno, e sorrideva come una
bambina. Il giorno dopo i fiori del bicchiere erano morti. Nel
bugigattolo mancava l'aria per vivere. L'estate cresceva. Giorno e
notte bisognava tener spalancata la finestra pel gran caldo. Il muro
di faccia si era fatto giallo e rugoso. Quando c'era la luna scendeva
sin nella stradicciuola in un riflesso chiaro e smorto. Si udivano le
mamme e i vicini chiacchierare sulle porte. Al ferragosto il sor Battista coi
denari delle mance prese una sbornia coi fiocchi, e si picchiarono
colla sora Giuseppina. Il Carlini, nel far da paciere, si buscò
un pugno che l'accecò mezzo. La Màlia quella sera stava
peggio; e con quello spavento per giunta, il medico che veniva pel
primo piano disse chiaro e tondo che poco le restava da penare,
povera ragazza. A quell'annunzio babbo e mamma fecero
la pace, e venne anche la Gilda vestita di seta, senza che si sapesse
chi glielo aveva detto. La Màlia invece credeva di star
meglio, e chiese che le sciorinassero sul letto il vestito in pezza
del Carlini, onde «farci festa» diceva lei. Stava a
sedere sul letto, appoggiata ai guanciali, e per respirare si aiutava
muovendo le braccia stecchite, come fa un uccelletto delle ali. La sora Carolina disse che bisognava
andare pel prete, e il babbo che quelle minchionerie le aveva sempre
disprezzate col 'Secolo', se ne andò all'osteria in segno di
protesta. La sora Giuseppina accese due candele, e mise una tovaglia
sul cassettone. Màlia, al vedere quei preparativi si scompose
in viso, ma si confessò col prete, anche il bacio del Carlini,
e dopo volle che la mamma e la sorella non la lasciassero sola. Il babbo, l'aspettarono, s'intende. La
sora Giuseppina si era appisolata sul canapè, e Gilda
discorreva sottovoce col Carlini accanto alla finestra, credendo che
la Màlia dormisse. Così la poveretta passò senza
che se ne accorgessero, e i vicini dissero che era morta proprio come
un canarino. Il babbo il giorno dopo pianse come un
vitello e la sua moglie sospirava: - Povero angelo! Hai finito di penare!
Ma eravamo abituati a vederla là, a quella finestra, come un
canarino. Ora ci parrà di esser soli peggio dei cani -. La Gilda promise di tornar spesso e
lasciò i denari pel funerale. Ma a poco a pocò anche il
Carlini diradò le visite, e come aveva cambiato alloggio a San
Michele, non si vide più. Sulla finestra il babbo, per mutar
vita, fece inchiodare un pezzetto d'asse, con su l'insegna «Sarto»
la quale vi rimase tale e quale come il canarino del n. 15. Don Candeloro era proprio artista nel
suo genere: figlio di burattinai, nipote di burattinai - ché
bisogna nascerci con quel bernoccolo - il suo pane, il suo amore, la
sua gloria erano i burattini. - Non son chi sono se non arrivo a
farli parlare! - diceva in certi momenti di vanagloria come ne
abbiamo tutti, allorché gli applausi del pubblico gli andavano
alla testa, e gli pareva di essere un dio, fra le nuvole del
palcoscenico, reggendo i fili dei suoi «personaggi». Per essi non guardava a spesa. Li
perfezionava, li vestiva sfarzosamente, aveva ideato delle teste che
movevano occhi e bocca, studiava sugli autori la voce che avrebbe
dovuto avere ciascuno di essi, 'Almansore' o 'Astiladoro'. Quando
declamava pei suoi burattini, nelle scene culminanti, si scaldava
così, che dopo rimaneva sfinito, asciugandosi il viso, nel
raccogliere i mirallegro dei suoi ammiratori sfegatati, come un
attore naturale. Di ammiratori ne aveva da per tutto,
alla Marina, alla Pescheria, certuni che si toglievano il pan di
bocca per andare a sentire da lui la 'Storia di Rinaldo' o 'Il Guerin
Meschino', e se l'additavano poi, incontrandolo per la strada, colla
canna d'India sull'omero e la sua bella andatura maestosa, che
sembrava 'Orlando' addirittura. Era un gran regalo quando egli
rispondeva al saluto toccando con due dita la tesa del cappello. Se nasceva una lite in teatro, e
venivano fuori i coltelli, bastava che don Candeloro si mostrasse fra
le quinte, e dicesse: Giacché s'era fatta anche la
voce, come il gesto e la parlata, sul fare dei suoi «personaggi»
e pareva di sentire un 'Reale di Francia' anche se chiamava il
lustrastivali dal terrazzino. Con queste doti innamorò la
figliuola di un oste che teneva bottega lì accanto. La ragazza
era bruttina, ma aveva una bella voce, e doveva avere anche un bel
gruzzolo. - La voce è tutto! - le diceva don Candeloro
sgranandole gli occhi addosso, e accarezzandosi il pizzo. - Grazia!
Che bel nome avete pure! - Andava spesso a far colazione all'osteria
per amore della Grazia, e le confidò che pensava d'accasarsi,
dacché aveva voltato le spalle alla vecchia baracca del padre,
e messo su di nuovo teatro che rubava gli avventori al SAN CARLINO, e
al TEATRO DI MARIONETTE. Si mangiavano fra di loro come lupi, padre e
figlio, e i suoi colleghi erano giunti ad ordirgli la cabala, e
fargli fischiare la 'Storia di Buovo d'Antona'. - Spenderò i
tesori di Creso! - aveva fatto voto quel dì don Candeloro
battendo il pugno sulla tavola. - Ma non son chi sono se non li
riduco a chiuder bottega tutti quanti! - Lui con dei contanti avrebbe
fatto cose da sbalordire. Insino il balletto e la pantomima avrebbe
portato sul suo teatro; tutto colle marionette. - Ci aveva qualcosa
lì! - e si picchiava la fronte dinanzi alla Grazia, fissandole
gli occhi addosso come volesse mangiarsela, lei e la sua dote. Si
scervellò un mese intero, col capo fra le mani, a cercare un
bel titolo pel suo teatrino, qualcosa che pigliasse la gente per gli
occhi e pei capelli, lì, nel cartellone dipinto e coi lumi
dietro. - 'Le Marionette parlanti!' - Sì, com'è vero
ch'io mi appello Candeloro Bracone! parlanti e viventi meglio di voi
e di me! Non deve passare un cane che abbia un soldo in tasca dinanzi
al mio teatro, senza che dica: «Spendiamo l'osso del collo per
andare a vedere cosa sa fare don Candeloro!» - L'oste veramente
non si sarebbe lasciato prendere a quelle spampanate, perché
sapeva che gli avventori seri preferiscono andare a bere il buon vino
nel solito cantuccio oscuro; e del resto, lui voleva un genero con
una professione da cristiano, come la sua, a mo' d'esempio, e non un
commediante con la zazzera inanellata, che parlava come un libro e
gli incuteva soggezione. - Quello è un tizio che ci
farebbe muovere a suo piacere come i burattini, te e me! - disse alla
figliuola. - Bada ai fatti tuoi: le buone parole, qualche risatina
anche, con gli avventori. E poi orecchie di mercante. Hai inteso? -
Ma il tradimento gli venne da un finestrino che dava sul
palcoscenico, al quale la ragazza correva spesso di nascosto a
mettere un occhio, e dove si scaldava il capo con tutte quelle storie
di paladini e di principesse innamorate. Don Candeloro, dacché
s'era dichiarato con lei, lasciava socchiusa apposta l'impannata, e
le sfuriate di amore, 'Rinaldo' e gli altri personaggi, le
rivolgevano lassù; tanto che la ragazza ne andava in
solluchero, e aveva a schifo poi di lavare i piatti e imbrattarsi le
mani in cucina. «Non pur me, ma infiniti signori
questo amore ha fatto suoi vassalli, principessa adorata!...» -
Tu non me la dài a intendere! - brontolava l'oste colla
figliuola. - Che diavolo hai in testa? Mi sbagli il conto del vino...
Gli avventori si lamentano... Questa storia non può durare -. La catastrofe avvenne alla gran scena
in cui la 'bella Antinisca' ritorna alla cittè di Presopoli, e
'Guerino' «quando la vidde» dice la storia «s'accese
molto più del suo amore». Smaniava per la scena,
sbalestrando le gambe di qua e di là, alzando tratto tratto le
braccia al cielo, squassando il capo quasi colto dal mal nervoso.
Diceva, con la bella voce cantante di don Candeloro: «O Dio, dammi grazia ch'io mi
possa difendere da questa fragil carne, tanto ch'io trovi il padre
mio, e la mia generazione». E la 'bella Antinisca', dimenandosi
anch'essa, e lagrimando (si capiva dalle mani che le sbattevano al
viso): «O Signor mio, io speravo sotto
la vostra spada di esser sicura del Regno che voi mi avete renduto,
per questa cagione vi giuro per li Dei che come saprò, che voi
siete partito, con le mie proprie mani mi ucciderò per vostro
amore, e se mi promettete, che finito il vostro viaggio ritornerete a
me, io vi prometto aspettarvi dieci anni sena prender marito». «Non per Dio, sarete vecchia»
disse il 'Meschino'. «Questo non curo, pur che voi giuriate di
tornare a me, di non pigliare altra donna». (Veramente la
'bella Antinisca' aveva una voce di grilletto che faceva ridere gli
spettatori, giacché don Candeloro per le parti di donna aveva
dovuto scritturare a giornata un ragazzetto che cominciava adesso a
farsi grandicello, e per giunta recitava come un pappagallo, talché
alle volte il principale, sdegnato, gli assestava delle pedate,
dietro la scena). Allora la 'bella Antinisca' cadde d'un salto fra le
braccia del 'Guerino', piegata in due dalla tenerezza, e Grazia,
arrampicata al finestrino, si sentì balzare così il
cuore nel petto, che le sembrava proprio di essere nei panni dei due
felici amanti, allorché il 'Meschino', in presenza di
'Paruidas', 'Armigrano' e 'Moretto', giurò per tutti i
sagramenti di farla sua donna e legittima sposa. - Quando saremo marito e moglie, le
parti di donna le farai tu! - le aveva detto don Candeloro. E la
ragazza, ambiziosa, si sentiva gonfiare il petto dalla gioia, a
quelle scene commoventi che facevano drizzare i capelli in capo ad
ognuno, e si vedevano degli uomini con tanto di barba piangere come
bambini, fra gli applausi che parevano subissare il teatro. - Sì!
sì! - disse Grazia in cuor suo. Il babbo invece disse di no. C'erano
continuamente delle scene fra padre e figlia; quello ripetendo che la
storia non poteva durare, e minacciando la ragazza di tornare a
maritarsi, e metterle sul collo la matrigna. Lei dura nel proposito:
o don Candeloro, o la morte! Quando don Candeloro andò a far
domanda formale, vestito di tutto punto, l'oste rispose: - Tanto onore e piacere. Ma ciascuno sa
i fatti di casa sua. Sono vedovo, non ho altri figliuoli, e mi
abbisogna un genero che mi aiuti... - Allora vuol dire che non son degno di
tanto onore! - balbettò don Candeloro facendosi rosso, e
piantandosi di tre quarti, colla canna d'India appoggiata all'anca. - Nossignore, l'onore è mio. - L'onore è vostro, ma vostra
figlia non me la date... - Nossignore. Come volete sentirla? - Va bene. Umilissimo servo! -
conchiuse don Candeloro calcandosi con due dita la tuba
sull'orecchio, e se ne andò mortificatissimo. - Senti - disse poi alla Grazia dal
finestrino. - Tuo padre è un ignorante che non capisce nulla.
Bisogna prendere una risoluzione eroica, hai capito? - La ragazza
esitava a prendere la risoluzione eroica di infilare l'uscio e
venirsene a stare con lui, per costringere poi il babbo ad
acconsentire al matrimonio. Ma don Candeloro aveva il miele sulle
labbra, e sapeva trovare delle ragioni alle quali non si poteva
resistere. Le diceva di fare nascostamente il suo fagotto... con
giudizio, s'intende... - C'era anche la sua parte nei denari del
padre, - e venirsene dove la chiamavano i cieli. - Non hai giurato
per gli Dei di essere mia donna e legittima sposa? - Il vecchio però era un furbo
matricolato, il quale cantava sempre miseria, e nascondeva i suoi
bezzi chissà dove. Grazia non portò altro che quattro
cenci in un fazzoletto, e quelle poche lire spicciole che aveva
potuto arraffare al banco. - Come? - balbettò don Candeloro
che si sentiva gelare il sangue nelle vene. - In tanto tempo che ci
stai, non hai saputo far di meglio?... - Questo era indizio che non
sarebbe stata buona a nulla, neppure per lui; e le questioni
cominciarono dal primo giorno. Basta, era un gentiluomo, e la
promessa di Candeloro Bracone era parola di Re. Il bello poi fu che
lo stesso giorno in cui andarono all'altare, lui e la sposa, il
suocero volle fargli la burletta di andarci lui pure, insieme a una
bella donnona colla quale aveva combinato il pateracchio lì
per lì. - Senza donne non possiamo stare né io né
il mio negozio, cari miei, - gli piaceva ripetere, con quel
sorrisetto che mostrava le gengive più dure dei denti, e
faceva venire la mosca al naso. - State allegri e che il Signore vi
prosperi e vi dia molti figliuoli. Alla mia morte poi avrete quel che
vi tocca -. I figliuoli vennero infatti a tutti e
due, genero e suocero, uno dopo l'altro. Ma l'oste prometteva di
metterne al mondo quanto il 'Gran Sultano', e di campare gli anni del
'Mago Merlino'. Ogni volta che gli partoriva la moglie o la
figliuola, invitava tutto il parentado a fare una bella mangiata. Crescevano i figliuoli, e i pesi del
matrimonio; ma viceversa poi diminuivano gli introiti e il favore
popolare. Quella gran bestia del pubblico s'era lasciato prendere a
certe novità che avevano portato Bracone il vecchio e il
proprietario del SAN CARLINO. Adesso nei teatrini di marionette
recitavano dei personaggi in carne ed ossa, la 'Storia di Garibaldi',
figuriamoci, ed anche delle farsacce con 'Pulcinella'; e vi cantavano
delle donne mezzo nude che facevano del palcoscenico un letamaio. La
gente correva a vedere le gambe e le altre porcherie, tale e quale
come le bestie, che don Candeloro ne arrossiva pel mestiere, e
preferiva piuttosto fare il saltimbanco o il lustrascarpe, prima di
scendere a quelle bassezze. Per non recitare alle panche era arrivato
a far entrare in teatro gratis dei vecchi avventori, fedeli alle
belle 'Storie d'Orlando' e dei 'Paladini antichi', coi quali almeno
si sfogava dicendo vituperi dei suoi colleghi: - Perché non mettere le persiane
verdi alle porte, come certi stabilimenti?... Sarebbe più
pulito. Dovrebbe immischiarsene la Questura, per Satanasso! - Però
l'ignoranza e l'ingratitudine del pubblico gli facevano cascare le
braccia. Non valeva proprio la pena di sudare coi libri, e spendere
dei tesori per dare roba buona a degli asini. - Volete lavare la
testa all'asino? - Gli stessi burattini recitavano svogliatamente,
vestiti come Dio vuole. - Ci si perdeva l'amore dell'arte e d'ogni
cosa, parola di gentiluomo! - Dov'erano andati i bei tempi in cui si
facevano due rappresentazioni al giorno, la domenica e le feste, e la
gente assediava la porta, quend'era annunziato sul cartellone un
«personaggio» nuovo? Don Candeloro, colla barba di otto
giorni e la zazzera arruffata, passava le giornate intere nella
bettola del suocero, a dir corna dei suoi colleghi, o a litigare
colla moglie, ora che in casa pareva l'inferno. Grazia, adesso che
aveva visto cosa c'era dietro le belle scene impiastricciate, stava
con tanto di muso a rammendar cenci anche lei, a stemperar colori, e
rompersi braccia e schiena, vociando come un pappagallo per le
'Artemisie' e le 'Rosalinde', dall'avemaria a due ore di notte; che
specie quando il Signore le mandava dei figliuoli (e succedeva una
volta all'anno) era proprio un gastigo di Dio. - Tu non sai far altro, per Maometto! -
le rinfacciava il marito furibondo. L'oste dava soltanto buoni consigli: Finalmente spiantò davvero il
teatro, mise ogni cosa su di un carro, e via di notte, per non dar
gusto ai nemici. L'oste prese lui a pigione il magazzino per metterci
delle botti, e allargare il negozio, ora che la figliuolanza era
cresciuta. - Te l'avevo detto, - disse alla
Grazia. - Quello non è mestiere da cristiani. Se fossi rimasta
a vendere del vino. non saresti ridotta adesso a far la zingara. Ben
ti stia! - Don Candeloro viaggiò per valli e per monti, come i
cavalieri antichi, con tutto il suo teatro ammucchiato in un carro, e
la moglie e i figliuoli sopra. Il guaio era che non si trovava con
chi combattere. Quei contadinacci ignoranti ed avari, sfogata la
prima curiosità, voltavano le spalle alle «marionette
parlanti» o s'arrampicavano sul tetto del teatrino per godersi
la rappresentazione 'gratis'. Arrivando in un villaggio, don
Candeloro scaricava la roba sulla piazza, pigliava in affitto una
bottega, un magazzino, una stalla, quel che trovava, e si mettevano a
inchiodare e incollare tutti quant'erano. Le stagioni duravano otto,
quindici giorni, un mese, al più. Dopo, si tornava da capo a
correre il mondo, e in quel va e vieni la roba andava in malora; si
mangiavano ogni cosa le spese d'affitto e di viaggio, con dei
carrettieri ladri ch'erano peggio dei saracini, e non usavano
riguardi neanche a Cristo. Don Candeloro, avvezzo ad essere
rispettato come un Dio da simile gentaglia, voleva farsi ragione
colle sue mani, in principio, sinché si buscò una
grandinata di calci e pugni. E ci dovette arrivare anche lui,
Candeloro Bracone, a fare il pagliaccio se volle aver gente nel suo
teatro, e a rappresentare le pantomime nelle quali pigliavasi le
pedate nel didietro dal minore dei suoi ragazzi per far ridere «la
platea». Quando vide che il pubblico non ne mangiava più
in nessuna salsa delle «marionette parlanti», e ci voleva
dell'altro per cavar soldi da quei bruti, ebbe un'idea luminosa che
avrebbe dovuto fare la fortuna di un artista, se la fortuna baldracca
non ce l'avesse avuta a morte con lui... - Ah, vogliono i personaggi
veri?...- Un bel giorno si vide annunziare sul cartellone che la
'parte di Orlando', nei 'Reali di Francia', l'avrebbe sostenuta don
Candeloro in persona «fatica sua particolare!» E comparve
davvero sul palcoscenico, lui e tutta la sua famiglia, in costume, e
armato di tutto punto: delle armature ordinate apposta al primo
lattoniere della città, e che erano costate gli occhi della
testa. Il pubblico sciocco invece, al vedere
quei ceffi di giudei che toccavano i cieli col capo, e suonavano a
ogni passo come scatole di petrolio, si mise a ridere e a tirare ogni
sorta d'immondizie sui 'Paladini', massime allorché ad
'Orlando' cadde di mano la spada, ed egli, tutto chiuso nell'armi,
non poté chinarsi per raccattarla. Urli, fischi e mozziconi di
sigari in faccia ai 'Reali'. Un putiferio da prendere a schiaffi
tutti quanti, o da passar loro la spada attraverso il corpo, se non
fosse stata di latta, pensando a tanti denari spesi inutilmente. Da per tutto, ove si ostinava a portare
i 'Paladini di Francia' «con personaggi veri» trovava la
stessa accoglienza: torsi di cavolo e bucce d'arance. Il
pubblico andava in teatro apposta colle tasche piene di quella roba.
Non li volevano più neanche «coi personaggi veri»
i 'Paladini'! Volevano le scempiaggini di 'Pulcinella', e le
canzonette grasse cantate dalle donne che alzavano la gamba. - E tu fagliele vedere le gambe! -
disse infine alla moglie don Candeloro infuriato. - Diamogli delle
ghiande al porco! - Lui stesso, colle sue mani, dovette aiutare la
Grazia ad accorciare la gonnella, litigando con lei che pretendeva di
non esser nata per quel mestiere, e si vergognava all'udire i
complimenti che il pubblico indirizzava ai suoi stinchi magri. - Per
che cosa sei nata? per far la principessa? Il pane te lo mangi, però!
- Lui invece era preso adesso dalla rabbia di mostrare ogni cosa, a
quegli animali, la moglie, la figliuola ch'era più giovane e
chiamava più gente. - Anch'io, se vogliono vedermi!... Voglio
calarmi le brache in faccia a quelle bestie! - Faceva delle risate
amare, povero don Candeloro! Cercava le farsacce più stupide e
più indecenti. Si tingeva il viso per fare il pagliaccio.
Sputava sul pubblico, dietro le quinte! - Porci! porci! -
La capanna stavolta era l''Albergo
della Stella'. Quando vi giunsi, fra quelle quattro case arrampicate
in cima al monte, dopo una giornata afosa nelle bassure della
zolfara, mi parve di essere davvero nelle stelle, all'ombra della
tettoia sgangherata che faceva da angiporto. - Una stanza? - uscì a dire
l'ostessa asciugandosi il sugo di pomidoro dalle braccia. - Ma ci
abbiamo tutta la compagnia. - Oh! - Sicuro, quella delle operette. Però,
se si contenta della mia... - Passando pel baraccone tutto
scompartimenti come una stalla, vidi infatti una bella giovane che si
rizzò lesta dal tavolato dov'era distesa, e mi salutò
arrossendo un poco anche sotto il rossetto della sera innanzi. Dovetti accontentarmi, poiché
non ci era altro, della stamberga con tanto di letto matrimoniale
dell'ostessa, e mentre essa apparecchiava un po' di tavola «per
quel che c'era», si udì un baccano dalla parte della
compagnia. - È la lavandaia che viene a
fare le solite scenate, - disse l'ostessa. - Gente senza educazione.
