Seconda parte
Quarta parte
Indice
Gioganni Verga - Novelle Rusticane
Parte terza
- Badate! Egli sa tutto! - La signora Ginevra era pallidissima lasciando cadere quelle parole a fior di labbra, rapidamente, mentre fingeva di rispondere con un sorriso al profondo inchino di Alvise Casalengo, allungandogli, nel passare, una stretta di mano breve e confidenziale. Egli, inquieto, cercò cogli occhi il marito di lei nell'altra sala.
Ma non poté chiederle altro. La folla li separò tosto. Ella, sorridente sempre, scollacciata sino al dorso, scintillante di gioie, aggiravasi fra i tavolinetti preparati per la cena, chinandosi a odorare i fiori, ad ammirare tutte quelle graziose ventoline colorate; rispondeva gaiamente ai saluti, agli auguri, alle strette di mano. In fondo alla sala, nel gran specchio inclinato sul caminetto, si mirò un istante ad assicurare la stella di brillanti che le tremolava fra i capelli, pallidissima, quasi la sfumatura livida che le accerchiava i begli occhi si fosse allargata a un tratto per tutto il viso delicato.
- Sola? - esclamò la contessa Maio. - Libera e sola? Che miracolo!
- Sì - rispose Ginevra collo stesso tono allegro. - Una volta ogni fin d'anno almeno!... Ho lasciato Silverio in anticamera... coll'ammiraglio... Sono fuggita... - Le parole e le labbra ridevano. Ma gli sguardi erravano inquieti, come cercando ancor essi. Alvise, sempre vicino all'uscio, stava a discorrere col suo amico Gustavo, tranquillamente, lisciandosi i baffi tratto tratto per dissimulare una ruga sottile che gli si contraeva di tanto in tanto all'angolo della bocca, e l'ansietà acuta che balenava suo malgrado negli occhi, i quali volgevansi spesso verso il salotto d'ingresso. Dietro a un vecchietto calvo, dinanzi a cui tutti si inchinavano, entrò il marito della bella Ginevra, col fiore all'occhiello, salutando gli amici, baciando la mano alle signore, solamente un po' duro e un po' rigido nel vestito nero, con un lieve aggrottar di sopracciglia appena incontrò lo sguardo fermo e rispettoso di Casalengo, il quale lo aspettava sull'uscio, piantandosi militarmente.
- Ah, lei, tenente?... Ha terminato quel rapporto? - Casalengo stava per rispondere, quando la signora Gemma, ad una parola dettale rapidamente sottovoce dalla sua amica Ginevra, la quale aveva seguìto ansiosa quell'incontro, con occhi che luccicavano intensi, quasi tutti i suoi lineamenti si alterassero all'improvviso, mentre passava macchinalmente il fazzolettino sulle labbra, attraversò la sala rapidamente, per andare a impadronirsi del Comandante. Poscia tornando trionfante al braccio di lui, le chiese:
- Ha caldo?
- No... Sì, veramente... Un po'...
- Sei pallida. Fa troppo caldo qui, cara Ginevra.
- No, no... Non importa... - La buona
Gemma, intanto, aveva sequestrato il Comandante nel vano di una
finestra, tenendolo a bada con delle chiacchiere, interrompendosi con
delle risate argentine che squillavano in mezzo al brusìo
della sala, facendo di tutto per sedurre quell'orso, saettando di
tempo in tempo alla Ginevra un'occhiata lucente che voleva dire:
-
Che diavolo è successo? - Indi prese il braccio
dell'Ammiraglio e lo condusse verso il canapè, stordendo anche
lui col suo cicaleccio allegro, continuando a guardar come distratta,
come a caso, la sua amica e il marito di lei che era preso adesso nel
circolo della contessa, voltandosi più guardinga verso il
salotto dov'era andato a cacciarsi Casalengo insieme al suo camerata
Gustavo. Infine Gemma abbandonò l'Ammiraglio alle altre
signore, e passò nel salotto anche lei. Ginevra li vide che
discorrevano animatamente con Casalengo. Egli coll'aria grave,
rispondendo a monosillabi, Gemma diventata seria, con un interesse
che tradivasi dai minimi gesti, per quanto fosse abituata a
padroneggiarsi in pubblico. Gustavo si era dileguato al par di
un'ombra.
Una domanda a lei rivolta la fece trasalire in quel punto:
Serravalle che le chiedeva un valzer e
insisteva per averne la promessa:
- Le fo paura? Non vuol vedermi
neppure? È ancora in collera, dopo tanto tempo? - Essa lo
guardò un istante come trasognata, battendo le palpebre, col
bel sorriso pallido che stentava a rifiorire sui lineamenti disfatti:
- Ah, lei?... No! Mai più... Del resto non si ballerà...
- Sì, sì, dopo cena, me l'ha detto la contessa... per cominciare l'anno nuovo... Cominci l'anno con una buona azione, lei!... Non ce n'è un'altra che balli il valzer come lei!... Dica di sì! dica di sì!... un giro solo!... l'ultimo...
- Mai più! mai più!... Sarebbe il primo dell'anno nuovo, se mai...
Non voglio passare tutto l'anno a svenirmi nelle sue braccia...
Sul serio, lei gira troppo in furia... Mi fa girare il capo... Si rammenta?
- Ah! per l'amor di Dio... Non me lo rammenti, piuttosto! Non me lo faccia perdere il capo, lei!... Ha detto di sì!... Consegno qui la sua promessa!... - Ella rideva tutta quanta, come una bambina, a scatti, con una fossetta sulla gota, con certi movimenti che facevano sbocciare gli omeri delicati dalla scollatura del vestito. Altri giovanotti le fecero ressa intorno, mentre Serravalle se ne scappava segnando nel taccuino il valzer che le aveva quasi strappato a forza.
Ciascuno la supplicava d'accordargli un posto al suo tavolinetto, nel va e vieni degli invitati che sedevano a cena a piccoli gruppi di tre o quattro, con delle esclamazioni giulive, degli scrosci di risa, dei nomi barattati da un tavolino all'altro, un fruscìo di seta, un luccicare di gemme, delle spalle nude che si chinavano con movimenti graziosi. Ella tenendo testa a tutti quanti, schermendosi col ventaglio, ribattendo i frizzi e le galanterie, spiava sottecchi ogni atto, ogni gesto di suo marito e di Casalengo, il quale stava cercando il suo posto anche lui. I loro sguardi si evitarono d'accordo, non appena si incontrarono, per caso. Il Comandante, dando il braccio alla contessa, le parlava nel viso, allegro e disinvolto anche lui. La signora Ginevra, ritta dinanzi al posto dove aveva letto il suo nome sul cartoncino litografato, cavava adagio adagio le mani scintillanti di anelli dall'apertura del guanto che le saliva sino al gomito, avvolgendoli mezzi intorno al polso... Gemma, che aveva potuto raggiungerla finalmente senza dar nell'occhio, le chiese sottovoce, brevemente:
- Cosi è stato?
- Nulla... Ti dirò poi... - Ella così dicendo si era chinata a leggere i nomi dei suoi compagni di tavola. Ma scorgendo quello di Alvise di faccia a lei, un'attenzione delicata della contessa, che studiavasi di mettere insieme bene i suoi invitati, non seppe reprimere un moto come di sgomento.
- No, no... per carità... -
Gemma colse a volo il significato di quelle poche sillabe:
-
Casalengo, faccia il piacere... venga qui, con me... Mi liberi da
Sansiro, che è una vera persecuzione... - Sansiro, il quale
dovette prendere il posto di Alvise Casalengo, di faccia alla signora
Ginevra, fece un inchino troppo profondo, che gli valse un'occhiata
fulminante di lei. Però in mezzo all'allegria generale lui
solo rimaneva straordinariamente grave e taciturno, senza la più
piccola freddura, senza permettersi con la bella Ginevra una sola
delle spiritosaggini che facevano scappare le signore, quasi avesse
voluto protestare col suo contegno contro l'accusa della signora
Gemma. Affettava di volgere le spalle a Casalengo; chinava gli occhi
sul piatto se la signora Ginevra volgeva i suoi verso il tavolinetto
vicino. Mostravasi servizievole e premuroso; ma discretamente, con un
certo sussiego, parlando poco e di cose serie. Bruni, che era il
terzo, faceva lui per tutti e tre.
Nondimeno la festa languiva in quell'angolo della sala, malgrado gli sforzi di Casalengo che stuzzicava e tormentava peggio di Sansiro la signora Gemma. La povera Ginevra si era fatta seria, quasi sentisse pesare di tanto in tanto sulla sua graziosa testolina gli sguardi acuti del marito, il quale dal canto suo battevasi i fianchi per tener desta l'allegria nel crocchio della contessa. Gli uomini fingevano di essere occupatissimi nel fare onore alla cena, le signore sfioravano appena un'ala di fagiano o accostavano il bicchiere alle labbra. Sembrava che un'invincibile musoneria si propagasse da quel cantuccio per tutta la sala, senza che una parola fosse stata detta, senza che un'indiscrezione fosse sfuggita, senza che un gesto avesse tradito il segreto, quasi l'istinto di tutti quei complici mondani li avesse avvertiti insieme del dramma che celavasi sotto il sorriso. Il Comandante, vuotando l'uno dopo l'altro dei gran bicchieri d'acqua, animava però da solo il circolo della padrona di casa, la quale coll'occhio vigile intorno, col sorriso amabile per tutti quanti, guardava di tratto in tratto l'orologio posto di faccia a lei sul caminetto. A un dato momento, quand'essa toccò il bicchiere del Comandante con un dito di 'champagne' spumante in fondo al suo, gli invitati si alzarono frettolosi. Degli auguri, dei baci, degli accenni, dei saluti si incrociarono da un punto all'altro, da un tavolino all'altro. Un muovere di seggiole, uno scomporsi di gruppi, una cordialità generale e un po' chiassosa che voleva essere sincera. Dei sorrisi che si cercavano, e degli sguardi che si spiavano a vicenda. La signora Ginevra aveva chinato i suoi per tornare ad infilarsi i guanti. Gemma, nello scambiare con lei il bacio d'augurio, le disse all'orecchio:
- Bada, Ginevra! Non ti far scorgere. Hai tutti gli occhi addosso!
- Ah, Dio mio! Dio mio! - Poscia mentre si avviavano a braccetto verso il pianoforte, dove una folla di signore assediava l'Ammiraglio che sorbiva lentamente il caffè, essa balbettò:
- Tieni a bada mio marito... per carità.. due minuti soli... - E siccome Gemma insisteva per sapere cosa fosse avvenuto, infine, aggiunse:
- Ti dirò poi... ti dirò poi... - L'Ammiraglio narrava una storiella allegra, con tutti i punti e le virgole, senza lasciarsi intimidire dal coro delle proteste, dalle esclamazioni di rimprovero, dai ventagli che lo minacciavano.
Gemma facendo coro alle sue amiche, coll'indignazione anche essa nella bocca sorridente, era riuscita ad insinuarsi fra il Comandante e l'uscio del salottino dove si fumava: - Che orrore!... Siete un orrore!... tutti quanti! Anche lei, Silverio!
Sì, anche lei che trova da ridere a coteste infamie! - Col busto inarcato, volgendo indietro la testolina accesa, ella seguiva colla coda dell'occhio la sua amica che aveva l'aria di fuggire lei pure Gustavo e Serravalle troppo insistenti dietro di lei. - No, no, Ginevra! non stare ad ascoltarli!... Sono diventati impossibili!... tutti quanti! - Così dicendo tornò a prendere il braccio dell'amica, giusto sull'uscio del salotto in fondo al quale Casalengo stava fumando una sigaretta, appoggiato alla spalliera della poltrona.
- Che vuoi fare, Ginevra? No, per l'amor di Dio! Sta' attenta! Tuo marito ha un certo viso questa sera!
- Bisogna che io gli parli... assolutamente!... Non ho avuto tempo d'avvertirlo... Se mio marito riesce a trovarsi solo con lui prima che io l'abbia prevenuto nascerà qualche disgrazia!... - La poveretta era convulsa mentre balbettava quelle parole, sottovoce, coll'aria più indifferente che poteva, nello stesso tempo che accostava il capo ad ammirare la bella croce di brillanti sul petto dell'amica. - Ah, Dio!... - Suo marito entrava in quel momento nel salottino, diritto, calmo, arrotolando fra le dita una sigaretta. Poi si chinò per accenderla a quella di Casalengo, mentre la moglie in fondo alla sala, sentivasi venir meno, colla visione di quei due uomini che si trovavano faccia a faccia negli occhi stralunati. La contessa, che vedeva ogni cosa dal suo posto, si mosse subito, e passò immediatamente nella stanza dove fumavasi.
- Ah, Dio mio! - balbettò la povera Ginevra.
- Via, mia cara!... Vedi!... È lì la contessa. Non c'è pericolo pel momento... - Essa, interrottamente, con un soffio di voce, le labbra smorte e convulse, gli sguardi erranti qua e là, disse cosa era stato.
- L'ordinanza l'ha visto venire ieri sera... tardi... Ha detto ogni cosa a mio marito... io non ho avuto tempo di suggerire una scusa 'a lui'... - Intanto davano mano a sgombrar la sala per far quattro salti. I giovani aiutavano, allo scopo di impietosire la padrona di casa e strapparle un sì. Ma la contessa tappavasi le orecchie per non lasciarsi sedurre, ostinata, inflessibile, tossendo in mezzo al fumo delle sigarette, diceva sempre di no, ridendo e colle lagrime agli occhi.
- No, no... Dite anche di no, voialtri signori mariti!...
Aiutatemi!... Lo faccio per voialtri... È tardi... Me ne dispiace, miei cari giovinotti, ma questo non era nel programma... Non voglio farmi tanti nemici... - Il Comandante Silverio l'appoggiava ridendo. Anzi, si avvicinò alla moglie, per farle osservare dolcemente che erano circa le due, che essa aveva l'aria un po' stanca, che si sarebbe affaticata troppo e sarebbe stata una vera imprudenza per lei così delicata... così cagionevole... Invano Gemma frapponeva le sue preghiere, il suo ventaglio, l'impegno con Serravalle. La sua amica, in un momento che nessuno poteva udirla, l'aveva supplicata:
- Non mi lasciare andare!... Ho paura!... - I giovanotti muovevano cielo e terra. Infine, come la vinsero, appena risuonarono le prime battute festanti del valzer, la bella peccatrice si lasciò prendere dal ballo, tutta, diventata tutt'altra donna da un momento all'altro, col viso acceso, gli occhi ebbri, il seno palpitante, spensierata, gaia, una bambina, dimenticando ogni cosa, passando da un ballerino all'altro senza un'esitazione o una preferenza. Quando incontrò la mano di Alvise, febbrile e parlante, nella contraddanza, essa gli porse due dita inguantate, come a tutti gli altri. Casalengo ballava anche lui disperatamente, senza riposarsi un minuto, senza lasciare il tempo a un pensiero o ad una parola molesta di intromettersi fra lui e le ballerine che andava invitando una dopo l'altra, quasi indovinando e obbedendo a una parola d'ordine. A un dato punto, nel bel mezzo d'uno sfrenato galoppo, la signora Gemma gli buttò sul viso poche parole rapide.
Le signore si accomiatavano infine, ancora anelanti, un po' rosse, coll'allegria e l'eccitazione nelle parole e nel gesto. Alvise Casalengo, che era venuto a salutare fino in anticamera la signora Ginevra, disse tranquillamente al marito di lei che l'aiutava ad infilare la pelliccia:
- Comandante, per terminare quel rapporto che mi ha ordinato mi occorrono alcuni schiarimenti... Ero venuto a chiederglieli...
ieri sera...
- Ah! - rispose Silverio piantandogli gli occhi in faccia. - Va bene. Mi spiegherà poi... - Alvise vide biancheggiare fugacemente le sottane di lei che montava in carrozza senza neppure osare di volgere il capo, e rimase inquieto sulla porta, lasciando spegnere il sigaro, colpito dallo sguardo del marito, il quale esprimeva chiaramente di non credere alle sue parole, e dal tono brusco di quella risposta che gli faceva immaginare ciò che sarebbe accaduto più tardi in casa Silverio.
Accadde che a quattr'occhi, nel disordine profumato dello spogliatoio, dove la Ginevra, poveretta, si era lasciata prendere dalle convulsioni, discinta, coi bei capelli sciolti, fra le lagrime calde e le calde parole, e il dottore per giunta, chiamato in fretta e in furia, e che era lì sempre fra i piedi, a tastarle polso e ordinare calmanti, il marito dovette convincersi che Casalengo era proprio venuto a cercarlo per un motivo innocentissimo, e il giorno dopo, quando Alvise venne a prendere gli ordini come al solito, in tenuta bianca, un po' pallido soltanto per la stanchezza della notte, gli disse battendogli sulla spalla:
- Quel benedetto rapporto ci ha dato un gran da fare, a lei e a me! Se ne sbrighi in due parole, e mi dica subito quali schiarimenti le occorrono, senza bisogno di tornare a incomodarsi stasera -.
La donna dell'uovo glielo aveva
predetto alla sora Arlìa:
- Sarai contenta, ma prima
passerai dei guai -.
Chi l'avrebbe immaginato quando sposò il Manica colla sua bella bottega di barbiere in via dei Fabbri, lei pettinatora anche essa, giovani e sani tutti e due! Solo don Calogero, suo zio, non aveva voluto benedire quel matrimonio - per lavarsene le mani come Pilato - diceva. Sapeva come fossero tutti tisici di padre in figlio a casa sua, ed era riescito a mettere un po' di pancia collo scegliere la vita quieta del prevosto.
- Il mondo è pieno di guai, - predicava don Calogero. - Ed è meglio starsene alla larga -.
I guai infatti erano venuti a poco a poco. Arlìa, sempre incinta da un anno all'altro, che le clienti stesse disertavano per la malinconia di vederla arrivare col fiato ai denti, e quel castigo di Dio della pancia grossa. Poi le mancava il tempo di stare in giorno colla moda. Suo marito aveva sognato una gran bottega da parrucchiere nel Corso, colle profumerie nella vetrina; ma aveva un bel radere barbe a tre soldi l'una. I figliuoli si facevano tisici uno dopo l'altro, e prima d'andarsene al camposanto si mangiavano colla propria carne il poco guadagno dell'annata.
Angiolino, che non voleva morire così
giovane, si lamentava nella febbre:
- Mamma, perché m'avete
messo al mondo? - Tale e quale come gli altri suoi fratelli morti
prima. La mamma, allampanata, non sapeva che rispondere, dinanzi al
letticciuolo. Avevano fatto l'impossibile; si erano mangiato il cotto
e il crudo: brodi, medicine, pillole piccine come capocchie di
spilli. Arlìa aveva speso tre lire per una messa, ed era
andata ad ascoltarla ginocchioni in S. Lorenzo, picchiandosi il petto
pei suoi peccati.
La Vergine nel quadro sembrava che ammiccasse di sì cogli occhi.
Ma il Manica, più giudizioso, si metteva a ridere colla bocca storta, grattandosi la barba. Infine la povera madre afferrò il velo come una pazza, e corse dalla donna dell'uovo. Una contessa che voleva tagliarsi i capelli dalla disperazione dell'amante ci aveva trovata la consolazione.
- Sarai contenta, ma prima passerai dei guai, - le rispose quella dell'uovo.
Lo zio prete aveva un bel dire:
-
Tutte imposture di Satanasso! - Bisogna provare cosa sia avere il
cuore nero d'amarezza, mentre si aspetta la sentenza, e quella
vecchia vi legge il vostro destino tutto in un bianco d'uovo! Dopo le
pareva di trovare a casa il figliuolo alzato, che le dicesse allegro:
- Mamma, sono guarito -.
Invece il ragazzo se ne andava a oncia
a oncia, stecchito nel lettuccio, e quegli occhi se lo mangiavano.
Don Calogero, che di morti se ne intendeva, come veniva a vedere il
nipote, si chiamava poi in disparte la mamma, e le diceva:
- Pei
funerali me ne incarico io. Non ci pensate -.
Però la sventurata sperava
sempre, accanto al capezzale. Alle volte, quando saliva anche Manica
a sentire del figliuolo, colla barba lunga di otto giorni e il dorso
curvo, provava compassione di lui che non ci credeva. Come doveva
patirci il poveretto! Ella almeno aveva in cuore le parole della
donna dell'uovo, come un lume acceso, sino al momento in cui lo zio
prete si assise ai piedi del letto colla stola. Poi, quando si
portarono via la sua speranza nella bara del figliuolo, le parve che
si facesse un gran buio dentro il suo petto. E balbettava dinanzi a
quel lettuccio vuoto:
- O dunque cosa m'aveva promesso quella
dell'uovo? -. Suo marito dal crepacuore aveva preso il vizio di bere.
Infine, adagio adagio, si fece una gran calma nel suo cuore. Tale e
quale come prima. Ora che i guai l'erano caduti tutti sulle spalle
sarebbe venuta la contentezza. Ai poveretti accade spesso così.
Fortunata, l'ultima che le restasse di
tanti figli, si alzava la mattina pallida e colle pèsche color
di madreperla agli occhi, a simiglianza dei fratelli che eran morti
tisici. Le clienti stesse la lasciavano ad una ad una, i debiti
crescevano, la bottega si vuotava. Manica, suo marito, aspettava gli
avventori tutto il giorno, col naso contro la vetrina appannata. Lei
chiedeva alla figliuola:
- Ti dice di sì il cuore per
quello che ci ha promesso la sorte?
Fortunata non diceva nulla, cogli occhi accerchiati di nero come i suoi fratelli, fissi in un punto che vedeva lei. Un giorno sua madre la sorprese per le scale con un giovanotto che sgattajolò in fretta al veder gente, e lasciò la ragazza tutta rossa.
- Oh, poveretta me!... Che fai tu qui? - Fortunata chinò il capo.
- Chi era quel giovanotto? che voleva?
- Niente.
- Confidati con tua madre, col sangue tuo. Se tuo padre sapesse!... - Per tutta risposta la ragazza alzò la fronte e le fissò in faccia gli occhi azzurri.
- Mamma, io non voglio morire come gli
altri! - Il maggio fioriva, ma la fanciulla si era mutata in viso, ed
era divenuta inquieta sotto gli occhi ansiosi della madre. I vicini
le cantavano:
- Badi alla sua ragazza, sora Arlìa -. Il
marito istesso, colla cera lunga, un giorno l'aveva presa a
quattr'occhi nella botteguccia nera, per ripeterle:
- Bada a tua figlia, intendi? Che almeno il sangue nostro sia onorato! - La poveretta non osava interrogare la figliuola al vederla tanto stralunata. Le fissava soltanto addosso certi occhi che passavano il cuore. Una sera, dinanzi alla finestra aperta, mentre dalla strada saliva la canzone di primavera, la ragazza le mise il viso in seno, e confessò ogni cosa piangendo a calde lagrime.
La povera madre cadde su una seggiola,
come se le avessero stroncato le gambe. E tornava a balbettare, colle
labbra smorte:
- Ah! Ora come faremo? -. Le pareva di vedere
Manica nell'impeto del vino, col cuore indurito dalle disgrazie. Ma
il peggio erano gli occhi con i quali la ragazza rispondeva:
- Vedete questa finestra, mamma?... la vedete com'è alta?... - Il giovane, un galantuomo, aveva mandato dallo zio prete a tastare il terreno per sapere che pesci pigliare. - Don Calogero si era fatto prete apposta onde non sentir parlare dei guai del mondo. Il Manica si sapeva che non era ricco. L'altro capì l'antifona e fece sentire che gli dispiaceva tanto di non esser ricco lui per fare a meno della dote.
Allora la Fortunata si allettò davvero, e cominciò a tossire come i suoi fratelli. Parlava spesso all'orecchio della mamma, col viso rosso, tenendola abbracciata, e ripeteva:
- Vedete com'è alta quella finestra?... - E la mamma doveva correre di qua e di là a pettinare le signore pel teatro, sempre con lo spavento di quella finestra dinanzi agli occhi se non trovava la dote per la figlia, o se il marito si accorgeva del marrone.
Di tanto in tanto le tornavano in mente le parole di quella dell'uovo, come uno spiraglio di luce. Una sera che tornava a casa stanca e scoraggiata, passando dinanzi alla vetrina di una lotteria, le caddero sotto gli occhi i numeri stampati, e per la prima volta le venne l'ispirazione di giuocare. Allora con quel fogliolino giallo in tasca le pareva d'avere la salute della figliuola, la ricchezza del marito, e la pace della casa. Pensava anche come una dolcezza all'Angiolino e agli altri figliuoli da un pezzo sotterra nel cimitero di Porta Magenta. Era un venerdì, il giorno degli afflitti, nel sereno crepuscolo di primavera.
Così ogni settimana. Si levava di bocca i pochi soldi della giocata per vivere colla speranza di quella grande gioia che doveva capitarle all'improvviso. L'anime sante dei suoi figliuoli ci avrebbero pensato di lassù. Manica, un giorno che i fogliolini gialli saltarono fuori dal cassetto, mentre cercava di nascosto qualche lira da passar mattana all'osteria, montò in una collera maledetta.
- In tal modo se ne andavano dunque i denari?... - Sua moglie non sapeva che rispondere, tutta tremante.
- Però, senti, se il Signore mandasse i numeri?... Bisogna lasciare l'uscio aperto alla fortuna -.
E in cuor suo pensava alle parole di quella dell'uovo.
- Se non hai altra speranza - brontolò Manica con sorriso agro.
- E tu che speranza hai?
- Dammi due lire! - rispose lui bruscamente.
- Due lire! o Madonna!... cosa vuoi farne?
- Dammi una lira sola! - ripeté Manica stravolto.
Era una giornata buia, la neve dappertutto e l'umidità che bagnava le ossa. La sera Manica tornò a casa col viso lustro d'allegria.
Fortunata diceva invece:
- Per me sola non c'è conforto -.
Alle volte ella avrebbe voluto essere come i suoi fratelli sotto l'erba del camposanto. Almeno quelli non tribolavano più, ed anche i genitori ci avevano fatto il callo, poveretti.
- Oh! il Signore non ci abbandonerà del tutto, - balbettava Arlìa.
- Quella dell'uovo me l'ha detto. Ho qui un'ispirazione -.
Il giorno di Natale apparecchiarono la tavola coi fiori e la tovaglia di bucato, e quest'anno invitarono lo zio prete che era la sola provvidenza che restasse. Il Manica si fregava le mani e diceva:
- Oggi si ha a stare allegri -. Pure il lume appeso al soffitto ciondolava malinconico.
Ci fu il manzo, il tacchino arrosto, ed anche un panettone col Duomo di Milano. Alle frutta il povero zio, vedendoli piangere, siffatta giornata, con un buon bicchiere in mano di barbera anche lui, non seppe tener duro e dovette promettere la dote alla ragazza. L'amante tornò a galla, Silvio Liotti, commesso di negozio con buone informazioni, pronto a riparare il mal fatto.
Manica col bicchiere in mano diceva a don Calogero:
- Vedete, vossignoria; questo qui ne aggiusta tante -.
Ma era destino che dove era l'Arlìa la contentezza non durasse. Il genero, ragazzo d'oro, si mangiò la dote della moglie, e dopo sei mesi Fortunata tornava a casa dai genitori a narrar guai e a mostrar le lividure, affamata e colle busse. Ogni anno un figliuolo anche lei come sua madre, e tutti sani come lasche che se la mangiavan viva. Alla nonna sembrava che tornasse a far figliuoli, ché ognuno era un altro guaio, senza morir tisico.
Divenuta vecchia, doveva correre sino a Borgo degli Ortolani, e in fondo a Porta Garibaldi, per buscarsi dalle bottegaie qualche mesata da quattro lire. Suo marito anche esso, che gli tremavano le mani, faceva appena dieci lire al sabato, tutti tagli e tele di ragno per stagnare il sangue. Il resto della settimana poi o dietro la vetrina sudicia ingrugnato, o all'osteria col cappello a sghimbescio sull'orecchio. Anche essa ora i denari del terno li spendeva in tanta acquavite, di nascosto, sotto il grembiale, e il suo conforto era di sentirsene il cuor caldo, senza pensare a nulla, seduta di faccia alla finestra, guardando di fuori i tetti umidi che sgocciolavano.
Compare Cosimo il lettighiere aveva governato le sue mule, allungate un po' le cavezze per la notte, steso un po' di strame sotto i piedi della baia, la quale era sdrucciolata due volte sui ciottoli umidi delle viottole di Grammichele, dal gran piovere che aveva fatto, e poi era andato a mettersi sulla porta dello stallatico, colle mani in tasca, a sbadigliare in faccia alla gente che era venuta per vedere il Re, e c'era tal via vai quella volta per le strade di Caltagirone che pareva la festa di San Giacomo; però stava coll'orecchio teso, e non perdeva d'occhio le sue bestie, le quali si rosicavano l'orzo adagio adagio, perché non glielo rubassero.
Giusto in quel momento vennero a dirgli che il Re voleva parlargli. Veramente non era il Re che voleva parlargli, perché il Re non parla con nessuno, ma uno di coloro per bocca dei quali parla il Re, quando ha da dire qualche cosa; e gli disse che Sua Maestà desiderava la sua lettiga, l'indomani all'alba, per andare a Catania, e non voleva restare obbligato né al vescovo, né al sottointendente, ma preferiva pagar di sua tasca, come uno qualunque.
Compare Cosimo avrebbe dovuto esserne contento, perché il suo mestiere era di fare il lettighiere, e proprio allora stava aspettando che venisse qualcuno a noleggiare la sua lettiga, e il Re non è di quelli che stanno a lesinare per un tarì dippiù o di meno, come tanti altri. Ma avrebbe preferito tornarsene a Grammichele colla lettiga vuota, tanto gli faceva specie di dovervi portare il Re nella lettiga, che la festa gli si cambiò tutta in veleno soltanto a pensarci, e non si godette più la luminaria, né la banda che suonava in piazza, né il carro trionfale che girava per le vie, col ritratto del Re e della Regina, né la chiesa di San Giacomo tutta illuminata, che sputava fiamme, e ove c'era il Santissimo esposto, e si suonavano le campane pel Re.
Anzi più grande era la festa e più gli cresceva in corpo la paura di doverci avere il Re proprio nella sua lettiga, e tutti quei razzi, quella folla, quella luminaria e quello scampanìo se li sentiva sullo stomaco, e non gli fecero chiudere occhio tutta la notte, che la passò a visitare i ferri della baia, a strigliar le mule e a rimpinzarle d'orzo sino alla gola, per metterle in vigore, come se il Re pesasse il doppio di tutti gli altri. Lo stallatico era pieno di soldati di cavalleria, con tanto di speroni ai piedi, che non se li levavano neppure per buttarsi a dormire sulle panchette, e a tutti i chiodi dei pilastri erano appese sciabole e pistole che il povero zio Cosimo pareva gli dovessero tagliare la testa con quelle, se per disgrazia una mula avesse a scivolare sui ciottoli umidi della viottola mentre portava il Re; e giusto era venuta tanta acqua dal cielo in quei giorni che la gente doveva avere addosso la rabbia di vedere il Re per mettersi in viaggio sino a Caltagirone con quel tempaccio. Per conto suo, com'è vero Dio, in quel momento avrebbe preferito trovarsi nella sua casuccia, dove le mule ci stavano strette nella stalla, ma si sentivano a rosicar l'orzo dal capezzale del letto, e avrebbe pagato quelle due onze che doveva buscarsi dal Re per trovarsi nel suo letto, coll'uscio chiuso, e stare a vedere col naso sotto le coperte, sua moglie affaccendarsi col lume in mano, a rassettare ogni cosa per la notte.
All'alba lo fece saltar su da quel dormiveglia la tromba dei soldati che suonava come un gallo che sappia le ore, e metteva in rivoluzione tutto lo stallatico. I carrettieri rizzavano la testa dal basto messo per guanciale, i cani abbaiavano, e l'ostessa si affacciava dal fienile tutta sonnacchiosa, grattandosi la testa.
Ancora era buio come a mezzanotte, ma la gente andava e veniva per le strade quasi fosse la notte di Natale, e i trecconi accanto al fuoco, coi lampioncini di carta dinanzi, battevano coltellacci sulle panchette per vendere il torrone. Ah, come doveva godersi la festa tutta quella gente che comprava il torrone, e si strascinava stanca e sonnacchiosa per le vie ad aspettare il Re, e come vedeva passare la lettiga colle sonagliere e le nappine di lana, spalancava gli occhi, e invidiava compare Cosimo, il quale avrebbe visto il Re sul mostaccio, mentre sino allora nessuno aveva potuto avere quella sorte, da quarantott`ore che la folla stava nelle strade notte e giorno, coll'acqua che veniva giù come Dio la mandava. La chiesa di San Giacomo sputava ancora fuoco e fiamme, in cima alla scalinata che non finiva più, aspettando il Re, per dargli il buon viaggio, e suonava con tutte le sue campane per dirgli che era ora di andarsene. Che non li spegnevano mai quei lumi? e che aveva il braccio di ferro quel sagrestano per suonare a distesa notte e giorno? Intanto nel piano di San Giacomo spuntava appena l`alba cenerognola, e la valle era tutta un mare di nebbia; eppure la folla era fitta come le mosche, col naso nel cappotto, e appena vide arrivare la lettiga voleva soffocare compare Cosimo e le sue mule, che credeva ci fosse dentro il Re.
Ma il Re si fece aspettare un bel pezzo; a quell'ora forse si infilava i calzoni, o beveva il suo bicchierino d'acquavite, per risciacquarsi la gola, che compare Cosimo non ci aveva pensato nemmeno quella mattina, tanto si sentiva la gola stretta. Un'ora dopo arrivò la cavalleria, colle sciabole sfoderate, e fece far largo. Dietro la cavalleria si rovesciò un'altra ondata di gente, e poi la banda, e poi ancora dei galantuomini, e delle signore col cappellino, e il naso rosso dal freddo; e accorrevano persino i trecconi, colle panchette in testa, a piantar bottega per cercar di vendere un altro po' di torrone; tanto che nella gran piazza non ci sarebbe entrato più uno spillo, e le mule non avrebbero nemmeno potuto scacciarsi le mosche, se non fosse stata la cavalleria a far fare largo, e per giunta la cavalleria portava un nugolo di mosche cavalline, di quelle che fanno imbizzarrire le mule di una lettiga, talché compare Cosimo si raccomandava a Dio e alle anime del Purgatorio ad ognuna che ne acchiappava sotto la pancia delle sue bestie.
Finalmente si udì raddoppiare lo
scampanìo, quasi le campane fossero impazzate, e i mortaletti
che sparavano al Re, e arrivò correndo un'altra fiumana di
gente, e si vide spuntare la carrozza del Re, la quale in mezzo la
folla pareva galleggiasse sulle teste. Allora suonarono le trombe e i
tamburi, e ricominciarono a sparare i mortaletti, che le mule, Dio
liberi, volevano romper i finimenti e ogni cosa sparando calci; i
soldati tirarono fuori le sciabole, giacché le avevano messe
nel fodero un'altra volta, e la folla gridava:
- La regina, la
regina! È quella piccolina lì, accanto a suo marito che
non par vero! - Il Re invece era un bel pezzo d'uomo, grande e
grosso, coi calzoni rossi e la sciabola appesa alla pancia; e si
tirava dietro il vescovo, il sindaco, il sottointendente, e un altro
sciame di galantuomini coi guanti e il fazzoletto da collo bianco, e
vestiti di nero che dovevano averci la tarantola nelle ossa con quel
po' di tramontana che spazzava la nebbia dal piano di San Giacomo. Il
Re stavolta, prima di montare a cavallo, mentre sua moglie entrava
nella lettiga, parlava con questo e con quello come se non fosse
stato fatto suo, e accostandosi a compare Cosimo gli batté
anche colla mano sulla spalla, e gli disse tale e quale, col suo
parlare napoletano:
- Bada che porti la tua regina! - che compare
Cosimo si sentì rientrare le gambe nel ventre, tanto più
che in quel momento si udì un grido da disperati, la folla
ondeggiò come un mare di spighe, e si vide una giovinetta,
vestita ancora da monaca, e pallida pallida, buttarsi ai piedi del
Re, e gridare:
- Grazia! - Chiedeva la grazia per suo padre, il
quale si era dato le mani attorno per buttare il Re giù di
sella, ed era stato condannato ad aver tagliata la testa. Il Re disse
una parola ad uno che gli era vicino, e bastò perché
non tagliassero la testa al padre della ragazza. Così ella se
ne andò tutta contenta, che dovettero portarla via svenuta
dalla consolazione.
Vuol dire che il Re con una sua parola poteva far tagliare la testa a chi gli fosse piaciuto, anche a compare Cosimo se una mula della lettiga metteva un piede in fallo, e gli buttava giù la moglie, così piccina com'era.
Il povero compare Cosimo aveva tutto ciò davanti agli occhi, mentre andava accanto alla baia colla mano sulla stanga, e l'abito della Madonna fra le labbra, che si raccomandava a Dio, come fosse in punto di morte, mentre tutta la carovana, col Re, la Regina e i soldati, si era messa in viaggio in mezzo alle grida e allo scampanìo, e allo sparare dei mortaletti che si udivano ancora dalla pianura; talché quando furono arrivati giù nella valle, in cima al monte si vedeva ancora la folla nera brulicare al sole come se ci fosse stata la fiera del bestiame nel piano di San Giacomo.
A che gli giovava il sole e la bella giornata a compare Cosimo? se ci aveva il cuore più nero del nuvolo, e non si arrischiava di levare gli occhi dai ciottoli su cui le mule posavano le zampe come se camminassero sulle uova; né stava a guardare come venissero i seminati, né a rallegrarsi nel veder pendere i grappoli delle ulive, lungo le siepi, né pensava al gran bene che avea fatto tutta quella pioggia della settimana, ché gli batteva il cuore come un martello soltanto al pensare che il torrente poteva essere ingrossato, e dovevano passarlo a guado! Non si arrischiava a mettersi a cavalcioni sulle stanghe, come soleva fare quando non portava la sua regina, e lasciarsi cadere la testa sul petto a schiacciare un sonnellino, sotto quel bel sole e colla strada piana che le mule l'avrebbero fatta ad occhi chiusi; mentre le mule che non avevano giudizio, e non sapevano quel che portassero, si godevano la strada piana ed asciutta, il sole tiepido e la campagna verde, scondizolavano e scuotevano allegramente le sonagliere, che per poco non si mettevano a trottare, e compare Cosimo si sentiva saltare lo stomaco alla gola dalla paura soltanto al vedere mettere in brio le sue bestie, senza un pensiero al mondo né della Regina, né di nulla.
La Regina, lei, badava a chiacchierare con un'altra signora che le avevano messo in lettiga per ingannare il tempo, in un linguaggio che nessuno ci capiva una maledetta; guardava la campagna cogli occhi azzurri come il fiore del lino e appoggiava allo sportello una mano così piccina che pareva fatta apposta per non aver nulla da fare; che non valeva la pena di riempire d'orzo le mule per portare quella miseria, regina tal quale era! Ma ella poteva far tagliare il collo alla gente con una sola parola, così piccola com'era, e le mule che non avevano giudizio con quel carico leggiero, e tutto quell'orzo che avevano nella pancia, provavano una gran tentazione di mettersi a saltare e ballare per la strada, e di far tagliare la testa a compare Cosimo.
Sicché il poveraccio per tutta la strada non fece che recitare fra i denti paternostri e avemarie, e raccomandarsi ai suoi morti, quelli che conosceva e quelli che non conosceva, fin quando arrivarono alla Zia Lisa, che era accorsa una gran folla a vedere il Re, e davanti ad ogni bettola c'era il suo pezzo di maiale appeso e scuoiato per la festa. Come arrivò a casa sua, dopo aver consegnata la regina sana e salva, non gli pareva vero, e baciò la sponda della mangiatoia legandovi le mule; poi si mise in letto senza mangiare e senza bere, ché non voleva vedere nemmeno i danari della regina, e li avrebbe lasciati nella tasca del giubbone chissà quanto tempo, se non fosse stato per sua moglie che andò a metterli in fondo alla calza sotto il pagliericcio.
Gli amici e i conoscenti, che erano curiosi di sapere come erano fatti il Re e la Regina, venivano a domandargli del viaggio, col pretesto d'informarsi se aveva acchiappato la malaria. Egli non voleva dir nulla, che gli tornava la febbre soltanto a parlarne, e il medico veniva mattina e sera, e si prese circa la metà di quei danari della regina.
Solamente molti anni dopo, quando vennero a pignorargli le mule in nome del Re, perché non aveva potuto pagare il debito, compare Cosimo non si dava pace pensando che pure quelle erano le mule che gli avevano portato la moglie sana e salva, al Re, povere bestie; e allora non c'erano le strade carrozzabili, ché la Regina si sarebbe rotto il collo, se non fosse stato per la sua lettiga, e la gente diceva che il Re e la Regina erano venuti apposta in Sicilia per fare le strade, che non ce n'erano ancora, ed era una porcheria. Ma allora campavano i lettighieri, e compare Cosimo avrebbe potuto pagare il debito, e non gli avrebbero pignorato le mule, se non veniva il Re e la Regina a far le strade carrozzabili.
E più tardi, quando gli presero il suo Orazio, che lo chiamavano Turco, tanto era nero e forte, per farlo artigliere, e quella povera vecchia di sua moglie piangeva come una fontana, gli tornò in mente quella ragazza che era venuta a buttarsi a' piedi del Re gridando - grazia! - e il Re con una parola l'aveva mandata via contenta. Né voleva capire che il Re d'adesso era un altro, e quello vecchio l'avevano buttato giù di sella. Diceva che se fosse stato lì il Re, li avrebbe mandati via contenti, lui e sua moglie, proprio sul mostaccio, coi calzoni rossi, e la sciabola appesa alla pancia, e con una parola poteva far tagliare il collo alla gente, e mandare puranco a pignorare le mule, se uno non pagava il debito, e pigliarsi i figliuoli per soldati, come gli piaceva.
Ella ascoltava, avviluppata nella pelliccia, e colle spalle appoggiate alla cabina, fissando i grandi occhi pensosi nelle ombre vaganti del mare. Le stelle scintillavano sul loro capo, e attorno a loro non si udiva altro che il sordo rumore della macchina, e il muggito delle onde che si perdevano verso orizzonti sconfinati. A poppa, dietro le loro spalle, una voce che sembrava lontana, canticchiava sommessamente una canzone popolare, accompagnandosi coll'organetto.
Ella pensava forse alle calde emozioni provate la sera innanzi alla rappresentazione del San Carlo; o alla riviera di Chiaia, sfolgorante di luce, che si erano lasciata dietro le loro spalle.