Ora vo a dire che ci sono dei forestieri -. Ma fu inutile, e il diavoleto peggio di
prima. Appena fui seduto per mandar giù «un po' di quel
che c'era», comparve sull'uscio la ragazza della compagnia. - Scusi. Avrebbe, per caso, due lire e
settantacinque di spiccioli, in piacere? - Ecco. - Grazie. Ora torno -. Tornò infatti, collo stesso
risolino di palcoscenico. - Che vuole? Scusi tanto. I nostri comici sono tutti
fuori. Appena tornano... - Oh, faccia a suo comodo. - Buon appetito allora - disse
sorridendo anche al piatto che recava l'ostessa. - E a lei pure, giacché vedo
ch'è l'ora... - Oh, noi... I nostri uomini sono stati
invitati a fare una scampagnata dai signori del paese... - Se vuol favorire dunque... - Anzi... Molto gentile. Se permette,
lo dico anche alla mia amica ch'è napoletana e le piacciono
tanto gli spaghetti. - Tanto piacere anche la sua amica
napoletana -. L'ostessa non se lo fece neanche dire e
tornò indietro per gli altri spaghetti. La napoletana si fece
pregare un po', di là, ma venne lei pure, col salutino del
pubblico. - Il nostro soprano. Una voce! Dovrebbe
venire a sentirci, domani sera. - Domani sera spero di essere a casa
mia, finalmente. - Peccato! Qui non si recita che il
sabato e la domenica sera, perché gli altri giorni il nostro
pubblico è occupato nelle zolfare - . Il soprano, più contegnoso, si
occupava a mandar giù gli spaghetti in punta di forchetta,
quasi fosse già il sabato o la domenica sera, dinanzi al
pubblico . - Una vera diva!... E vederla in
costume, con quel 'décolleté'!... - La diva protestò
levando su la forchetta col gomitolo di spaghetti, o per poca
modestia, o perché il 'décolleté' non fosse
troppo in bella vista. - Eh, che male c'è se gli uomini
hanno occhi per vedere... e mandar giù le platee?... È
vero, sì o no? Ditelo anche voi -. Voltandomi, vidi sull'uscio altri
visetti che dicevano già di sì, in attesa pur esse. - Venite, venite anche voi. Il signore
è così gentile... - E naturalmente venne anche
l'ostessa, carica d'altri piatti. - La signorina Fides, mezzo soprano. -
La signorina Vanda, contralto. - La signorina Ines, contraltino, che
al bisogno fa le parti d'amoroso. Come vede i nostri uomini ci
lasciano a trarci d'imbarazzo anche nelle parti d'amoroso. - Vedremo se ci portano almeno dei
fiori dalla loro scampagnata. - Quelli sì, perché non
si mangiano. - Che delizia! - sospirò allora
la diva. - Che paesaggi avete da queste parti... sotto questo
sole!... - A chi lo dice! - No? Non è del paese lei? - È che l'ho avuto tutto il
giorno sulla testa, quel sole! - Dopo gli spaghetti venne del
baccalà, poi delle ova sode, poi del caciocavallo, insomma «un
po' di quel che c'era»», e dei fichi d'India, già
bell'e sbucciati dalle mani stesse della locandiera, chi ne volesse.
Le artiste dicevano sempre di sì; tanto che dopo i fichi
d'India chiesero del cognac. - Cognac non ce n'è. Ahbiamo
della menta-sèlse. Ma ora, dopo tavola... - Non importa. È per fare i
brindisi -. Prima naturalmente a me, ch'ero stato
tanto gentile. Poi sfilarono altri nomi e altri ricordi, che
brillarono un istante in quegli occhietti lustri. - A te!... Sempre! - A quella prima
notte... di luna!... - Tutta roba passata! - sentenziò
la stella napoletana. - 'Tout passe, tout lasse, tout casse'... - E
volle anche spiegare il suo francese alle compagne che sgranavano gli
occhi. - Passa via... ti lascio... La canzone finisce sempre così. - Sempre, no. Tu lo sai bene... - Ella
si strinse nelle spalle. - Il tuo avvocato... - Un avvocato! - Sissignore! E ha lasciato moglie e
figliuoli per venire a fare il suggeritore. - Un bell'affare! E quella megera s'è
permesso anche di venire a farmi le scene, coi suoi mocciosi, in casa
mia! - Poveretti! Bisognava sentirli
piangere... - Al cuore non si comanda, - conchiuse
una delle signorine Ines o Fides. - Certo, se si sapesse prima... - -
Prima - il caso - l'incontrarsi in quegli occhi che vi mangiano dalla
platea quando vi viene la nota giusta. - Le scioccheriole che vi
contano all'uscita dal teatro - la scappatella che sembrava di
passaggio, ahimé!... Ciascuna rammentava la sua, in quel
momento di vino tenero. Gli occhi ancora umidi, o pei ricordi di
prima, o per quelli della scena. - Così, senza saper come, la
scioccheriola che mutavasi in duetto serio - o la passatina sotto la
finestra che andava a finire nella stanzetta in due. Poi il destarsi
a bocca asciutta - o amara - o tra gli sbadigli e i - non mi seccare
-, ch'è peggio. - O peggio ancora la farsetta che minaccia di
cambiarsi in tragedia... - Come quando si dovette levar le tende in
fretta e furia, tutta la compagnia che non c'entrava affatto... E a
un pelo di rimborsar gli abbonati per giunta! - conchiuse la
signorina Fides. - Oh, questa poi!... - Sì, in un paesetto qui vicino,
allorché quelli del partito contrario vollero giocare un tiro
al sindaco che veniva a fare quattro chiacchiere con una di noi; e
una bella notte, quando volle tornare a casa della moglie, gli fecero
trovare murata la porta della locanda coi materiali della strada in
riparazione. Allora figuriamoci!... - Essa non aveva
fatto alcun nome; ma tutte le altre guardavano sottecchi da una
parte, ridendo, però col naso sul piatto. La napoletana che
invece aveva il naso in su, rimbeccò subito: - Tu stai zitta, che di queste
disgrazie non ne capitano certo pei tuoi begli occhi al tuo
banchiere! - Anche un banchiere? - Sì, quello che scopa le tavole
-. Fides scattò inviperita: - E te li buttava dietro in fiori per
le serate e il braccialetto col 'sempre' d'oro. Per questo dovette
fare i conti col principale, che gli sbatté in faccia lo
sportello della banca, e te lo lasciò appeso al collo, col
'sempre' del braccialetto! - Io cercai di mettere qualche buona
parola, anzi le loro parole stesse: - Prima o poi, quello era un galantuomo
e rimase un galantuomo. Povero, ma onorato. Perciò
quando me lo vidi comparire dinanzi, con le tasche vuote ma tanto di
cuore aperto... ed anche le braccia, mentre mi diceva: «Eccomi...
Son qua...». Ella singhiozzava quasi, col tovagliolo
al viso, ripetendo quelle parole, tanto che le amiche le si strinsero
intorno a confortarla, e la stessa napoletana volle ricordare come
succedono queste cose: - Si sa. Ogni giorno che veniva, le
ariette e i duettini... Una bella seccatura a sentirli mattina e
sera... - Egli aveva una vocetta promettente
allora - aggiunse la signorina Vanda. - E per una disgrazia leggeva anche dei
romanzi, tanto che gli pareva vero... - Io glielo dissi - riprese Fides con
gli occhi ancora umidi. - E che vuoi fare adesso? «Son qua...
Son qua...». Non sapeva dir altro, con quel viso pallido, e
quelle braccia aperte... Anch'io ero là... E mi chiamo Fede...
La mano nella mano dunque... - Ecco! Sino alla prima voltata. - Voltata no, e neppure corda al collo
- rispose Fides con gli occhi adesso asciutti. - Io devo fare
l'artista, e non posso voltare le spalle a questo e a quello se mi
dicono che piaccio. - O quando fanno dei regalucci. - Bisogna mandare avanti la baracca
anche -. Quando gli uomini, a sera, tardi, dopo
aver mangiato bene e bevuto meglio tornarono alla capanna ed al
cuore, furono liti e questioni invece di fiori e paroline dolci. La
vocetta mezzo soprano di Fides che strillava: - Porco! Ci vorrebbero qui i tuoi
mocciosi a piangerti per il pane, adesso! - Me li vidi comparire
dinanzi io pure, il giorno dopo; lui con la gota fasciata, a
spiegarmi quel che doveva essere stato il po' di chiasso che forse
avevo udito nella notte. Ma la napoletana, ancora imbronciata, tagliò
corto: - Basta, basta. Arrivederci dunque. Il
mondo è tondo, e chi non muore si rivede -. Io non ho più rivisto quegli
occhi rapaci e quel 'décolleté' petulante. - No, non mi tentate, Casalengo! Sapete
che mi chiamano Carmen! Il vostro amico è «biondo e
bello e di gentile aspetto»; e ingenuo, timido e
cavalleresco...; ritorna adesso dagli antipodi... Insomma, mi piace assai. Non voglio
conoscerlo -. Essa gliel'aveva detto! Invece Casalengo credeva che
scherzasse: leggerezza, vanità, orgoglio d'amante che fosse
stato in lui; cecità di stolto che Dio voglia perdere; incanto
di quelle labbra che avrebbero fatto commettere qualsiasi sciocchezza
per vederle sorridere ancora in siffata maniera; distrazione
procuratagli dai monili serpentini che tintinnavano scorrendo giù
pel braccio, nudo, il quale levavasi minaccioso, col dito rivolto al
cielo: Aldini, che aveva sentito parlare sino
a Zanzibar della gran passione per cui il suo amico Casalengo s'era
giuocate le spalline di comandante, provava adesso una certa sorpresa
dinanzi a quella donna che non aveva poi nulla d'estraordinario. Un
viso delicato e pallido, come appassito precocemente, come velato da
un'ombra, dei grandi occhi parlanti, in cui era della febbre, dei
capelli morbidi e folti, posati mollemente in un grosso nodo sulla
nuca, e il bel fiore carnoso della bocca - la bocca terribile - come
dicevano amici e gelosi. Ma lo turbava il profumo mondano, la
carne mortificata dalla gran vita, che traspariva fra le trine
preziose, il segno che il braccialetto le lasciava sulla pelle
delicata - e gli dava un gran da fare per non mangiarsela cogli
occhi. Ella se ne avvide, e mise cinque minuti buoni a infilarsi il
guanto, in premio dell'ammirazione muta che le tributavano gli occhi
sinceri del giovinetto, i rossori fugaci, le parole mozze... Da
abbracciarlo, lì, dinanzi a tutti quanti! E gli lasciò
in pegno il ventaglio, tornando a ballare il valzer - un legame, lo
scettro della sultana. - Eccoti comandato... servizio
particolare! - gli disse Casalengo ridendo. - Se avevi qualche
impegno, ti scuserò io, caro Riccardo... - No! Oh no! - esclamò Aldini,
stringendo forte il ventaglio colle due mani. Adesso osservava alla sfuggita, con una
curiosità inquieta e rispettosa, il suo amico Casalengo, la
forte giovinezza di lui come curva sotto un giogo, il sorriso
distratto sulle labbra riarse, le frasi stonate, il pensiero fisso,
l'ardore segreto, la ruga impercettibile e quasi nascosta fra le
ciglia, gli sguardi erranti, suo malgrado, attratti dalla donna amata
che gli fuggiva dinanzi nelle braccia di un altro, raggiante, e gli
buttava in faccia il sorriso, il profumo, il vento dell'abito, la
nudità delle spalle, tutte le seduzioni, i fantasmi dell'amore
e della donna, quali erano passati dinanzi agli occhi a lui pure,
Aldini, nelle calde fantasticherie dell'adolescenza, discorrendo
laggiù della maliarda la quale prendeva lui pure adesso, con
una parola, con un nulla, legandolo, incatenandolo a sé con
quel ninnolo che gli aveva messo fra le mani, come un fanciullo che
si voglia tenere a bada. - Ah, ma sapete! È proprio
carino il vostro amico Aldini! - Ve l'avevo detto, - rispose Casalengo
un po' ironico. Ella si strinse nelle spalle con un
movimento che gli mise sotto il naso i begli omeri nudi. - Badate però. È un
ragazzo... un ragazzo pericoloso. - Ah, così? - disse lei. E Carmen volle farne l'esperimento,
povero Aldini. Tanti altri, ora vinti e intossicati per tutta la
vita, l'avevano chiamata con quel soprannome di guerra e di
malaugurio, ch'era la punzecchiatura delle sue amiche gelose, e la
carezza o la maledizione degli incauti che si lasciavano prendere al
fascino del suo sorriso dolce e buono - la più strana cosa, su
quella bocca di vampiro. Poich'essa faceva il male con una
incoscienza ch'era la sua maggiore attrattiva; vi metteva una
sincerità, quasi una lealtà che le faceva perdonare i
suoi errori, come il gran nome che portava le faceva aprire tutte le
porte. E una squisita eleganza, una grazia innata fin nelle
bizzarrie, un'ingenuità provocante fin nella stessa
civetteria, l'aria di gran dama anche in un veglione, avida di
piaceri e di feste, quasi divorata da una febbre continua di emozioni
e di sensazioni diverse, una febbre che la consumava senza ravvivare
il suo bel pallore diafano, né le sue labbra dolorose, ma che
però la lasciava spesso in una prostrazione desolata, le dava
delle ore di stanchezza e di uggia, di cui i suoi adoratori pagavano
la pena: ore tremende - in cui non c'era altro da fare che prendere
il cappello e andarsene - dicevano i forti, quelli che avevano pianto
poi dietro l'uscio di lei. Gli altri, coloro che cercavano di
spiegare le sue follìe, se non di scusarle, dicevano ch'era
ammalata, ch'era matta - tutti i d'Altona erano morti tisici o
dementi - che aveva provato dei gran dolori e dei gran disinganni,
ch'era ferita a morte, condannata senza speranza, e voleva vivere
vent'anni in venti mesi. - Gliel'ha detto anche a lei, il mio
amico Casalengo, che mi chiamano Carmen? - chiese ella ad Aldini, col
sorriso mordente, la prima volta che un'ondata di folla glielo mise
di nuovo faccia a faccia, all'uscire dal Sannazzaro. Ma gli stese la mano senza rancore.
Poscia, mentre aspettava la carrozza, stretta nella pelliccia, e con
quell'aria di stanchezza e di noia che faceva scappare la gente,
soggiunse: - M'accompagni. Servirà ad
insegnarle la strada... quando vorrà venire a farmi una
visita. Troveremo qualche amico a casa... degli amici suoi e miei,
per prendere il thè insieme.... se non ha paura che l'avveleni
come la Lucrezia Borgia di stasera... una Lucrezia tremenda, da morir
di noia!... - Fu in tal modo che lo prese, - come, per fargli posto
nel legnetto, aveva preso e raccolto a due mani il suo vestito, - e
lo avvolse fra le pieghe di esso, e lo stordì col suo profumo,
allorché la pelliccia, scivolandole giù per le spalle,
gli buttò al viso e alla testa la trasparenza di quegli omeri
rosei - senza volerlo, quasi senza avvedersene, in quell'ora di
uggia, e d'umor nero che l'avrebbe fatta dar della testa
nell'imbottitura del 'coupé', e che egli le leggeva sul viso
smorto, mentre guardava distrattamente attraverso il cristallo, ai
bagliori fugaci che gettavano le vetrine scintillanti dentro la
carrozza che correva su per Toledo - senza dirgli una parola, né
rivolgergli un'occhiata, quasi non pensasse più a lui, o
subisse ancor essa lo strano imbarazzo di quell'incontro, di quel
silenzio, dell'oscurità che li avvolse tutti e due a un tratto
nello stesso mistero e nella stessa tentazione, appena il legno
svoltò pel corso Vittorio Emanuele - o sapesse che ciò
doveva bastare a mettergli nel cuore, a lui, nelle carni,
incancellabile, la febbre di quell'occasione che fuggiva rapida, la
sete di quelle labbra di donna che si celavano nell'ombra, il
turbamento di quella sfinge che rimaneva per lui impenetrabile nello
stesso tempo che gli palpitava allato. - Degli angeli godono così
di sfiorare la colpa colle loro ali candide - ed essa non era un
angelo, no, povera signora! Talché quando lo presentò
ai suoi amici che l'accoglievano festanti: - era così pallido e stralunato,
il povero Figliuol Prodigo, e come abbagliato dalla piena luce del
salotto, o dalla fiamma ch'essa gli aveva accesa in cuore! Ed essa
aveva davvero qualcosa dello spirito del male, in quel momento, nel
sorriso ironico, nell'aria strana, nel pallore marmoreo del volto,
nell'allegria forzata colla quale davasi tutta ai suoi ospiti,
lottando di brio e d'arguzia, servendo il thè, dimenticando
completamente Aldini in un cantuccio, faccia a faccia con un album di
ritratti nel quale cercava di nascondere il suo imbarazzo. - Che cosa vi ha fatto quel povero
giovine? - le chiese sottovoce Casalengo, mentre inchinavasi a
prendere una tazza di thè dalle sue mani. - Tutti m'avete fatto! - rispose lei
nel medesimo tono di scherzo. Ed era forse la verità, il grido
di rivolta del suo cuore ulcerato, il senso di disgusto che aveva
trovato in fondo al bicchiere, l'amarezza che l'aveva colta allo
svegliarsi dai sogni d'oro - quando aveva visto il pentimento mal
dissimulato dell'uomo a cui aveva tutto sacrificato - quando era
stata ferita dall'insulto che nascondevasi sotto il madrigale di
galanti resi audaci dalla sua caduta - quando l'era mancata sin
l'alterezza e l'illusione del sentimento puro, della fede giurata,
pel tradimendo altrui, ed anche pel proprio. - Non valeva di meglio,
no, essa ch'era stata debole nell'ora stessa in cui 'un altro' le era
infedele. Tanto peggio! Tanto peggio per tutti, anche per lei, che
sentiva rifiorire il bel fiore azzurro dentro di sé. Non le
avevano detto che i fiori durano un giorno, e che solo sinché
odorano esistono? Era tornato spesso in quella casa di cui essa gli
aveva insegnato la via, il Figliuol Prodigo, timido e rispettoso, ma
preso proprio sino ai capelli, innamorato come un pazzo, di un amore
bizzarro che si pasceva di chiaro di luna e di passeggiate sotto le
finestre. - L'aveva visto tante volte, lei, prima d'andare a letto,
nel buio della strada! Ed era strano come ciò la facesse
sorridere di piacere, le facesse cacciare il viso infocato nel
guanciale, con una muta carezza. Era un voluttà sottile e
penetrante, il gusto di un'infedeltà che non poteva dar ombra
a Casalengo; ma così dolce, quando beveva il bacio dagli occhi
ingenui d'Aldini, e sentivasi ricercare avidamente da
quell'adorazione bramosa, tutta, il seno palpitante, mentre ballava
con lui, e le braccia che avrebbero voluto avvincerlo, al sentire
come gli batteva il cuore contro il suo, il cuore che gli si dava, e
la bocca, e la persona intera - e neppur tanto così,
nondimeno! Né una parola e neanche un dito! - Una volta sola,
smarrita, in quelle ondate di sangue che la musica e il valzer le
mandavano alla testa... - No, Riccardo, così... mi fate
male!... - Insomma, era scritto lassù. Ella non avrebbe
voluto, no, davvero, per timore del poi, per timore di lui e di se
stessa... e di Casalengo pure, giacché non era cattiva in
fondo. Ma allorché volle proprio, coll'anima e col corpo...
Tanto peggio! Almeno non volle essere né ipocrita né
egoista. Aveva sempre pagato del suo la festa, in moneta di lagrime e
di onte segrete; e non doveva nulla a nessuno, neppure al Casalengo,
cui aveva dato il diritto di mostrarsi geloso sacrificandogli tutto
quando non l'amava più. Come Aldini ricevette l'ordine
d'imbarco, e minacciava di dare la dimissione, di tagliarsi la gola,
un mondo di cose, ella gli disse: - No, Riccardo. Verrò con voi...
dovunque... - Una proposta che lo sbalordì, povero Aldini,
quasi presentisse già il momento in cui doveva pesargli come
una catena, quella dolce compagna che gli buttava le braccia al
collo. Ma allora vide soltanto le belle braccia delicate che
l'avvincevano, e le labbra fragranti che gli si promettevano per
sempre. Ella forse, sì, ebbe la visione di quel giorno, nella
nube che le misero agli occhi innamorati le lagrime della tenerezza. - Sì, viaggerò anch'io.
Non ho nulla che mi trattenga qui... No, no... lo sapete!... Né
altrove, in nessun luogo... Ho buttato al vento il mio fazzoletto...
per lasciar fare al destino... Non per voi, siate tranquillo. Sono
ricca e padrona di me. Sarò libera... fra breve... non dubitate. Lasciate
fare a me... che non farò del male né a voi né
ad altri. M'hanno sempre detto che i viaggi di mare gioverebbero alla
mia salute. E poi, non vi terranno sempre imbarcato, mio povero
Riccardo... Vi lascieranno mettere piede a terra, di tanto in
tanto... per dimostrare alle belle straniere che ci abbiamo dei begli
ufficiali a bordo delle navi... per proteggere delle connazionali
color di fuliggine o color di cioccolatte... Ebbene, io sarò
laggiù ad aspettarvi, dove indicherà il telegrafo o il
giornale. Vi farà piacere di trovar lì una tazza di thè
e un cappellino da cristiani, non è vero? E senza pesare tanto
così su di voi! senza nuocere alla vostra carriera... Non avranno da dire né i
regolamenti, né il servizio, né i superiori, e neanche
le conoscenze che raccatterete per via, quando vi manderanno troppo
lontano, o dove non sarò certa di trovare un caminetto e dei
fiori freschi... Vedete che non fo la brava, e non vi prometto mari e
monti... Liberi e felici come due uccelli dell'aria! Soltanto, quando
anche questa bella volata nell'azzurro ci stancherà... o ci
verrà noia... a voi o a me... poiché tutto finisce... Quando
vorrete maritarvi, o amerete un'altra... Sì, sì,
ragazzo mio, un bel giorno rideremo di queste belle parole che ci
fanno piangere adesso... Ma non importa, se adesso sono sincere...
Quando vi parrà che io vi sia d'inciampo nella carriera o
nella vita, e vorrete riprendere tutta intera la vostra libertà,
ditemelo francamente... Come io dirò francamente a un'altra
persona che voglio riprendere la mia libertà, oggi stesso...
Non v'inganno e non inganno, vedete, Riccardo! Non sono peggiore di
quella che sembro... Ma non ci diamo la pena e il tormento di
mentirci, mai! Mi promettete?... mi prometti? - Oh, amore! amore bello! - esclamò
Aldini fuori di sé, tentando di prendersela fin da quel
momento fra le braccia avide. - No! - rispose lei, mettendogli le
mani sul petto. - Non ancora... Quando sarò libera... e tua! -
Casalengo fu ripreso bruscamente da un accesso dell'amore antico,
appena essa gli fece capire che il suo era morto, lì, presso
quel tavolinetto, dove l'avevano strascinato un pezzo, per abitudine
e per dovere, nella mezz'ora prima di pranzo che il suo amico, sempre
galante e gentiluomo, non mancava mai di dedicarle. Ora egli
sentivasi mordere al cuore dal pensiero che un altro le facesse
tremare la voce ed il cuore come un tempo aveva fatto lui, come
sembravagli di provare ancora dentro di sé in quel momento - e
che fosse stato sempre così, e che dovesse durare eternamente,
anche per lei... Ella prese un fiore che si piegava
avvizzito nel vasetto d'argento, e gli disse tristemente: - Vedete questa rosa che mi avete
donata ieri? - Casalengo chinò la fronte sulla mano, e tacque
un istante. - Partirete? - domandò poi. - Sì. - Per dove? - Ella non rispose. - Volete darmi almeno quel fiore? -
chiese tristemente Alvise. Ella esitò alquanto, prima di
rispondere. - Grazie!... Voi sapete vivere... -
Egli si alzò in piedi, leggermente pallido, stretto nel
vestito che gli dava ancora la sua aria militare, ma perfettamente
padrone di sé, col sorriso un po' ironico dei suoi bei giorni. - E lasciar vivere... sì, ho
imparato a mie spese. Mi permettete di darvi un consiglio, in nome di
questa benedetta esperienza? - Dite. - Partite sola... e più tardi
che potete -. Ella arrossì sino ai capelli. - Non dubitate. Ci avevo pensato... pel
vostro amor proprio. - No, mia cara, per voi stessa, quando
ritornerete, e avrete bisogno dei vostri amici -. E inchinandosi a
baciarle la mano, aggiunse con un sorriso pallido: - Voglio rimanere vostro amico... se
volete... se sapete... -
Quando giunse la notizia del disastro
che aveva colpito Ischia mi parve di rivedere l'isoletta, quale mi
era sfilata dinanzi agli occhi attraverso gli alberi del battello a
vapore, in una bella sera d'autunno. La mensa era ancora apparecchiata sul
ponte, e gli ultimi raggi del sole indoravano il marsala nei
bicchieri. Dei viaggiatori alcuni si erano già levati, e
passeggiavano su e giù. Altri, coi gomiti sulla tovaglia,
guardavano l'immensa distesa di mare che imbruniva sotto i caldi
colori del tramonto su cui Ischia stampavasi verde e molle, e dove la
riva si insenava come una coppa. Casamicciola, bianca, sembrava
posare su di un cuscino di verdura. A tavola due che tornavano dal Giappone
discorrevano di seme di bachi. Una coppia misteriosa era andata a
rannicchiarsi a ridosso del tubo del vapore. Un giovane che non aveva
mangiato quasi, e stava seduto in un canto, pallido, col bavero del
paletò rialzato, guardava l'isoletta con occhi pensierosi e
lenti, in fondo alle occhiaie incavate. Tutt'a un tratto sul profilo dell'isola
che spiccava dalla luce diffusa del crepuscolo, apparve netto e
distinto un fabbricato, quasi sorgesse d'incanto, e l'ultimo raggio
di sole scintillò sui vetri, come l'accendesse. Quel dettaglio del paesaggio che si
animava all'improvviso apparve così chiaro e luminoso come se
si fosse avvicinato d'un tratto. Tutti si volsero ad ammirare lo
spettacolo, e i negozianti di cartoni giapponesi tacquero un momento.
Soltanto la coppia che era andata a nascondersi dietro il fumajuolo
non si mosse, e gli occhi del giovane pallido che teneva il bavero
rialzato non si animarono neppure. Così succede ogni dì; e
due sole preoccupazioni bastano per sé stesse, l'amore e la
malattia, l'origine e la fine della vita. Quasi cotesta riflessione fosse venuta
istintivamente a tutti in quel momento, si cominciò a parlare
dell'azione benefica che hanno le acque e l'aria di Casamicciola, e
dei malati che vanno a cercarvi la salute o la speranza. Invece il
giovane dal paletò, pensava probabilmente, come si fa delle
cose che si desiderano, alle gioie tranquille e ignote che dovevano
esserci in quell'isoletta verde, fra quelle casette bianche, dietro
quei vetri scintillanti. E quando i vetri si spensero, e la casa si
dileguò ad un tratto quasi al mutare di una lanterna magica, e
i contorni dell'isoletta sfumarono nel mare livido, il suo volto si
offuscò. Adesso quella casetta bianca è
forse distrutta, e degli occhi senza lagrime e senza sorriso ne
contemplano le rovine, dalle occhiaie incavate, su dei visi pallidi. Turiddu Macca, il figlio della gnà
Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si
pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto
rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco
colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi,
mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli
gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una
pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul
dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma con tutto ciò Lola di massaro
Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul
ballatoio, ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale
faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla.
Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori
le budella della pancia, voleva trargli, a quel di Licodia! Però
non ne fece nulla, e si sfogò coll'andare a cantare tutte le
canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella. - Che non ha nulla da fare Turiddu
della gnà Nunzia, - dicevano i vicini, - che passa la notte a
cantare come una passera solitaria? Finalmente si imbattè in Lola
che tornava dal 'viaggio' alla Madonna del Pericolo, e al vederlo,
non si fece né bianca né rossa quasi non fosse stato
fatto suo. - Beato chi vi vede! - le disse. - Oh, compare Turiddu, me l'avevano
detto che siete tornato al primo del mese. - A me mi hanno detto delle altre cose
ancora! - rispose lui. - Che è vero che vi maritate con
compare Alfio, il carrettiere? - Se c'è la volontà di
Dio! - rispose Lola tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto. - La volontà di Dio la fate col
tira e molla come vi torna conto! E la volontà di Dio fu che
dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gnà
Lola! - Il poveraccio tentava di fare ancora il bravo, ma la voce gli
si era fatta roca; ed egli andava dietro alla ragazza dondolandosi
colla nappa del berretto che gli ballava di qua e di là sulle
spalle. A lei, in coscienza, rincresceva di vederlo così col
viso lungo, però non aveva cuore di lusingarlo con belle
parole. - Sentite, compare Turiddu, - gli disse
alfine, - lasciatemi raggiungere le mie compagne. Che direbbero in
paese se mi vedessero con voi?... - È giusto, - rispose Turiddu; -
ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non
bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre invece, poveretta, la
dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo
stradone, nel tempo che ero soldato. Passò quel tempo che
Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci
parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto,
prima d'andarmene, che Dio sa quante lacrime ci ho pianto dentro
nell'andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del
nostro paese. Ora addio, gnà Lola, 'facemu cuntu ca chioppi e
scampau, e la nostra amicizia finiu' -. La gnà Lola si maritò col
carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul
ventre per far vedere tutti i grossi anelli d'oro che le aveva
regalati suo marito. Turiddu seguitava a passare e ripassare per la
stradicciuola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in aria
d'indifferenza, e occhieggiando le ragazze; ma dentro ci si rodeva
che il marito di Lola avesse tutto quell'oro, e che ella fingesse di
non accorgersi di lui quando passava. - Voglio fargliela proprio sotto gli
occhi a quella cagnaccia! - borbottava. Di faccia a compare Alfio ci stava
massaro Cola, il vignaiuolo, il quale era ricco come un maiale,
dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto
fece che entrò camparo da massaro Cola, e cominciò a
bazzicare per la casa e a dire le paroline dolci alla ragazza. - Perché non andate a dirle alla
gnà Lola ste belle cose? - rispondeva Santa. - La gnà Lola è una
signorona! La gnà Lola ha sposato un re di corona, ora! - Io non me li merito i re di corona. - Voi ne valete cento delle Lole, e
conosco uno che non guarderebbe la gnà Lola, né il suo
santo, quando ci siete voi, ché la gnà Lola, non è
degna di portarvi le scarpe, non è degna. - La volpe quando all'uva non potè
arrivare... - Disse: come sei bella, 'racinedda'
mia! - Ohè! quelle mani, compare
Turiddu. - Avete paura che vi mangi? - Paura non ho né di voi, né
del vostro Dio. - Eh! vostra madre era di Licodia, lo
sappiamo! Avete il sangue rissoso! Uh! che vi mangerei cogli occhi. - Mangiatemi pure cogli occhi, che
briciole non ne faremo; ma intanto tiratemi su quel fascio. - Per voi tirerei su tutta la casa,
tirerei! Ella, per non farsi rossa, gli tirò
un ceppo che aveva sottomano, e non lo colse per miracolo. - Spicciamoci, che le chiacchiere non
ne affastellano sarmenti. - Se fossi ricco, vorrei cercarmi una
moglie come voi, gnà Santa. - Io non sposerò un re di corona
come la gnà Lola, ma la mia dote ce l'ho anche io, quando il
Signore mi manderà qualcheduno. - Lo sappiamo che siete ricca, lo
sappiamo! - Se lo sapete allora spicciatevi, ché
il babbo sta per venire, e non vorrei farmi trovare nel cortile -. Il babbo cominciava a torcere il muso,
ma la ragazza fingeva di non accorgersi, poiché la nappa del
berretto del bersagliere gli aveva fatto il solletico dentro il
cuore, e le ballava sempre dinanzi gli occhi. Come il babbo mise
Turiddu fuori dell'uscio, la figliuola gli aprì la finestra, e
stava a chiacchierare con lui ogni sera, che tutto il vicinato non
parlava d'altro. - Per te impazzisco, - diceva Turiddu,
- e perdo il sonno e l'appetito. - Chiacchiere. - Vorrei essere il figlio di Vittorio
Emanuele per sposarti! - Chiacchiere. - Per la Madonna che ti mangerei come
il pane! - Chiacchiere! - Ah! sull'onor mio! - Ah! mamma mia! - Lola che ascoltava
ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilisco, e si faceva pallida
e rossa, un giorno chiamò Turiddu. - E così, compare Turiddu, gli
amici vecchi non si salutano più? - Ma! - sospirò il giovinotto, -
beato chi può salutarvi! - Se avete intenzione di salutarmi, lo
sapete dove sto di casa! - rispose Lola. Turiddu tornò a salutarla così
spesso che Santa se ne avvide, e gli battè la finestra sul
muso. I vicini se lo mostravano con un sorriso, o con un moto del
capo, quando passava il bersagliere. Il marito di Lola era in giro
per le fiere con le sue mule. - Domenica voglio andare a confessarmi,
ché stanotte ho sognato dell'uva nera! - disse Lola. - Lascia stare! lascia stare! -
supplicava Turiddu. - No, ora che si avvicina la Pasqua,
mio marito lo vorrebbe sapere il perché non sono andata a
confessarmi. - Ah! - mormorava Santa di massaro
Cola, aspettando ginocchioni il suo turno dinanzi al confessionario
dove Lola stava facendo il bucato dei suoi peccati. - Sull'anima mia
non voglio mandarti a Roma per la penitenza! - Compare Alfio tornò
colle sue mule, carico di soldoni, e portò in regalo alla
moglie una bella veste nuova per le feste. - Avete ragione di portarle dei regali,
- gli disse la vicina Santa, - perché mentre voi siete via
vostra moglie vi adorna la casa! - Compare Alfio era di quei
carrettieri che portano il berretto sull'orecchio, e a sentir parlare
in tal modo di sua moglie cambiò di colore come se l'avessero
accoltellato. - Santo diavolone! - esclamò, - se non avete
visto bene, non vi lascierò gli occhi per piangere! a voi e a
tutto il vostro parentado! - Non son usa a piangere! - rispose
Santa, - non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi
Turiddu della gnà Nunzia entrare di notte in casa di vostra
moglie. - Va bene, - rispose compare Alfio, -
grazie tante -. Turiddu, adesso che era tornato il
gatto, non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e
smaltiva l'uggia all'osteria, cogli amici. La vigilia di Pasqua
avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entrò compare
Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso,
Turiddu comprese che era venuto per quell'affare e posò la
forchetta sul piatto. - Avete comandi da darmi, compare
Alfio? - gli disse. - Nessuna preghiera, compare Turiddu,
era un pezzo che non vi vedevo, e voleva parlarvi di quella cosa che
sapete voi -. Turiddu da prima gli aveva presentato
un bicchiere, ma compare Alfio lo scansò colla mano. Allora
Turiddu si alzò e gli disse: - Son qui, compar Alfio -. Il carrettiere gli buttò le
braccia al collo. - Se domattina volete venire nei
fichidindia della Canziria potremo parlare di quell'affare, compare. - Aspettatemi sullo stradone allo
spuntar del sole, e ci andremo insieme -. Con queste parole si scambiarono il
bacio della sfida. Turiddu strinse fra i denti l'orecchio del
carrettiere, e così gli fece promessa solenne di non mancare. Gli amici avevano lasciato la salsiccia
zitti zitti, e accompagnarono Turiddu sino a casa. La gnà
Nunzia, poveretta, l'aspettava sin tardi ogni sera. - Mamma, - le disse Turiddu, - vi
rammentate quando sono andato soldato, che credevate non avessi a
tornar più? Datemi un bel bacio come allora, perché
domattina andrò lontano -. Prima di giorno si prese il suo
coltello a molla, che aveva nascosto sotto il fieno, quando era
andato coscritto, e si mise in cammino pei fichidindia della
Canziria. - Oh! Gesummaria! dove andate con
quella furia? - piagnucolava Lola sgomenta, mentre suo marito stava
per uscire. - Vado qui vicino, - rispose compar
Alfio, - ma per te sarebbe meglio che io non tornassi più -. Lola, in camicia, pregava ai piedi del
letto, premendosi sulle labbra il rosario che le aveva portato fra
Bernardino dai Luoghi Santi, e recitava tutte le avemarie che
potevano capirvi. - Compare Alfio, - cominciò
Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo
compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi, - come è
vero Iddio so che ho torto e mi lascierei ammazzare. Ma prima di
venir qui ho visto la mia vecchia che si era alzata per vedermi
partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le
parlasse, e quant'è vero Iddio vi ammazzerò come un
cane per non far piangere la mia vecchierella. - Così va bene, - rispose
compare Alfio, spogliandosi del farsetto, - e picchieremo sodo tutt'e
due -. Entrambi erano bravi tiratori; Turiddu
toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio;
come la rese, la rese buona, e tirò all'anguinaia. - Ah! compare Turiddu! avete proprio
intenzione di ammazzarmi! - Sì, ve l'ho detto; ora che ho
visto la mia vecchia nel pollaio, mi pare di averla sempre dinanzi
agli occhi. - Apriteli bene, gli occhi! - gli gridò
compar Alfio, - che sto per rendervi la buona misura -. Come egli stava in guardia tutto
raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e
quasi strisciava per terra col gomito, acchiappò rapidamente
una manata di polvere e la gettò negli occhi all'avversario. - Ah! - urlò Turiddu accecato, -
son morto -. Ei cercava di salvarsi, facendo salti
disperati all'indietro; ma compar Alfio lo raggiunse con un'altra
botta nello stomaco e una terza alla gola. - E tre! questa è per la casa
che tu m'hai adornato. Ora tua madre lascerà stare le galline
-. Turiddu annaspò un pezzo di qua
e di là tra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue
gli gorgogliava spumeggiando nella gola e non potè profferire
nemmeno: C'era un aneddoto che dopo più
di un anno, faceva ancora le spese della conversazione alla tavola
rotonda dell'Albergo di Russia, a Napoli, quando i tre o quattro
ospiti che tutti gli anni solevano trovarsi al medesimo posto, dal
cominciar del novembre alla fine di maggio, rimanevano faccia a
faccia, col sigaro in bocca e i gomiti sulla tovaglia. A quella medesima tavola si erano
incontrati un tale Assanti, uomo elegante ed uomo di spirito, ed una
signora Dal Colle, donna elegante e donna di spirito, un po' civetta,
capricciosa e bizzarra, sul conto della quale si raccontavano certe
storielle singolari, ben inteso senza provarne una sola, e che veniva
ad epoche fisse, come una rondine, da Baden, da Vienna o da Parigi. Tra i due commensali e vicini di tavola
si era dichiarata una decisa e poco velata antipatia, non ostante che
fossero entrambi persone assai bene educate, e scambiassero alle
volte, il meno che potevano, degli atti e delle parole di cortesia.
Una sera, dopo il caffè, Assanti, trovandosi nella sala dei
fumatori, insieme a tre o quattro amici che parlavano della sua
vicina, avea motivato la sua antipatia con un lusso di buon umore che
aveva fatto rider tutti. Ad un tratto però si fece silenzio
come per incanto, la signora Dal Colle passava nella sala contigua
per andare a mettersi al pianoforte, come soleva fare qualche volta.
- Ha udito tutto! - Non ha potuto udire! - dicevano sommessamente fra
di loro quei signori. Il solo colpevole non se n'era preoccupato gran
fatto. Si strinse nelle spalle, e disse ridendo: La signora scartabellava dei quaderni
di musica, e non voltava nemmeno la testa; Assanti le si avvicinò
col più bell'inchino, e le domandò tranquillamente: - Scusi, ha udito quel che dicevamo a
proposito di lei? - Ella gli piantò in faccia i due
grand'occhi ben aperti, due occhi innocenti o traditori, e rispose
colla massima disinvoltura: - Scusi, perché mi fa questa
domanda? - Perché abbiamo scommesso
d'indovinare quel che avrebbe suonato stassera -. La donna sorrise, inchinò il
capo, e incominciò a suonare la 'Bella Elena'. - Signori, - disse Assanti voltandosi
verso i suoi amici, che rimanevano mogi e ingrulliti, - avete perduto
-. Infatti sembrava impossibile che una
donna potesse restare così bene nei gangheri dopo avere udito
tutto quel che si era detto nella sala dei fumatori; e, cosa strana,
un po' per la novità della cosa, un po' per obbligo di
cortesia, Assanti, discorrendo con la Dal Colle di musica e d'altro,
avea osservato come più d'una volta cane e gatta si fossero
trovati d'accordo, sicché il discorso era andato per le
lunghe, e gli amici, ad uno ad uno, se l'erano sgattaiolata. - Non ha
udito nulla! - pensava Assanti. Ad un tratto, quando furono soli,
cambiando improvvisamente accento e maniere, la Dal Colle domandò,
puntandogli contro quegli occhi indiavolati: - È contento che gli abbia fatto
vincere la scommessa, mio signor nemico? - Egli si inchinò e
stette coraggiosamente ad aspettar l'assalto. - Perché ci facciamo la guerra?
- riprese ella con un altro tono di voce. - Perché ella mi faceva paura. - Oh! oh! eccoci in piena galanteria!
Ebbene, mio bel cavaliere, quando mi salterà in capo di
vendicarmi ne incaricherò voi stesso. Ma francamente, non sarebbe stato
meglio che fossimo andati d'accordo fin da principio? - Facciamo la pace allora. - Adesso è troppo tardi. - Perché? - Perché, perché... -
disse alzandosi, - prima di tutto perché ora vi detesto - e
poi perché fra due o tre settimane partirò. - Vi seguirò. - Dove? - Dove andrete! - Ma non lo so dove andrò; né
lo saprete voi. Nemici dunque -. Assanti la salutò ridendo, ma
dovette convenire che la sua graziosa nemica poteva avere tutti i
difetti, all'infuori di uno. Il domani, mentre si vestiva per andare
a pranzo, trovò sul tavolino un biglietto scritto da mano
sconosciuta. «Venite al n. 11, a mezzanotte.
Non bussate.» Egli si mise a ridere, e disse fra di sé: - Non v'è dubbio, ha udito
tutto; ma il tranello è troppo grossolano per una donna di
spirito! che peccato! - La signora Dal Colle non era venuta a tavola.
Assanti sorrise più di una volta sotto i baffi volgendo gli
occhi a quel posto vuoto. Dopo desinare andò a teatro, e
non ci pensò più. Finita l'opera, passò una
mezz'ora al caffè di Europa, e quando tornò all'albergo
il gas era spento. Passando pel corridoio, dinanzi all'uscio di quel
famoso numero undici, si rammentò un'altra volta del biglietto
che avea in tasca e involontariamente rallentò il passo. Si mise alla finestra, fumò il
suo sigaro, lesse il suo giornale, e poi andò a letto. Il
letto era duro ed uggioso insolitamente quella notte; faceva caldo, e
Assanti avea un bel voltarsi e rivoltarsi senza poter chiudere
occhio. Quelle due linee sottili che teneva
chiuse nel portafogli posto sulla tavola a capo del letto,
sgusciavano fuori della busta, si allungavano serpeggiando in
ghirigori per le pareti, gli si attortigliavano alle sbarre del
cortinaggio, si insinuavano sotto l'uscio, e guizzavano pel corridoio
oscuro, lasciando sul tappeto una striscia fosforescente. Spense il lume, lo riaccese, rilesse il
bigliettino, stavolta senza ridere, ché l'odore del foglietto
profumato gli dava alla testa, spense il lume di nuovo per
addormentarsi, e fu peggio di prima; nelle tenebre faceva sogni
stravaganti ad occhi aperti; vedeva quell'uscio del numero undici
socchiuso, una forma bianca che sporgeva la testa dal vano, e quella
donna, per la quale il giorno innanzi non avrebbe mosso un dito, ora
che gli era passata pel capo sotto altro aspetto, un solo istante,
per ischerzo, assumeva forme e sorrisi affascinanti. Il sangue gli
martellava nelle vene. Finalmente si vestì a guisa di
sonnambulo, quasi non avesse coscienza di quel che facesse; arrivò
a mettere la mano sulla maniglia dell'uscio, e tornò a
cacciarsi frettolosamente fra le coltri, vergognoso della ridicola
tentazione alla quale avea ceduto con facilità inesplicabile,
come se la sua nemica avesse potuto vederlo e dargli la baia. La
notte dormì male, e si levò di cattivo umore. All'ora del pranzo trovò la Dal
Colle al suo solito posto, gaia e disinvolta come se nulla fosse
stato, e civetta più che mai. Non gli fece l'onore di
accorgersi menomamente di lui, e una volta gli lanciò a
bruciapelo uno sguardo schernitore che avrebbe fatto montare la mosca
al naso ad un uomo meno padrone di sé dell'Assanti. Egli si
era fatto il suo piano di rappresaglie e di allusioni pungenti, ma
aspettò inutilmente tutta la sera nel salotto dove la Dal
Colle soleva far della musica. A poco a poco, a suo dispetto, quel
sangue freddo, quella sicurezza, quella disinvoltura, lo dominavano e
lo facevano arrabbiare. Evidentemente costei che l'aveva vinto
con la burla più grossolana del mondo era più forte di
lui; sapeva che sarebbe bastato un nonnulla, un cattivo scherzo, per
insinuarglisi tutta nelle fibre come una spina, impadronirsene,
metterlo sossopra, e agitarlo co' suoi menomi capricci. Dopo che la Dal Colle si era data la
soddisfazione di quella piccola vendetta da donna, sembrava non
pensasse più ad Assanti, e si lasciava fare la corte da un
certo barone Ciriani, il quale passava per un don Giovanni, inclusa
la bravura e la fortuna di duellista; ora ad Assanti sembrava che la
Dal Colle in quel lasciarsi corteggiare, così sotto i suoi
occhi, ci mettesse dell'ostentazione, e questo lo seccava assai. La furba sapeva al certo che si può
fare a fidanza, toccando certi tasti, colla semplicità
mascolina, si avesse a fare coll'uomo più avveduto di questo
mondo. Era bastata la lusinga più lontana, più sciocca,
più inverosimile, perché Assanti si montasse la testa a
poco a poco, sino a credere che i successi ottenuti dal Ciriani
fossero rubati a lui, e che la civetteria di lei fosse un torto che
gli si faceva. Il brillante giovanotto era ridotto alla più
grulla figura possibile; cominciava ad accorgersene anche lui, ciò
aumentava la sua stizza, e un dispetto ne chiamava un altro, sino a
fargli perdere la tramontana; sicché alla sua volta intraprese
contro il Ciriani un sistema di ostilità così poco
velate, e di provocazione così diretta, che non ci volle meno
di tutta l'abilità della donna per scongiurare il pericolo di
un serio guaio. Finalmente ella parve stanca della
lotta che dovea sostenere con Assanti quotidianamente, e prendendolo
una sera a quattr'occhi nel vano della finestra, dissegli: - Orsù, mio bel nemico, a che
giuoco giuochiamo? Con qual diritto ad ogni momento vi gettate a
testa bassa fra me e il Ciriani? - Con qual diritto mi fate questa
domanda? - ribatté Assanti. - Parliamoci chiaro. Voi mi eravate
debitore di una piccola soddisfazione di amor proprio, ed io ho
ottenuto il mio intento col mezzo più semplice. Non vi ho
fatto il torto di pensare che avreste preso sul serio il mio
biglietto, ho reso sempre giustizia al vostro spirito, e del resto
nemmeno un ragazzo di scuola ci sarebbe cascato; ma eccovi lì,
fra vergognoso, bizzoso, e incapricciato, e questo deve bastarmi. Ora
siamo pari; lasciatemi tranquilla, caro mio; Ciriani non c'entra. - Ce lo tireremo pei capelli! - Impresa arrischiata! Sapete che come
duellista ha una brutta riputazione. - Ebbene, - esclamò Assanti un
po' rosso in viso, - se mi gettassi attraverso cotesta riputazione,
mi perdonereste? - La storia del biglietto? Per chi mi
prendete, caro signore, cercando di scambiarmi le carte in mano? - Non ridete così, in fede mia!