Aveva preso il braccio di lui mollemente, coll'abbandono dell'isolamento in cui erano, e si era appoggiata al parapetto, guardando la striscia fosforescente che segnava il battello, e in cui l'elica spalancava abissi inesplorati, quasi cercasse di indovinare il mistero di altre esistenze ignorate. Dal lato opposto, verso le terre su cui Orione inchinavasi, altre esistenze sconosciute e quasi misteriose palpitavano e sentivano, chissà?
povere gioie e poveri dolori, simili a quelli da lui narrati. - La donna ci pensava vagamente colle labbra strette, gli occhi fissi nel buio dell'orizzonte.
Prima di separarsi stettero un altro po' sull'uscio della cabina, al chiarore vacillante della lampada che dondolava. Il cameriere, rifinito dalla fatica, dormiva accoccolato sulla scala, sognando forse la sua casetta di Genova. A poppa il lume della bussola rischiarava appena la figura membruta dell'uomo che era al timone, immobile, cogli occhi fissi sul quadrante, e la mente chissà dove.
A prua si udiva sempre la mesta cantilena siciliana, che narrava a modo suo di gioie, di dolori, o di speranze umili, in mezzo al muggito uniforme del mare, e al va e vieni regolare e impassibile dello stantuffo.
Sembrava che la donna non sapesse
risolversi a lasciare la mano di lui. Infine alzò gli occhi e
gli sorrise tristamente:
- Domani! - sospirò.
Egli chinò il capo senza rispondere.
- Vi ricorderete sempre di questa ultima sera? - Egli non rispose. - Io sì! - aggiunse la donna.
All'alba si rividero sul ponte. Il visetto delicato di lei sembrava abbattutto dall'insonnia. La brezza le scomponeva i morbidi capelli neri. Diggià la Sicilia sorgeva come una nuvola in fondo all'orizzonte. Poi l'Etna si accese tutt'a un tratto d'oro e di rubini, e la costa bianchiccia si squarciò qua e là in seni e promontori oscuri. A bordo cominciava l'affaccendarsi del primo servizio mattutino. I passeggieri salivano ad uno ad uno sul ponte, pallidi, stralunati, imbacuccati diversamente, masticando un sigaro e barcollando. La grù cominciava a stridere, e la canzone della notte taceva come sbigottita e disorientata in tutto quel movimento. Sul mare turchino e lucente, delle grandi vele spiegate passavano a poppa, dondolando i vasti scafi che sembravano vuoti, con pochi uomini a bordo che si mettevano la mano sugli occhi per vedere passare il vapore superbo. In fondo, delle altre barchette più piccole ancora, come punti neri, e le coste che si coronavano di spuma; a sinistra la Calabria, a destra la Punta del Faro sabbiosa, Cariddi che allungava le braccia bianche verso Scilla rocciosa e altera.
All'improvviso, nella lunga linea della costa che sembrava unita, si aperse lo stretto come un fiume turchino, e al di là il mare che si allargava nuovamente, sterminato. La donna fece un'esclamazione di meraviglia. Poi voleva che egli le indicasse le montagne di Licodia e di Piana di Catania, o il Biviere di Lentini dalle sponde piatte. Egli le accennava da lontano, dietro le montagne azzurre, le linee larghe e melanconiche della pianura biancastra, le chine molli e grigie d'ulivi, le rupi aspre di fichidindia, le alpestri viottole erbose e profumate. Pareva che quei luoghi si animassero dei personaggi della leggenda, mentre egli li accennava ad uno ad uno. Colà la Malaria; su quel versante dell'Etna il paesetto dove la libertà irruppe come una vendetta; laggiù gli umili drammi del Mistero, e la giustizia ironica di don Licciu Papa. Ella ascoltando dimenticava persino il dramma palpitante in cui loro due si agitavano, mentre Messina si avanzava verso di loro col vasto semicerchio della sua 'Palazzata'. Tutt'a un tratto si riscosse e mormorò:
- Eccolo! - Dalla riva si staccava una barchetta, in cui un fazzoletto bianco si agitava per salutare come un alcione nella tempesta.
- Addio! - mormorò il giovane.
La donna non rispose e chinò il capo. Poi gli strinse forte la mano sotto la pelliccia e si scostò di un passo.
- Non addio. Arrivederci!
- Quando?
- Non lo so. Ma non addio -.
Ed egli la vide porgere le labbra all'uomo che era venuto ad incontrarla nella barchetta. E nella mente gli passavano delle larve sinistre, i fantasmi dei personaggi delle sue leggende, col cipiglio bieco e il coltellaccio in mano.
Il velo azzurro di lei scompariva verso la riva, in mezzo alla folla delle barche e alle catene delle àncore.
Passarono i mesi. Finalmente ella gli scrisse che poteva andarla a trovare.
«In una casetta isolata, in mezzo alle vigne - ci sarà una croce segnata col gesso sull'uscio. Io verrò dal sentiero fra i campi.
Aspettatemi. Non vi fate scorgere, o sono perduta».
Era d'autunno ancora, ma pioveva e tirava vento come d'inverno.
Egli nascosto dietro l'uscio, ansioso,
col cuore che gli martellava, spiava avidamente se le righe di
pioggia che solcavano lo spiraglio cominciassero a diradarsi. Le
foglie secche turbinavano dietro la soglia come il fruscìo di
una veste. Che faceva essa? Sarebbe venuta? L'orologio rispondeva
sempre di no, di no, ad ogni quarto d'ora, dal paesetto vicino.
Finalmente un raggio di sole penetrò da una tegola smossa. La
campagna tutta si irradiava. I carrubbi stormivano sul tetto, e in
fondo, dietro i viali sgocciolanti, si apriva il sentieruolo fiorito
di margherite gialle e bianche. Di là sarebbe comparso il suo
ombrellino bianco, di là, o al disopra del muricciuolo a
destra. Una vespa ronzava nel raggio dorato che penetrava dalle
commessure, e urtava contro le imposte, dicendo:
- Viene! viene! -
Tutt'a un tratto qualcuno spinse bruscamente la porticina a sinistra.
- Come un tuffo nel sangue! - Era lei! bianca, tutta bianca, dalla
veste al viso pallido. Al primo vederlo gli cadde fra le braccia,
colla bocca contro la bocca di lui.
Quante ore passarono in quella povera stanzuccia affumicata?
Quante cose si dissero? Il tarlo impassibile e monotono continuava a rodere i vecchi travicelli del tetto. L'orologio del paesetto vicino lasciava cadere le ore ad una ad una. Da un buco del muro potevano scorgersi i riflessi delle foglie che si agitavano, e alternavano ombre e luce verde come in fondo a un lago.
Così la vita. - Ad un tratto
ella siccome stralunata, passandosi le mani sugli occhi, aprì
l'uscio per vedere il sole che tramontava. Poscia, risolutamente, gli
buttò le braccia al collo, dicendogli:
- Non ti lascio più
-.
A piedi, tenendosi a braccetto, andarono a raggiungere la piccola stazione vicina, perduta nella pianura deserta. Non lasciarsi più!
Che gioia sterminata e trepida! Andavano stretti l'un contro l'altro, taciti, come sbigottiti, per la campagna silenziosa, nell'ora mesta della sera.
Degli insetti ronzavano sul ciglione del sentiero. Dalla terra screpolata si levava una nebbia grave e mesta. Non una voce umana, non un abbaiare di cani. Lontano ammiccava nelle tenebre un lume solitario. Finalmente arrivò il treno sbuffante e impennacchiato.
Partirono insieme; andarono lontano, lontano, in mezzo a quelle montagne misteriose di cui egli le aveva parlato, che a lei sembrava di conoscere.
Per sempre!
Per sempre. Essi si levavano col giorno, scorazzavano pei campi, nelle prime rugiade, sedevano al meriggio nel folto delle piante, all'ombra degli abeti, di cui le foglie bianche fremevano senza vento, felici di sentirsi soli, nel gran silenzio. Indugiavano a tarda sera, per veder morire il giorno sulle vette dei monti, quando i vetri si accendevano a un tratto e scoprivano casupole lontane. L'ombra saliva lungo le viottole della valle che assumevano un aspetto malinconico; poi il raggio color d'oro si fermava un istante su di un cespuglio in cima al muricciuolo.
Anche quel cespuglio aveva la sua ora, e il suo raggio di sole.
Degli insetti minuscoli vi ronzavano intorno, nella luce tiepida.
Al tornare dell'inverno il cespuglio sarebbe scomparso e il sole e la notte si sarebbero alternati ancora sui sassi nudi e tristi, umidi di pioggia. Così erano scomparsi il casolare del gesso, e l'osteria di «Ammazzamogli» in cima al monticello deserto.
Soltanto le rovine sbocconcellate si disegnavano nere nella porpora del tramonto. Il Biviere si stendeva sempre in fondo alla pianura come uno specchio appannato. Più in qua i vasti campi di Mazzarò, i folti oliveti grigi su cui il tramonto scendeva più fosco, le vigne verdi, i pascoli sconfinati che svanivano nella gloria dell'occidente, sul cocuzzolo dei monti; e dell'altra gente si affacciava ancora agli usci delle fattorie grandi come villaggi, per veder passare degli altri viandanti. Nessuno sapeva più di Cirino, di compare Carmine, o di altri. Le larve erano passate. Solo rimaneva solenne e immutabile il paesaggio, colle larghe linee orientali, dai toni caldi e robusti. Sfinge misteriosa, che rappresentava i fantasmi passeggieri, con un carattere di necessità fatale. Nel paesello i figli delle vittime avevano fatto pace cogli strumenti ciechi e sanguinari della libertà; curatolo Arcangelo strascinava la tarda vecchiaia a spese del signorino; una figlia di compare Santo era andata sposa nella casa di mastro Cola. All'osteria del Biviere un cane spelato e mezzo cieco, che i diversi padroni nel succedersi l'uno all'altro avevano dimenticato sulla porta, abbaiava tristamente ai rari viandanti che passavano.
Poi il cespuglio si faceva smorto anche esso a poco a poco, e l'assiolo si metteva a cantare nel bosco lontano.
Addio, tramonti del paese lontano! Addio abeti solitari alla cui ombra ella aveva tante volte ascoltato le storie che egli le narrava, che stormivate al loro passaggio, e avete visto passare tanta gente, e sorgere e tramontare il sole tante volte laggiù!
Addio! Anche essa è lontana.
Un giorno venne dalla città una
cattiva notizia. Era bastata una parola, di un uomo lontano, di cui
ella non poteva parlare senza impallidire e piegare il capo.
Innamorati, giovani, ricchi tutti e due, tutti e due che si erano
detti di voler restare uniti per sempre, era bastata una parola di
quell'uomo per separarli. Non era il bisogno del pane, com'era
accaduto a Pino il Tomo, né il coltellaccio del geloso che li
divideva. Era qualcosa di più sottile e di più forte
che li separava. Era la vita in cui vivevano e di cui erano fatti.
Gli amanti ammutolivano e chinavano il capo dinanzi alla volontà
del marito. Ora ella sembrava che temesse e sfuggisse l'altro. Al
momento di lasciarlo pianse tutte le sue lagrime che egli bevve
avidamente; ma partì. Chissà quante volte si
rammentavano ancora di quel tempo, in mezzo alle ebbrezze diverse,
alle feste febbrili, al turbinoso avvicendarsi degli eventi, alle
aspre bisogne della vita? Quante volte ella si sarà ricordata
del paesetto lontano, del deserto in cui erano stati soli col loro
amore, della ceppaia al cui rezzo ella aveva reclinato il capo sulla
spalla di lui, e gli aveva detto sorridendo:
- L'uggia per le
camelie! -.
Delle camelie ce n'erano tante e superbe, nella splendida serra in cui giungevano soffocati gli allegri rumori della festa, molto tempo dopo, quando un altro ne aveva spiccata per lei una purpurea come di sangue, e glie la aveva messa nei capelli. Addio, tramonti lontani del paese lontano! Anche lui, allorché levava il capo stanco a fissare nell'aureola della lampada solitaria le larve del passato, quante immagini e quanti ricordi! di qua e di là pel mondo, nella solitudine dei campi, e nel turbinìo delle grandi città! Quante cose erano trascorse! e quanto avevano vissuto quei due cuori lontano l'uno dall'altro!
Infine si rivedevano nella vertigine del carnevale. Egli era andato alla festa per veder lei, coll'anima stanca e il cuore serrato d'angoscia. Ella era lì difatti, splendente, circondata e lusingata in cento modi. Pure aveva il viso stanco anche essa, e il sorriso triste e distratto. I loro occhi si incontrarono e scintillarono. Nulla più. Sul tardi si trovarono accanto come per caso, nell'ombra dei grandi palmizi immobili. - Domani! - gli disse. - Domani, alla tal'ora e nel tal luogo. Avvenga che può!
voglio vedervi! - Il seno bianco e delicato le tempestava dentro il merletto trasparente, e il ventaglio le tremava fra le mani.
Poi chinò il capo, cogli occhi fissi ed astratti; lievi e fugaci rossori le passavano sulla nuca del color della magnolia. Come batteva forte il cuore a lui! come era squisita e trepidante la gioia di quel momento! Ma allorché si rividero l'indomani non era più la stessa cosa. Chissà perché?... Essi avevano assaporato il frutto velenoso della scienza mondana; il piacere raffinato dello sguardo e della parola scambiati di nascosto in mezzo a duecento persone, di una promessa che val più della realtà, perché è mormorata dietro il ventaglio e in mezzo al profumo dei fiori, allo scintillìo delle gemme e all'eccitamento della musica.
Allorché si buttarono nelle braccia l'uno dell'altro, quando si dissero che si amavano nella bocca, entrambi pensavano con desiderio molle ed acuto al rapido momento della sera innanzi, in cui sottovoce, senza guardarsi, quasi senza parole, si erano detto che il cuore turbinava loro in petto ad entrambi nel trovarsi accanto. Quando si lasciarono, e si strinsero la mano, sulla soglia, erano tristi tutti e due, e non tristi soltanto perché dovevano dirsi addio - quasi mancasse loro qualche cosa. Pure si tenevano sempre per mano, ad entrambi veniva per istinto la domanda. - Ti rammenti? - E non osavano. Ella aveva detto che partiva l'indomani col primo treno, ed egli la lasciava partire.
L'aveva vista allontanarsi pel viale deserto, e rimaneva là, colla fronte contro le stecche di quella persiana. La sera calava. Un organino suonava in lontananza alla porta di un'osteria.
Ella partiva l'indomani col primo
treno. Gli aveva detto:
- Bisogna che vada con 'lui'! - Anche egli
aveva ricevuto un telegramma che lo chiamava lontano. Su quel foglio
ella aveva scritto 'Per sempre', e una data. La vita li ripigliava
entrambi, l'una di qua e l'altro di là, inesorabilmente. La
sera dopo anche esso era alla stazione, triste e solo. Della gente si
abbracciava e diceva addio; degli sposi partivano sorridenti; una
mamma, povera vecchierella del contado, si strascinava lagrimosa
dietro il suo ragazzo, robusto giovanotto in uniforme da bersagliere,
col sacco in spalla, che cercava l'uscita di porta in porta.
Il treno si mosse. Prima scomparve la città, le vie formicolanti di lumi, il sobborgo festante di brigatelle allegre. Poi cominciò a passare come un lampo la campagna solitaria, i prati aperti, i fiumicelli che luccicavano nell'ombra. Di tanto in tanto un casolare che fumava, della gente raccolta dinanzi a un uscio. Sul muricciuolo di una piccola stazione, dove il convoglio si era arrestato un momento sbuffante, due innamorati avevano lasciato scritto a gran lettere di carbone i loro nomi oscuri. Egli pensava che anche essa era passata di là il mattino, e aveva visto quei nomi.
Lontano lontano, molto tempo dopo, nella immensa città nebbiosa e triste, egli si ricordava ancora qualche volta di quei due nomi umili e sconosciuti, in mezzo al via vai affollato e frettoloso, al frastuono incessante, alla febbre dell'immensa attività generale, affannosa e inesorabile, ai cocchi sfarzosi, agli uomini che passavano nel fango, fra due assi coperte d'affissi, dinanzi alle splendide vetrine scintillanti di gemme, accanto alle stamberghe che schieravano in fila teschi umani e scarpe vecchie.
Di tratto in tratto si udiva il sibilo di un treno che passava sotterra o per aria, e si perdeva in lontananza, verso gli orizzonti pallidi, quasi con un desiderio dei paesi del sole.
Allora gli tornava in mente il nome di quei due sconosciuti che avevano scritto la storia delle loro umili gioie sul muro di una casa davanti alla quale tanta gente passava. Due giovanetti biondi e calmi passeggiavano lentamente pei larghi viali del giardino tenendosi per mano; il giovane aveva regalato alla ragazza un mazzolino di rose purpuree che aveva mercanteggiato ansiosamente un quarto d'ora da una vecchierella cenciosa e triste; la giovinetta, colle sue rose in seno, come una regina, dileguavasi seco lui lontano dalla folla delle amazzoni e dei cocchi superbi.
Quando furono soli sotto i grandi alberi della riviera, sedettero accanto, parlandosi sottovoce colla calma espansione del loro affetto.
Il sole tramontava nell'occidente smorto; e anche là, nei viali solitari, giungeva il suono di un organino, con cui un mendicante dei paesi lontani andava cercando il pane in una lingua sconosciuta.
Addio, dolce melanconia del tramonto, ombre discrete e larghi orizzonti solitari del noto paese. Addio, viottole profumate dove era così bello passeggiare tenendosi abbracciati. Addio, povera gente ignota che sgranavate gli occhi al veder passare i due felici.
Alle volte, quando lo assaliva la dolce mestizia di quelle memorie, egli ripensava agli umili attori degli umili drammi con un'aspirazione vaga e incosciente di pace e d'obblio, a quella data e a quelle due parole - 'per sempre' - che ella gli aveva lasciato in un momento d'angoscia, rimasto vivo più d'ogni gioia febbrile nella sua memoria e nel suo cuore. - E allora avrebbe voluto mettere il nome di lei su di una pagina o su di un sasso, al pari di quei due sconosciuti che avevano scritto il ricordo del loro amore sul muro di una stazione lontana.
L'impressione che si riceve dall'aspetto del paesaggio prima d'arrivare a Milano, per quaranta o cinquanta chilometri di ferrovia, è malinconica. La pianura vi fugge dinanzi verso un orizzonte vago, segnato da interminabili file di gelsi e di olmi scapitozzati, uniformi, che non finiscono mai; cogli stessi fossati diritti fra due file di alberelli, colle medesime cascine sull'orlo della strada, in mezzo al verde pallido delle praterie.
Verso sera, allorché sorge la nebbia, il sole tramonta senza pompa, e il paesaggio si vela di tristezza.
D'inverno un immenso strato di neve a perdita di vista, costantemente rigato da sterminate file d'alberi nudi, tirate colla lenza, a diritta, a sinistra, dappertutto, sino a perdersi nella nebbia. Di tratto in tratto, al fischio improvviso della macchina, vi si affaccia allo sportello, e scappa come una visione un campanile di mattoni, un fienile isolato e solitario. Sicché finalmente appena nella sconfinata pianura bianca, fra tutte quelle linee uniformi, vi appare del cielo smorto la guglia bianca del Duomo, il vostro pensiero si rifugia frettoloso nella vita allegra della grande città, in mezzo alla folla che si pigia sui marciapiedi, davanti ai negozi risplendenti di gas, sotto la tettoia sonora della Galleria, nella luce elettrica del Gnocchi, nella fantasmagoria di uno spettacolo alla Scala, dove sboccia come in una serra calda la festa della luce, dei colori e delle belle donne.
I dintorni di Milano sono modellati sulle linee severe di questo paesaggio. Basta salire sul Duomo in un bel giorno di primavera per averne un'impressione complessiva. È un'impressione grandiosa ma calma. Al di là di quella vasta distesa di tetti e di campanili che vi circonda, tutta allo stesso livello, si spiega la pianura lombarda, di un verde tranquillo, spianata col cilindro, spartita colle seste, solcata da canali diritti, da strade più diritte ancora, da piantagioni segnate col filo, senza un'ondulazione di terreno e senza una linea capricciosa in gran parte. L'occhio la percorre tutta in un tratto sino alla cinta delle Alpi ed alle colline della Brianza. E se rimaneste un giorno intero lassù non ne avreste un'impressione nuova, né scoprireste un altro dettaglio. È la stessa cosa percorrendo i dintorni immediati della città. Sempre le stesse strade più o meno diritte, fiancheggiate dagli stessi alberi; il medesimo fossato da una parte, o il medesimo canale dall'altra, lo stesso muro grigio, rotto di tanto in tanto dal portone di una fabbrica, sormontato da un fumaiuolo nero che sporca il cielo azzurro, gli stessi orti chiusi tra filari di gelsi e divisi in scompartimenti di cavoli e lattughe senza mutar di prospettiva. Sicché la cosa più difficile per un viandante pare che dovrebbe essere di riconoscere la sua strada fra quelle altre cento strade che si somigliano tutte, e per un proprietario di ritrovare il suo podere fra tutti quei poderi fatti sul medesimo stampo.