Son qui, dinanzi a voi, ridotto ad arrossire di quel che ho fatto e
detto contro di voi; mi sento ridicolo, deve bastarvi. - Ridicolo, perché? - Perché vi amo. - Da quando in qua? - Dacché mi ci avete fatto
pensare. - Dacché siete indispettito
contro di me allora? - Non so se sia amore o dispetto, so
che così non può durare, che voi m'avete stregato, e
che finirete per farmi impazzire. - Oibò! - Assanti rimase zitto
un istante, di faccia al sorriso mordente della Dal Colle; poi
riprese, cambiando tono e maniere, e facendosi improvvisamente serio.
- Orsù, bisogna fare qualche cosa perché prestiate fede
a quel che vi dico. Bisogna provocare Ciriani e rendermi ridicolo
completamente. - Guardatevene bene! - dissi ella senza
ridere più. - Detesto gli scandali, e non mi vedreste mai più,
né voi, né lui! - La signora Dal Colle faceva i
preparativi per la partenza; Assanti venne a saperlo il giorno dopo. - Partite? - le disse. - Sì: fuggo. Siete soddisfatto?
Facciamo la pace prima di lasciarci. - No, facciamo di meglio: ditemi dove
andrete. Noi siamo qualcosa più di due semplici conoscenze,
siamo due nemici; siamo liberi entrambi e padroni di noi; entrambi
scorrazziamo pel mondo onde fuggire la noia. C'incontreremo in tutte
le stazioni, ci faremo dei dispetti, ci faremo la guerra, ci
odieremo, e così non avremo il tempo di annoiarci. - No, no! E il pericolo d'innamorarsi
lo contate per nulla? - Anche voi? - Sì, mi par di sì, dopo
quello che mi avete detto ieri sera. - Ebbene! alla peggio!... - Non la prendete così; parlo
sul serio, e sapete che sono franca. - In tal caso franchezza per
franchezza... Chiudete gli occhi e lasciate fare al pericolo. - Ci penserò. - ...Ci ho pensato, - gli disse il
giorno dopo, poche ore prima di partire all'insaputa di lui. - No,
sarebbe peggio di una disgrazia, sarebbe una sciocchezza. È un
gran brutto affare, due amanti che un giorno o l'altro possano
ridersi sul naso! e questo giorno arriverebbe, a meno di un
miracolo... poiché bisognerebbe proprio un miracolo! qualcosa
di grosso! un atto di eroismo, una grande azione o una grande follia,
per scongiurare cotesto pericolo... e come io non farò mai
nulla di tutto questo, né voi lo farete, né voglio che
lo facciate, così... nemici! - Chi vi dice che non lo farò? - Davvero?... Mi par di essere in piena
cavalleria!... Ebbene, allora!... Intanto a rivederci -. Il giorno dopo non si vide né
alla tavola rotonda, né altrove. Assanti seppe che era partita, e che
anche il Ciriani era partito. Quella notizia gli fece ardere il
sangue nelle vene come se l'avessero schiaffeggiato. Ogni minima
parola, ogni sorriso, ogni inflessione di voce di lei, nell'ultimo
colloquio che avevano avuto, gli tornava alla mente, con acute
punture di dispetto, di gelosia, ed anche d'amore. Dal momento che
era fuggita con un altro, quella donna eragli divenuta diabolicamente
necessaria, per tutto quello che non era stato, per tutto quello che
si era detto fra di loro. Allora cotesto eroe da salone, per
puntiglio o per vanità, si sentì capace di quelle virtù
eroiche da palcoscenico, delle quali ella si era promessa in premio. Avrebbe voluto acciuffarsi con dieci
Ciriani; avrebbe voluto traversare un villaggio in fiamme sulla punta
dei suoi stivalini verniciati, recandosi lei sulle braccia; avrebbe
voluto saltare un precipizio di mezza lega per salvarla, senza fare
uno strappo ai suoi pantaloni di Lennon. Si sentiva invaso da una
specie di febbre. Partì sulle tracce di lei; gettò il
denaro a due mani; viaggiò notte e giorno, in ferrovia, in
carrozza e a cavallo, con un tempaccio da lupi, in mezzo alle
selvagge solitudini per le quali correva la linea di Foggia, allora
incompleta, col pericolo di cadere di momento in momento nelle mani
dei briganti che scorrazzavano per quelle parti. Finalmente ebbe le prime notizie della
Dal Colle ad Ariano; ella viaggiava in carrozza, seguita dai suoi
domestici, senza l'ombra di un Ciriani. Prima di annottare, una o due
poste prima di Bovino, l'oste ed il conduttore cercarono di
dissuaderlo di andare innanzi, perché la campagna era
infestata dai briganti. Fu come se gli avessero messo il diavolo
addosso. Lei era in pericolo: non pensava ad altro. La notte istessa,
poco dopo Bovino, raggiunse le due carrozze colle quali ella
viaggiava, ferme dinanzi ad un povero casolare che era la posta dei
cavalli. Il lanternino appeso all'uscio era stato fracassato da mano
invisibile; la porta era spalancata, e la stalla vuota. I postiglioni avevano chiamato e
strepitato senza che comparisse alcuno. Assanti da lontano gridava di
non andare avanti: uno dei postiglioni temendo d'essere inseguito dai
briganti gli sparò addosso una pistolettata senza colpirlo. - Fermatevi, - ripeté Assanti. -
Fermatevi, in nome di Dio! o siete perduti -. Allo sportello di una delle due
carrozze si vide dietro il cristallo, al riflesso incerto dei fanali,
il viso un po' pallido della Dal Colle. Ella riconobbe Assanti in
mezzo a quella scena di confusione e di spavento, e gridò al
cocchiere con accento febbrile: - Avanti! avanti! duecento lire di
mancia! - Avanti ci sono i briganti! - gridò
il giovane quasi fuori di sé. In quell'istante, senza che si vedesse
anima viva, si udì una voce che sembrava venire da una rupe
che sovrastava il lato sinistro della via. - Fermi tutti!... o per la Madonna!
siete morti! - Il cocchiere applicò una vigorosa frustata ai
cavalli che puntarono zampe ed inarcarono le schiene per slanciarsi
al galoppo; ma prima che avessero fatto un sol passo si udì un
colpo di fucile ed il cavallo di sinistra cadde imbrogliandosi nei
finimenti; il cocchiere si buttò da cassetta e sparì
nelle tenebre; la seconda carrozza, quella in cui erano i domestici
della Dal Colle, voltò indietro, e fuggì a rotta di
collo. Tutto ciò era avvenuto in meno che non ci vuole per
dirlo. Assanti si slanciò allo sportello della vettura,
afferrò la donna per la vita come una bambina, la spinse nella
stalla e ne chiuse la porta alla meglio, ammucchiandovi contro tutto
quel che poté trovare. Al primo trambusto di quella scena era
succeduto un silenzio profondo e misterioso; gli assalitori, prima di
scendere nella strada, volevano al certo misurare la resistenza che
avrebbero incontrata. La Dal Colle, ritta in un angolo, non
diceva una sola parola, e Assanti, rivolto verso l'uscio, colla
cabina a due colpi in pugno, aspettava. Come si furono abituati
all'oscurità, scorsero, alla fioca luce dei fanali della
carrozza che trapelava dalle commessure mal connesse dell'uscio, una
scala a piuoli, la quale dal fondo della stalla metteva per una
botola al fienile soprastante. Sulla strada si cominciava ad udire un
tramestio attorno alla carrozza, rimasta dinanzi al casolare. Assanti
fece salire la sua compagna al piano di sopra, e quando fu salito
anche lui, tirò su la scala. Al difuori durava ancora il
silenzio, e di quando in quando il cavallo rimasto in piedi, scuoteva
la sonagliera. - Voi mi scaricherete la vostra
carabina alla testa se dovessi cader viva nelle mani di coloro! -
furono le prime parole che la donna gli rivolse con voce breve e
febbrile. - Sì! - rispose Assanti collo
stesso tono. Egli era corso alla finestra; non si
vedeva nessuno; la carrozza era sempre ferma dinanzi all'uscio,
descrivendo un breve cerchio di luce coi suoi due fanali; il cavallo
fiutava con curiosità il compagno caduto. Ad un tratto si udì
un secondo colpo di fucile, e dall'architrave della finestra, a due
dita dal capo di Assanti, caddero dei calcinacci. La Dal Colle lo
tirò indietro bruscamente. Allora per la prima volta i loro
sguardi si incontrarono. Ella era pallida come uno spettro, ma i suoi
occhi erano sfavillanti. All'improvviso la porta della stalla fu
scossa da un urto che rimbombò come se l'avesse sconquassata.
Assanti corse alla finestra e fece fuoco; si udì un grido,
seguito da una scarica generale diretta contro di lui. Assanti si
chinò sulla botola, mirò alla porta della stalla e fece
fuoco una seconda volta. I briganti, a quei colpi di carabina che
venivano dall'alto e dal basso, credettero di avere a fare con
parecchi, decisi di vender cara la loro vita, e ricorsero ad un altro
mezzo di attacco più sicuro e meno pericoloso. La fucilata
cessò come per incanto. Si udirono al di fuori rumori diversi,
che da principio i due assediati non sapevano spiegarsi: un via vai,
un risuonare di sonagliuoli dei cavalli, un muovere di ruote; poi
rimbombò un secondo e forte urto alla porta della stalla, come
se la carrozza vi fosse stata spinta contro a guisa d'ariete. Assanti
trasalì per l'imminenza di un nuovo e sconosciuto pericolo; il
cuore gli batteva forte. - Chi ci avrebbe detto che il miracolo di
cui vi parlavo sarebbe stato così vicino! - disse la Dal Colle
con uno strano sorriso. Ei le afferrò la mano ed ella non la
ritirò. In quel momento un riflesso rossastro
si disegnò come una apparizione infernale di faccia alla
porta, sulla parete nera della stalla. Il giovane, dimentico del
pericolo passato per quello più grande che li minacciava,
corse alla finestra, e la spalancò; le fiamme che bruciavano
la carrozza e l'uscio della stalla illuminarono vivamente il fienile.
- Cosa fanno adesso? - domandò la donna stringendosi a lui con
mano tremante. - Bruciano la casa! - rispose Assanti con voce sorda.
- Voi mi avete promesso che morremo insieme! - dissi ella dopo un
minuto di silenzio. Presso la finestra le travi del solaio
cominciavano a scoppiettare, e le fiamme mostravano attraverso le
assi le loro lingue azzurrognole che lambivano le pareti; il fumo
annebbiava la stanzuccia e li soffocava. La donna guardava Assanti
con occhi singolari. - Vi siete perduto per me! - mormorò
finalmente, con un accento di cui egli non avrebbe supposto capace
quella donna leggiera. - Vi amo! - egli rispose. Allora in mezzo al fumo che li
accecava, dinanzi alle fiamme che allungavano verso di loro lingue
sitibonde, sotto una pioggia di faville infuocate, fra gli urli dei
banditi che danzavano e sghignazzavano attorno a quell'orribile rogo,
ella gli avvinse le braccia al collo, e posò la guancia sulla
guancia di lui. Tutt'a un tratto si udì sulla
strada un gran tumulto, colpi di fuoco, urli di dolore, grida di
collera. I carabinieri di Bovino avevano incontrato la carrozza colla
quale erano scappati i domestici della Dal Colle, ed erano accorsi in
fretta. Un brigadiere si precipitò fra le fiamme, e strappò
i due amanti da quell'amplesso di morte. Albeggiava appena. Assanti e la Dal
Colle furono accompagnati a Bovino. Ella era pallidissima. Quando
furono soli nella miglior stanza dell'albergo, gli stese la mano. - Ora separiamoci. - Come, separarci!... - Abbiamo passato un bel momento,
abbiamo realizzato il miracolo che sembrava impossibile alla tavola
rotonda dell'Albergo di Russia. Non lo guastiamo! Siamo stati degli
eroi, e siccome non potremmo aver sempre sottomano dei briganti per
esaltarci, finiremo per trovarci ridicoli. Lasciamoci eroi dunque. - Che donna siete mai? - Mi dicono che sono una matta: ma mi
accorgo che una matta è sempre più ragionevole
dell'uomo più savio. Vediamo, amico mio, discorriamola ora che
la stanchezza fa dar giù la febbre. In due settimane voi
passate dall'antipatia all'entusiasmo; vi gettate a corpo perduto su
di me, e mi fate il sacrificio della vostra vita, senza sapere se io
ne sia degna. - È ragionevole cotesto? Avete fatto per me una
bella azione, qualcosa che può toccare il cuore o la testa di
una donna, e far mettere il cappuccio alle sue follie... non c'è
che dire; ma siete certo che non abbiate fatto il sacrificio pel
sacrificio? perché vi eravate montata la testa? più per voi che per me insomma?
Siete persuaso che l'abbiate fatto schiettamente e semplicemente per
amor mio? - Qual altra prova ne vorreste? - Una prova semplicissima: voi dite che
mi amate? - Sì. - Non mi conoscete, non sapete chi sia,
né da dove venga; non sapete se sia degna di voi, e se potrei
amarvi come vorreste essere amato!... - So che vi amo! - Su dieci uomini, e dei più
savi, nove risponderebbero come voi. E se vi amassi, sareste felice? - Sì. - E questa felicità vi
basterebbe? Quanto vorreste che durasse? - Sempre. - Perché non mi sposate allora? - ...Ci penserò -. Come la batteria partiva a mezzanotte,
Lajn in Primo aveva invitato la sua ragazza a desinare - una
gentilezza per mostrarle il dispiacere che provava nel lasciarla. -
Sapevano giusto un'osteria di campagna, appena fuori la porta, bel
sito e vino buono, quattro ciuffetti di verde al sole, l'altalena e
il gioco delle bocce, i tavolinetti sotto il pergolato, da starci
bene in due soli, senza soggezione; e subito dopo la campagna larga e
quieta, grandi fabbriche in costruzione, tutte irte di antenne, un
folto d'alberi a diritta, e in fondo la linea dei monti, che
digradavano. Anna Maria s'era messa il vestitino
nuovo, colla giacchetta attillata, le scarpette di pelle lucida e le
calze rosse. Sentiva una gran contentezza, stando insieme al suo bel
militare, coi gomiti sulla tovaglia, i mezzi litri che andavano e
venivano, Lajn Primo di faccia a lei, col naso nel piatto, dandole
delle ginocchiate di tanto in tanto. Però al vedergli il chepì
coll'incerato, e la striscia gialla della giberna che gli fasciava il
petto, si sentiva gonfiare il cuore nel seno, grosso grosso, da
mozzarle il fiato. - Mi scriverai? Dì: mi scriverai? - Egli
accennava di sì, a bocca piena, guardandola negli occhi
lucenti che l'accarezzavano tutto, il panno grosso dell'uniforme e la
faccia lentigginosa di biondo. C'erano nel piatto dei mandarini colle
foglioline verdi. Essa ne strappò una, e volle mettergliela
alla bottoniera. Lì accanto si udiva l'urtarsi
delle bocce fra di loro. Alcune ragazze schiamazzavano attorno
l'altalena, colle gonnelle in aria. Passavano dei carri per la strada,
cigolando, delle nuvole grigie di estate che lasciavano piovere una
gran tristezza. Lajn Primo chiacchierava sempre lui, col sigaro in
bocca, la testa già lontana, nei paesi dove andava la
batteria, cercando di tanto in tanto la mano di Anna Maria attraverso
la tavola, quando in bocca gli venivano le parole buone. Poi, siccome
aveva il vino allegro, si mise a canticchiare: Morettina di la stacioni. Ecco il trenno che già parti. Mi rincresse di lasciarti, Il soldato
mi tocc'affar E tutt'a un tratto la ragazza scoppiò a
piangere, col viso nel tovagliuolo. - Via! via! I morti soli non si
rivedono!... - Stavolta però gli tremavano i baffi rossi anche
a lui, e le mani, nell'affibbiarsi il cinturone. Vollero fare quattro
passi sino al fiume, come le altre volte. C'era un sentieruolo
fangoso a sinistra, fra i campi, sotto dei grandi olmi. Anna Maria si lasciava condurre a
braccetto, colle sottane in mano, gli occhi socchiusi che non
vedevano, un gran sbalordimento dentro, una dolcezza infinita e
malinconica, al tintinnìo di quella sciabola e di quegli
sproni e al contatto di quell'uniforme contro cui tutta la sua
persona le sembrava che volesse fondersi. Egli le aveva passato il braccio
attorno alla vita, mormorandole ne' capelli tante paroline affettuose
che essa udiva confusamente, l'orecchio però sempre teso verso
la tromba della caserma, da buon soldato. A un certo punto Anna Maria gli sfuggì
di mano, e corse a inginocchiarsi sul ciglione del fossatello, senza
badare al vestito nuovo, per cogliere delle foglioline verdi che
spuntavano dal muricciuolo. - Per te! Le ho colte per te! - Egli
non sapeva più dove metterle; le diceva scherzando che lo
caricava d'erba come un asino, così, per farla ridere. La
ragazza però non rispondeva; stava segnando delle grandi
lettere storte sulla corteccia di un olmo, con un sasso, due cuori
uniti e una croce sopra. Lajn non voleva, per via del malaugurio;
però l'aveva presa fra le braccia, intenerito anche lui, tanto
non passava nessuno nella stradicciuola fangosa di là
dall'argine. Essa diceva di no, diceva di no, col cuore gonfio.
Guardava piuttosto un gran muraglione nerastro ch'era dirimpetto,
quasi volesse stamparselo negli occhi. Gli diceva: Quanto piangere fece Anna Maria cheta
cheta nel fazzolettino ricamato! Prima di lasciarla, sull'angolo della
via, egli le aveva detto: La gente si affollava per la via, a
veder passare i soldati che partivano pel campo: tutti gli inquilini
della casa, sotto il lampione della porta; Ghita che teneva
abbracciata Anna Maria; suo padre, il portinaio, e i padroni anche
loro, alle finestre, coi lumi. Così la povera ragazza vide
passare la batteria dov'era il suo artigliere, in mezzo alla calca e
ai battimani; i cavalli neri che sfilavano a due a due, scotendo la
testa, dei cassoni enormi che facevano tremare le case, e sopra, sui
cappelli e i fazzoletti che sventolavano, i chepì degli
artiglieri coll'incerato, dondolando. Non vide altro: tutti quei chepì
si somigliavano. Il suo Lajn però la scorse, alle folte trecce
nere, in mezzo alle comari, la mamma di Ghita che stava contandole
delle frottole - la vide che lo cercava, povera figliuola, con gli
occhi smarriti e il viso pallido, senza poterlo scorgere, seduto
basso com'era sul sediolo accanto al pezzo, il guanto sulla coscia,
al suono triste della marcia d'ordinanza, che si allontanava. Passarono città, passarono
villaggi; dovunque, sulle porte, uomini e donne che s'affacciavano a
veder passare i soldati. Alle volte, nella folla, un musetto pallido
che somigliava ad Anna Maria - «Morettina di la stacioni...»
- Alle volte, lungo lo stradone polveroso, un'osteria di campagna
coll'altalena e il pergolato verde, come quella dov'erano stati a
desinare insieme. Alle volte un fossatello con due filari d'olmi, o
un muraglione nerastro che rompeva il verde. Oppure una cascina coi
panni stesi al sole, una vecchierella che filava, un sentieruolo come
quello per cui era disceso dai suoi monti, col fagottino sulle spalle
larghe e robuste che lo avevano fatto prendere artigliere. Poscia la
via bianca e polverosa, rotta, sfondata dal passaggio della truppa
formicolante di uniformi - e di tanto in tanto uno squillo di tromba,
che sonava alto nel brusìo. Di qua del fiume una gran folla:
soldati di tutte le armi, un luccichìo, tende di cantiniere
che sventolavano, e cavalli che nitrivano; delle canzoni dolci e
malinconiche, in tutti i dialetti, come un'eco lontana del paese, in
mezzo alle risate e al rullo dei tamburi: Le quattro trombe della batteria tutte
insieme sonarono - Avanti - . Poscia, di là del ponte - A
trotto! - in mezzo a un nugolo di polvere, alberi e casolari che
fuggivano, pennacchi di bersaglieri ondeggianti fra i seminati. Di
tanto in tanto, in mezzo al frastuono, si udiva un rombo sordo,
dietro le colline. E fra gli scossoni dell'affusto, la canzone della
partenza che ribatteva: Su, su, per l'erta, sfondando le siepi,
sradicando i tralci, saltando i fossati, i cavalli fumanti e colle
schiene ad arco, gli uomini a piedi, spingendo le ruote, frustando a
tutto andare. Poi, sulla cima del colle, due carabineri di scorta
immobili, a cavallo, dietro un gruppo di ufficiali che accennavano
lontano, alle vette coronate di fumo, e dei soldati sparsi per la
china, fra i solchi, come punti neri. Qua e là, dei lampi che
partivano dalla terra bruna, e il rombo continuo nelle colline
dirimpetto, delle nuvolette dense che spuntavano in fila sulla
cresta. Detto fatto, i pezzi in batteria, e
musica anche da questa parte. Allora, dopo cinque minuti, attorno
alla batteria cominciò a tirare un vento del diavolo - la
terra che volava in aria, gli alberi dimezzati, solchi che si
aprivano all'improvviso, dei sibili acuti che passavano sui chepì.