Nondimeno il milanese ha la passione della campagna. Bisogna vederlo a San Giorgio o in qualche altra festa campestre per farsene un'idea. Appena la stagione comincia a farsi mite e il ciglio dei fossati a verdeggiare, tutti corrono 'fuori del dazio', a godersi il verde sminuzzato a quadretti, e ad empirsi i polmoni di polvere. Codesto è il motivo di tante osterie di campagna, di tante 'isole', di tanti giardini piantati in botti da petrolio. Allora le strade melanconiche, i ciglioni intristiti, i quadrelli di verdura pallida formicolano di un'altra vita, risuonano di organetti, di chitarre, di allegria chiassosa e bonaria.
L'uniformità del fondo dà alcunché di piccante alla varietà delle macchiette. Qui il paesaggio, in un orizzonte sconfinato, è circoscritto costantemente fra due file di alberi, lungo due muri polverosi, fra le sponde di un canale diritto, smorto, che sembra immobile, ombreggiato dacché spuntano i primi germogli sinché cadano le ultime foglie, e i raggi del sole non hanno più colori né festa. La mucca che leva il muso grondante d'acqua, un gruppo di contadine che lavorano nei campi, e mettono sul prato la nota gaia delle loro gonnelle rosse, la carretta che va lentamente per la stradicciuola, un desco zoppicante sotto il pergolato di un'osteria, coll'operaio in maniche di camicia, e la sua donna coi gomiti sulla tovaglia e gli occhi imbambolati, due cavalli da lavoro accanto a una carretta colle stanghe in aria, davanti a una porta chiusa, sono tutti i quadri della campagna milanese, su di un fondo uniforme. Lo spettacolo grandioso di un tramonto bisogna andare a vederlo in Piazza d'Armi, su quella bella spianata che corre dal Castello all'Arco del Sempione; e tuttavia l'effetto più grandioso gli viene dalle linee stupende del monumento, sul fondo opalino, e da quei cavalli di bronzo che si stampano come una visione del bello dell'arte, in alto, nella gloria degli ultimi raggi.
Ma la ineffabile melanconia di quell'ora non l'ho mai provata come in una delle Certose dei dintorni di Milano. Colà, in mezzo a mirabili pagine d'arte, la luce muore nelle invetriate dipinte, vi sorprende uno strano sentimento della vanità dell'arte e della vita, un incubo del nulla che vi si stringe attorno da ogni parte, dalla campagna silenziosa e uniforme. Io non ho mai passata un'ora più tetra come quella che provai in uno di quei cortiletti di verdura cupa della Certosa di Pavia, chiusi fra quattro mura di cimitero, e allietati da quattro file di bosso, nel caldo meriggio d'aprile, in cui non si udiva il ronzare delle mosche.
Di cotesta impressione alquanto melanconica del paesaggio milanese ne avete un effetto anche ai Giardini pubblici, dove mettendo sottosopra il tranquillo suolo lombardo sono riesciti a rendere un po' del vario e pittoresco che è la bellezza della campagna. Il popolo però li ha cari, e nei giorni di festa e di sole ci reca in folla la sua allegria e la sua vita. Tutto ciò infine prova che Milano è la città più città d'Italia. Tutte le sue bellezze, tutte le sue attrattive sono nella sua vita gaia ed operosa, nel risultato della sua attività industre. Il più bel fiore di quella campagna ricca ma monotona è Milano; un prodotto in cui l'uomo ha fatto più della natura. Che importa a Milano se non ha che 3 o 400 metri di passeggiata, da Porta Venezia al ponte della via Principe Umberto? I suoi equipaggi non sono splendidi quanto quelli della Riviera di Chiaja e delle Cascine? e la prima domenica di quaresima, quando il sole scintilla sugli arnesi lucenti, e sui colori delicati, per tutte quelle file di cocchi e di cavalli, in mezzo a quella folla elegante che formicola nei viali, col fondo maestoso di quelle Alpi ancora bianche di neve, il cielo trasparente e gli ippocastani già picchettati di verde, lo spettacolo non è bello? e quando il teatro alla Scala comincia ad essere troppo caldo anche per le spalle nude, e l'alba imbianca troppo presto sulle finestre delle sale da ballo, Milano non ha la sua Brianza per farvi trottare i suoi equipaggi? non ha i laghi per rovesciarvi la piena della sua vita elegante? non ha Varese per farvi correre i suoi cavalli? Le passeggiate e i dintorni di Milano sono un po' lontani, è vero; ma sono fra i più belli del mondo.
Io mi rammento ancora della prima gita che feci al Lago di Como, in una giornata soffocante di luglio, dopo una di quelle estati di lavoro e di orizzonti afosi che vi mettono in corpo la smania del verde e dei monti.
La prima torre sgangherata che scorsi in cima alla montagna posta a guardia del lago mi si stampò dinanzi agli occhi come un faro di pace, di riposo, di freschi orizzonti. Il paesaggio era ancora uniforme. Tutt'a un tratto, dalle alture di Gallarate, vi si svolge davanti un panorama che è una festa degli occhi. Allorché vi trovate per la prima volta sul ponte del battello a vapore, rimanete un istante immobile, e colla sorpresa ingenua del piacere stampata in faccia, né più né meno di un contadino che capiti per sorpresa in una sala da ballo. L'ammirazione è ancora d'impressione, vaga e complessiva. Non è lo spettacolo grandioso del Lago Maggiore, né quello un po' teatrale del Lago di Lugano visto dalla Stazione. È qualche cosa di più raccolto e penetrante.
Tutto il Lago di Como a prima vista è in quel bacino da Cernobbio a Blevio, e la prima idea netta che vi sorga è di sapere da che parte se n'esca.
A poco a poco comincia a sorgere in voi come un'esuberanza di vita, quasi un'esultanza di sensazioni e di sentimenti, a misura che lo svariato panorama si va svolgendo ai vostri occhi. Sentite che il mondo è bello, e se mai non l'avete avuta, principia a spuntare in voi, come in un bambino, la curiosità di vederlo tutto, così grande e ricco e vario, di là di quelle cime brulle, oltre quei boschi che si arrampicano come un'immensa macchia bruna sui dossi arditi, dopo quei campanili che sorgono da un folto d'alberi, di quelle cascate che biancheggiano un istante nella fenditura di un burrone, di quelle ville posate come un gingillo, su di un cuscino di verdura, che vi creano in mente mille fantasie diverse, e la vostra immaginazione popola di figure leggiadre, dietro le stoie calate ed i vetri scintillanti, in quelle barchette leggiere che battono il remo silenzioso come un'ala, e si dileguano mollemente, con un cinguettìo lontano di voci fresche, strascinandosi dietro delle bandiere a colori vivaci. È come un sogno in mezzo a cui passate, e vi sfila dinanzi Villa d'Este elegante, Carate civettuolo, Torno severo, e Balbianello superbo. Poi come tutt'a un tratto vi si allarga dinanzi la Tremezzina quasi un riso di bella fanciulla, nell'ora in cui sulla Grigna digradano le ultime sfumature di un tramonto ricco di colori e Bellagio comincia a luccicare di fiammelle, e il ramo di Colico si fa smorto, di là di Varenna, e Lenno e San Giovanni vi mandano le prime squille dell'Avemaria, voi vi chinate sul parapetto a mirare le stelle che ad una ad una principiano a riflettersi sulla tranquilla superficie del lago, e appoggerete la fronte sulla mano sentendovi sorgere in petto del pari ad una ad una tutte le cose care e lontane che ci avete in cuore, e dalle quali non avreste voluto staccarvi mai.
Nel monastero di Santa Maria degli Angeli c'era sempre stata proprio la pace degli angeli. Non dispute né combriccole quando trattavasi di rieleggere la superiora, suor Maria Faustina, che reggeva il pastorale da vent'anni, come i Mongiferro da cui usciva tenevano il bastone del comando nel paese; non liti fra le monache pel confessore o per la nomina delle cariche della comunità. Le cariche si sapeva a chi andavano, secondo la nascita e l'influenza del parentado. E come suol dirsi che il monastero è un piccolo mondo, anche lì dentro c'erano le sue gerarchie, chi disponeva di un pezzetto d'orticello, e chi no, chi aveva le sue camere riserbate sotto chiave, le sue galline segnate alla zampa, e i giorni fissi per servirsi delle converse e del forno della comunità. Ma senza invidie, senza gelosie, che son l'opera del demonio e mettono la discordia dove non regna il timor di Dio e il precetto d'obbedienza. Già si sa che tutte le dita della mano non sono eguali tra di loro, e che anche nel Testamento Antico c'erano i Patriarchi e le Potestà. A Santa Maria degli Angeli l'abbadessa e la celleraria erano sempre state una Flavetta o una Mongiferro:
dunque vuol dire che così doveva essere, e a nessuna veniva in mente di lagnarsene. Se nascevano delle questioni alle volte - Dio buono, siamo nel mondo, e ne nascono da per tutto - suor Faustina colle belle maniere, e don Gregorio suo fratello coi sorbetti e i trattamenti che mandava per tutte quante le religiose, nelle feste solenni, mantenevano nel convento il buon ordine e il principio d'autorità.
Ma un bel giorno questa bella pace degli angeli se ne andò in fumo. Bastò un'inezia e ne nacque un diavolìo.
Padre Cicero e padre Amore, liguorini e cime d'uomini, vennero in paese pel quaresimale e fondarono l'Opera del Divino Amore, con sermoni appropriati e sottoscrizioni pubbliche fra i fedeli. Se ne parlava da per tutto. Le buone suore avrebbero voluto vedere anche esse di che si trattava. Però il monastero ne aveva pochi da spendere, e suor Maria Faustina diceva che bastava don Matteo Curcio, il cappellano, per gli esercizi spirituali.
C'era in quel tempo novizia a Santa Maria degli Angeli, Bellonia, figlia di Pecu-Pecu, il quale arricchitosi col battezzare il vino, aveva messo superbia per sé e pei suoi e aveva pensato di far educare la figliuola fra le prime signore del paese - motivo d'appiccicarle il 'Donna', se giungeva a maritarla come diceva lui.
Bellonia però, rimasta nel sangue bettoliera e tavernaia, in convento ci stava come il diavolo nell'acqua santa, e gliene fece vedere di ogni colore, a lui Pecu-Pecu, e alle monache tutte quant'erano. La prima volta fuggì ficcandosi nella ruota del parlatorio. Una povera donna che si trovava lì appunto a ricevere non so che piatto dolce dalle monache, rimase figuratevi come, invece, al vedersi sgusciar fuori dallo sportello quel diavolo in carne, appena girò la macchina. Un'altra volta si calò dal muro dell'orto, colle sottane in aria, a rischio di spezzarsi il collo.
Un giorno che si facevano certi lavori nel monastero, e c'era quindi un via vai di muratori alla porta, Bellonia si cacciò fra le gambe della suora portinaia, e via di corsa. Pecu-Pecu, poveretto, ogni volta correva a cercare la sua figliuola di qua e di là, fra gli altri monelli, nei trivi, fuor del paese, dietro le siepi di fichi d'India pure, e la riconduceva per un orecchio al convento, supplicando la madre badessa di perdonarle e ripigliarsela per amor di Dio. Alla ragazzetta che si ribellava poi, e strillava rivoltolandosi in giro per terra, strappandosi vesti e capelli, e non voleva starci, carcerata in convento, Pecu- Pecu tornava a dire:
- Bellonia, abbi pazienza!... Per amor del tuo papà!... Dammi questa consolazione al papà! - Bellonia non voleva dargliela. Vedendo che non poteva escirne, di gabbia, o dopo tornava a cascarci per sempre, cercò il modo e la maniera di farsene cacciar via dalle monache stesse. Attaccò lite con questa e con quella, mise zizzanie, inventò pettegolezzi, fece altre mille diavolerie, e non giovava niente. Pecu-Pecu accorreva, pregava, supplicava, faceva intendere questo e quell'altro, si giovava della protezione di don Gregorio Mongiferro e degli altri pezzi grossi, che eran tutti suoi debitori, mandava regali al convento, e Bellonia vi restava sempre. Tanto, suo padre si era incaponito di lasciarvela a imparare l'educazione, sino a che la maritava.
- Tu dammi questa consolazione, e il papà in cambio ti contenterà in tutto quello che desideri -.
- Pensa e ripensa, infine Bellonia disse che voleva quelli del Divino Amore, e Pecu-Pecu fece venire i due padri liguorini a sue spese. Quaresimale in regola e Santa Maria degli Angeli, con organo, mortaletti e suono di campane.
Dopo due giorni soli che padre Cicero e
padre Amore fecero sentire la parola di Dio a modo loro, le povere
monache parvero ammattite tutte quant'erano. Chi fu presa dagli
scrupoli, e chi si trovava ogni giorno un peccato nuovo. Estasi di
beatitudine, fervori religiosi, novene a questa o a quella Madonna,
digiuni, cilizi, discipline che levavano il pelo. Parecchie si
accusarono pubblicamente indegne del velo nero. Suor Candida, per
mortificazione, non si lavava più neppur le mani, suor
Benedetta portava una funicella di pelo di capra sulle nude carni, e
suor Celestina arrivò a mettere dei sassolini nelle scarpe. A
suor Gloriosa infine la predica dell'Inferno aveva fatto dar volta
completamente al cervello, e andava borbottando per ogni dove:
-
Gesù e Maria! - San Michele Arcangelo! - Brutto demonio, va
via! - Siccome la 'grazia' poi toccava i cuori per bocca dei due
predicatori forestieri, le suore se li rubavano al confessionale, al
parlatorio, li assediavano sino a casa per mezzo del sagrestano, coi
dubbi spirituali, coi casi di coscienza, coi vassoi pieni di dolci.
Alla madre abbadessa fioccavano le domande delle religiose, le quali
chiedevano l'uno o l'altro dei due padri liguorini per confessore
straordinario. Invano suor Maria Faustina, che ai suoi anni era
nemica di ogni novità, rifiutava il permesso, anche per
riguardo a don Matteo Curcio, che era il cappellano ordinario del
monastero. Le monache ricorrevano al vicario, all'arciprete, sino al
vescovo, inventavano dei peccati riservati, si lamentavano che don
Matteo Curcio era duro d'orecchio, e non dava quasi retta:
- Gnora
sì - Gnora no - Ho inteso - Tiriamo innanzi -. Qualcheduna
giunse ad accusarlo di far cascare le penitenti in distrazione, con
quella barba sudicia di otto giorni, che in un servo di Dio non
ispirava alcuna devozione.
Invece i due padri forestieri, quelli sì che sapevano fare! L'uno, padre Amore, che portava il nome con sé, un bell'uomo che si mangiava l'aria, e faceva tremar la chiesa in certi passi della predica; e padre Cicero, un artista nel suo genere, tutto san Giovanni Crisostomo, col miele alle labbra. I peccati sembravano dolci a confidarli nel suo orecchio. E la bella maniera che aveva di consolare! - Sorella mia, la carne è fragile. - Siamo tutti indegni peccatori. - Buttatevi nelle braccia del Divino Amore -.
Allorché vi sussurrava all'orecchio certe parole, con la sua voce insinuante, con le pupille color d'oro che vi frugavano addosso attraverso la grata, sembrava che vi si insinuasse nella coscienza, quasi l'accarezzasse, talché quando levava per assolvervi quella bella mano fine e bianca, vi veniva voglia di baciarla.
Qualche disordine si era notato sin da principio. C'erano state delle mormorazioni a causa di suor Gabriella la quale accaparravasi padre Amore tutte le mattine, e lo sequestrava al confessionale per delle ore, quasi ella avesse il 'jus pascendi' perché discendeva dal Re Martino. Altre si sentivano umiliate dai canestri di roba che suor Maria Concetta mandava in regalo a padre Cicero: paste, conserve, sacchi interi di zucchero e caffè; alla sua grata, nel parlatorio, dopo la messa di padre Cicero, sembrava che vi fosse il trattamento di qualche monacazione. Voleva dire che chi non poteva spendere, come suor Maria Concetta, o doveva fare una magra figura, o non si poteva mettere in grazia di Dio col confessore forestiero.
Perciò suor Celestina fu
costretta a privarsi delle due uniche galline, e suor Benedetta, che
non aveva altro, dovette sollecitare la grazia di lavare colle sue
mani la biancheria di padre Cicero. - Ogni fiore è segno
d'amore. - I due reverendi protestavano, padre Cicero specialmente,
che ci stava alle convenienze:
- Non voglio. - Non posso
permettere -. Una volta finse pure d'andare in collera con don
Raffaele, il sagrestano, che non c'entrava per nulla affatto, e di
quelle scene non ne aveva viste cogli altri preti, stomacato dalla
commedia in cui padre Amore rappresentava poi la parte di paciere e
pigliava lui le paste e i regali, per non mandarli indietro. - E per
non dir neanche grazie! - borbottava don Raffaele tornandosene a mani
vuote. Ma infine, sia padre Cicero o padre Amore, i reverendi
pigliavano ogni cosa, a somiglianza degli apostoli che erano
pescatori e usavano la rete. Tutti i giorni, dal monastero ai
Cappuccini, dove erano alloggiati padre Amore e padre Cicero, andava
su e giù don Raffaele, poveraccio, carico di vassoi e di
canestri pieni di regali, sicché una volta don Matteo Curcio,
non per indiscrezione, ma per saper dire il fatto suo a tempo e luogo
colle antiche penitenti, se mai, lo fermò per via, e volle
cacciare il naso sotto il tovagliuolo che copriva il canestro.
- Caspita, don Raffaele! Dev'esser festa solenne anche per voi, con tante mance che vi daranno i liguorini! - Il sagrestano gli rispose con un'occhiataccia.
- Mance, eh?... Neanche uno sputo in faccia, vossignoria!...
'Retribuere Domine, bona facientibusi , che non costa niente... - Figuriamoci Bellonia, che aveva fatto la spesa dei liguorini, e credeva di averli tutti per sé! Villana senza educazione com'era, si diede a insolentire questa e quell'altra. - Suor Celestina che stava al confessionale mezze giornate intere. - Suor Maria Concetta che si accaparrava padre Amore. - Suor Celestina che basiva dinanzi a padre Cicero. - La gelosia del monastero insomma, Dio ne scampi e liberi. La madre abbadessa allora fece atto d'autorità, per metter freno allo scandalo. Niente liguorini.
Niente confessori straordinari. Chi voleva ricorrere al Tribunale della Penitenza c'era don Matteo Curcio, il cappellano solito, nessuna eccettuata, a cominciare dalla Flavetta, che è tutto dire.
Suor Gabriella non disse nulla, ma non si confessò neppure, né coi liguorini, né col cappellano ordinario, quindici giorni interi. La superiora quindi, a far vedere che non era una Mongiferro per nulla:
- Suor Gabriella, precetto d'obbedienza, andate a confessarvi da don Matteo Curcio -.
Suor Gabriella fece anche questa, si presentò al confessionale, con quell'alterigia di casa Flavetta:
- Son venuta a fare atto d'obbedienza alla madre badessa. Mi presento -.
E null'altro. Il povero don Matteo Curcio, buono come il pane, non poté frenarsi questa volta.
- Voi altre signore monache siete tutte superbe, - disse, - ma vossignoria è la più superba di tutte -.
Bellonia però tenne duro: o il padre liguorino, o niente. Pecu- Pecu dovette tornare a infilare il vestito nuovo e venire a intercedere. L'abbadessa dura lei pure.
- Anche le educande adesso? Ci voleva anche questa adesso! Perché lo tengo padre Curcio allora? - Pecu-Pecu, che gli cuoceva ancora la spesa dei liguorini, non sapeva darsi pace. - O bella! Come se le educande non potessero avere dei peccati riservati meglio delle professe! Son io infine che pago!... - E nell'andarsene mortificato e deluso si lasciò pure scappar di bocca:
- Sino in Paradiso si deve andare per riguardo umano! Se Bellonia fosse figlia di qualche barone spiantato, l'avrebbe avuto il liguorino! - Bellonia intanto per spuntarla pensò di mutar registro. Demonio incarnato, si mise a fare la santa, cadendo in estasi ogni quarto d'ora, presa dagli scrupoli se le toccavan una mano, facendo chiamare in fretta e in furia don Matteo Curcio al confessionale due o tre volte al giorno, come se fosse in punto di dannarsi l'anima, per dirgli invece delle sciocchezze, tanto che il pover'uomo ci perdeva il latino e la pazienza.
- Figliuola mia, il troppo stroppia. - Questo è opera della tentazione. - Che c'è di nuovo, sentiamo?
- C'è che ho un peccato grosso. Ma non vuol venir fuori con vossignoria... O che non sapete fare, o che mi siete antipatico...
- Finché il pover'uomo perdé la pazienza del tutto, e le sbatté il finestrino sul muso. La madre abbadessa montò su tutte le furie contro Bellonia, e le appioppò una bella penitenza, il giorno stesso, in pubblico refettorio:
- Donna Bellonia, mangerete coi gatti, per insegnarvi il precetto d'umiltà - sentenziò suor Maria Faustina colla voce nasale che metteva fuori nelle occasioni in cui le premeva far vedere da chi nasceva.
La ragazzaccia, come se non fosse stato fatto suo, se ne stava tranquillamente ginocchioni nel bel mezzo del refettorio, seduta sulle calcagna, colla disciplina al collo, e la corona di spine in capo, e per ingannar la noia contava quanti bocconi faceva intanto suor Agnese con mezzo uovo, e quante mosche mangiavano nello stesso piatto di suor Candida. Poscia cavò fuori di tasca pian piano l'agoraio, e si divertì a far passare gli aghi da un bocciuolo all'altro. Tutt'a un tratto, mentre suor Speranza dal pulpito faceva la lettura, e le altre religiose stavano zitte e intente col naso sul piatto, si udì la figliuola di Pecu-Pecu, da vera figlia di tavernaio che era, a sbadigliare in musica.