Però attenti al comando e nient'altro per il capo - né
capelli bianchi, né capelli neri. - Abbracci'avant! - Alt! -
Caricat! Prima il povero Renacchi che stava per compir la ferma. -
Mamma mia! Mamma mia - Numero due, manca! - Attenti! - Si udiva il
comando secco e risoluto del biondo ufficialetto che stava impettito
fra i due pezzi, ammiccando nel fumo, cogli occhi azzurri di ragazza,
i quali vedevano forse ancora il piccolo coupé nero che
aspettava in piazza d'armi, e la mano bianca allo sportello. -
Abbracci'avant! - Alt! - Caricat! - Tutt'a un tratto
giù in un gomitolo anche lui, fra un nugolo di polvere,
gemendo sottovoce e mordendo il cuoio del sottogola. Solo il
comandante rimaneva in piedi, ritto sul ciglione, in mezzo al vento
furioso che spazzava via tutto, guardando col cannocchiale, come un
gran diavolo nero. Lajn Primo in quel momento stava chino
sul pezzo, a puntare, strizzando l'occhio turchino, come soleva fare
per dire ad Anna Maria quanto gli piacesse il suo musetto, e facendo
segno colla destra al numero tre di spostare a sinistra la manovella
di mira, quando venne la sua volta anche per lui. - Ah! Mamma mia! -
Colle mani tentò di aggrapparsi ancora all'affusto, delle mani
che vi stampavano il sangue - cinque dita rosse. - Numero quattro,
manca! - Attenti! - II telegrafo portava le
notizie, una dopo l'altra: tanti morti, tanti feriti. - Ciascun
bollettino cinque centesimi. - Anna Maria ne aveva raccolto un
fascio, lì sul cassettone. E poi, due volte al giorno,
all'andare e venire dalla fabbrica, passava dalla posta. - Nulla -
nulla -. Che gruppo allora nella gola! che peso sul cuore e dinanzi
agli occhi! La sera soprattutto, quando sonava la ritirata! La notte
che se lo sognava, e lo vedeva sotto il pergolato, canticchiando -
«Mi rincresse di lasciarti», - e le stringeva la mano
sulla tovaglia! Avesse avuta la mamma almeno, per sfogarsi! Il babbo,
poveretto, cosa poteva farci? notte e giorno sulla macchina, a
correre pel mondo. La sua amica Ghita, che non aveva fastidi, lei, e
non se la prendeva di nulla, faceva spallucce, ripetendole: - Gli uomini, mia cara, son tutti così.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! - Quanto piangere fece in
quel fazzolettino! Tornavano i soldati, lunghe file di
cavalli, battaglioni interi. Dinanzi al castello, in piazza d'armi,
erano pure tornati i carretti colle arance, e quelli del sorbetto a
due soldi, e le bambinaie coi ragazzi, e le coppie che si
allontanavano sotto gli alberi. Artiglieri che andavano e venivano,
coll'incerato sul chepì, tale e quale come Lajn Primo. - n. 7,
n. 9. - Solo mancava il numero del suo Lajn. Nella fabbrica aveva sentito dire che
molta truppa era stata mandata in Sicilia - laggiù, lontano. -
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! - Neppure un rigo in tre
mesi! Quante gite alla posta! quante volte ad aspettare il
portalettere dal portinaio! Tanto che Cesare, il servitore
dirimpetto, il quale veniva a pigliare le lettere della contessa, le
diceva anche lui, ridendo: - Nulla, eh? Ha male alla penna il suo
artigliere? - Una vera persecuzione quell'antipatico, colla faccia di
donna, e i capelli lucenti di pomata! Aveva un bello sbattergli la
finestra sul muso! Tutto il giorno lì, di faccia, in
anticamera, a farle dei segni colle manacce sempre infilate nei
guanti bianchi, scappando solo un momento appena sonavano il
campanello, e tornando subito a montare la sentinella. Sempre,
sempre, quasi si cocesse anch'esso a poco a poco, al vedersela ogni
giorno lì di faccia. Sicché una volta la fermò
per le scale, e le disse: Pensava sempre a quell'altro, però,
lavorando alla finestra. Chissà, chissà dov'era?
di là da quelle case, dove andavano quelle nuvole scure? Che
tristezza quando giungeva la sera! La campana di Sant'Angelo, lì
vicino, che le picchiava sulla testa, e in cuore la tromba della
ritirata, che piangeva. Il servitore accendeva i lumi, dirimpetto, e
poi rimaneva ancora lì, nell'ombra delle cortine, si scorgeva
dai bottoni che luccicavano. Quanto piangere in quel fazzolettino
ricamato! Tanto che il cuore era stanco e s'era vuotato intieramente. Il giorno di san Luca, ch'era anche la
festa del portinaio, andarono tutti a Monte Tabor. Ghita era venuta a
prenderla per forza, e anche Cesare, il quale s'era fatto dare il
permesso quel giorno dalla padrona, e le aveva detto, stringendole le
mani: Anna Maria chiacchierava di questo e di
quello, per non lasciar cadere il discorso. L'altro zitto, a capo
chino. - Buona sera, buona sera. - Aspetti, aspetti. L'accompagno
sino all'uscio, di sopra. Non voglio che salga le scale così
al buio e tutta sola. Ora accendo un cerino. - No, no, ci son
le stelle -. Delle stelle lucenti che scintillavano sui tetti,
attraverso i finestroni ad arco, ogni ramo di scala - sei rami. Anna
Maria, di già stanca, s'era appoggiata al muro, proprio
accanto al finestrone, col fiato ai denti. - Ah! le mie povere gambe!
- Egli sempre zitto, guardandola nella poca luce che lasciava vedere
soltanto il musetto pallido e gli occhi lucenti. - Che fatica! Una
giornata intera! Dev'essere molto tardi. Guardi quante stelle! -
Batteva un po' la campagna anche lei, poveretta, per sfuggire a quel
silenzio. Ma lui non rispondeva ancora. - Bella sera! Non è
vero? - Allora egli le prese la mano e
balbettò con voce mutata: Quest'altro aveva le mani bianche e
pulite di uno che non fa nulla, i capelli lisci, la pelle fine, certe
garbatezze d'anticamera che l'accarezzavano. Lo vedeva ogni giorno,
l'aspettava alla porta, si lasciava condurre la domenica a desinare
in campagna, alla stessa tavola, sotto il pergolato, colle ragazze
che schiamazzavano sull'altalena, e gli avventori che giocavano alle
bocce. Avevano passeggiato insieme per quella stradicciuola fangosa,
sotto i pioppi, stringendosi l'uno all'altro, nella sera che li
celava. Poi egli voleva sapere questo e quello; voleva frugare come
un furetto nel presente e nel passato. La faceva ritornare, passo
passo, verso quelle memorie che le rifiorivano in cuore come una
carezza e una puntura. Era geloso della stradicciuola dove era stata
a passeggiare con quell'altro, geloso della campagna che avevano
vista insieme, della tavola alla quale s'erano seduti e del vino che
avevano bevuto nello stesso bicchiere. Diventava a poco a poco
ingiusto e cattivo. Un vero ragazzo, ecco. Un ragazzo bizzoso da
mangiarserlo coi baci. Che dolcezza per Anna Maria allora! Che
dolcezza triste ed amara! Tutte le lacrime che egli le faceva versare
le restavano in cuore, e glielo rendevano più caro. Le bruciava le labbra! ma infine...
infine glielo disse: cosa vuoi fare? - domandava Cesare. -
Vedrai! Vedrai! - Erano cresciute delle altre fronde all'olmo, nel
maggio che fioriva, del verde che celava i due cuori color di
ruggine, legati insieme dalla croce. Essa però li rinvenne
subito, e con un sasso, gli occhi lucenti, il seno che le scoppiava,
le mani febbrili, si mise a raschiare da per tutto, sulla corteccia
dell'olmo, le iniziali, i due cuori, la croce, tutto. Poi gli buttò
le braccia al collo, a lui che stava a guardare con tanto di muso, e
se la strinse al petto, furiosamente. - Mi credi ora? Mi credi ora? - Egli le
credette allora, con quelle braccia annodate al collo, e quel seno
che si gonfiava contro il suo petto. Ma dopo fu la stessa storia:
ogni cosa gli dava ombra: se era allegra, se era malinconica, se
cantava, se taceva, se si pettinava in un certo modo, e se non voleva
confessare che quegli orecchini fossero un ricordo di quell'altro, se
la vedeva dal portinaio, o se la incontrava vicino alla posta. Ogni carezza, ogni parola - delle
parolacce amare, dei musi lunghi, delle risate ironiche, degli impeti
di collera, dei voltafaccia bruschi di servitore che sputi villanie
dietro le spalle dei padroni. - Con lui non dicevi così! Con
quell'altro era un altro par di maniche! - No! no! te lo giuro! Non
ci penso più! Tu solo adesso! Tu solo! - Poi gli
arrivò a dire: - O allora? - rispose il servitore. E infine un giorno essa gli mostrò
una carta; una carta che gli aveva portata nel petto, come una
reliquia. - Guarda! Guarda! - Era il certificato di morte del suo
artigliere, come glielo buttava in faccia a ogni momento Cesare. Il
certificato di morte di Lajn Primo, soldato del V artiglieria, c'era
il bollo e tutto, non vi mancava nulla; la povera donna glielo
portava come un regalo, come un regalo del bene che aveva voluto e
delle lacrime che aveva versate, come un regalo di tutta se stessa,
della donna innamorata e sottomessa. L'altro, il maschio, per tutta risposta
fece una spallata. Ciò che è in fondo al
bicchiere Quando la signora Silverio tornò
insieme al marito - da Nuova York, da Melbourne, chi lo sa? - tutti
videro che era finita per lei, povera Ginevra. Metteva del rossetto;
portava ancora la pelliccia nel mese di maggio; veniva a cercare il
sole e l'aria di mare alla Riviera di Chiaja, dalle due alle quattro,
nella carrozza chiusa, come un fantasma. Ma ciò che stringeva
maggiormente il cuore era la macchia sanguigna di quell'incarnato
falso nel pallore mortale delle sue guance, e il sorriso con cui
rispondeva al saluto degli amici - quel triste sorriso che voleva
rassicurarli. Anche il Comandante non si riconosceva
più: aveva la barba quasi grigia, le spalle curve, e delle
rughe che dicevano assai su quella faccia abbronzata d'uomo di mare.
Indovinavasi ciò che avessero dovuto fargli soffrire i
farfalloni che svolazzavano un tempo intorno alla sua bella Ginevra,
adesso che non era più geloso di lei, ed era tornato a
prendersela sotto il braccio pietosamente, chinando il capo a tutti i
suoi capricci, quasi sapesse che la poveretta non ne avrebbe avuti
per molto tempo... Dopo era ripartito subito, per ordine
superiore, dicevasi; e dicevasi pure che l'ordine d'imbarcare
l'avesse chiesto colla stessa sollecitudine con cui un tempo aveva
desideravo di non lasciare la moglie e il Dipartimento di Napoli.
Essa, disperatamente, si attaccava alla vita colle manine scarne,
povera donna, e affaticavasi a menare a spasso i suoi guai e i suoi
terrori segreti, ai balli, in teatro, come ripresa dalla febbre
mondana - e forse era la stessa febbre che la teneva in piedi, sotto
le armi, torturandosi delle ore dinanzi allo specchio, per
strascinarsi poi col fiato ai denti sino al suo palchetto, o per
passare soltanto da una sala da ballo. - Ma così felice, sotto
la carezza dei binoccoli che si puntavano sul suo petto anelante, e
sembravano scaldarle il sangue nelle vene! Così grata a
quell'anima buona che venisse a farle un briciolo di corte! - Senza
cadere in tentazione, no! La tentazione ormai era lontana, e le aveva
lasciato i lividori sulle carni. - Tanto che sorrideva al marito,
quando egli era ancora lì, come a dirgli: - Vedi, che male c'è?... - Aveva
preso un quartiere in via di Chiaja, per stare notte e giorno in
mezzo al rumore e al movimento della città; perché gli
amici venissero a trovarla più facilmente, all'uscire dal
teatro o prima di pranzo, e riceveva specialmente il mercoledì
sera. Suo marito stesso me ne aveva fatto cenno al caffè,
prima di partire, dimenticando le sue prevenzioni contrarie e forse
anche i suoi sospetti: Ella accoglieva con gran festa tutti
quanti. Appena mi vide, mi corse incontro col suo bel sorriso che
innamorava, stendendomi le mani. Era proprio tornata la bella signora
Silverio che ci faceva perdere la testa a tutti noi della Regia
Marina, quando i disinganni e le amarezze non avevano ancora spento
il suo bel sorriso civettuolo, e messo qualcosa di duro nella linea
delle sue labbra. - Ho lasciato tutto lì, le noie, le cose
tristi! - pareva dire; e faceva un gesto grazioso col braccio esile,
accennando lontano, allorché tornavano nel discorso i ricordi
malinconici. Al primo vederla, sotto il gran
paralume chinese vicino al quale stava più volentieri, non mi
parve nemmeno tanto patita. Dei pizzi superbi davano una certa
vaporosità alla sua figurina snella, e dei grossi filari di
perle le coprivano interamente la scollatura del vestito. Ripeteva
sovente: Sorrideva anche delle sue paure. Soleva
rammentarle soltanto per far capire che le avevano lasciato una
grande indulgenza per tutte le debolezze e tutti gli errori umani. -
E i tradimenti anche! - mi disse, spalancando gli occhioni, e
accennando col muovere del capo e col sorriso che mi accusavano. -
Sapete che sono stata molto male, caro d'Arce? Ho creduto di fare il
gran viaggio! Torno da lontano, adesso... di laggiù, dove si
sa tutto, e tutto si perdona!... - Si volse a cercare la sua amica
Maio, e la pregò lei stessa di offrirmi il thè. Da
lontano vidi i suoi occhi fissi su di noi, nel breve istante che
scambiammo un profondo inchino cerimonioso. Poi la bella Maio tornò
a raccogliere gli omaggi altrui come una regina. Quando andai a posare la tazza vuota
sul tavolinetto, al quale la signora Ginevra appoggiava di tanto in
tanto la mano, coll'aria un po' stanca e affaticata, ella mi chiese a
bruciapelo, fissandomi in viso quegli occhi luminosi: - Così? Non avete più
nulla da dirvi, né voi né lei? - Ahimè, no. - Oooh! - esclamò ridendo, -
oooh!... - E inzuccherò senza pietà il thè
dell'Ammiraglio. La contessa Ardilio le offrì di
aiutarla. Ella accettò subito per venire a sedere accanto a me
su di un canapè d'angolo. - Abbiamo molte cose da dirci; ma è
meglio non parlarne, è vero? A che serve oramai? Siamo
perfettamente ragionevoli tutti e due... Allora... quando seppi il torto che
avete fatto alla parola datami... il giuramento del marinaio, vi
rammentate?... - E sorrideva, povera Ginevra. - Però non ve ne
volli... né a voi, né a lei... Ebbi dei torti anche
io... Ma voi sapevate che non ero libera... - Allora mi parlò
francamente di Alvise, il solo che non potesse farsi vivo fra i suoi
amici. - Anche io ho bisogno di perdono, lo so!... Ora tutto ciò
è passato... lontano tanto!... Vedete come ve ne parlo?... -
Tornava a fare quel gesto vago, tirando in su i guanti lunghissimi.
Tutta la sua civetteria riducevasi adesso a una cura gelosa di
nascondere le sue povere carni mortificate. E di colui pel quale
aveva sentito forse più trionfante la vanità della sua
bellezza, quando appariva in una festa, colle spalle e le braccia
nude, soltanto per lui, discorreva adesso tranquillamente, con una
certa amara disinvoltura. Solamente non lo chiamava più pel
suo nome di battesimo: - Povero Casalengo... Un buon amico e
un uomo di mondo... Dei pochi che sappiano pigliarlo com'è, il
mondo!... - Rammentava ancora gli altri, passando in rivista delle
memorie che accendevano dei punti luminosi nelle sue pupille. D'un
solo non fece motto, forse perché era ancora troppo presente
dinanzi ai suoi occhi, quando parevano oscurarsi a un tratto, e
pareva come delle ombre livide le lambissero il viso emaciato. Ma tornava subito gaia e sorridente,
occupandosi dei suoi invitati, facendosi in quattro per pensare a
tutti. Si avventurò sino all'uscio del salotto ove fumasi, col
fazzoletto alla bocca, con quella gaiezza che rendeva così
ospitale la sua casa. - No, no, mi piace anzi! Fumerei anche
io, se non mi facesse tossire -. Avrebbe chiuso gli occhi, e si
sarebbe lasciata soffocare per far piacere agli altri, ed avere tutte
le sere la casa piena di gente sana e allegra che la facessero
illudere d'esser sana e allegra lei pure. Aveva inchiodato Sansiro al
pianoforte, e minacciava di fare un giro di valzer. - No! con lei, no! giammai! - mi disse
respingendomi con le braccia tese. Sembrava proprio rivivere nel suo
elemento, e parlava insino di «lasciarsi andare» a bere
«qualcosa di forte» eccitandosi, colle guance già
accese e il sorriso ebbro, lei che aspirava soltanto delle lunghe
boccate d'etere «per tenersi su». Però, di tanto
in tanto, alla sfuggita, guardavasi furtivamente negli specchi, e
l'occhiata ansiosa, quasi smarrita, tradiva l'interno sbigottimento.
Tutt'a un tratto, mentre mesceva il thè a dei giovanotti che
erano giunti tardi, venne meno fra le braccia di Serravalle, tutta di
un pezzo, come un cencio. Nondimeno, appena si riebbe alquanto, cercò
di rassicurare amici ed amiche che le si affollavano intorno,
volgendo la cosa in scherzo, bianca come il suo vestito, facendosi
vento col fazzoletto, balbettando, col sorriso smorto: - Ah!... la colpa è di
Serravalle!... Non posso vedermelo accanto senza cadergli fra le
braccia... È destinato, povero Serravalle!... Si rammenta,
quella volta che si ballava insieme in casa Maio? - Fu l'ultima sua
festa, povera donna. A poco a poco gli amici dileguarono quasi tutti;
e ciò la rattristiva assai, quantunque non lo dicesse.
Chiedeva di loro ai pochi fedeli che continuavano a farle visita, di
tanto in tanto. Un giorno che le recai il saluto di Alvise provò
un gran piacere. - Ah, Casalengo... si rammenta!... - mormorò
lieta. Volle anche sapere a chi Casalengo
facesse la corte, in quel tempo, e le sfavillavano gli occhi alle
piccole maldicenze che si fanno sottovoce nei circoli mondani. - Colui, sì!... sa vivere! -
ripeté, e accennava pure col capo, assorta. Mi era grata del tempo che rubavo
«all'altra mia amica» per dedicarlo a lei, e mi chiamava
«il suo buon fratello». - Fratello, non è vero? -
ripeteva colla sua grazia maliziosa. E c'era quasi un rimasuglio di
rancore involontario nella carezza della parola affettuosa. Alcune volte, quando mi diceva quelle
cose, specie sull'imbrunire, che provava una gran tristezza e mi
aveva pregato di non lasciarla mai sola, al vedere i suoi occhi
luminosi, il sorriso ancora dolce che le rianimava il viso e pareva
dissiparne le ombre, mi sentivo riprendere irresistibilmente da
quella moribonda, con un'immensa dolcezza amara. Essa preferiva quell'ora, l'angolo del
salotto riparato dal paravento chinese, la mezzaluce che dissimulava
il suo pallore e il suo male. Era il suo pudore e l'ultima sua
civetteria. Nell'ombra sentiva che il suo profumo e
la sua voce ancora dolce mi parlavano meglio di lei, della Ginevra
che avevo conosciuta un tempo. - 'Colei' lo sa che siete qui... che
fate un'opera buona... per meritarvi il paradiso? - Come
diceva quelle parole! Come esse sonavano e penetravano! Come
attiravano verso di lei quell'anelito frequente e quelle povere mani
febbrili! - No... non mi fiderei più degli
amici... e delle amiche! Ho imparato a spese mie, caro d'Arce! - Una
sera che aveva tossito più del solito, e parlava più
triste, reggendosi il capo col braccio appoggiato al tavolino, mi
disse guardandomi fisso, china verso di me, nello stesso tempo che
schermivasi dalla luce colla mano aperta: - Noi non siamo stati mai... nulla.
Ecco perché mi siete rimasto fedele -. Le si era fatta la voce un po' roca.
Tutto ciò che le veniva alla mente e sulle labbra aveva la
stessa velatura stanca, e un abbandono che avvinceva me pure. Senza
quasi avvedermene le avevo preso la mano, ed essa me la lasciò,
calda ed inerte. Allora, senza guardarmi, quasi senza volerlo, mi
confidò il segreto di ciò che aveva sofferto laggiù,
lontana da tutti, in paese straniero. Una storia semplice e dolorosa, senza
dramma, senza neppure l'ombra di una rivale. Colui pel quale aveva
abbandonata la sua casa e la sua patria non l'amava più: ecco
tutto. - Amore... chi lo sa? Anche io avevo amato Casalengo... o
m'era parso, prima di lasciarlo per quell'altro... Per una parola che
ci suoni meglio all'orecchio, per un'occhiata che lusinghi il nostro
vestito nuovo, per una frase musicale che ci faccia sognare ad occhi
aperti... Ecco perché ci perdiamo, e ciò che forma
quest'amore. Quando egli non ebbe più dinanzi
altre seduzioni con cui confrontare la mia, quando non temé
più altri rivali... Una mattina, sull'alba, tornò
pallido e fosco. Aveva perduto. Giuocava da un pezzo, da che non mi
amava più. E si voleva uccidere perché non poteva
pagare... Non per me... Lui che aveva tutte le delicatezze, tutta la
poesia, tutta la nobiltà dell'animo. E l'ultima rottura fra di noi,
l'ingiuria che non poté perdonarmi, fu quando gli offrii
d'aiutarlo, io che ero parte di lui, che vivevo soltanto per lui, che
gli avevo sacrificato ben altro, che non sapevo cosa farmi del mio
denaro... Mi lasciava appunto per questo, perché egli non ne
aveva più. L'onore degli uomini è così fatto.