La superiora picchiò severamente sul bicchiere col coltello, e si fece silenzio.
- Donna Bellonia! precetto d'obbedienza, farete subito subito tre volte la 'via crucisi ginocchioni, col libano e la corona di spine! - La ragazza spalancò gli occhiacci mezzo assonnati, ancora a bocca aperta, e domandò:
- Perché signora badessa?
- Per insegnarvi l'educazione, donna voi!
- Già... l'educazione... al solito!... - Poi, sempre seduta sulle calcagna in mezzo al refettorio, cominciò, strapparsi di dosso la corona di spine e la funicella sparsa di nodi strillando:
- Io non voglio starci qui, lo sapete!... È mio padre che vuol tenermi qui, finché mi marito...
- L'ha preso per una locanda il monastero, l'ha preso! - disse forte suor Benedetta. - Anzi l'ha preso per un'osteria!...
- Già, l'osteria!... Vossignoria che lavate i fazzoletti di padre Cicero per sentire l'odore del suo tabacco... Come se non fosse peggio!... - Scoppiò una tempesta nel refettorio. Suor Maria Concetta lasciò la tavola forbendosi la bocca col tovagliuolo a più riprese, quasi ci avesse delle porcherie; suor Gabriella arricciò il naso adunco dei Flavetta, sputando di qua e di là. La superiora poi sembrava che le venisse un accidente, gialla come lo zafferano, colla voce che dalla collera le tremava nel naso e fra i canini malfermi. Tutte quante che se la prendevano con donna Bellonia, ritte in piedi, vociando e gesticolando.
- Sissignora! - ostinavasi a dire la figlia di Pecu-Pecu colla faccia tosta di monella. - Come non si sapesse!... Suor Maria Concetta che gli imbocca i biscottini colle sue mani, a padre Cicero!... E le male parole che suor Gabriella ha detto a suor Celestina perché le ruba padre Amore!...
- È uno scandalo! una porcheria! - strillavano tutte insieme.
Suor Gloriosa, cogli occhi fuori dell'orbita, andava borbottando:
- Gesù e Maria! - San Michele Arcangelo! - 'Libera nos, Domine'!...
- Sissignora! le porcherie le fanno loro pel confessore. Io non ho potuto averlo, il confessore forestiero, perche non son figlia di barone!... - La superiora, ritta sulla predella abbaziale, riescì infine a far udire la sua voce in falsetto:
- Lo scandalo lo fo cessare io! Da ora innanzi il solo confessore di tutta la comunità sarà don Matteo Curcio, come prima!...
Precetto d'obbedienza! La madre portinaia non lascierà passare più nulla senza il mio permesso speciale... Precetto d'obbedienza!...
Voi, donna Bellonia, farete otto giorni di cella a pane ed acqua.
Dopo poi si vedrà con vostro padre!... - Non si dormì quella notte a Santa Maria degli Angeli.
«Che posso farci se l'amo? Forse che al cuore si comanda?...» dice la Sposa dei Cantici...
Padre Cicero, dacché gli era chiuso il parlatorio e il confessionale di Santa Maria degli Angeli, faceva parlare ogni momento la Sposa dei Cantici, negli ultimi sermoni del quaresimale. Padre Amore, più focoso, scorrazzava come un puledro nel Testamento Vecchio e Nuovo, cavandone fervorini di questa fatta:
«Tu mi hai involato il cuore, o sposa, sorella mia: tu mi hai involato il cuore con uno dei tuoi occhi» - «O Dio, tu ci hai scacciati... Dacci aiuto per uscir di distretta...».
Nel coro, di risposta, erano sospiri repressi, soffiate di naso ancora più eloquenti. Suor Benedetta, che non sapeva frenarsi, singhiozzava addirittura come una bambina, sotto il velo nero. - E Bellonia che doveva udire e inghiottir tutto.
Gonfia, gonfia, le venne in mente all'improvviso l'ispirazione buona.
Terminato il triduo, spenti i lumi e pagate le spese, padre Amore e padre Cicero vennero a ringraziare le signore monache e a prender congedo dalle figlie penitenti, una dopo l'altra, per non destar gelosie. Le poverette figuratevi in quale stato, e padre Cicero cavando di tasca il fazzoletto ogni momento, quasi gli si spezzasse il cuore a quella separazione. A un tratto, in mezzo alla scena muta che succedeva fra padre Amore e suor Celestina, tutt'e due colle lagrime agli occhi, saltò in mezzo anche Bellonia, come una spiritata, e ne fece e disse d'ogni sorta.
Pianti, convulsioni, strilli che si udivano dalla piazza, tanto che corsero i vicini. Pecu-Pecu, don Matteo Curcio, ed anche gli sfaccendati della farmacia. E poi, quando vide il parlatorio pieno di gente, Bellonia si mise a gridare che voleva andarsene coi padri liguorini, che ci aveva il cuore attaccato con essi - un putiferio. Saltò su allora la madre abbadessa, come una furia, e se la prese con tutti quanti, a cominciare dai liguorini.
- Ah? È questa l'opera del Divino Amore che intendete voi? Non son chi sono se non vi faccio pentire! Scriverò a monsignore! Vi farò togliere la messa e la confessione! Vedrete chi sieno i Mongiferro! - Quei poveri servi di Dio se ne andarono più morti che vivi, la madre abbadessa fu costretta a mandar via quel diavolo di ragazza, e Pecu-Pecu dovette ripigliarsi la sua Bellonia, che non prese il 'Donna', ma vinse il punto.
Le comari filavano al sole, e le galline razzolavano nel pattume, davanti agli usci, allorché successe un gridìo, un fuggi fuggi per tutta la stradicciuola, che si vide comparire da lontano lo zio Masi, l'acchiappaporci, col laccio in mano; e il pollame scappava schiamazzando, come se lo conoscesse.
Lo zio Masi si buscava dal municipio 50 centesimi per le galline, e 3 lire per ogni maiale che sorprendeva in contravvenzione. Egli preferiva i maiali. E come vide la porcellina di comare Santa, stesa tranquillamente col muso nel brago, di contro all'uscio, gli gittò al collo il nodo scorsoio.
- Ah! Madonna santissima! Cosa fate,
zio Masi! - gridava la zia Santa, pallida come una morta. Per carità,
zio Masi, non mi acchiappate la multa, che mi rovinate! - Lo zio
Masi, il traditore, per pigliarsi il tempo di caricarsi la maialina
sulle spalle, le sballava di belle parole:
- Sorella mia, che
posso farvi? Questo è l'ordine del sindaco. Maiali per le
strade non ne vuole più. Se vi lascio la porcellina perdo il
pane -.
La zia Santa gli correva dietro come
una pazza, colle mani nei capelli, strillando sempre:
- Ah! zio
Masi! non lo sapete che mi è costata 14 tarì a San
Giovanni, e la tengo come la pupilla degli occhi miei! Lasciatemi la
maialina, zio Masi, per l'anima dei vostri morti! Che all'anno nuovo,
coll'aiuto di Dio, vale due onze! - Lo zio Masi, zitto, a capo chino,
col cuore più duro di un sasso, badava solo dove metteva i
piedi, per non isdrucciolare nella mota, colla maialina di traverso
sulle spalle, che grugniva rivolta al cielo. Allora la zia Santa,
disperata, per salvare la porcellina, gli assestò un solenne
calcio nella schiena, e lo fece andare ruzzoloni.
Le comari, appena videro
l'acchiappaporci in mezzo al fango, gli furono addosso colle rocche e
colle ciabatte, e volevano fargli la festa per tutti i porci e le
galline che aveva sulla coscienza. Ma in questa accorse don Licciu
Papa, colla tracolla dello sciabolotto attraverso la pancia, gridando
da lontano come un ossesso, fuori tiro delle rocche:
- largo alla
Giustizia! largo alla Giustizia! - La Giustizia condannò
comare Santa alla multa ed alle spese, e per ischivare la prigione
dovettero anche ricorrere alla protezione del barone, il quale aveva
la finestra di cucina lì di faccia nella stradicciuola, e la
salvò per miracolo, facendo vedere alla Giustizia che non era
il caso di ribellione, perché l'acchiappaporci quel giorno non
aveva il berretto col gallone del municipio.
Vedete! - esclamarono in coro le donne.
- Ci vogliono i santi per entrare in Paradiso! Questa del berretto
nessuno la sapeva! - Però il barone aggiunse il predicozzo:
-
Quei porci e quelle galline bisognava spazzarli via dal vicinato; il
sindaco aveva ragione, ché sembrava un porcile -. D'allora in
poi, ogni volta che il servo del barone buttava la spazzatura sul
capo alle vicine, nessuna mormorava. Soltanto si dolevano che le
galline chiuse in casa, per scansare la multa, non fossero più
buone chiocce, e i maiali, legati per un piede accanto al letto,
parevano tante anime del purgatorio. - Almeno prima la spazzavano
loro la stradicciuola.
- Tutto quel concime sarebbe tant'oro per la chiusa dei Grilli! - sospirava massaro Vito. - Se avessi ancora la mula baia, spazzerei la strada colle mie mani -.
Anche qui c'entrava don Licciu Papa. Egli era venuto a pignorare la mula coll'usciere, che dall'usciere solo massaro Vito non se la sarebbe lasciata portar via dalla stalla, nemmen se l'ammazzavano, e gli avrebbe piuttosto mangiato il naso come il pane. Lì, davanti al giudice, seduto al tavolino, che pareva Ponzio Pilato, quando massaro Venerando l'aveva citato per riscuotere il credito della mezzeria, non seppe che rispondere. La chiusa dei Grilli era buona soltanto per far grilli; il minchione era lui, se era tornato dalla mèsse a mani vuote, e massaro Venerando aveva ragione di voler esser pagato, senza tante chiacchiere e tante dilazioni, perciò aveva portato l'avvocato, che parlava per lui. Ma com'ebbe finito, e massaro Venerando se ne andava lieto, dondolandosi dentro gli stivaloni come un'anitra ingrassata, non poté stare di domandare al cancelliere se era vero che gli vendevano la mula.
- Silenzio! - interruppe il giudice che si soffiava il naso, prima di passare a un altro affare.
Don Licciu Papa si sveglò di soprassalto sulla panchetta, e gridò:
- Silenzio!
- Se foste venuto coll'avvocato, vi lasciavano parlare ancora, - gli disse compare Orazio per confortarlo.
Sulla piazza, dinanzi agli scalini del municipio, il banditore gli vendeva la mula. - Quindici onze la mula dicompare Vito Gnirri!
Quindici onze una bella mula baia!
Quindici onze! - Compare Vito, seduto sugli scalini, col mento fra le
mani, non voleva dir nulla che la mula era vecchia, ed era più
di 16 anni che gli lavorava. Essa stava lì contenta come una
sposa, colla cavezza nuova. Ma appena gliela portaron via davvero, ei
perse la testa, pensando che quell'usuraio di massaro Venerando gli
acchiappava 15 onze per una sola annata di mezzeria, che tanto non ci
valeva la chiusa dei Grilli, e senza la mula ormai non poteva più
lavorare la chiusa, e all'anno nuovo si sarebbe trovato di nuovo col
debito sulle spalle. Ei si mise a gridare come un disperato sul naso
a massaro Venerando. - Cosa mi farete pignorare, quando non avrò
più nulla? anticristo che siete! - E voleva levargli il
battesimo dalla testa, se non fosse stato per don Licciu Papa lì
presente, collo sciabolotto e il berretto gallonato, il quale si mise
a gridare tirandosi indietro:
- Fermo alla Giustizia! - Fermo alla
Giustizia!
- Che Giustizia! - strillava compare Vito tornando a casa colla cavezza in mano. - La Giustizia è fatta per quelli che hanno da spendere -.
Questo lo sapeva anche curatolo
Arcangelo, che quando era stato in causa col Reverendo per via della
casuccia, perché il Reverendo voleva comprargliela per forza,
tutti gli dicevano:
- Che siete matto a pigliarvela col Reverendo?
È la storia della brocca contro il sasso! Il Reverendo coi
suoi denari si affitta la meglio lingua d'avvocato, e vi riduce
povero e pazzo -.
Il Reverendo, dacché si era fatto ricco, aveva ingrandito la casuccia paterna, di qua e di là, come fa il porcospino che si gonfia per scacciare i vicini dalla tana. Ora aveva slargata la finestra che dava sul tetto di curatolo Arcangelo, e diceva che gli bisognava la casa di lui per fabbricarvi sopra la cucina e mutare la finestra in uscio. - Vedete, compare Arcangelo mio, senza cucina non ci posso stare! Bisogna che siate ragionevole -.
Compare Arcangelo non lo era punto, e si ostinava a pretendere di voler morire nella casa dove era nato. Tanto, non ci veniva che una volta al sabato; ma quei sassi lo conoscevano, e se pensava al paese, nei pascoli del Carramone, non lo vedeva altrimenti che sotto forma di quell'usciolo rattoppato, e di quella finestra senza vetri. - Va bene, va bene, - rispondeva fra di sé il Reverendo. - Teste di villani! Bisogna farci entrare la ragione per forza -.
E dalla finestra del Reverendo piovevano sul tetto di curatolo Arcangelo cocci di stoviglie, sassi, acqua sporca; e riducevano il cantuccio dov'era il letto peggio di un porcile. Se curatolo Arcangelo gridava, il Reverendo si metteva a gridare sul tetto, più forte di lui. - Che non poteva più tenerci un vaso di basilico sul davanzale? Non era padrone d'inaffiare i suoi fiori?
Curatolo Arcangelo aveva la testa dura peggio dei suoi montoni, e ricorse alla Giustizia. Vennero il giudice, il cancelliere, e don Licciu Papa, a vedere se il Reverendo era padrone d'inaffiare i suoi fiori, che quel giorno non ci erano più alla finestra, e il Reverendo aveva il solo disturbo di levarli ogni volta che doveva venire la Giustizia, e rimetterli al loro posto appena voltava le spalle. Il giudice stesso non poteva passare il tempo a far la guardia al tetto di curatolo Arcangelo, o ad andare e venire dalla straduccia; ogni sua visita costava cara.
Restava la quistione di sapere se la finestra del Reverendo doveva essere coll'inferriata o senza inferriata, e il giudice, e il cancelliere, e tutti, guardavano cogli occhiali sul naso, e pigliavano misure che pareva un tetto di barone, quel tettuccio piatto e ammuffato.
E il Reverendo tirò pure fuori certi diritti vecchi per la finestra senza inferriata, e per alcune tegole che sporgevano sul tetto, che non ci si capiva più nulla, e il povero curatolo Arcangelo guardava in aria anche lui, per capacitarsi che colpa avesse il suo tetto. Ei ci perse il sonno della notte e il riso della bocca; si dissanguava a spese, e doveva lasciare la mandra in custodia del ragazzo per correre dietro al giudice e all'usciere. Per giunta le pecore gli morivano come le mosche, ai primi freddi dell'inverno, ché il Signore lo castigava perché se la pigliava colla Chiesa, dicevano.
- E voi pigliatevi la casa, - disse infine al Reverendo, che dopo tante liti e tante spese non gliene avanzava il danaro da comprarsi la corda per impiccarsi a un travicello. Voleva mettersi in collo la sua bisaccia e andarsene colla figliola a stare colle pecore, ché quella maledetta casa non voleva vederla più, finché era al mondo.
Ma allora uscì in campo il barone, l'altro vicino, il quale ci aveva anche lui delle finestre e delle tegole sul tetto di curatolo Arcangelo, e giacché il Reverendo voleva fabbricarsi la cucina, egli aveva pure bisogno di allargare la dispensa, sicché il povero capraio non sapeva più di chi fosse la sua casa. Ma il Reverendo trovò il modo di aggiustare la lite col barone, dividendosi da buoni amici fra di loro la casa di curatolo Arcangelo, e poiché costui ci aveva anche quest'altra servitù, gli ridusse il prezzo di un buon quarto.
Nina, la figlia di curatolo Arcangelo, come dovevano lasciare la casa e andarsene via dal paese, non finiva di piangere, quasi ci avesse avuto il cuore attaccato a quei muri e a quei chiodi delle pareti. Suo padre, poveraccio, tentava di consolarla come meglio poteva, dicendole che laggiù, nelle grotte del Carramone, ci si stava da principi, senza vicini e senza acchiappaporci. Ma le comari, che sapevano tutta la storia, si strizzavano l'occhio fra di loro borbottando:
- Al Carramone il 'signorino' non potrà più andarla a trovare, di sera, quando compare Arcangelo è colle sue pecore. Per questo la Nina piange come una fontana -.
Come lo seppe compare Arcangelo
cominciò a bestemmiare e a gridare:
- Scellerata! adesso
con chi vuoi che ti mariti? - Ma la Nina non pensava a maritarsi.
Voleva soltanto continuare a stare dov'era il 'signorino', che lo
vedeva tutti i giorni alla finestra, appena si alzava, e gli faceva
segno se poteva andare a trovarla la sera. In tal modo la Nina c'era
cascata, col veder tutti i giorni alla finestra il 'signorino', che
dapprincipio le rideva, e le mandava i baci e il fumo della pipa, e
le vicine schiattavano d'invidia. Poscia a poco a poco era venuto
l'amore, talché adesso la ragazza non ci vedeva più
dagli occhi, e aveva detto chiaro e tondo a suo padre:
- Voi andatevene dove volete, che io me ne sto qui dove sono -. E il 'signorino' le aveva promesso che la campava lui.
Curatolo Arcangelo di quel pane non ne mangiava, e voleva chiamare don Licciu Papa per condur via a forza la figliuola. - Almeno quando saremo via di qui, nessuno saprà le nostre disgrazie, - diceva. Ma il giudice gli rispose che la Nina aveva già gli anni del giudizio, ed era padrona di fare quel che gli pareva e piaceva.
- Ah! È padrona? - borbottava curatolo Arcangelo. - Anche io son padrone! - E appena incontrò il 'signorino', che gli fumava sul naso, gli spaccò la testa come una noce con una legnata.
Dopo che l'ebbero legato ben bene,
accorse don Licciu Papa, gridando:
- Largo alla Giustizia! largo
alla Giustizia! - Davanti alla Giustizia gli diedero anche un
avvocato, per difendersi. - Almeno stavolta la Giustizia non mi costa
nulla; - diceva compare Arcangelo. E fu meglio per lui. L'avvocato
riuscì a provare come quattro e quattro fanno otto, che
curatolo Arcangelo non l'aveva fatto apposta, di cercare d'ammazzare
il 'signorino', con un randello di pero selvatico, che era del suo
mestiere, e se ne serviva per darlo sulle corna ai montoni quando non
volevano intender ragione.
Così fu condannato soltanto a 5 anni, la Nina rimase col 'signorino', il barone allargò la sua dispensa, e il Reverendo fabbricò una bella casa nuova su quella vecchia di curatolo Arcangelo, con un balcone e due finestre verdi.
Stavolta il quaresimalista, per far
colpo su quelle teste d'asini che venivano alla predica tirati
proprio per la cavezza, e poi tornavano a far peggio di prima,
immaginò un colpo di scena, che se non giovava quello,
prediche o sermoni era tutto come lavare la testa all'asino davvero.
Fece nascondere nella vecchia sepoltura, là sotto il pavimento
della chiesa, il sacrestano e due o tre altri, cui aveva prima
insegnato la parte, e poi disse:
- Lasciate fare a me -.
Cadeva giusta la predica dell'Inferno,
in fine degli esercizi spirituali, e la chiesa era piena zeppa di
gente, chi per un verso e chi per un altro, chi per ordine del
giudice (che a quei tempi il timor di Dio si insegnava colla
sbirraglia) e chi per amor della gonnella. Gli uomini a sinistra, da
una parte, e le donne dall'altra. Il predicatore montato sul pulpito
dipingeva al vivo l'inferno, come se ci fosse stato. E poi a ogni
tratto tuonava, con un vocione spaventoso:
- Guai! Guai! - Come
tante cannonate. Le donne raccolte in branco dentro il recinto a
destra della navata, chinavano il capo sgomente, a ogni colpo, e lo
stesso don Gennaro Pepi, che era don Gennaro Pepi! si picchiava il
petto in pubblico, e borbottava ad alta voce:
- Pietà e
misericordia, Signore! - Ma c'era poco da fidarsi, perché ogni
giorno, prima di scorticare il prossimo a quattr'occhi, don Gennaro
Pepi tornava a mettersi in grazia di Dio, andando a messa e a
confessione, e quanti erano alla predica poi, si sapeva che sarebbero
tornati a fare quel che avevano fatto sempre.
- Guai a te, ricco Epulone, che ti sei
ingrassato col sangue del povero! - E tu, Scriba e Fariseo,
spogliatore della vedova e dell'orfano... - Questa era pel notaio
Zacco. E ce n'era per tutti gli altri: pel barone Scampolo che aveva
una lite coi reverendi padri cappuccini; per don Luca Arpone, il
quale viveva in concubinato colla moglie del fattore; pel fattore che
si rifaceva alla sua volta sulla roba del padrone; pei libertini che
congiuravano contro i Borboni nella farmacia Mondella; per tutti
quanti insomma, poveri e ricchi, ragazze e maritate, che ciascuno nel
paese conosceva le marachelle del vicino, e diceva in cuor suo:
-
Meno male che tocca a lui! - a ogni peccato che sciorinava fuori il
predicatore, e la gente si voltava a guardare da quella parte.