Poi, quand'egli fu partito, colui che aveva detto di non poter vivere
senza di me, lasciandomi sola e moribonda in un albergo... mio marito
ebbe pietà di me - lui che non mi amava più e non
doveva più amarmi... Pagò un altro debito d'onore anche
lui... - Parlava calma, con un filo di voce, interrompendosi di
tratto in tratto e lasciando morire in un soffio certe parole. Le
passò sul volto un sorriso che la fece sembrare più
pallida. - Povero d'Arce! V'ho intronate le
orecchie per narrarvi le solite storie. Cose che succedono a tutti...
Lo sappiamo e torniamo a cascarci. Allora vuol dire che dev'essere
così, non è vero? Anche voi... - Nel luglio e l'agosto
stette meglio. Però non si lasciò indurre a mutar paese
per qualche tempo. Il silenzio e la quiete della campagna le facevano
paura. Volle piuttosto andare alla festa di Piedigrotta. Si era fatto
fare apposta un vestito elegantissimo, e aveva combinato una
carrozzata allegra, nella quale ero invitato io pure. - La Maio, no!
- mi disse sfavillante. Tutto quel chiasso e quel movimento
l'eccitavano assai. Tornò stanchissima e si mise a
letto per due o tre giorni. Dopo si strascinò ancora un pezzo
fra letto e lettuccio. La tristezza delle giornate autunnali la
pigliava lentamente. Se non mi vedeva all'ora solita, mi teneva il
broncio, quasi avessi mancato a una tacita promessa. Faceva spesso
dei progetti per l'avvenire; si illudeva più facilmente, ora
che le fuggiva la terra sotto i piedi, e che non aveva più la
forza di strascinarsi sino al canapè. Così tenacemente
si attaccava al mio braccio, che le parlavo anche io di Sorrento e di
Nizza, col cuore stretto. Ella diceva di sì, di sì,
tutta contenta, tornando ad affermare col capo, tornando a sorridere
come una bambina. Consultava insieme a me delle guide e
dei giornali di mode, e aveva fissato l'epoca del viaggio: Com'era contenta, povera Ginevra! Quel
sorriso ingenuo nella bocca e negli occhi che le mangiavano il viso,
mi mise un brivido nei capelli: lo stesso brivido che mi faceva
trasalire quando l'udivo gemere sottovoce nella stanza accanto per
abbigliarsi - e quel giorno che la cameriera mi chiamò
spaventata, cercando colle mani tremanti la boccettina d'etere sopra
la tavoletta. Essa, pure in quel momento, coprivasi colle mani il
misero petto scarno... Una volta mi disse: Sembrava distaccarsi a poco a poco da
ogni cosa. Però voleva ancora che andassi a
vederla spesso, più che potevo, e lagnavasi che tutti
l'abbandonassero. Stava poi ad ascoltarmi, immobile, guardandomi
fisso. Alle volte i suoi occhi si offuscavano, quasi guardassero
dentro se stessa, o in un gran buio, e il viso le si affilava
maggiormente, con un'espressione d'angoscia vaga. Dopo sembrava
ritornare da lontano, con una cert'aria smarrita. Mi sorrideva
dolcemente, quasi per scusarsi dell'involontaria distrazione, ma in
modo che stringeva il cuore. In quei giorni tornò a Napoli
suo marito, chiamato per telegrafo. Essa volle festeggiare con lui l'ultima
sera dell'anno, e invitò pochi amici. Le avevano apparecchiato
un tavolino accanto al letto, e dei fiori, un gran numero di candele
nella camera. Era raggiante, poveretta, e sembrava proprio una
bambina, sparuta, fra le gale e i pizzi della cuffia e del corsetto.
Ci salutava col capo ad uno ad uno, alzando verso di noi la coppa
nella quale aveva fatto versare un dito di 'champagne', e beveva
cogli occhi alla nostra salute, senza accostarvi le labbra, come
sapesse ciò che si trova in fondo al bicchiere, come anche i
nostri auguri la rattristassero. Infine si lasciò vincere
dalla comune gaiezza; parve che tornasse a sorridere a una vaga
speranza, e sorrideva a tutti, a tutti noi, cogli occhi e le labbra,
col viso pallido e magro. Il capo d'anno le recai dei fiori, un
gran fascio di rose che ero andato a cogliere per lei a Capodimonte.
Ella si levò giuliva a sedere, e le volle sul letto, tutte.
Ripeteva: Era tanto contenta! Mi mostrò i
regali che le avevano mandato gli amici, e le amiche... - tutti
quanti! - La camera n'era piena, sulle mensole, sul canapè, da
per tutto. Ella indicava ad uno ad uno il nome del donatore. Dalla
gioia mi pose un braccio intorno al collo, dicendomi: - Ma nessuno come voi!... nessuno! Voi
siete il mio caro fratello, non è vero? E mi vorrete sempre
bene così, sempre sempre... perché non fummo mai
altro!... Un momento... ci fu il pericolo... Vi rammentate? Ma era
scritto lassù!... lassù... - In quel momento portarono
il regalo del marito: un magnifico abito da ballo che la cameriera
spiegò trionfante sulla poltrona. Ella indovinò la
delicata e pietosa intenzione d'illuderla che c'era nella scelta del
dono, e ne fu scossa profondamente. Non disse nulla; gli occhi le si
fecero più grandi e più lucenti, e tornò a
coricarsi, tirandosi la coperta fino al mento. Mi lasciò senza dirmi addio,
povera e cara Ginevra! L'ultima volta che la vidi, in presenza del
marito e di due o tre altri, ella sembrava già non fosse più
di questo mondo. Non mi disse nulla; non sembrò nemmen
accorgersi di me. Stava zitta, chiusa, cogli occhi sbarrati e fissi.
Il Comandante rispondeva per lei qualche parola, colla voce rauca, i
capelli arruffati, la barba incolta, pallido anche lui, e col viso
gonfio dalle notti insonni. Un momento appena, udendo la mia voce,
ella volse su di me quegli occhi che non guardavano e non dicevano
più nulla: e tornò a rivolgerli altrove, indifferente.
Li attirava adesso soltanto una striscia di luce che moriva sulle
tendine istoriate. Fu l'ultima volta che la vidi. Dopo,
l'uscio delle sue stanze rimase chiuso per tutti. Erano arrivati dei
parenti da Venezia e da Genova. Gli amici erano tornati a chiedere di
lei o a lasciare il loro nome alla porta: tutti coloro che avevano
ballato in quella casa e vi avevano passato delle ore liete. Parecchi
ci avevano perduto anche la testa, un tempo, e parlavano di lei che
moriva, a voce bassa, prima di tornare al Circolo o al teatro,
facendosi piccini dinanzi al marito che ripigliava il suo posto in
casa sua, all'ultima ora, invecchiato in un mese, rispondendo alle
condoglianze e alle strette di mano collo sguardo chiuso e la mano
gelida. Seppi che era morta dall'invito per
assistere ai funerali. Nelle sale dove essa ci aveva ricevuti
festante, era una gran folla, e molti fiori, come il primo giorno
dell'anno, sulle mensole, sui tavolini, sul pianoforte. C'erano
tuttora gli avanzi delle candele dei candelabri posti dinanzi agli
specchi dove ella si era guardata. Le sue amiche misero dei fiori
sulla bara. La signora Maio soffocava i singhiozzi con un
fazzolettino di pizzo. Prima di morire aveva detto che voleva
una semplice bara coperta di raso bianco, e una semplice lapide col
suo nome. Non ci furono discorsi sulla tomba. La sua orazione funebre
fu fatta da Casalengo, che venne a trovarmi la sera stessa, per
parlarmi di lei. - Povera Ginevra! - e non disse altro. Il come, il quando ed il perché Il signor Polidori e la signora Rinaldi
si amavano - o credevano di amarsi - ciò che è
precisamente la stessa cosa, alle volte; e in verità, se mai
l'amore è di questa terra, essi erano fatti l'uno per l'altro:
Polidori si godeva quarantamila lire di entrata, e una pessima
riputazione di cattivo soggetto, la signora Rinaldi era una donnina
vaporosa e leggiadra, e aveva un marito che lavorava per dieci, onde
farla vivere come se possedesse quarantamila lire di rendita. Però
sul conto di lei non era corsa la più innocente maldicenza,
sebbene tutti gli amici di Polidori fossero passati in rivista, col
fiore all'occhiello, dinanzi alla fiera beltà. Finalmente la
fiera beltà era caduta - il caso, la fatalità, la
volontà di Dio, o quella del diavolo, l'avevano tirata pel
lembo della veste. Quando si dice 'cadere' intendesi che
aveva lasciato cadere sul Polidori quel primo sguardo languido,
molle, smarrito, che fa tremare le ginocchia al serpente messo in
agguato sotto l'albero della seduzione. Le cadute a rotta di collo
son rare, e alle volte fanno scappare il serpente. La signora
Rinaldi, prima di scendere da un ramo all'altro, voleva vedere dove
metteva i piedi, e faceva mille graziose moine col pretesto di voler
fuggire verso le cime alte. Da circa un mese ella si era appollaiata
sul ramoscello della corrispondenza epistolare, ramoscello flessibile
e pericoloso, agitato da tutte le aurette profumate. - Avevano
cominciato col pretesto di un libro da chiedere o da restituire, di
una data da precisare, o che so io - la bella avrebbe voluto
fermarvisi un pezzo, su quel ramo, a cinguettare graziosamente,
perché le donne cinguettano sempre a meraviglia, così
cullandosi fra il cielo e la terra; Polidori, il quale aveva vuotato
il sacco, divenne presto arido, laconico, categorico che era una
disperazione. La poveretta chiuse gli occhi e le ali, e si lasciò
scivolare un altro po'. - Non ho letto la vostra lettera; né
voglio leggerla! - gli disse incontrandolo all'ultimo ballo della
stagione, mentre seguivano la fila delle coppie. - Giacché non
volete essere quello che vi avevo ideato, lasciatemi rimanere quale
voglio essere io -. Polidori la fissava serio serio,
tormentandosi i baffi, ma colla fronte china. Gli altri ballerini che
non avevano nessuna ragione per stare a chiacchierare nel vano
dell'uscio, li spingevano verso il salone. La donna arrossì,
quasi fosse stata sorpresa in un abboccamento segreto con lui. Polidori - il serpente - notò
quella vampa fugace. - Sapete che vi obbedirò ad ogni costo, -
rispose semplicemente. La croce di brillanti scintillò
sul petto di lei, sollevandosi in trionfo. Tutta la sera la signora
Rinaldi ballò come una pazza, passando da un ballerino
all'altro, tirandosi dietro uno sciame di adoratori, cogli occhi
ebbri di festa, luccicanti come le gemme che le formicolavano sul
seno anelante. Però ad un tratto, trovandosi faccia a faccia
colla sua immagine in un grande specchio, si fece seria e non volle
ballar più. Rispondeva a tutti di sentirsi stanca, molto
stanca; e macchinalmente cercava cogli occhi suo marito. Non c'era
nemmen lui, quell'uomo! In quei dieci minuti che rimase accasciata
sul canapè, senza curarsi che la sua veste si affagottava
sgarbatamente, le passarono davanti agli occhi delle strane fantasie,
insieme alle coppie che ballavano il valzer. Polidori solo non
ballava, né si vedeva più. - Che uomo era mai costui?
Finalmente lo scorse in fondo a una sala deserta, faccia a faccia con
una testa pelata, che non doveva aver nulla da dire, sorridendo come
un uomo per cui il sorriso sia indifferente anche esso. - Ella
avrebbe preferito sorprenderlo colla più bella signora della
festa, in parola d'onore! - Polidori non se ne avvide. Si alzò,
premuroso sempre, e le offrì il braccio. In quel momento, proprio in quel
momento doveva cacciarlesi fra i piedi anche suo marito, che cercava
di lei. Allora, bruscamente, aggiustandosi sull'omero la scollatura
della veste, con un leggiadro movimento della spalla, disse piano a
Polidori, così piano che il fruscio della seta coprì
quasi il suono della voce: - Sia pure, domani alle nove, ai
Giardini -. Polidori si inchinò
profondamente e la lasciò passare, raggiante e commossa, al
braccio del marito. Giammai mattino di primavera non era
sembrato così misteriosamente bello alla signora Rinaldi nella
sua villa deliziosa della Brianza, e giammai ella non l'avea
contemplato con occhio più distratto attraverso al cristallo
scintillante del suo 'coupé', come quando il suo legnetto
attraversava rapidamente la piazza Cavour. Il sole inondava i viali
del giardino, caldo e dorato, sull'erba che incominciava a
rinverdire; l'azzurro del cielo era profondo. Coteste impressioni, ad
insaputa di lei, riverberavansi nei suoi grandi occhi neri, che
guardavano lontano, non sapeva ella stessa dove, né che cosa,
mentre appoggiava la mano e la fronte pallida alla manopola. Di tanto
in tanto un brivido la faceva stringere nelle spalle, un brivido di
stanchezza o di freddo. Appena la carrozza si fermò al
cancello, ella trasalì, e si tirò indietro vivamente,
quasi suo marito si fosse affacciato all'improvviso allo sportello.
Esitò alquanto prima di scendere, colla mano sulla maniglia
pensando vagamente a quell'aspetto nuovo, sotto cui le si affacciava
alla mente suo marito; poi mise il piede a terra e si calò il
velo sul viso: un velo fitto, nero, tempestato di puntini, attraverso
al quale gli occhi acquistavano alcunché di febbrile, e i
lineamenti una rigidità di fantasma. La carrozza si allontanò
di passo, senza far rumore, da carrozza discreta e ben educata. Il giardino sembrava destato anche'esso
prima dell'ora, e tutto sorpreso d'incominciar la sua giornata così
presto. Degli uomini in manica di camicia lo lavavano, lo
pettinavano, gli facevano la sua toeletta mattutina. Le poche persone
che si incontravano avevano l'aspetto di trovarsi là a
quell'ora per la prima volta, e per ordine del medico anche loro;
osavano interrogare il velo della passeggiatrice mattiniera, e
indovinare il profumo del fazzoletto nascosto nel manicotto che ella
si premeva sul petto con forza. Un vecchio che si trascinava
lentamente, cercando il sole di marzo, si fermò a guardarla,
com'ella fu passata, appoggiandosi al bastone malfermo, e tentennò
il capo tristamente. La signora Rinaldi si arrestò
dinanzi alla sponda del laghetto, saettando a dritta e a sinistra
un'occhiata guardinga, cercando qualche cosa o qualcuno. Il mormorìo
fresco dell'acqua, e lo stormire lieve lieve degli ippocastani la
isolavano completamente; allora sollevò alquanto il velo, e
cavò dal guanto un bigliettino meno grande di una carta da
giuoco. Per due o tre minuti l'acqua seguitò a scorrere, e le
foglie a stormire per conto loro. La donna aveva gli occhi assorti,
avidi, umidi di sogni. Tutt'a un tratto un passo frettoloso le
fece rizzare il capo, e il sangue le avvampò sulle guance,
come se gli occhi ardenti del nuovo arrivato le avessero sfiorato il
viso con un bacio. Polidori stava per portare la mano al
cappello, quando ella gli arrestò il gesto con uno sguardo
impercettibile, e gli passò vicino senza fissarlo. Camminava a capo chino, ascoltando lo
stridere della sabbia sotto i suoi stivalini, senza guardare dinanzi
a sé. Di tanto in tanto si metteva il fazzoletto alla bocca;
per riprender fiato, quasi il suo cuore divorasse avidamente tutta
l'aria che la circondava. L'onda lenta del ruscello
l'accompagnava chetamente, borbottando sottovoce, addormentando le
ultime sue paure; l'ombra dei cedri e il silenzio del viale deserto
la penetravano vagamente, con sottile voluttà. Quando si fermò dinanzi alla
gabbia del leopardo il petto le scoppiava e i ginocchi le tremavano
forte, ché accanto a lei si era fermato anche Polidori,
guardando attentamente il superbo animale, con la curiosità
che avrebbe mostrato un contadino sbandato per quelle parti, e le
disse piano: davvero! C'era da perderci la testa!
Ella si sentiva avvampare fin sulla nuca, che ei, ritto dietro le sue
spalle, poteva vedere arrossire; un'onda di parole sconnesse e
tumultuose le montavano alla testa, la ubbriacavano; parlava del
ballo dove si era divertita assai; di suo marito il quale era partito
all'alba, quand'ella non aveva ancora chiuso gli occhi. - Però non sono stanca!
quest'aria fresca fa bene, tanto bene! ci si sente rinascere, non é
vero? - Sì! è vero! - rispose
Polidori guardandola fisso negli occhi; ma ella non osava levarli di
terra. - Quando sarò in Brianza voglio
levarmi col sole tutti i giorni. In città facciamo una vita
impossibile. Ma però voi altri signori dovete preferirla -. Parlava in fretta, e con voce un po'
troppo alta e squillante, sorridendo spesso, a caso; gli era grata
inconsciamente che ei non osasse interromperla, non osasse mischiare
la sua voce a quella di lei. Finalmente Polidori le disse: Richiamata così bruscamente alla
realtà, stringeva le mani e le labbra con un'espressione
dolorosa; gli occhi le si velarono quasi, seguendo nello spazio
l'incantesimo che si era rotto, e gli fissò in volto quegli
occhi stralunati. Tutta l'esperienza che possedeva Polidori non seppe
fargli leggere quello che vi si scorgeva. - Ah! - disse poi con voce
mutata, - sarebbe stato più prudente!... - Siete crudele! - mormorò
Polidori. - No! - rispose ella sollevando il
capo, un po' rossa, ma con accento fermo. - Non sono come tutte le
altre signore, non sono prudente!... quando mi romperò il
collo, vorrò godermi l'orrore del precipizio sotto di me!
Tanto peggio per voi se non capite -. Allora ei le afferrò la mano per
forza, divorando tutta la sua bellezza palpitante con uno sguardo
assetato, e balbettò: - Volete?... volete?... Ella non rispose, e fece uno sforzo per
ritirare la mano. Polidori implorava la sua grazia con
parole concitate, deliranti. Le ripeteva una domanda, una preghiera,
sempre la stessa, con diverse inflessioni di voce che andavano a
ricercare la donna nelle più intime fibre di tutto il suo
essere; ella ne sentiva la vampa, le sembrava di esserne avviluppata
e divorata, soverchiata da un languore mortale e delizioso; e cercava
di svincolarsi, pallida, smarrita, colle labbra convulse, spiando il
viale di qua e di là con occhi pazzi di terrore, contorcendosi
sotto quella stretta possente, facendo forza con tutte e due le mani
febbrili per strapparsi da quell'altra mano che sentiva ardere sotto
il guanto. Infine, vinta, fuori di sé,
balbettò: - Sì! sì! sì! - e
fuggì dinanzi a qualcuno di cui si udiva avvicinarsi il
calpestìo. Uscendo dal giardino era così
sconvolta che stette per buttarsi sotto i cavalli di una carrozza.
Aveva avuto un appuntamento! Quello era stato un appuntamento! E
ripeteva macchinalmente, balbettando: Andò barcollante sino alla prima
carrozza che incontrò; e si fece condurre dalla sua Erminia,
quasi in cerca di aiuto. La sua amica, vedendosela comparire dinanzi
con quel viso, le corse incontro fin sull'uscio del salotto. - Che
hai? - Nulla! nulla! - Come sei bella! Cosi hai? Ella, invece di rispondere, le saltò
al collo e le fece due baci pazzi. La signora Erminia era abituata alle
sfuriate d'amicizia della sua Maria. Si misero a guardare insieme le
fotografie che avevano viste cento volte, e i fiori che erano da un
mese sul terrazzino. In quel momento, per combinazione,
passava Polidori nel 'phaeton' del suo amico Guidetti, col sigaro in
bocca, e salutò la signora Erminia allo stesso modo come
avrebbe potuto salutare Maria, se l'avesse scorta rincantucciata fra
gli arbusti, premendosi le mani sul petto che voleva scoppiarle. Era
una cosa da nulla; ma uno di quei nonnulla che penetrano in tutto
l'essere di una donna come la punta di un ago. Allora, tornando a
casa, la signora Rinaldi scrisse a Polidori una lunga lettera, calma
e dignitosa, onde pregarlo di rinunciare a quell'appuntamento, di cui
le aveva strappata la promessa in un momento di aberrazione, un
momento che rammentava ancora con confusione e rossore, per sua
punizione. C'era tanta sincerità nella contraddizione dei suoi
sentimenti, che quell'istante d'abbandono, dopo un'ora sembrava
infinitamente lontano, e se qualche cosa di vivo vibrava tuttora fra
le linee della lettera, era solo il rimpianto di sogni che si
dileguavano così bruscamente. Ella faceva appello all'onore e
alla delicatezza di lui per farle dimenticare il suo errore, e
lasciarle la stima di se stessa. Polidori si aspettava quasi quella
lettera: la signora Rinaldi era troppo inesperta per non pentirsi
dieci volte, prima di aver motivo di pentirsi davvero; ei fece una
cosa che gli provò come quella donnina inesperta avesse
ridestato in lui un sentimento schietto e forte con tutta la
freschezza delle prime impressioni: le rimandò la lettera
accompagnata da questa breve risposta: «Vi amo con tutto il rispetto e
la tenerezza che deve inspirare la vostra innocenza. Vi rimando la
lettera che mi avete diretta, perché non sarei degno di
conservarla, e non oserei distruggerla. Ma l'imprudenza che avete commesso
scrivendo una tal lettera è la prova migliore della stima in
cui deve avervi ogni uomo di cuore». - Mio marito! - esclamava Maria con una
strana intonazione di voce. - Ma mio marito è felicissimo! La
rendita sale e scende per fargli piacere, i bachi sono andati bene,
le commissioni piovono da ogni parte. C'è un cinquanta per
cento di utili netti! - Erminia la stava a guardare a bocca aperta. - Senti, bambina, tu hai la febbre.
Mesciamoci del the -. Due giorni dopo, per guarire della
febbre, che le aveva trovato la sua Erminia, le disse: - Andrò in Brianza con Rinaldi.