- E allorché sarete nelle fiamme eterne, poi, cosa farete?...
Guai!
- Cosi è? - borbottò donna Orsola Giuncada all'orecchio della figlioula, la quale dimenavasi sulla seggiola, quasi fosse realmente sui carboni accesi, per sbirciare Ninì Lanzo, laggiù in fondo. - Cosi è? Ti vengono i calori adesso? Bada che te li fo passare con qualche ceffone, ehi! - Intanto pareva di soffocare, in quella stia. Fra il caldo, l'oscurità, il sito greve della folla, quelle due misere candele che ammiccavano pietosamente dinanzi al Cristo dell'altare, il guaito del chierichetto che vi cacciava indiscretamente sotto il naso la borsa delle elemosine, il vocione del predicatore che intronava la chiesa e faceva venire la pelle d'oca, da sentirvi mancare il fiato. E sembrava allora che tornassero a pizzicarvi tutte le pulci degli scrupoli vecchi e nuovi, al sentire specialmente le frustate della disciplina che davasi laggiù, al buio, quel buon cristiano di Cheli Mosca, famoso ladro, che era venuto a dare il buon esempio e mostrare che mutava vita, lì, sotto gli occhi stessi del giudice e del capitano giustiziere - cing-ciang - colla cigna dei calzoni. - Ché poi, se mancava un pollo in paese, andavano subito a cercar lui, sangue di Giuda ladro! Gli uomini, dal canto loro, tenevano duro, bene o male. Ma nel recinto delle donne la parola di Dio faceva miracoli addirittura: sospiri, brontolii, soffiate di naso che non finivano più; e chi aveva la coscienza pulita ringraziava il Signore in faccia a tutti quanti - 'coram populo' - e tanto peggio per qualcun'altra che non osava levare il naso dal libro di messa, donna Cristina-del-giudice a mo' d'esempio, o la Caolina, messa in disparte come un'appestata, con tutti i suoi fronzoli e il puzzo di muschio che ammorbava.
- A che ti gioveranno, Maddalena impenitente, le chiome profumate di mirra e d'incenso, e i vezzi procaci?... - Donna Orsola si turò il naso, stomacata dallo scandalo che recava in chiesa la Caolina, poiché gli uomini per simili donnacce trascurano fino il sacramento del matrimonio, e vi lasciano muffire in casa le figliuole, senza contare poi gli altri inconvenienti che ne nascono: le ragazze che per aiutarsi si attaccano pure a uno spiantato senz'arte né parte, come Ninì Lanzo; i padri di famiglia che continuano a correre la cavallina a cinquant'anni... - Guai agli adulteri e ai lussuriosi!...
- Ehm! Ehm!...
Ora che il predicatore si era buttato addosso al settimo peccato mortale, e diceva pane al pane, la povera donna Orsola si sentiva sulle spine per la figliuola, che sgranava gli occhi e non perdeva una sola parola della predica. Tossì, si soffiò il naso; infine cominciò a farle la predica a modo suo, che le ragazze in chiesa devono stare composte e raccolte, ascoltando solo quello che sta bene per loro, senza bisogno di fare quel viso sciocco, quasi il servo di Dio parlasse turco.
Parlava come sant'Agostino invece il predicatore; tanto che si sarebbe udita volare una mosca; la stessa Caolina si era calato il manto sugli occhi, e pareva contrita anche lei.
L'uditorio era così penetrato dal soggetto della predica, che vecchie di cinquant'anni tornavano ad arrossire come zitelle, e le più infervorate guardavano di traverso donna Santa Brocca, la moglie del dottore, che era venuta alla predica con un ventre di otto mesi che faceva pietà, e si sentiva morire sotto quelle occhiate, poveretta.
Una santa donna davvero però costei, timorata di Dio, sempre fra preti e confessioni, tutta della casa e del marito, tanto che gliela aveva empita di figliuoli, la casa. E il marito - un libertino, uno di quelli che andavano a cospirare nella farmacia Mondella - ogni volta che sua moglie mettevasi a letto coi dolori del parto, se la pigliava con Dio e coi sacramenti, specie quello del matrimonio, talché la poveretta piangeva nove mesi interi quando tornava ad essere in quello stato.
Ma stavolta donna Santa gliene fece una
più grossa delle altre. È vero che il diavolo e il
predicatore ci misero la coda - con quella scena dell'altro mondo che
il quaresimalista aveva preparato - a fin di bene però. Mentre
sgolavasi a gridare:
- Guai a voi, lussuriosi! - Guai a te,
adultera! - apparvero le fiamme della pece greca nel bel mezzo della
chiesa, e si udirono il sagrestano coi compari che strillavano:
-
Ahi! Ohimé! - Che vedeste allora! Chi diceva che erano proprio
i diavoli, chi piangeva ad alta voce, chi si buttava ginocchioni. La
vedova Rametta, che aveva il marito sepolto lì di fresco,
svenne dalla paura, e due o tre per simpatia. La povera donna Santa
Brocca poi, già debole di mente per la gravidanza, i digiuni e
le devozioni, sbigottita fra i rimproveri del marito e le invettive
del predicatore, sofferente dal caldo, dalla vergogna, dal puzzo di
zolfo, fu colta all'improvviso dagli scrupoli, o da che so io,
cominciò a smaniare e a stralunare gli occhi, pallida come una
morta, annaspando colle mani in aria, gemendo:
- Signore!... Sono
una peccatrice!... Pietà e misericordia!... - e tutt'a un
tratto, crac, fece la frittata.
Figuratevi il putiferio: voci, strilli, mamme che scappavano, spingendosi innanzi le ragazze curiose di vedere: insomma, un parapiglia. Gli uomini, nella confusione, invasero il recinto riservato, a dispetto del giudice che brandiva la canna d'India, e gridava come fosse in piazza. Corsero pugni e pizzicotti, nel pigia pigia. Quella fu anzi l'occasione che Betta l'indemoniata si rimise con don Raffaele Molla, dopo tante liti e tante vergogne che erano state fra di loro, e la Caolina fece vedere a chi voleva le brachesse ricamate, scavalcando seggiole e panche meglio di una capra. Una baraonda da farvi badare al portafoglio o alla catenella dell'orologio, se era il caso, ché il giudice a buon conto appioppò una stangata sulle spalle a Cheli Mosca, per tenerlo in riga.
Infine, qualche bene intenzionato, coll'aiuto del giudice e delle altre autorità, sgridando, strepitando, pigliando la gente per il petto del vestito, correndo di qua e di là, come cani intorno al gregge, riuscirono a mettere un po' d'ordine e ad avviare la processione che doveva recarsi alla Matrice, come al solito, per ringraziare il Signore, la ciurmaglia innanzi, alla rinfusa, a spinte e a sdruccioloni per la viuzza dirupata, e i galantuomini dietro, a due a due, colla corona di spine e la disciplina al collo, che da ogni parte correvasi a veder passare a quel modo i meglio signori del paese, baroni e pezzi grossi, cogli occhi bassi, e le finestre erano gremite di belle donne - una tentazione per quelli che passavano in processione colla corona di spine in testa. Nel terrazzino del pretorio donna Cristina-del-giudice chiacchierava colle sue amiche, e faceva gli onori di casa quasi fosse la padrona.
- Sicuro! Donna Santa Brocca! Bisogna
dire che ci abbia di gran porcherie sulla coscienza! L'avrebbe detto,
eh? una mascherona come lei! E si faceva passare per santa! Anche suo
marito farebbe meglio ad aprire gli occhi in casa sua, invece di
sparlare di tutto e di tutti! - Il dottor Brocca, che era realmente
un giacobino, un malalingua di quelli della farmacia Mondella, e
andava in giro per le sue visite, invece di ascoltare la predica e di
seguire la processione, come seppe il castigo di Dio che gli era
capitato addosso, e gli portarono a casa la moglie più morta
che viva, cominciò a strepitare e a prendersela col
quaresimalista, cogli esercizi spirituali, e col Governo che
permetteva simili imposture, e tiravano ad accopparvi una gestante
con quelle commedie; finché il giudice lo mandò a
chiamare in pretorio 'ad audiendum verbum', e gli fece una bella
lavata di capo:
- che il Govemo è quello che comanda, e non
sarete voi, mio caro, che gli insegnerete ciò che deve fare.
Avete capito? - E il quaresimalista apparteneva a quell'ordine dei
reverendi padri liguorini che si facevano sentire sino a Napoli, e
andavano girando e predicando per notare a libro maestro buoni e
cattivi cittadini, come fa san Pietro in paradiso, per conto dei
superiori. - Già voi non siete nella pagina pulita, caro don
Erasmo! Che siete stanco di fare le vostre visite, adesso, e volete
riposarvi in qualche carcere di Sua Maestà? Fatevi i fatti
vostri, piuttosto. Avete capito? - I fatti suoi erano che sua moglie
stava per lasciarlo vedovo, con cinque figliuoli sulle spalle, povero
don Erasmo, e per giunta, nel delirio, essa gli spifferava sotto il
naso certe cose che gli facevano drizzare le orecchie, pur troppo!
- Guai all'adultera! Guai ai lussuriosi!... Sono in peccato mortale!... Signore, perdonatemi!... - Quello che aveva sentito alla predica, insomma. Ma don Erasmo, che non era stato alla predica, non sapeva che pensare, sgranava gli occhi, si faceva di tutti i colori, balbettava ansioso:
- Eh? Che dici? Eh? - Non che sua moglie avesse mai dato occasione a sospettar di lei, poveretta, con quella faccia! che sarebbe stata una vera birbonata a volergli fare quel tiro al dottor Brocca, un altro che non ci fosse obbligato, come vi era costretto lui, purtroppo, per amor della pace, per accontentare la moglie che aveva la testa piena delle diavolerie dei preti, e osservava con fervore tutti e cinque i sacramenti... Si intendeva lui, che aveva una nidiata di figlioli sulle spalle! Già i preti non pagano del loro! E quando una donna si è scaldata la testa, poi... Ne aveva viste tante! - Eh? che dici? Parla chiaro, in malora -.
Ma l'inferma non dava retta, accesa, guardando chi sa dove cogli occhi stralunati. E donna Orsola Giuncada, che gli era sempre fra i piedi, col pretesto di assistere la cugina donna Santa, gli dava sulla voce, per di più:
- È questa la maniera? Dopo un aborto? Mi meraviglio di voi che siete medico! - - E lasciatela dire, peste! Si tratta del mio interesse!... - Le amiche che venivano a visitare l'inferma facevano le meraviglie!... - Possibile! Un caso simile! Se stava così bene!
Era venuta alla predica! Una madre di famiglia che era un modello!
Che scrupoli poteva avere? - - Mah!... Mah!... - Alcune tentennavano allora il capo discretamente, altre invece si guardavano fra di loro, e se ne andavano senza chiedere altro.
Qualche burlone perfino stringeva la
mano in certo modo a don Erasmo che sembrava dirgli:
- Pazienza! È
toccata a voi... - Almeno gli sembrava! Giacché, quando vi si
è ficcata una di quelle pulci nell'orecchio, un galantuomo non
sa più che pensare. Vito 'Nzerra non era venuto a riferirgli
pure le chiacchiere che faceva correre donna Cristina-del-giudice,
quella pettegola, insudiciando anche lui, povero galantuomo?
Le chiacchiere non finivano più:
forse donna Santa era uscita di casa che non si sentiva bene quel
giorno: o una mala luna nella gravidanza: o qualche spintone della
folla: e questo, e quest'altro; oppure aveva avuto che dire col
marito:
- Dite la verità, eh, don Erasmo?... - La verità...
la verità... Non si può sapere la verità! - Don
Erasmo, che si sentiva scoppiare, la buttò infine in faccia
alla Borella e a due o tre altri fidati:
- Non vogliono che si
dica la verità!... preti, sbirri, e quanti sono della baracca
dei burattini!... che menano gli imbecilli per il naso!... proprio
come le marionette!... e tirano ad accopparvi una gestante con simili
pagliacciate!... - - Ma no! Ma no! Siamo state tutte alla predica...
C'ero anche io...
A nessuna è successo niente... -
- Allora! Allora!... - Allora non sapeva che dire il povero don
Erasmo, cogli occhi stralunati e la bocca amara. Tornava a supplicare
la moglie, prendendola colle buone, colla faccia atteggiata al riso,
mentre preparava decotti e l'abbeverava di medicine:
- Dilla al
tuo maritino la verità... Cosi è questo peccato? Che
devo perdonarti? - Come parlare a un muro. Donna Santa non disserrava
neppure i denti per inghiottire le medicine, alle volte; oppure, se
parlava, tornava a battere la stessa solfa di castighi, di peccati
gravi, di lingue di fuoco che aveva sempre dinanzi agli occhi.
- Ah? Non posso sapere nemmeno cosa è successo in casa mia, ah? - sbuffava allora furibondo don Erasmo rivolto a donna Orsola che era sempre lì, fra i piedi.
Lui che sapeva tutte le storie di casa altrui, gli scandali di donna Cristina, le scene della vedova Rametta che andava a piangere, la buon'anima, nelle braccia di questo o di quello! - Se ne facevano le belle risate col farmacista e don Marco Crippa. - Gli pareva di vederlo, adesso, don Marco, strizzando l'occhio guercio, ora che la disgrazia toccata a lui faceva le spese della conversazione.
- Capite bene, donn'Orsola, che ho diritto di sapere infine cosi è successo in casa mia! - - Cosi è successo? Che vedete? Non vedete che vaneggia, poveretta?
Sono le parole della predica che le rimasero in mente... - Giusto! perché le fossero rimaste in mente appunto quelle voleva sapere don Erasmo! In casa sua non ce n'erano mai state di simili porcherie!... Che sapesse lui, almeno! Che sapesse lui, Cristo santo! - Lasciatemi stare, Cristo santo, o dico che siete d'accordo fra di voi! E tu spiegati, mannaggia!
- Che volete? Perdonatemi!... - Ah no! Don Erasmo voleva prima sapere cosa dovesse perdonare! ...e chi ringraziare del tiro fattogli, se mai! ...del furto domestico!
...Sissignore, del furto domestico! Perché quando un galantuomo non è sicuro nemmeno in una casa come la sua, una vera fortezza, e con una moglie come la sua, che a fargli un tiro simile con siffatta moglie doveva essere stata inimicizia bell'e buona!... Ma chi? compare Muzio, il solo che bazzicasse da lui... a sessant'anni suonati!... È vero che donna Santa non era più di primo pelo nemmeno lei, e il peccato poteva essere vecchio anche esso... E allora? Allora? Quei figlioli di cui si era empita la casa in ossequio al settimo sacramento? C'era qualche ladro anche fra di loro... Gennarino, o Sofia... o Nicola?... Tutti i santi del calendario c'erano in casa sua! Di tutte le età e di tutti i colori... Anche coi capelli rossi come il notaio Zacco che stava lì di faccia, ed era capacissimo di avergli fatto quel tiro per pura e semplice birbonata, 'gratis et amore Dei'!
Il pover'uomo perdeva la testa in quei sospetti, e si rodeva dentro, mentre gli toccava assistere l'ammalata, e correre di qua e di là per la casa in disordine, costretto a far tutto lui, la pappa per Concettina, lavare il muso ad Ettore - forse i ladri domestici, poveri innocenti!... No, non poteva durare a quel modo!
Donna Santa avrebbe parlato infine, avrebbe detto la verità, - se è vero che era una santa donna, - per scarico di coscienza.
Ma essa invece non confessò nulla, nemmeno in punto di morte, nemmeno al prete che venne a portarle il viatico. Don Erasmo lo prese a quattr'occhi, dopo, seguendolo giù per la scala, colle gambe che gli vacillavano sotto, per conoscere infine questa benedetta verità... - Se è vero che ci sia questo mondo di là...
Se è vero che bisogna andarvi colla coscienza pulita... Specie di certi fatti che tolgono per sempre il sonno e l'appetito a un galantuomo... Disposto a perdonare però... da buon cristiano... - Niente! Neppure al confessore aveva detto nulla sua moglie. - Una vera santa, caro don Erasmo! Potete vantarvene... - o che realmente sua moglie non avesse nulla da dire, o che anche le sante ci hanno il pelo sullo stomaco.
E se il dottor Brocca non poté togliersela allora, non se la tolse mai più quella spina dal cuore, quel dubbio amaro, quel sospetto che gli accendeva il sangue a ciascuno che venisse a cercarlo, o soltanto passasse per via, e lo coglieva di soprassalto se fermavasi un quarto d'ora nella farmacia, e gli metteva l'inferno in casa, gli avvelenava il pane stesso che mangiava a tavola, fra quella nidiata di marmocchi che ne divoravano dei cassoni pieni, chissà quanti a tradimento, e quella moglie che tornata da morte a vita avrebbe voluto tornare anche ad essere come era prima, tutta della casa e del marito, sempre fra preti e confessori.
- Come la fai questa confessione? Che andate a dirgli al confessore voi altre donne?... Se non dite mai la verità!... - La poveretta piangeva, si disperava, faceva mille proteste e mille giuramenti. La cugina Orsola alle volte accorreva alle grida, e gli diceva il fatto suo:
- Ma che volete, infine, da lei?... Volete che inventi dei peccati? Volete esser becco per forza? - E gli toccava mandar giù anche questa e tacere! E gli toccava chinare il capo e cambiar discorso, quando si rideva degli altri mariti disgraziati, con don Marco Crippa e il farmacista.
Casa Orlandi era tutta sossopra. La contessina Bice spegnevasi lentamente: di malattia di languore, dicevano gli uni: di mal sottile, dicevano gli altri.
Nella gran camera da letto, quasi buia in tutto il quartiere illuminato come per una festa, la madre, pallidissima, seduta accanto al letto dell'inferma, aspettava la visita del dottore, tenendo nella mano febbrile la mano scarna e ardente della figliuola, parlandole con quell'accento carezzevole, e quel falso sorriso con cui si cerca di rispondere allo sguardo inquieto e scrutatore dei malati gravi. Tristi colloqui che celavano sotto una calma apparente la preoccupazione di un morbo fatale, ereditario nella famiglia, il quale aveva minacciato la contessa medesima dopo la nascita di Bice - il ricordo delle cure inquiete e trepide che avevano accompagnato l'infanzia delicata della bambina - l'ansia dei presentimenti minacciosi che avevano quasi soffocato la maternità della genitrice e scusato i primi traviamenti del marito, morto giovane, di un male da decrepito, dopo avere agonizzato degli anni su di una poltrona. Più tardi un altro sentimento aveva fatto rifiorire la giovinezza della vedova, appassita anzi tempo fra quella culla minacciata, e quello sposo di già cadavere prima di scendere nella tomba: un affetto profondo e occulto, inquieto, geloso, che si mischiava a tutte le sue gioie mondane e sembrava vivere di esse, e le raffinava, le rendeva più sottili, più penetranti, quasi una delicata voluttà che profumava ogni cosa, una festa, un trionfo di donna elegante. Adesso quell'altra nube paurosa, sorta a un tratto colla malattia della figlia in quel cielo azzurro, sembrava posare simile a una gramaglia sui cortinaggi pesanti del letto dell'inferma, e distendersi sino a incontrare degli altri giorni neri: la lunga agonia del marito, la faccia grave e preoccupata di quello stesso medico che era venuto quell'altra volta, il tic-tac di quella stessa pendola che aveva segnato delle ore d'agonia, e riempiva ora tutta la camera, tutta la casa, di un'aspettativa lugubre. Le parole della madre e della figliuola, che volevano sembrar gaie e tranquille, morivano come un sospiro nella penombra della vòlta altissima.
A un tratto il campanello elettrico squillò nella lunga fila di stanze sfavillanti e deserte. Un servitore silenzioso precedeva in punta di piedi il medico, vecchio amico di casa, il quale sembrava solo calmo, nell'attesa inquieta di tutti. La contessa si rizzò in piedi, senza poter dissimulare un tremito nervoso.
- Buona sera. Un po' tardi oggi... Finisco adesso il mio giro. E questa ragazza com'è stata? - Si era seduto di contro al letto; aveva fatto togliere la ventola dal lume, ed esaminava l'inferma tenendo fra le dita bianche e grassocce il polso delicato e pallido della fanciulla, ripetendo le solite domande. La contessa rispondeva con un lieve tremito nervoso nella voce; Bice, con monosillabi tronchi e fiochi, sempre fissando il medico con quegli occhi inquieti e lucenti.
Nell'anticamera si succedevano gli squilli sommessi del campanello che annunziavano altre visite, e la cameriera entrava come un'ombra per annunziare all'orecchio della signora il nome degli amici intimi che venivano a chieder notizie della contessina.
A un certo momento il dottore rizzò il capo.
- Chi è entrato adesso nella sala accanto? - domandò con una certa vivacità.
- Il marchese Danei, - rispose la contessa.
- La solita pozione per questa notte, - continuò il medico quasi avesse dimenticato la sua domanda. - Bisogna osservare a che ora cadrà la febbre. Del resto, nulla di nuovo. Diamo tempo alla cura... - Ma non lasciava il polso dell'inferma, fissando uno sguardo penetrante sulla fanciulla, la quale aveva chinato gli occhi. La madre aspettava ansiosa.
Un istante le pupille ardenti della figlia si fissarono in quelle di lei, e Bice avvampò subitamente in viso.
- Per carità, dottore! per carità! - supplicava la contessa, riaccompagnando il medico, senza badare agli amici e ai parenti che aspettavano in sala chiacchierando fra di loro sottovoce. - Come ha trovato stasera la mia ragazza? Mi dica la verità!
- Nulla di nuovo, - rispondeva lui. - La solita febbriciattola...
il solito squilibrio nervoso... - Ma quando furono in un salottino appartato, si piantò ritto dinanzi alla contessa, e disse bruscamente:
- La sua figliuola è innamorata di questo signor Danei -.
La contessa non rispose sillaba. Solo impallidì orribilmente, e per istinto si portò le mani al petto.
- È un po' di tempo che lo sospettavo, - riprese il medico con certa rude franchezza. - Ora ne son certo. È una complicazione nella malattia, che per la estrema sensibilità dell'inferma, in questo momento, può farsi grave. Bisogna pensarci.
- Lui! - fu la prima parola che sfuggì alla madre, quasi fuori di sé.
- Sì, il polso me l'ha detto. Lei non aveva alcun indizio? Non ha mai sospettato qualche cosa?
- Mai!... Bice è così timida... così...
- Il marchese Danei viene spesso in casa? - La poveretta, sotto lo sguardo fisso e penetrante di quell'uomo che assumeva l'importanza di un giudice, balbettò:
- Sì.
- Noi altri medici alle volte abbiamo cura d'anime, - aggiunse il dottore sorridendo. - Forse è stata una fortuna che quel signore sia venuto mentre io ero qui.
- Ma ogni speranza non è perduta, dottore? Per l'amor di Dio!...
- No... secondo i casi. Buona sera -.
La contessa rimase un momento in quella stanza, quasi al buio, asciugandosi col fazzoletto il freddo sudore che le bagnava le tempie. Quindi ripassò per la sala, rapidamente, salutando gli amici con un cenno del capo, guardando appena Danei, che era in un canto, nel crocchio degli intimi.
- Bice!... figlia mia!... Il medico t'ha trovata meglio oggi, sai!
- Sì, mamma! - rispose la fanciulla dolcemente, con quell'amara indifferenza degli ammalati gravi che stringe il cuore.
- Di là ci sono degli amici... che sono venuti per te... Vuoi vederli?
- Chi sono?
- Ma tutti. La zia, Augusta... il signor Danei... Possono entrare un momentino? - Bice chiuse gli occhi, come assai stanca, e nell'ombra, così pallida com'era, si vide lieve rossore montarle alle guance.
- No, mamma. Non voglio veder nessuno -.
Attraverso le palpebre chiuse, delicate come foglie di rosa, sentiva fisso su di lei lo sguardo desolato e penetrante della madre. All'improvviso riaprì gli occhi, e le buttò al collo quelle povere braccia esili e tremanti sotto la battista, con un atto ineffabile di confusione, di tenerezza e di sconforto.
Madre e figlia si tennero abbracciate a lungo, senza dire una parola, piangendo entrambe delle lagrime che avrebbero voluto nascondersi.
Ai parenti e agli amici che chiedevano premurosi notizie dell'inferma, la contessa rispondeva come al solito, ritta in mezzo alla sala, senza poter dissimulare uno spasimo interno che di quando in quando le mozzava il respiro. Allorché tutti se ne furono andati, rimasero faccia a faccia Danei e lei.
Tante volte, durante la malattia di Bice, erano rimasti soli alcuni minuti, come allora, nel vano della finestra, scambiando qualche parola di conforto e di speranza, o assorti in un silenzio che accomunava i loro pensieri e le loro anime nella stessa preoccupazione dolorosa. Momenti tristi e cari, nei quali essa attingeva il coraggio e la forza di rientrare nell'atmosfera cupa e lugubre di quella stanza d'inferma con un sorriso d'incoraggiamento. Stettero alquanto senza aprir bocca, colla fronte sulla mano. La contessa aveva tale espressione di tristezza in tutta la persona, che Danei non trovava la parola da dirle.
Finalmente le tese la mano. Ella ritirò la sua.
- Sentite, Roberto... Ho da dirvi una cosa... una cosa da cui dipende la vita di mia figlia... - Egli aspettava, serio, un po' inquieto.
- Bice vi ama!... - Danei parve sbalordito, guardando la contessa che si era nascosto il viso fra le mani, e piangeva dirottamente.
- Essa!... È impossibile!... Pensateci bene!...
- No... È un'idea che m'ha fatto nascere il suo medico... Ed ora ne son certa. Vi ama da morirne...
- Vi giuro!... Vi giuro che...
- Lo so, vi credo. Non ho bisogno di cercare perché mia figlia vi ami, Roberto! - esclamò la madre tristamente.
E si abbandonò sul divano.
Roberto era commosso anche lui. Tentò di pigliarle la mano un'altra volta. Ella la respinse dolcemente.
- Anna!...
- No... no! - rispose lei risolutamente.
E le lagrime silenziose parevano che le solcassero le guance delicate come degli anni, degli anni di dolore e di gastigo che sopravvenivano tutt'a un tratto nella sua esistenza spensierata.
Il silenzio sembrava insormontabile. Infine Roberto mormorò:
- Cosa volete che faccia?... dite... - Essa lo guardò smarrita, con un'angoscia indicibile, e balbettò:
- Non so!... non so... Lasciatemi tornar da lei... Lasciatemi sola... - Come rientrava nella camera dell'inferma, dall'ombra del cortinaggio gli occhi della figlia luccicarono ardenti, fissi su di lei, con un lampo incosciente che agghiacciò la madre sulla soglia.
- Mamma, - chiese Bice, - chi c'è ancora?
- Nessuno, figlia mia.
- Ah!... Statti con me, allora. Non mi lasciare -.
E le teneva le mani, tremante.
- Povera bambina! Povero amore! Guarirai presto, sai! L'ha detto il medico.
- Sì, mamma.
- E... e... sarai felice -.
La figlia le fissava sempre in viso quello sguardo.
- Sì, mamma -.
Poi chiuse gli occhi, che sembravano neri nelle orbite incavate.
Successe un mortale silenzio. La madre scrutava quel viso pallido e impenetrabile con uno sguardo ardente, arrossendo e impallidendo a vicenda.
A un tratto si fece smorta come lei, e la chiamò con un'altra voce:
- Bice! - Il suo petto si contraeva spasmodicamente, come se qualche cosa vi agonizzasse dentro. Poscia si chinò sulla figliuola, posando la guancia febbrile su quell'altra guancia scarna, e le mormorò nell'orecchio, con un soffio appena intelligibile:
- Senti, Bice... tu ami?... - Bice spalancò gli occhi all'improvviso, tutta una fiamma in volto.
E con quegli occhi sbarrati e quasi paurosi, affascinati dagli occhi lagrimosi della madre, balbettò con un accento ineffabile d'amarezza, e quasi di rimprovero:
- Oh mamma!... - Allora la sventurata, sentendosi penetrare quella voce e quelle parole sino all'intimo del cuore, ebbe il coraggio di aggiungere:
- Danei ha chiesto la tua mano.
- Oh mamma! oh mamma! - ripeteva la fanciulla con lo stesso accento supplichevole e dolente, stringendosi nelle coperte con un senso di pudore. - Mamma mia!... - La contessa, che sembrava anche lei nello smarrimento dell'agonia, balbettò:
- Però... se tu non l'ami... se non l'ami... di'!... - L'inferma ascoltava palpitante, ansiosa, agitando le labbra senza proferir parola, con gli occhi spalancati, enormi sul volto rifinito, che interrogavano gli occhi della madre. Tutt'a un tratto, come quella si chinava verso di lei, l'abbracciò stretta, tremando a verga, stringendola con tutta la forza delle sue povere braccia, con un'effusione che diceva tutto.
La madre, in un impeto d'amore disperato, singhiozzava:
- Guarirai! Guarirai! - E tremava convulsivamente ancor essa.
Il giorno dopo la contessa aspettava Danei nel suo gabinettino, seduta accanto al caminetto, stendendo verso il fuoco le mani così bianche che sembravano esangui, cogli occhi fissi sulla fiamma.
Quanti pensieri, quante visioni, quanti ricordi passavano dinanzi a quelli occhi! La prima volta che si era turbata al cospetto di Roberto - il silenzio che era caduto all'improvviso fra di loro - e le prime parole d'affetto che egli le aveva sussurrato all'orecchio, abbassando la voce ed il capo - il batticuore delizioso che soleva imporporarle le gote ed il seno, quando egli l'aspettava nel vestibolo dell'Apollo, per vederla passare, bella, fine, elegante, nella mantellina di raso bianco. - Poscia, le lunghe fantasticherie color di rosa, in quel posto medesimo, le gioie trepide e intense, le attese febbrili, nelle ore in cui Bice prendeva la lezione di musica o di disegno. Ora, allo squillare del campanello, si rizzò con un tremito nervoso; e immediatamente, mercé uno sforzo della volontà, tornò a sedere, colle mani in croce sulle ginocchia.
Il marchese si fermò esitante sull'uscio. Ella gli stese la mano che ardeva, evitando di guardarlo. Siccome Danei, non sapendo che pensare, chiedeva della Bice, la contessa rispose dopo un breve silenzio:
- La sua vita è nelle vostre mani.
- Per l'amor di Dio, Anna!... v'ingannate!... - rispose lui. - Bice si inganna... Non può essere... non può essere!... - La contessa scosse il capo tristamente.
- No, non m'inganno! Me l'ha confessato lei... Il dottore dice che la sua guarigione dipende... da ciò!...
- Da che cosa?...
Per tutta risposta ella gli fissò negli occhi gli occhi arsi di febbre. Allora, sotto quello sguardo, la prima parola di lui, impetuosa, quasi brusca, fu:
- Oh!... no!... - Ella giunse le mani.
- No. Anna! pensateci bene... Non può essere... V'ingannate... - ripeteva Danei, agitato anche lui violentemente.
Le lagrime le soffocarono la voce in gola. Poi stese le mani a Roberto, senza dir nulla come nei bei tempi trascorsi. Soltanto, quel viso che gli esprimeva uno spasimo d'angoscia e una preghiera straziante, era diventato tutt'altro in ventiquattr'ore.
Roberto chinò il capo al pari di lei.
Erano entrambi due cuori onesti e leali, nel significato mondano della parola, nel senso di esser sinceri in ogni loro atto. Perché la fatalità facesse abbassare quelle teste alte e fiere, bisognava che le avesse messe per la prima volta di fronte a un risultato che rovesciava bruscamente tutta la loro logica, e ne mostrava la falsità. La rivelazione della contessa aveva colpito Danei di stupore. Adesso, ripensandoci, ne era spaventato; e in quel contrasto d'affetti e di doveri combattentisi sotto il riserbo imposto ad entrambi dalla rispettiva posizione che li rendeva più difficili, egli trovavasi imbarazzato. Parlò di loro due, del passato, dell'avvenire che gli faceva paura; cercando le frasi e le parole onde scivolare sui tanti argomenti scabrosi, per non urtare o ferire alcuno di quei sentimenti così delicati e complessi.
- Pensateci bene, Anna! Questo
matrimonio è impossibile! - Essa non sapeva che dire.
Balbettava solo:
- Mia figlia! mia figlia! - - Ebbene... Volete
che io parta... che mi allontani per sempre!...
Sapete qual sacrifizio farei!... Ebbene, lo volete?
- Ella ne morrebbe -.
Roberto esitò, prima d'affrontare l'ultimo argomento. Poi mormorò abbassando la voce:
- Allora... allora non resta che confessarle ogni cosa... - La madre si irrigidì in una contrazione nervosa, con le dita increspate sul bracciuolo della poltrona. E rispose con voce sorda, chinando il capo:
- Lo sa!... Lo sospetta!...
- E nondimeno?... - riprese Danei dopo un breve silenzio.
- Ne sarebbe morta... Le ho fatto credere che si ingannava.
- E lo ha creduto?
- Oh! - esclamò la contessa con un triste sorriso. - L'amore è credulo... Lo ha creduto!
- E voi! - chiese Roberto con un tremito che non poté dissimulare nella voce.
- Io ho già tutto sacrificato a mia figlia -.
Poi gli stese la mano, e soggiunse:
- Sentite com'è calma?
- Siete certa che sarà sempre così calma?
Ella rispose:
- Sempre! - E sentì freddo nella nuca, alla radice del capelli.
Si alzò vacillante, e si strinse il capo di lui sul petto.
- Ascoltate, Roberto, ora è la madre che vi abbraccia! Anna è morta. Pensate a mia figlia; amatela per me e per essa. Ella è pura e bella come un angelo. La felicità la farà rifiorire. Voi l'amerete come non avete mai amato... Dimenticherete ogni cosa...
siate tranquillo! - Roberto, pallidissimo, non rispose verbo.
Il matrimonio della contessina Bice fu annunciato officialmente pochi giorni dopo che essa entrò in convalescenza. Amici e parenti venivano a congratularsi nello stesso tempo dei due fortunati avvenimenti. Il marchese Danei era uno sposo convenientissimo, e se qualche indiscreto arrischiò delle osservazioni sulla disparità degli anni - o altro - fu messo subito a tacere dal coro unanime delle signore che si sollevavano scandolezzate. La fanciulla risanava davvero, raggiante di vita nuova, colla sincerità, la credulità, l'oblio, l'egoismo della felicità, che espandeva nel seno della madre, la quale trovava la forza di sorriderle. Il medico si fregava le mani, borbottando:
- Io non ci ho alcun merito. Fo come
Pilato. Questa benedetta gioventù se ne ride della scienza.
Adesso ecco le mie prescrizioni:
- Recipe: L'inverno a San Remo o
a Napoli. L'estate a Pegli o a Livorno. Una scappata a Roma, nel
carnevale, e un bel maschiotto alla fine della cura -.
La contessa, alla figliuola che avrebbe voluto condurla seco, aveva risposto:
- No. Io e il dottore non ci abbiamo più nulla a fare in questo viaggio. Tutta la mia pretesa è che siate felici -.
E sorrideva agli sposi, col suo sorriso un po' triste. La figliuola, a volte, aveva inconsciamente degli sguardi acuti che correvano come un lampo dal fidanzato alla madre. A quelle parole, senza saper perché, l'abbracciava ogni volta strettamente, nascondendole il viso in seno.
La contessa aveva detto che quella sarebbe stata l'ultima sua festa; e le sue spalle bianche e delicate mostraronsi realmente un'ultima volta allo sposalizio, nelle sale scintillanti di lumi e affollate d'amici e parenti come nei giorni più tristi in cui erano venuti a chieder notizie della Bice. Roberto, allorché baciò la mano della contessa, non poté dissimulare un certo turbamento.
Poscia quando l'ultima carrozza fu partita, e non rimase a piè dello scalone che il piccolo 'coupé' del marchese, e la carretta inglese che portava alla stazione il bagaglio degli sposi, mentre Bice era andata a cambiarsi d'abito, rimasti soli un momento, la contessa e Roberto:
- Fatela felice! - disse lei.
Danei era nervoso; abbottonava macchinalmente il soprabito da viaggio e tornava a cavarsi i guanti. Non disse nulla.
Madre e figlia si abbracciarono teneramente, a lungo. Infine la contessa respinse quasi bruscamente la figliuola, dicendo:
- È tardi. Perderete il treno. Andate, andate! - La contessa Orlandi aveva tossito un poco quell'inverno, e di tanto in tanto aveva avuto bisogno del medico. Costui, onde non spaventarla, la sgridava, perché essa soleva passare la mattinata in chiesa - a salvarsi l'anima e perdere il corpo - diceva lui. Il buon uomo pigliava la cosa leggermente, per rassicurarla, ma in realtà era inquieto, e ingannandosi a vicenda con una finta gaiezza, pensavano entrambi a una minaccia più grave. Bice scriveva che stava bene, che si divertiva tanto, che era tanto felice, e più tardi accennò anche vagamente a un altro avvenimento che avrebbe affrettato il loro ritorno prima che finisse l'anno.
La contessa telegrafò di non
farne nulla, di aspettare l'avvenimento là dove si trovavano,
protestando che temeva per la figliuola lo strapazzo del viaggio.
Piuttosto sarebbe andata lei stessa a raggiungerli. Però non
andava mai, cercando mille pretesti, differendo di giorno in giorno
quel viaggio, quasi le pesasse. I telegrammi si succedevano. Infine
Roberto ebbe un dispaccio:
- Arrivo stasera -.
La prima persona che Anna vide sul marciapiedi della stazione, giungendo, fu Roberto che l'aspettava, solo. Ella si premeva con forza il manicotto sul cuore, quasi le mancasse il respiro. Il marchese le baciò la mano, sul guanto, e le diede il braccio, mentr'essa balbettava:
- Bice?... Come sta? - Fuori era fermo il piccolo 'coupé' del marchese, col servitore accanto allo sportello. Ella esitò un istante, al momento di montare insieme a lui. Poi si strinse nel suo cantuccio, chiusa nella pelliccia, col velo sul viso.
- Bice sta bene, - rispondeva lui, -...per quanto è possibile...
Sarà tanto contenta! - Sembrava che cercasse le parole, col viso rivolto allo sportello, impaziente d'arrivare. Sfilavano le case e le botteghe illuminate. A un tratto successe l'oscurità, nell'attraversare una piazza. Tutti e due istintivamente, si scostarono e tacquero.
Bice era corsa ad incontrare la madre, e le si buttò al collo con un diluvio di carezze e di parole sconnesse. Era sofferente, e Roberto le diede il braccio per salire le scale. La contessa veniva dopo, un po' stanca anche essa, soffocata dalla pelliccia greve.
Allorché furono nel salotto, in piena luce, ella fu colpita dall'aspetto di Bice, dalla sua veste da camera larghissima, dalle mani venate d'azzurro, posate sui bracciuoli della poltrona dove si era lasciata cadere come sfinita, ma raggiante di una serena felicità. Roberto si chinava per parlarle nell'orecchio. Senza avvedersene si appartavano entrambi spesso e volentieri, discorrendo sottovoce fra di loro, presso la fiamma del caminetto che li colorava di un'aureola rosata, lontani dal mondo, lontani da tutti, dimenticando ogni cosa...
Dopo il primo sbigottimento di quella sera, la contessa sembrava più calma. Allorché trovavasi sola con Roberto, e lui parlava, parlava, quasi avesse paura del silenzio, ella ascoltava col sorriso distratto, sprofondata nella poltrona, accanto al fuoco che lumeggiava d'azzurro i capelli neri, col fine profilo opaco inquadrato nella luce al pari di un cammeo.
Però un nube sembrava sorgere fra madre e figlia, nell'intimità della famiglia: una freddezza incresciosa e insormontabile che agghiacciava le affettuose espansioni: un imbarazzo che rendeva moleste le premure di Roberto per l'una o per l'altra, e spesso anche la presenza fra di loro - come un'ombra del passato che offuscava gli occhi della figlia, che faceva impallidire la madre, che turbava anche Roberto, di tanto in tanto. Una sfumatura d'amarezza accennavasi a volte nelle parole più semplici, nei sorrisi che si evitavano, negli sguardi che si cercavano sospettosi.
Una sera che Bice si era ritirata prima del solito, e Roberto era rimasto nel salotto insieme alla contessa, per farle compagnia, il silenzio piombò all'improvviso, quasi minaccioso. Anna stava a capo chino, dinanzi al fuoco che spegnevasi, presa da un brivido, tratto tratto, e il lume posato sul caminetto le accendeva dei riflessi dorati alla radice dei capelli, sulla nuca che sembrava accendersi anche essa di fiamme vaghe. Come Roberto si chinò a prender le molle, essa trasalì vivamente, e si alzò di scatto per augurargli la buona notte, accusando un po' di stanchezza. Il marchese l'accompagnò sino all'uscio, in preda anche lui a un vago turbamento. In quella apparve Bice, come un fantasma, vestita del suo accappatoio bianco.
Madre e figlia si guardarono, e la prima rimase senza parola, quasi senza fiato. Roberto, il meno imbarazzato di tutti e tre, chiese:
- Che hai, Bice?
- Nulla... Non potevo dormire... Che ora è?
- Non è tardi. Tua madre stava per ritirarsi... dice di sentirsi stanca...
- Ah, - rispose Bice. - Ah... - E non disse altro.
Anna, ancora tremante, balbettò con un triste sorriso:
- Sì... sono stanca.. Alla mia età... figliuoli miei!...
- Ah, - ripeté Bice.
Allora la madre, facendosi pallida come una morta, come soffocata da un'angoscia ineffabile, aggiunse con quello stesso sorriso doloroso:
- Non mi credete?... Non mi credi, Bice?... - E rialzando alquanto i capelli sulle tempie, mostrò che quelli di sotto erano tutti bianchi.
- Oh... È un pezzo... tanto tempo!... - Bice, con uno slancio affettuoso, le buttò le braccia al collo, e le cacciò la testa in seno, senza dir altro. E le mani della madre sentirono che tremava tutta quanta, ancor essa. Roberto, il quale sembrava sulle spine, si era levato per andarsene, quasi vedesse di esser di troppo fra quelle due donne, e nell'istante in cui i suoi occhi si incontrarono in quelli di Anna, arrossò, e parve divampare in quell'istante un ricordo del passato.
La contessa Anna passò due settimane in casa della figlia, dove si sentiva estranea, accanto a Bice, accanto a lui! Come erano mutati! Quando egli le dava il braccio per andare a tavola, quando la figliuola le diceva - Mamma! - senza guardarla, e arrossiva se parlava di suo marito! - Dimenticherete, siate tranquillo! - ella aveva detto a Roberto. E non avevano dimenticato del tutto, né l'uno né l'altra!...