L'aria, l'ossigeno, la quiete, il canto degli usignoli, la
famiglia... Che peccato non ci abbia dei bambini da cullare! - Là,
sotto gli alberi folti, di faccia ai larghi orizzonti, sentiva una
strana irritazione contro quella pace che la invadeva lentamente, suo
malgrado, dal di fuori. Andava spesso sulle balze pittoresche verso
il tramonto, a sciuparsi gli stivalini, e a montarsi la testa di
proposito con dei sentimenti presi a prestito nei romanzi. Polidori
aveva avuto il buon gusto di eclissarsi con garbo, restando a Milano,
senza far nulla di teatrale e di convenzionale, come uno che sa
mettere della cortesia anche a farsi dimenticare. - Né ella
avrebbe saputo dire se pensasse ancora a lui; ma provava delle
aspirazioni indefinite, che nella solitudine le tenevano compagnia,
l'avviluppavano mollemente e tenacemente in quell'inerzia pericolosa,
e parlavano per lei nel silenzio solenne che la circondava, e
l'uggiva. Ella sfogavasi a scrivere delle lunghe lettere alla sua
amica, vantandole le delizie ignorate della campagna, la squilla
dell'avemaria fra le valli, il sorger del sole sui monti; facendole
il conto delle ova che raccoglieva la castalda, e del vino che si
sarebbe imbottigliato quell'anno. - Parlami un po' più dei tuoi
libri e delle tue corse a cavallo, - rispondeva la Erminia. - Di' a
tuo marito che non ti lasci andare al pollaio, o che ci venga anche
lui -. E un bel giorno, dopo un certo
silenzio, si mise in viaggio, un po' inquieta, e andò a
trovare la sua Maria. - T'ho fatto paura? - le disse costei.
- M'hai creduto un'anima desolata in via di annientarsi? - No. T'ho creduto una che si annoia.
Qui e una vera Tebaide: non c'è che da darsi a Dio o al
diavolo. Vieni con me, a Villa d'Este. Voi mi permettete che ve la rubi, non è
vero, Rinaldi? - Ma io desidero che ella si diverta e
sia allegra -. A Villa d'Este c'era davvero da stare
allegri: musica, balli, regate, corse sui vaporini, escursioni nei
dintorni, un mondo di gente, bellissime toelette, e Polidori, il
quale era l'anima di tutti i divertimenti. La signora Rinaldi non sapeva che ci
fosse anche lui; e Polidori, se avesse potuto prevedere la sua
venuta, le avrebbe reso il servigio di non farsi trovare a Villa
d'Este. Ma oramai aveva accettato certo incarico nell'organizzare le
regate, e non poteva muoversi senza dar nell'occhio prima che le
regate avessero avuto luogo. Egli fece capire tutto ciò alla
signora Rinaldi, brevemente e delicatamente, la prima volta che si
incontrarono nel salone, facendole in certo modo delle scuse velate,
e scivolando sul passato con disinvoltura. Maria, superato quel primo
istante di turbamento, si era sentita rinfrancare non solo, ma, per
una strana reazione, il contegno riservato di lui le metteva in corpo
degli accessi matti d'ironia. Egli diceva che sarebbe partito subito
dopo le regate, perché aveva promesso di trovarsi con alcuni
amici in Piemonte, per una gran caccia, e veramente gli rincresceva
lasciare tante belle signore a Villa d'Este. - Davvero? - domandò la signora
Rinaldi con un certo risolino. - Chi le piace dippiù? - Ma... tutte, - rispose
tranquillamente Polidori, - la sua amica Erminia per esempio -. Proprio! Ella non ci aveva mai pensato:
la sua amica Erminia doveva far girare la testa ai signori uomini a
preferenza di ogni altra, col suo visino piccante, e il suo spirito
di diavolessa; così noncurante degli omaggi a cui era avvezza
naturalmente - e marchesa per sopramercato - di quelle marchese che
portano la loro corona sì fieramente, che ogni mortale sarebbe
lietissimo di farsi accoppare per coglierle un fiore. Colla sua Erminia erano sempre insieme,
sul lago, sul monte, nel salone, sotto gli alberi. Adesso ella la
osservava come se la vedesse per la prima volta; la studiava, la
imitava e qualche volta anche le invidiava dei nonnulla. Senza
volerlo, aveva scoperto che la sua Erminia, con tutte le sue arie da
regina, era un tantino civetta, di quella civetteria che non impegna
a nulla, ma contro la quale nondimeno tutti gli uomini vanno a
rompersi il naso. Era un affar serio! Non si poteva fare un passo
senza trovarsi fra i piedi Polidori, il bel Polidori, corteggiato
come un re da tutte quelle signore, il quale senza aver l'aria di
avvedersene comprometteva orribilmente l'Erminia - il peggio era che
non se ne avvedeva neppur lei, e che tutti non accettavano ad occhi
chiusi le risate che ella ne faceva. La signora Rinaldi pensava che
se non fosse stato un tasto tanto delicato, ella l'avrebbe fatto
suonare all'orecchio della sua amica, e le avrebbe fatto osservare
che suono falso rendeva. Perciò si sforzava di non farle
scorgere nemmeno la pena che tutto quell'armeggìo le arrecava,
pel bene che voleva ad Erminia, ben inteso - di Polidori poco le
importava - era un uomo e faceva il suo mestiere, oramai!... eppoi
era di quelli che sanno consolarsi. Ma Erminia aveva tutto da perdere a
quel giuoco, con un marito come il suo, che le voleva bene, ed era
proprio un marito ideale. Che talismano possedeva dunque quel
Polidori per ecclissare un uomo come il marchese Gandolfi nel cuore
di una donna bella, intelligente e corteggiata come l'Erminia? Certe
cose non si sanno spiegare. Per nulla al mondo avrebbe voluto che
anima viva si fosse accorta di quel che succedeva, e avrebbe voluto
chiudere gli occhi a tutti gli altri come li chiudeva lei; ma
francamente, c'era da perdere la pazienza. - Mia cara, io non mi raccapezzo più,
- le diceva Erminia ridendo, tranquilla, come se non si trattasse di
lei. - Cosi hai? Alle volte mi sembra che io debba averti fatto
qualcosa di grosso a mia insaputa! - Oibò! quella povera
Erminia come si ingannava!... non le aveva fatto altro che la pena di
vederla impaniarsi spensieratamente in quei pasticcio; anzi di
lasciarvisi impaniare, perché quel Polidori sembrava
impastarlo e rimpastarlo a suo grado con un'abilità diabolica.
Doveva averne fatte molte di grosse quell'uomo, per aver acquistato
quella maestria; era proprio un pessimo soggetto! - Cara Maria! - le disse Erminia un bel
giorno, e con un bel bacione. - Mi sembra che quel Polidori ti trotti
un po' più del dovere per la testa. Guardati! è un
individuo pericoloso, per una bambina come te! - Io? - rispose ella stupefatta. -
Io?... - e non sapeva trovare altre parole sotto quegli occhioni
acuti di Erminia. - Tanto meglio! tanto meglio! M'hai
fatto una gran paura! tanto meglio! - Per una bambina, - pensava Maria, -
non mi usa molti riguardi, la mia Erminia! Certe cose cavano gli
occhi! - La signora Rinaldi era spietata per i corteggiatori
eleganti, per gli innamorati ad ora fissa, nella passeggiata del
parco o nelle serate di musica, pei conquistatori in guanti di
Svezia. Una volta che Polidori si permise di fare qualche
osservazione rispettosa in propria difesa, ella gli lanciò in
faccia uno scoppio di risa squillanti. - Oh! oh! - Egli parve impallidire,
colui, alfine! Siccome le altre signore gli ronzavano sempre attorno
come api a Polidori - la colpa era di quelle signore che lo
guastavano - ella soggiunse: - Non vi fate scorgere, ne sarei
desolata. - Per chi? - Per voi, per me... e per gli altri -
per tutto il mondo -. Questa volta ei non si lasciò
sconcertare dal sarcasmo, e rispose con calma: - Non mi preme che di voi -. Ella avrebbe voluto colpirlo in viso
con un altro getto di quella ilarità spietata e mordente, ma
il riso le morì sulle labbra, dinanzi all'espressione che
quelle due parole davano a tutta la fisonomia di lui. - Potete insultarmi, - rispose egli, -
ma non avete il diritto di dubitare del sentimento che avete messo
nel mio cuore -. Maria chinò il capo, vinta. - Non ho rispettato ciecamente la
vostra volontà, quale sia stata? Vi ho chiesto una spiegazione? Non ho
prevenuto il vostro desiderio? e non son riescito a far le viste di
aver dimenticato quello che nessun uomo al mondo potrebbe
dimenticare... da voi?... E se ho sofferto, per questo, c'è
alcuno al mondo che mi abbia visto soffrire? - Egli parlava con voce
calma, con l'atteggiamento tranquillo che davano a quelle parole
pacate un'eloquenza irresistibile. - Voi!... - balbettò Maria. - Io! - ribatte Polidori, - che vi amo
ancora, e che non ve lo avrei detto giammai -. Ella che si era fermata per strappare
le foglie degli arbusti, fece due o tre passi per allontanarsi da
lui, povera bambina! Polidori non ne fece uno solo per
seguirla. La signora Rinaldi era divenuta a un
tratto malinconica e fantastica. Stava delle lunghe ore col libro
aperto alla medesima pagina, colle dita vaganti sulla tastiera del
pianoforte, col ricamo abbandonato sui ginocchi, a contemplare
l'acqua, i monti e le stelle. Lo specchio del lago riverberava tutte
le sfumature dei suoi pensieri più indefiniti, e provava una
squisita voluttà a sentirseli ripercuotere dentro di sé,
intenta, assorta. Perciò sfuggiva alle allegre brigate e
preferiva errare in barchetta sul lago, sola, quando i monti vi
stendevano larghe ombre verdi, o quando i remi luccicavano fra le
tenebre, come spade d'acciaio, o quando il tramonto vi spirava
tristamente con vaghe strisce amaranti; frapponeva la tenda fra sé
e i barcaiuoli, e coricata sui cuscini godeva a sentirsi cullata
sull'abisso, ad immergervisi quasi, tuffando la mano nell'acqua,
sentendosene guadagnare tutta la persona con un brivido misterioso;
le piaceva sprofondare il suo sguardo nel buio interminato, al di là
delle stelle, e a fantasticare su quel che doveva rischiarare qualche
lumicino lontano che tremolava fra il buio, nella china dei monti.
Cercava i viali erbosi, i misteriosi silenzi del boschetto, o lo
spettacolo del lago in quelle ore in cui il sole vi splendeva come su
di uno specchio, o tutte le finestre dell'albergo stavano ancora
chiuse, e la rugiada luccicava sull'erba del prato, e le ombre erano
folte sotto gli alberi giganteschi, e lo scricchiolare della sabbia
sotto i suoi passi le sussurrava all'orecchio misteriose
fantasticherie; spesso andava a leggere o a passeggiare sulla sponda
del laghetto, nei viali remoti dei 'Campi Elisi', quando la luna si
posava dolcemente sul lago e le accarezzava le mani bianche, o quando
le finestre del salone stampavano nel buio del viale larghi quadrati
di luce fredda, e la musica del salone faceva vagare arcane fantasie
sotto le grandi ombre silenziose ed addormentate. Al di là di
quelle ombre misteriose, dietro quei vetri scintillanti, il movimento
della festa ammorzato, velato, acquistava una fusione di colori, di
linee e di suoni, che lo rendeva affascinante, qualcosa fra il
baccanale e la danza degli spiriti alati; allora respirando la
vertigine, rimaneva lì, colla fronte sui vetri, con un
formicolìo leggero alla radice dei capelli. Una sera, tutt'a un tratto, la si vide
comparire in mezzo al ballo come una visione affascinante, più
pallida e più bella che mai, e con qualcosa che nessuno le
aveva mai visto sulla bocca e negli occhi. La folla si apriva
commossa dinanzi a lei; Erminia andò ad abbracciarla; uno
sciame di eleganti giovinotti le fece ressa attorno per strapparle la
promessa di un giro di valzer o di una contradanza; ella si fermò
un istante con quel medesimo sorriso sulle labbra, e quegli occhi
splendenti come le lucciole del viale, cercando intorno, e come
scorse Polidori gli buttò il fazzoletto. - Dio salvi la regina! - esclamò
Polidori piegando un ginocchio. - Ti rubo il tuo ballerino, sai, -
disse Maria tutta festante alla sua Erminia. - Ho una voglia matta di
fare un bel giro di 'valzer' anche io -. Polidori era uno di quei ballerini che
le signore si disputano coi sorrisi e a colpi di ventaglio sulle dita
- quando il sorriso ha fatto troppo effetto. Possedeva la forza e la
grazia, lo slancio e la mollezza; nessuno sapeva rapirvi come lui
verso le sfere spumanti d'ebbrezza color di rosa con un colpo di
garetto, adagiandovi sul braccio destro come su di un cuscino di
velluto. Dicevano che egli solo possedesse
quell'intelligenza squisita dello Strauss, che vi fa perdere il fiato
e la testa, e sapeva mettere nel braccio, nei muscoli, in tutta la
persona, la foga, l'abbandono, l'estasi. - Non voglio che balliate
più! - Non voglio che balliate con altre - gli disse Maria
fermandosi anelante, colle guance rosse, cogli occhi un po' velati -
e fu tutto per quella sera. Ah! come era trionfante, e come il
cuore le ballava dentro il petto, mentre quel cavaliere invidiato
l'accompagnava fra la folla ammiratrice! e mentre si ravvolgeva
stretta nella sciarpetta nera in mezzo al viale, dove i rumori della
festa si dileguavano, e le fantasticherie sorgevano, vaghe, senza
forma, ma assetate ancora! Pareva di essere in preda a un sogno
delizioso, quando al 'valzer' successe un notturno di Mendelson, un
notturno che le passava anche esso fra i capelli e sulla fronte, e
fra le spalle, come una mano di velluto fresca e odorosa. A un tratto
una figura nera si frappose dinanzi alla luce delle finestre che
cadeva sul viale; il suo sogno le sorgeva improvviso dinanzi come
un'ombra. Ella si alzò di soprassalto, sbigottita, in tumulto,
balbettando qualche parola sconnessa che voleva dir no! no! no! e
andò a ricovrarsi nel salone, rifugiandosi in mezzo al rumore
e alla luce - la luce che le faceva socchiudere gli occhi
abbarbagliati, e il rumore che la stordiva gradevolmente, la lasciava
intontita e sorridente, un po' rigida e pensosa. Erminia
l'accarezzava quasi fosse un ninnolo leggiadro; quelle signore
dicevano ad una voce che era proprio carina, così accerchiata
dai più eleganti cacciatori di avventure, colle spalle al
muro, come una cerbiatta addossata alla roccia: si sarebbe detto che
le tremolasse negli occhi la lagrima della sconfitta. Polidori fu degli ultimi ad assalirla,
da cacciatore che la sorte aveva destinato pel colpo di grazia; e
sembrava mosso a pietà della vittima, giacché
parlandole con un viso serissimo della pioggia e del bel tempo, si
limitava a farle il suo briciolo di corte, domandandole con grande
interesse di cose indifferentissime: se avesse fatto la sua gita in
barca, se il giorno dopo sarebbe andata alla sua solita passeggiata
mattutina verso i 'Campi Elisi'. - Ella lo guardò negli occhi
senza mai rispondere. Ei non insistette altro. Erminia si era messa al piano, e tutti
stavano intenti ad ascoltarla; Maria non aveva occhi che per lei,
anche quando li fissava vagamente nelle fantasie dell'ignoto, perché
era lei che le evocava quelle fantasie e l'affascinava con esse: la
sala intera splendida e calda fremeva di armonia. Erano di quei
fatali momenti in cui il cuore si dilata con violenza dentro il petto
e soverchia la ragione. Maria rabbrividiva dalla testa ai
piedi, accasciata nella poltrona, colla fronte nella mano, e Polidori
le sussurrava sul capo parole ardenti che le facevano fremere come
cosa animata i ricci dei capelli sulla nuca bianca. La poveretta non
vedeva più nulla, né la sala splendente, né la
folla commossa, né gli occhi lucenti e penetranti di Erminia,
e si abbandonò a quel che credeva il suo destino, senza forza,
coll'occhio vitreo, come una morente. - Sì! sì! - mormorò
con un soffio. Polidori si allontanò pian
piano, per lasciarla rimettere, e andò a fumare la sua
sigaretta nella sala del bigliardo. La brezza del lago fece vacillare tutta
notte le fiammelle dei candelabri posti sul caminetto di lei, che si
guardava nello specchio per delle ore intere, senza vedersi, con
occhi fissi, arsi dalla febbre. Il signor Polidori passeggiava da un
pezzo pel viale deserto in un'ora mattutina che gli ricordava un
convegno di caccia; non si accorgeva del paesaggio incantevole per
altra cosa che per sprofondarvi delle lunghe occhiate impazienti. Di
tratto in tratto si fermava in ascolto, e rizzava il capo proprio
come un levriere. Finalmente si udì un passo
leggiero e timido di selvaggina elegante. Maria giungeva, e appena
scorse Polidori, sebbene sapesse di trovarlo là, si arrestò
all'improvviso, sgomenta, immobile come una statua. Il suo fine
profilo arabo sembrava tagliare il velo fitto. Polidori, a capo
scoperto, si inchinò profondamente, senza osare di toccarle la
mano, né di rivolgerle una sola parola. Ella, anelante, turbata, sentiva per
istinto quanto fosse imbarazzante il silenzio: - L'emozione la soffocava. Così dicendo seguitò ad
inoltrarsi pel viale che saliva serpeggiando per la china del monte,
ed ei le andava accanto, senza parlare, soggiogati entrambi da una
forte commozione. Così giunsero ad una specie di monumento
funerario. Maria si fermò ad un tratto appoggiando le spalle
alla roccia e col viso fra le mani. Infine scoppiò in lagrime.
Allora ei le prese le mani, e vi appoggiò lievemente le
labbra, come uno schiavo. Allorché sentì finalmente che
il tremito di quelle povere manine andava calmandosi, le disse piano,
ma con un'intonazione ineffabile di tenerezza: - Dunque vi faccio paura? - Voi non mi disprezzate ora? - disse
Maria. - Non è vero? - Egli giunse le mani, in un'espressione
ardente di passione ed esclamò: - Io? Disprezzarvi io? - Maria sollevò
il viso disfatto e lo fissò con occhi sbarrati, e colle
lagrime ancora sul viso mormorava confusamente parole insensate: - Oh! - esclamò Polidori con
impeto. - Perché mi dite questo? a me che vi amo? che vi amo
tanto! - Quelle parole vibravano come cosa viva dentro di lei; un
istante ella se le premé forte colle mani dentro il petto,
chiudendo gli occhi; ma immediatamente le avvamparono in viso, come
avessero compito in un lampo tutta la circolazione del suo sangue, e
le avessero arso tutte le vene. - No! no! - ripeteva; - ho fatto
male, ho fatto assai male! sono stata una stordita. Credetemi,
signore! Non sono colpevole; sono stata una stordita; sono davveto
una bimba, lo dicono tutti, lo dicono anche le mie amiche -. La
poverina cercava di sorridere, guardando di qua e di là
stralunata. - Ho bisogno che non mi disprezziate! - Maria! - esclamò Polidori. Ella trasalì, e si tirò
indietro bruscamente, spaventata dall'udire il suo nome. Polidori
chino dinanzi a lei, umile, tenero, innamorato, le diceva: - Come siete bella! e come è
bella la vita che ha di questi momenti! - Maria si passava le mani
sugli occhi e pei capelli, confusa, smarrita, e si accasciava su di
sé stessa, e ripeteva quasi macchinalmente: Non avrei mai creduto che potesse
essere così! Davvero! non credevo! - E sorrideva per farsi
coraggio, senza osare di guardar lui, abbandonata contro il sasso che
le faceva da spalliera, tirandosi i guanti sulle braccia, ancora
leggermente convulse, e seguitava a chiacchierare a modo del
fanciullo che canta di notte per le strade onde farsi coraggio. -
Sono stata disgraziata! sì, confesso che sono un cervellino
strano! Ho delle pazze tendenze per quel mondo che forse non è
altro se non un sogno, un sogno di gente inferma, sia pure! alle
volte mi pare di soffocare fra tanta ragione in cui viviamo; sento il
bisogno d'aria, di andarla a respirare in alto, dove è più
pura ed azzurra. Non è mia colpa se non mi persuado di esser
matta, se non mi rassegno alla vita com'è, se non capisco gli
interessi che preoccupano gli altri. No! non ci ho colpa. Ho fatto il possibile.
Sono in ritardo di parecchi secoli. Avrei dovuto venire al mondo al
tempo dei cavalieri erranti -. Il suo leggiadro sorriso aveva una
melanconica dolcezza e si abbandonava senz'accorgersene all'incanto
che contribuiva a crearsi ella stessa. - Beato voi che potete vivere a modo
vostro! - Io vorrei vivere ai vostri piedi. - Tutta la vita? - domandò ella
ridendo. - Tutta la vita. - Badate che vi stanchereste, - gli
rispose gaiamente. - Voi dovrete stancarvi spesso! - ripeté
Maria con uno sguardo che cercava di rendere ardito e sicuro. Polidori la trovava deliziosa nel suo
imbarazzo - soltanto quell'imbarazzo si prolungava troppo. Prima di venire a quell'appuntamento,
nell'istante supremo di passar l'uscio, Maria aveva provato tutte le
pungenti emozioni che danno la curiosità dell'ignoto,
l'attrattiva del male, il fascino dello sgomento che le serpeggiava
nelle vene con brividi arcani e irresistibili; con una confusione
tale di sentimenti e di idee, di impulsi e di terrore, che l'avevano
spinta a precipitarsi nell'ignoto suo malgrado, in una specie di
sonnambulismo, senza sapere precisamente cosa andasse a fare. Se
Polidori le avesse steso le braccia al primo vederla, probabilmente
ella si sarebbe spaccata la testa contro la rupe alla quale adesso
appoggiavasi mollemente, con abbandono. Ora, incoraggiata dal vedersi
ai piedi quell'uomo contrastato e invidiato, sentiva una deliziosa
sensazione al contatto di quel muschio vellutato che le accarezzava
le spalle; come le parole che egli le diceva tenere e ferventi le
accarezzavano dolcemente l'orecchio e se ne sentiva invadere
mollemente, come da un delizioso languore. Egli era così
gentile, così rispettoso e così buono! non osava
toccarle la punta delle dita, e si contentava di sfiorarla dolcemente
col soffio ardente di quella passione che lo teneva prostrato dinanzi
a lei quasi dinanzi a un idolo. Tutto ciò era senza ombra di
male, e carino, carino. A poco a poco Polidori le aveva preso la
mano, ed ella senza accorgersene gliela aveva abbandonata. Anche lui
era sinceramente e fortemente commosso in quel momento, e cercava gli
occhi di lei con occhi assetati ed ebbri. Ella senza vederli ne
sentiva la fiamma, non osava levare i suoi, e il riso le moriva sulle
labbra; non aveva la forza di ritirare le mani ad ogni nuovo
tentativo che faceva, quasi il suono di quelle parole le
addormentasse vagamente in un sonno dolcissimo l'anima e la
coscienza, la facesse entrare in un'estasi angosciosa; Polidori non
poteva saziarsi di ammirarla in quell'atteggiamento, abbandonata su
di se stessa, colle braccia inerti, la fronte china e il petto
anelante, e infine esclamò con uno slancio di passione,
stendendo le braccia convulse: - Come siete bella, Maria, e come vi
amo! - Ella si rizzò di botto, seria e rigida, quasi sentisse
dirselo per la prima volta. - Voi lo sapete che vi amo tanto! da
tanto tempo! - ripeteva lui. Ella non rispondeva; curvando
all'indietro tutta la persona, e a testa bassa, in atteggiamento
sospettoso, colle sopracciglia aggrottate, agitando macchinalmente le
mani, come se cercasse farsene schermo contro qualche cosa, colle
labbra pallide e serrate. Ad un tratto, levando gli occhi sul viso
sconvolto di lui, incontrando quegli occhi, mise un strido soffocato,
e si arretrò sino all'ingresso di quella specie di monumento
sepolcrale, bianca di terrore, difendendosi colle braccia stese da
quella passione che l'atterriva ora che vedeva cosa fosse,
guardandola in faccia per la prima volta, balbettando: - Signore!... signore!... - Egli
ripeteva fuori di sé, supplichevole, in un'implorazione
affascinante di delirio e d'amore: - Maria! Maria!... - No! - ripeteva costei smarrita, -
no!... Polidori si arrestò di botto, e
si passò due o tre volte la mano sulla fronte e sugli occhi
con un gesto disperato. Indi le disse con voce rauca: - Voi non mi avete mai amato, Maria! - No! no! lasciatemi andare! - ripeteva
ella, quando Polidori si era già allontanato. - Signore!...
signore!... Polidori subiva suo malgrado la forte
commozione di quell'istante, ed era tutto tremante anche esso come
quella povera ingenua. - Sentite, abbiamo fatto male! -
ripeteva ella con voce convulsa. - Abbiamo fatto male... - e si sentiva
venir meno. In quel punto, all'improvviso, si udì
rumore fra le piante e lo scalpiccìo di chi sopraveniva si
arrestò poco lontano, come esitante. - Maria! - esclamò una voce
talmente alterata che nessuno di loro due la riconobbe: - Che vuoi? - le chiese soltanto, con
voce sorda dopo alcuni istanti di un silenzio che sembrò
eterno. - Oh! Maria!... - rispose Erminia,
buttandole le braccia al collo. E fu tutto. Ritornarono indietro l'una
al fianco dell'altra, senza aprire bocca e a capo chino. Come furono
in vista dell'albergo, sentirono tutte e due a un tempo di dover
assumere un contegno. - Lucia mi aveva detto che eri scesa in
giardino, - disse Erminia, - e ciò mi ha fatto venire il
desiderio di fare una passeggiata mattutina anche io, col pretesto di
venire in traccia di te. - Grazie - rispose Maria semplicemente. - Però comincia ad esser troppo
tardi per passeggiare. Il sole è già caldo -. Maria infatti aveva preso un colpo di
sole che l'aveva abbacinata e stordita. Era rimasta come scossa e
turbata in tutto il suo essere. Alle volte macchinalmente si
stringeva le mani, come per riconoscersi, o per cercarvi qualche
cosa, un'impronta del passato, e chiudeva gli occhi. Quando
incontrava degli sguardi curiosi, e tutti le sembravano curiosi,
oppure quelli della sua amica, avvampava in viso. Stava
rincantucciata nel suo appartamento il più che poteva, e
quindi molti credevano che fosse partita. La sola vista di Erminia le
faceva corrugare la fronte, e dava un non so che di fosco a tutta la
sua fisionomia. Però era abbastanza donna di mondo per sapere
dissimulare sino a un certo punto i suoi sentimenti, quali essi
fossero. Erminia, che non ne era illusa, provava un vero rammarico. - Io son sempre la tua Erminia, sai! -
le diceva ogni volta che poteva, scuotendole amorevolmente le mani. -
Io son sempre la tua Erminia, quella di prima! quella di sempre! -
Maria sorrideva a fior di labbra, gentile e distratta. - Hai torto, vedi! - ripeteva Erminia.
- Ti inganni!... t'inganni, se credi che io non ti voglia più
il bene di prima! - Ella aveva infatti delle sollecitudini materne
per la sua Maria, delle sollecitudini che sovente indispettivano
costei, come se prendessero l'aspetto di una sorveglianza amorevole e
discreta. Un giorno Erminia la sorprese mentre stava incominciando
una lettera; e le domandò semplicemente se suo marito le
avesse scritto; la domanda veniva così male a proposito, che
Maria fu quasi per arrossire, come se fosse stata nel punto di dover
rispondere una bugia. - No! mio marito non mi guasta tanto. È
troppo occupato. - Sì, è troppo occupato!
- affermò Erminia senza rilevare l'ironia della risposta, - è
seriamente occupato. Affoga negli affari, poveretto! - Che dici mai? se sono la sua
passione, l'unica sua passione! - Lo credi? - domandò Erminia,
fissandole in faccia quei suoi occhioni acuti. - Ma sì! - rispose Maria con un
risolino che le contraeva gli angoli della bocca, e aggiunse ancora,
come correttivo: - È vero; non ama che te! -
Maria inchinò il capo con un sorrisetto contraffatto; ma non
aggiunse verbo per un pezzo, e poi, amaramente: - Avete ragione, sono anche un'ingrata! - No, non sei ingrata; sei una donnina
viziata, una testolina guasta, che vede falso in molte cose e che non
ci vede in certe altre. Il solo torto di tuo marito è di non
averti aperto gli occhi sul gran bene che ti vuole. - Fortunatamente che ha incaricato te
di dirmelo. - Sì, io che ti voglio bene,
anche io! bene davvero!... Vuoi che partiamo domattina? - Oooh! - Ti rincresce? - No, mi sorprende soltanto la
risoluzione improvvisa, così come si fa nelle commedie, per le
ragazze che hanno abbozzato un romanzetto... - Scusami; ti ho proposto di venire con
me... Ma se vuoi restare... - No, voglio venire anche io. Solamente
bisogna trovare un pretesto plausibile, per non far pensare al
romanzo a tutti i curiosi che ci vedranno ordinare così in
furia le nostre valige. - Il motivo è bello e trovato,
tanto più che è il motivo vero. Io vado ad incontrare
mia suocera che arriva domani da Firenze, e tu naturalmente vieni con
me, per non rimaner sola a Villa d'Este. - Benissimo! E dacché dobbiamo
partire, più presto sarà meglio sarà. Desidero
andare col primo treno -. Partirono infatti di buon mattino. A
lei scoppiava il cuore passando dinanzi a quelle finestre chiuse,
sulle quali l'ombra dei grandi alberi dormiva tuttora, uscendo da
quel viale deserto, ove si era aggirata fantasticando tante volte. Il lago, nella pace di quell'ora, aveva
un incantesimo singolare, e ogni menomo particolare del paesaggio si
animava, sembrava che fosse vissuto con lei, le si stampava
nell'intimo del cuore profondamente. Appena fu nel vagone aprì
il libro che aveva portato apposta, e vi nascose il viso e gli occhi
pieni di lagrime. Erminia seppe non avvedersi di nulla, ed ebbe
l'accortezza di lasciarle assaporare voluttuosamente il dolore del
distacco. Alla stazione trovarono la carrozza di
Erminia, la quale volle accompagnare l'amica sino a casa. - Rinaldi non è a Milano - le
disse rispondendo al movimento di sorpresa che aveva fatto Maria non
trovando nessuno ad aspettarla. - È andato a Roma. - Senza scrivermelo! senza lasciarmi
una parola! - mormorò Maria. - Sì, ha scritto. La lettera
deve averla mio marito -. Ma subito si interruppe, perché
cominciava a spaventarsi dell'agitazione che si andava manifestando
sul viso di Maria. - Infine, - le disse, - tosto o tardi devi
saperlo. Rinaldi è corso a Roma per regolare degli affari...
Sai.. quando si è lontani non vanno sempre come dovrebbero
andare. Tuo marito era inquieto. Colla sua gita accomoderà tutto. - Cosi è stato? - balbettava
Maria, turbata maggiormente da quell'annunzio perché la
sorprendeva in quel momento. - Cosi è avvenuto? - Non ti spaventare; tuo marito sta
bene. È accaduto che uno dei suoi debitori è fallito.
Questione di denaro. - Ah! - disse Maria respirando; e
un'ombra d'ironia le tornò sul viso. Suo marito sembrava che facesse apposta
onde giustificare il sorrisetto amaro di lei. Era così
preoccupato del suo affare che non aveva più testa per
nessun'altra cosa al mondo. Passarono parecchi giorni senza che ei si
facesse vivo altrimenti. Alla fine arrivò un telegramma che
mise in grande costernazione il socio di lui, il quale partì
subito per Roma. - Oh! - esclamò allora Maria con
quell'intonazione pungente che le era divenuta abituale da otto
giorni. - Ma dev'essere proprio un affar serio! Del resto per mio
marito sarà sempre un affar serio. Vuol dire che il mio posto in questa
circostanza, sarebbe vicino a lui. Non me lo dice; ma si capisce che
non me ne ha scritto nulla per delicatezza. E giacché il socio
è andato a raggiungerlo, dovrei partire anche io -. Malgrado la leggerezza che ostentava,
fu sorpresa, e rimase inquieta osservando che Erminia approvava il
suo progetto. Per un istante un'idea nera le si affacciò alla
mente e le scolorò il viso; ma subito dopo tornò a
ridere nervosamente come prima. - Se mio marito non mi avesse ben
avvezzata a lasciarlo fare un po' a suo modo, ci sarebbe davvero di
che spaventarsi. - Spaventarsi di che? di fare un
viaggio sino a Roma? nella bella stagione, e nel paese più
bello?... - Hai ragione; sarà quasi come
andare in villeggiatura. Tanto, Roma o la Brianza è lo stesso.
E tu non torni a Villa d'Este? - No. - Oh!... - Accompagno mia suocera a Firenze. - Che peccato!... parlo di Villa
d'Este, perché ci dev'essere una brillante compagnia in questo
momento. Sei proprio una brava figliuola, dovrebbe dirti tua suocera
-. La sera stessa partì per Roma;
ma era in uno stato febbrile che non sapeva spiegarsi, e la sua
inquietudine aumentava avvicinandosi al termine del suo viaggio che
le parve eterno. Trovò suo marito tanto mutato in
così breve tempo, che al primo vederlo ne fu quasi spaventata.
Rinaldi le strinse le mani con effusione; ma sembrò più
che sorpreso del suo arrivo improvviso. Egli era così sconvolto che non
faceva altro che ripeterle: Anche essa era molto mutata, la povera
Maria! aveva una ruga impercettibile fra le sopracciglia, che solcava
finamente il candore purissimo della sua fronte, e alle volte
stendeva come un'ombra su tutta la sua fisonomia. - Sì: sono stati giorni
terribili, mi par di sentirmeli ancora dentro il petto, come un
gruppo nero, come una fitta dolorosa che mi è quasi cara,
tanto è profonda e radicata. Ormai hanno stampato in me
un'orma così indelebile che non potrei scancellarla senza
farmi male. Che momento, quando sorpresi mio marito colla pistola in
pugno! che momento! E come ebbi la forza di avviticchiarmi a lui per
impedirgli di morire - giacché egli voleva morire, me lo ha
detto dopo. Non aveva il coraggio di dirmi che non poteva più
comperarmi né cavalli, né palco alla Scala, né
gioielli, nulla! e piangeva, come piangono certi uomini che non hanno
pianto mai, con quelle lagrime che vi scavano un solco dentro
all'anima. Quante cose mi son passate in un lampo per la testa in
quel momento in cui sentivo contro il mio quel cuore che batteva
ancora per me, e per me sola! e contro il quale nascondeva il viso
che ardeva!... Tu sei stata assai gentile a venirmi a
trovare ora che sono salita a un quarto piano. Tu sei stata molto
gentile! - Ma tu non lo sei gran fatto, cara
Maria, facendomi di questi ringraziamenti. Vuol dire che non avevi
una bella opinione di me! - No! ma che vuoi? quando si son viste
tutte le cose che ho viste!... e poi la disgrazia ha questo di
peggio, che ci rende ingiusti... Figurati che quando era corsa la
voce che io fossi vedova!... mi ha fatto un certo senso il vedere che
a nessuno fosse venuto in mente che ero rimasta senza appoggio,
laggiù a Roma... nessuno di quelli che dicevano di avere per
me tanta amicizia! Ma non mi lagno, sai! Avevo torto verso di te poi,
ti voglio sempre bene! - Esitò alquanto e infine le buttò
le braccia al collo con impeto. - Perdonami! perdonami! Sono stata
ingiusta contro di te, contro di tutti! Ho avuto ragione tante volte!
- Erminia le ricambiava la stretta, assai commossa anche lei, ma
senza risponder verbo. - Ero folle! - mormorò dopo
un'altra esitazione, col viso contro il petto di Erminia. - Ora non
ci penso più. - Ed io non ci ho mai pensato, - disse
alfine Erminia ridendo al suo solito, ma con grande sincerità
di viso e di accento. Maria rizzò il capo vivamente e
le piantò in faccia due occhioni fiammeggianti: - Mai. - Ma allora... allora non l'ho amato
nemmen io! No! davvero? Mai!
- O
Beatrice, il cor mi dice -.
- A che giuoco giuochiamo? - Egli tornava a confidarsi
colla Màlia, e la pregava:
- 'Secolo!' il 'Secolo!' - come una malinconia
che cresceva. E la Gilda non veniva.
- Ehi ragazzi!... - con quella bella voce
grassa.
-
Non vedete che gli avventori corrono al vino nuovo? Cambiate il vino
-. Ma don Candeloro non si piegava. Piuttosto avrebbe tolto su
baracca e burattini, e sarebbe andato pel mondo a far conoscere chi
era Candeloro Bracone, giacché i suoi concittadini non
sapevano apprezzarlo. La piazza «non faceva più»
per lui! Se c'era ancora un po' di buon senso e di buon gusto
dovevasi andare a cercarlo in provincia, dove non erano ancora
penetrate quelle sudicerie.
-
Prima di scopare le tavole contava dei bei bigliettoni, quello!
- Cose che succedono. Se si
sapesse prima...
- Ah, sei stato a
far l'assolo? Anch'io ci ho trovato qui per il duetto. Prendi! -
L'avvocato perdeva il suo tempo a perorare di qua e di là,
scusando queste e quelli e cercando di metter pace. La napoletana gli
sbatté con lo scarpone sul muso:
- Guardate, Casalengo! C'è un Dio lassù per
queste cose!... - Ma quando lui, col sorriso fatuo che gli segnava
già le prime rughe sottili accanto agli occhi, s'ostinò
a fare la presentazione:
- Il mio amico Aldini... - Essa rispose
semplicemente:
- Gli amici dei nostri amici... - E stese la mano
al nuovo arrivato con tanta cordialità, così lieta di
scorgere nel giovanetto l'omaggio di un grande imbarazzo, che volle
pure ringraziarne Casalengo con un'occhiata rapida: un'occhiata in
cui era il sorriso del diavolo.
- Il tenente Aldini! -
con un'aria di trionfo quasi avesse detto:
- Ecco il Figliuol
Prodigo!
- Ah, mamma mia! -
- Or ora vedremo
se ha udito -.
- Guarda anche
tu! anche tu! - Aveva il viso triste, poveretta! Calava la sera
desolata, con una squilla mesta e lontana dell'avemaria che picchiava
sul cuore.
- Verrò a salutarti un'altra
volta, prima di partire; fatti portare sulla porta -. E si tenevano
per mano, non si risolvevano a staccarsi l'uno dall'altro. Lajn Primo
tornò infatti a salutarla un'altra volta, prima di partire,
come passasse per caso, nell'andare in quartiere. Anna Maria teneva
per mano la figlioletta del portinaio - un pretesto per star lì
sulla porta - e gli fece segno che c'era gente dietro l'uscio. Allora
scambiarono ancora quattro parole per dirsi addio, senza guardarsi,
parlando del più e del meno - lui che gli tremavano i baffi
rossi un'altra volta. - Passerete di qua, per andare alla stazione? -
Sì, sì, di qua! - Ogni momento della gente che andava e
veniva, Ghita nel cortile ad accendere il gas. Lajn Primo accese
anche un sigaro, e se ne andò colle spalle grosse. Anna Maria
lo guardava allontanarsi.
- «Morettina di la
stacioni... mi rincresse di lasciarti!...» - Sull'altra sponda
la campagna calma e silenziosa, coi casolari tranquilli affacciati
nel verde delle colline, e sulla linea scura che traversava il fiume,
luccicante qua e là, l'ondeggiare delle banderuole turchine,
una lunga fila di lancieri polverosi che sfilavano sul ponte.
- «Ecco il treno che già
parti...» - A galoppo, 'Marche'! - Addio, Morettina! Addio!
- Cosa le ho fatto, infine? Almeno me lo
dica! - E come si vedeva che le parole gli venivan dal cuore, essa
non ebbe animo di mandarlo a quel paese.
- Venga, venga con noi! Così, a star sempre chiusa,
piglierà qualche malanno! - Una gran tavolata all'aria aperta,
l'altalena e il giuoco delle bocce -. Cesare, che pensava sempre ad
una cosa, le rispose:
- M'importa assai delle bocce adesso! Mi
lasci stare vicino a lei piuttosto, ché non la mangio mica! -
La sera poi, al ritorno, le diede il braccio; tutta la brigata a
piedi pel bastione, sotto i platani che lasciavano cadere le foglie.
Una bella sera fresca e stellata. Delle ombre a due a due che si
parlavano all'orecchio, sui sedili, voltando le spalle alla strada.
- Se crede che abbia capito quel
che m'ha detto, sa!... - E anche lei fu vinta da una gran dolcezza,
da un grande abbandono. Gli lasciò la mano nella mano e chinò
il capo sul petto.
- Non ci penso più, ti giuro! Non ci
penso più a quell'altro!... - Cesare non voleva crederle!
Anzi, a ogni cosa che ella facesse per provarglielo, ogni bacio, ogni
carezza, ogni parola, era come se quell'altro si mettesse fra loro
due. Allora Anna Maria un sabato sera gli fece segno dalla finestra,
con tutte e due le braccia, col viso illuminato. - Domani! Domani! -
E all'ora solita si vestì in fretta, colle mani tremanti,
tutta radiosa, le calze rosse, le scarpe lucide, la giacchetta
attillata, tale quale come quel giorno ch'era andata l'ultima volta
coll'artigliere, e volle condurlo proprio là, nel sentieruolo
sotto i pioppi. - Perché?
- Non gli ho mai voluto bene!...
- Venga a trovarla, povera Ginevra. Le farà
tanto piacere -.
- Adesso sto bene. Son guarita interamente -.
- Dopo
il carnevale, appena tornerà la primavera. Tornerò a
rifiorire anche io, vedrete! tutti v'invidieranno la vostra bella
amica... Amica, veh! - Aveva ordinato degli abiti da ballo per
quell'inverno. Si faceva bella ancora per me. Diceva «che erano
le sue prove generali». Una sera si fece trovare in abito da
ballo, presso un gran fuoco.
- Quanto saremmo
stati felici... allora... di poterci vedere liberamente, come
adesso!... - In dicembre peggiorò rapidamente. Non si alzò
più dal letto; non parlò più di viaggi. Il
parlare stesso la stancava. La baraonda e l'allegria fragorosa del
Natale napoletano le davano noia.
- Quante! quante! - scegliendo le più belle,
immergendovi le mani...
- Grazie! - Ella non rispose, si fece rossa, e
strinse con forza i ferri della stia a cui appoggiava la fronte.
Cotesta sensazione le faceva bene sulla epidermide della mano senza
guanto. Chi avrebbe potuto immaginare che quella semplice parola,
scambiata di furto, in fondo a quel deserto, dovesse vibrare tanto
deliziosamente! No!
- Ma
perché non avete voluto ricevermi a casa vostra? - Ella gli
piantò gli occhi in viso per la prima volta dacché
erano lì, sorpresa, dolorosamente sorpresa. - Finora in tutto
quello che avevano fatto, in tutto quello che avevano detto, il male
non c'era stato che vagamente, in nube, nella loro intenzione, con
squisita delicatezza che i suoi sensi finissimi assaporavano
deliziosamente, come il leopardo sdraiato ai loro piedi si godeva il
raggio caldo del sole, ammiccando la larga pupilla dorata, con quel
medesimo inconscio e voluttuoso stiramento di membra.
- È questo! è
questo! - Si sentiva tutta piena ed ebbra di cotesta parola, e le sue
labbra smorte agitavansi senza mandare alcun suono, vagamente
assaporando la colpa.
- Sono stanca! -
mormorò con voce rotta.
-
È la prima volta!... ve lo giuro! - Ve lo giuro, signore!...
- Se sapete che
affare grosso è stato l'attraversare il viale, quel viale che
ho fatto tutti i giorni.
- Maria! -
Polidori, ridivenuto l'uomo di prima da un momento all'altro, prese
vivamente Maria per un braccio e la spinse pel viale da dove era
venuta la voce, e in un lampo scomparve fra gli andirivieni del
sepolcreto. Maria arrivando nel viale, si trovò faccia a
faccia con Erminia, pallida anche essa, che cercava a fatica di
dissimulare il suo turbamento, e voleva spiegarle qualche cosa,
dandosi un'aria indifferente. Maria le piantò in viso certi
occhi che avevano una strana espressione.
- Non ho alcun motivo di esser gelosa però.
Mio marito non giuoca, non va al caffè, non è
cacciatore, non ama i cavalli, non legge che il listino della Borsa -
nulla, ti dico!
- Perché sei venuta? Perché
venire?... - - Non avevo mai visto mio marito così! - diceva
Maria ad Erminia alcuni mesi dopo, la prima volta che la rivedeva
dopo che era tornata a Milano. - Non credevo che la fisonomia di
quell'uomo potesse destare tale impressione, né che egli
sapesse dire di quelle parole, né che la sua voce avesse di
quei suoni che vi sconvolgono l'anima da cima a fondo -. Non l'aveva
mai visto così!
- Mai
pensato? mai?