Chiudeva gli occhi e rabbrividiva a quel pensiero... Qualche volta, all'improvviso, la sorprendevano anche degli impeti di collera, di un'altra gelosia pazza. Le aveva rubato perfino il cuore di sua figlia, colui! Tutto le aveva tolto quell'uomo!
Una sera si udì un gran trambusto per la casa. Cocchieri e servitori erano stati spediti in fretta; il medico e un'altra donna erano giunti premurosi, ed erano entrati subito nella camera di Bice. E nessuno era venuto a cercare di lei, sua figlia stessa non la voleva al suo capezzale, in quel momento. - No, nessuno aveva dimenticato! - Quand'egli venne ad annunziarle la nascita della sua nipotina, quell'uomo!... Quando lo vide così commosso e raggiante... - Non l'aveva mai visto così! - Quando lo vide al capezzale di Bice, che era supina sul letto, come fosse già morta, con una lagrima di tenerezza per lui soltanto negli occhi socchiusi... degli occhi che non cercavano che lui!... Allora sentì un odio implacabile contro quell'uomo che accarezzava la sua figliuola dinanzi a lei, e a cui Bice soltanto sorrideva, anche in quel punto.
Come misero il suo nome alla neonata,
ed essa la tenne al battesimo, disse sorridendo:
- Ora posso
morire -.
Bice andava rimettendosi lentamente. Però il suo organismo delicato vibrava ancora. Nei lunghi giorni di convalescenza le venivano dei pensieri neri, degli impeti d'irritazione sorda e irragionevole, degli scoramenti improvvisi, quasi tutti l'abbandonassero. Allora guardava muta, cogli occhi neri, e diceva al marito con accento indescrivibile:
- Dove sei stato? - Dove vai? - Perché
mi lasci sola? - Ogni cosa la feriva; sembrava ingelosirsi anche di
quel resto di eleganza che era sopravvissuto nella madre sua. Era
arrivata a dirle, cercando di dissimulare la febbre che le si
accendeva suo malgrado negli occhi:
- Quando partirai? - La madre
chinò il capo, quasi sotto il peso di un gastigo inevitabile.
Ma Bice tornava poi in sé, e pareva chiedere perdono a tutti colle sue parole e le sue carezze affettuose. Appena incominciò ad alzarsi da letto, la contessa fissò il giorno della partenza. Nel lasciarsi, madre e figlia, alla stazione, erano commosse entrambe, abbracciandosi senza dire una parola, all'ultimo momento, quasi dovessero lasciarsi per sempre.
La contessa giunse tardi a casa sua, di sera, affranta, intirizzita dal freddo. La casa vuota e deserta era fredda ancor essa, malgrado il gran fuoco acceso, malgrado le lumiere solitarie, nelle stanze malinconiche.
La salute della contessa Anna declinò rapidamente. Da prima ne accusò la stanchezza del viaggio, le commozioni, la stagione rigida. Stette circa tre mesi fra letto e lettuccio, e il medico tornò a visitarla tutti i giorni.
- Non è nulla - ripeteva lei. - Oggi mi sento meglio. Domani m'alzerò -.
Alla figliuola scriveva regolarmente, senza accennare però alla gravità del male che l'uccideva. Verso il principio dell'autunno parve migliorare davvero. Ma a un tratto peggiorò in guisa che i familiari si credettero obbligati a telegrafare al marchese.
Roberto giunse il giorno dopo, spaventato.
- Bice non sta bene, - disse al dottore che l'aspettava. - Sono inquieto anche per lei. Non sa nulla... Ho temuto che la notizia... l'agitazione... il viaggio...
- Ha ragione... Anche la salute della marchesa ha bisogno di molti riguardi... È una malattia gentilizia, pur troppo!... Io stesso non avrei preso su di me tale responsabilità... E se non fosse stata la gravità del caso...
- Molto grave? - chiese Roberto.
Il dottore scosse il capo.
L'inferma, appena le annunziarono la visita del genero, entrò in una grande agitazione.
- E Bice? - chiese appena lo vide. - Perché non è venuta?
Egli balbettava, quasi pallido quanto lei, sentendosi anche esso un sudore freddo alla radice dei capelli.
- Siete stato voi... a dirle che non venisse?... - seguitava lei colla voce tronca e soffocata.
Egli non le aveva mai udito quella voce, né visto quegli occhi.
Una donna, china sul capezzale, sforzavasi di calmare l'inferma.
Infine essa tacque, abbassando le palpebre, stringendo forte le mani sul petto.
Volle confessarsi la sera stessa. Dopo che si fu comunicata fece chiamare di nuovo il genero, e gli strinse la mano, quasi per chiedergli perdono.
Nella stanza vagava l'odore dell'incenso - l'odore della morte; soffocato di tratto in tratto da un odore più acuto di etere, penetrante, che pigliava alla gola. Delle ombre livide sembravano errare sul volto della moribonda.
- Ditele... - balbettò la poveretta. - Dite a mia figlia... - L'affanno la vinceva, soffocandole le parole nella strozza, facendole stralunare gli occhi deliranti. Allora accennò che non poteva più, con un moto del capo desolato.
Di tanto in tanto bisognava sollevare di peso sui guanciali quel povero corpo consunto, nell'angoscia suprema dell'agonia. Ella però faceva segno che Roberto non la toccasse. Le si erano quasi sciolti i capelli, tutti bianchi.
- No... no... - furono le ultime sue parole che si udirono gorgogliare indistinte. Giunse le mani per chiudere la battista che le si era aperta sul petto, e così passò, colle mani in croce.
Casa Orlandi era tutta sottosopra. La contessina Bice si moriva di malattia di languore, dicevano gli uni: di mal sottile, dicevano gli altri.
Nella gran camera da letto, sola quasi buia in tutto il quartiere illuminato come per una festa, la madre, pallidissima, seduta accanto al letto dell'inferma, aspettava la visita serale del dottore, tenendo nella mano febbrile la mano scarna e ardente della figliuola, parlandole con quell'accento carezzevole e quel falso sorriso con cui si cerca di rispondere allo sguardo inquieto e scrutatore dei gravemente infermi. Tristi colloqui che celavano sotto l'apparenza della calma la preoccupazione di un morbo fatale da cui era stata colpita la madre della contessa, e che aveva minacciata lei stessa dopo la nascita di Bice - il ricordo delle cure inquiete e trepide di cui era stata circondata l'infanzia di quella bambina - delle prescrizioni severe della scienza che aveva soffocato quasi la sua maternità, e scusato i primi traviamenti del marito, morto giovane di un male da decrepiti, dopo aver agonizzato degli anni su di una poltrona. - Poi un altro sentimento che aveva fatto rifiorire la sua giovinezza, appassita anzitempo fra quella culla minacciata e quel marito di già cadavere prima di scendere nella tomba. Un affetto profondo ed occulto, inquieto, geloso, che si mischiava a tutte le sue gioie mondane, e sembrava fatto di quelle, e le raffinava, le rendeva più sottili, più penetranti, come una delicata voluttà che animava ogni cosa, un abbigliamento, un monile, una festa, un trionfo di donna elegante. - Persino quell'altra nube sórta a un tratto minacciosa in quel cielo azzurro, la malattia della figlia, come una ombra nera che dilatavasi da quei cortinaggi pesanti ed inerti, e ingigantiva, sino a scontrarsi con degli altri giorni neri - la morte di sua madre, l'agonia del marito, la faccia grave e preoccupata di quel medico che era venuto un'altra volta, il tic- tac di quella stessa pendola che riempiva tutta la stanza, tutta la casa, di una aspettativa lugubre. Le parole della madre e della figlia, che volevano sembrar gaie e spensierate, morivano nella semioscurità di quella vòlta altissima.
Ad un tratto i campanelli elettrici squillarono nella lunga infilata di sale sfavillanti e deserte. I servitori silenziosi si affrettavano senza far rumore dinanzi al dottore, il quale giungeva calmo, col sorriso mentito in quell'attesa angosciosa.
La contessa si rizzò senza poter dissimulare un tremito nervoso.
- Buona sera! Un po' tardi! Finisco adesso il mio giro. E questa cara ammalata come è stata? - Si era assiso di contro al letto; aveva fatto togliere la ventola alla lampada ed esaminava l'inferma, tenendo fra le dita bianche e grassocce il polso delicato e pallido della fanciulla; ripeteva le solite domande. La contessa rispondeva con un lieve tremito nervoso nella voce; Bice con monosillabi tronchi, sempre con quegli occhi lucenti e inquieti. Nelle sale accanto si succedevano i colpi di campanello discreti, e la cameriera entrava in punta di piedi per sussurrare all'orecchio della signora il nome degli intimi che venivano a chieder notizie dell'inferma.
Ad un tratto il dottore rizzò il capo.
- Chi è arrivato adesso? - domandò con vivacità strana.
- Il marchese Danei - rispose la contessa.
- La solita pozione per questa notte - continuò il medico, come se avesse dimenticato la sua domanda. - Osservare a che ora cadrà la febbre. Del resto nulla di nuovo. Bisogna dar tempo alla cura -.
Ma non lasciava il polso dell'inferma; fissando uno sguardo penetrante su la fanciulla che aveva chinato gli occhi. La madre aspettava ansiosa. Un istante gli occhi ardenti della figlia si incontrarono con quelli di lei, e avvampò subitamente in viso.
- Per carità, dottore! per carità! - supplicava la contessa, accompagnando il medico sino all'anticamera, senza badare agli amici e ai parenti che aspettavano in un angolo del salone, chiacchierando sottovoce. - Come ha trovata oggi la Bice? Mi dica la verità!
- Nulla di nuovo - rispondeva lui. - La solita febbriciattola, il solito squilibrio nervoso... - Ma quando furono in un salottino appartato, si piantò ritto dinanzi alla contessa, e disse bruscamente:
- La ragazza è innamorata di questo signor Danei -.
La contessa non rispose sillaba. Solo impallidì orribilmente, e per istinto si portò le mani al petto.
- Bisogna pensarci! - ribatté il medico con una certa rude franchezza. - Ora ne son certo. Il caso è grave.
- Lui! - fu la prima parola che scappò alla madre, senza sapere quel che si dicesse.
- Sì; il polso me l'ha detto. Lei non ha avuto alcun indizio? Non ha mai sospettato qualche cosa?
- Mai!... Bice è così timida... così...
- Il marchese viene spesso in casa? -
La poveretta, sotto gli occhietti grigi di quell'uomo che assumeva
l'importanza d'un giudice, balbettò:
- Sì.
- Noi altri medici alle volte abbiamo cura d'anime - aggiunse il dottore sorridendo. - Forse è stato un bene che quel signore sia arrivato nel momento della mia visita.
- Ma ogni speranza non è perduta, dottore? Per l'amor di Dio!...
- No... secondo i casi. Buona sera -.
La contessa rimase un momento in quella stanza, quasi al buio, asciugandosi col fazzoletto un lieve sudore che le umettava le tempie. Quando ripassò dal salone, rapidamente, guardò Danei in un canto, nel crocchio degli intimi, e salutò tutti con un cenno del capo.
- Bice, figlia mia! il dottore t'ha trovata meglio oggi, sai!
- Sì, mamma - rispose la fanciulla dolcemente, con quella amara indifferenza degli ammalati gravi che stringe il cuore.
- Ci è di là delle visite per te. Vuoi vederli?
- Chi c'è?
- Ma tutti. La tua zia, Augusta, il signor Danei... Vuoi vederli?
- Bice chiuse gli occhi, come fosse stanca; e nell'ombra, così pallida com'era, si vide un lieve rossore montarle alle guance.
- No, mamma. Non voglio veder nessuno. - Attraverso quelle palpebre chiuse, delicate come foglie di rosa, sentiva fisso su di lei lo sguardo angoscioso ed intenso della madre. All'improvviso riaprì gli occhi, e le buttò al collo quelle povere braccia magre e tremanti sotto la batista, con un moto indefinibile di confusione, di tenerezza e di sconforto.
Madre e figlia si strinsero teneramente, a lungo, senza dir parola, piangendo entrambe delle lagrime che avrebbero voluto nascondersi.
Ai parenti e agli amici che domandavano premurosi notizie dell'inferma, la contessa rispondeva come l'altre volte, ritta in mezzo al salone, senza poter dissimulare uno spasimo interno che di quando in quando le mozzava il respiro. Allorché tutti se ne furono andati, rimasero faccia a faccia, Danei e lei.
Tante volte erano rimasti soli alcuni minuti, come allora, vicino a quel tavolo, a scambiare qualche parola di conforto e di speranza, o assorti in un silenzio che accomunava il loro pensiero e le loro anime nella stessa preoccupazione dolorosa; momenti tristi e cari, nei quali ella attingeva la forza e il coraggio di rientrare nell'atmosfera cupa e lugubre di quelle stanze d'inferma con un sorriso di incoraggiamento. Stettero alquanto senza aprir bocca, con la fronte sulla mano. La contessa aveva tale espressione in tutta la sua persona, che Roberto non sapeva cosa dirle. Finalmente le stese la destra. Ella ritirò la sua.
- Sentite, Roberto... Ho da dirvi una cosa... una cosa da cui dipende tutta la sua vita -.
Egli aspettava, serio, un po' inquieto.
- Mia figlia vi ama! - Danei rimase sbalordito, guardando la contessa che si era nascosta il viso tra le mani e piangeva dirottamente.
- Ella!... È impossibile!... Guardate bene!...
- No! Me l'ha detto il medico. Ed ora ne son certa. Vi ama da morirne...
- Vi giuro!... Vi giuro che...
- Lo so. Vi credo. Non ho bisogno di cercare perché Bice vi ami, Roberto!... - E si abbandonò sul divano.
Roberto era commosso anche lui. Tentò di pigliarle la mano un'altra volta.
Ella lo respinse dolcemente.
- Anna!
- No! - esclamò la madre con vivacità.
E quelle lagrime silenziose pareva che le solcassero le guance delicate come degli anni, degli anni di dolore e di castigo che sopravvenivano tutto a un tratto nella sua esistenza spensierata.
Il silenzio sembrava insormontabile. Infine Roberto mormorò:
- Cosa volete che faccia?... dite... - Ella lo guardò smarrita, con un'angoscia indicibile. E balbettò:
- Non so!... non so!... Lasciatemi tornar da lei... Lasciatemi sola stasera... - Come rientrava nella camera dell'inferma, dall'ombra del cortinaggio gli occhi della figlia luccicavano ardenti, fissi su di lei, con un lampo inconsciente che l'agghiacciò sulla soglia.
- Mamma - chiese Bice - chi c'è ancora?
- Nessuno, figlia mia.
- Ah!... Statti con me allora. Non mi lasciare -.
E le teneva le mani, tremante.
- Povera bimba mia! Povero amore! Guarirai presto, sai! L'ha detto il medico.
- Sì mamma.
- E... e... sarai felice -.
La figlia le fissava sempre in viso quello sguardo.
- Sì, mamma -.
Poi chiuse gli occhi, che sembravano neri, nelle orbite incavate.
Successe un mortale silenzio. La madre scrutava quel viso pallido e impenetrabile con uno sguardo ardente, arrossendo e impallidendo a vicenda.
Ad un tratto si fece smorta come lei, e la chiamò con un'altra voce.
- Bice! - Il petto della madre si contraeva spasmodicamente, come se qualche cosa vi agonizzasse dentro. Poi si chinò sulla figliuola, posando la guancia febbrile su quell'altra guancia scarna, e le mormorò nell'orecchio, con un soffio appena intellegibile:
- Ami qualcheduno, figlia mia? - Bice spalancò gli occhi all'improvviso, tutta una fiamma in volto.
Poi, con quegli occhi sbarrati e quasi paurosi, fissi negli occhi pieni di lagrime della madre, balbettò con un accento ineffabile d'amarezza e quasi di rimprovero:
- Oh mamma!... - Allora la sventurata, sentendosi penetrare quella voce e quelle parole sino all'intimo del cuore, ebbe il coraggio d'aggiungere:
- Il signor Danei ha chiesto la tua mano.
- Oh mamma! Oh mamma! - ripeteva la fanciulla con lo stesso accento supplichevole e dolente, stringendosi nelle coperte con un movimento intraducibile. - Oh mamma!... - La contessa, che sembrava anche lei nello smarrimento di un'agonia, biascicava:
- Però... se tu non l'ami... se tu non l'ami... Di'!... - L'inferma ascoltava palpitante, ansiosa, agitando le labbra senza proferir parola, con gli occhi spalancati, enormi sul volto rifinito, fissi negli occhi della madre. Tutt'a un tratto, come quella si chinava verso di lei, l'avvinse al collo con le braccia tremanti, stringendola con una forza che diceva tutto.
La madre, in un impeto d'amore disperato, singhiozzava:
- Guarirai! guarirai! - E tremava convulsivamente.
Il giorno dopo, la contessa aspettava Danei nel suo gabinettino, seduta accanto al caminetto, stendendo verso il fuoco le mani così bianche che sembravano non avesse più una goccia di sangue nelle vene, con gli occhi fissi sulla fiamma. Quanti pensieri, quante visioni, quanti ricordi, passavano dinanzi a quegli occhi! Il primo turbamento che l'aveva sorpresa al sentire annunziare la solita visita di lui, - il silenzio che era caduto all'improvviso fra loro due, e la parola che egli le aveva sussurrato all'orecchio, abbassando la voce ed il capo, - il batticuore delizioso che le aveva imporporato le gote ed il seno quando egli l'aveva aspettata nel vestibolo dell'Apollo per vederla passare, bionda, nella mantellina di raso bianco. - Poi le lunghe fantasticherie color di rosa, a quel medesimo posto, le gioie trepide e intense, le attese febbrili, nelle ore in cui Bice prendeva la sua lezione di musica o di disegno. Ora, allo squillare del campanello si rizzò con un tremito nervoso. Tornò a sedere, calma, con le mani in croce sulle ginocchia.
Il marchese si fermò esitante sull'uscio. Ella gli stese la mano che ardeva, evitando di guardarlo. Siccome Danei, non sapendo che pensare, chiedeva della Bice, rispose dopo un breve silenzio:
- La sua vita è nelle vostre mani.
- Per l'amor di Dio, Anna!.. Voi v'ingannate!... - esclamò egli - Bice si inganna!... Non può essere! non può essere!... - La contessa scosse il capo tristamente.
- No, non m'inganno! Me l'ha confessato ella stessa... il dottore dice che la sua guarigione dipende... da ciò!...
- Da che cosa?... - Per tutta risposta ella gli fissò in volto gli occhi arsi di febbre. Allora, sotto quello sguardo, la prima parola di lui, impetuosa, quasi brusca, fu:
- Oh!... no!... - Ella giunse le mani.
- No, Anna; pensateci bene... Non può essere!... Voi v'ingannate!
- ripeteva Danei, agitato anche lui violentemente.
Le lagrime le soffocarono la voce in gola. Poi stese le mani a Danei, senza dir nulla, come nei bei tempi trascorsi. Soltanto quegli occhi che lo fissavano con un'espressione di preghiera e d'angoscia straziante erano diventati tutt'altri in ventiquattr'ore.
Roberto chinò il capo al pari di lei.
Entrambi erano due cuori onesti e leali, nel significato mondano della parola, nel senso di poter sempre affrontare a fronte aperta qualsiasi conseguenza di ogni loro azione. Perché la fatalità facesse abbassare quelle teste alte e fiere, bisognava che le avesse messe per la prima volta di fronte a un fatto che rovesciava bruscamente tutta la loro logica e ne mostrava la falsità. La rivelazione della contessa aveva sbalordito Danei; ora ripensandoci ne era spaventato; e in quel contrasto d'affetti e di doveri combattentisi sotto il riserbo imposto ad entrambi dalla rispettiva posizione che li rendeva più difficili, si trovava imbarazzato. Parlò di loro due, del passato, dell'avvenire che gli faceva paura, cercando le frasi e le parole per scivolare fra tanti argomenti scabrosi, per non urtare o ferire alcuno di quei sentimenti così delicati e complessi.
- Pensateci bene, Anna! Questo
matrimonio è impossibile! - Ella non sapeva che dire.
Balbettava solo:
- Mia figlia! mia figlia!
- Ebbene... Volete che parta?... che mi allontani per sempre?...
Sapete qual sacrifizio io farei!... Ebbene, lo volete?
- Ella ne morrebbe -.
Roberto esitò, prima d'affrontare l'ultimo argomento. Poi mormorò, abbassando la voce:
- Allora... allora non resta che confessarle ogni cosa... - La madre si irrigidì in una contrazione nervosa, con le dita increspate sul bracciuolo della poltrona. E rispose con voce sorda, chinando il capo:
- Lo sa!... Lo sospetta!...
- E nondimeno?... - riprese Danei dopo un breve silenzio.
- Ne sarebbe morta... Le ho fatto credere che si ingannava.
- E lo ha creduto?
- Oh! - esclamò la contessa con un triste sorriso. - L'amore è credulo... Lo ha creduto!
- E voi? - chiese Roberto con un tremito che non poté dissimulare nella voce.
- Io ho già tutto sacrificato a mia figlia -.
Poi gli stese la mano, e soggiunse:
- Sentite com'è calma?
- Siete certa che sarà sempre così calma? - Ella rispose:
- Sempre! - E sentì freddo sulla nuca, alla radice dei capelli.
Si alzò vacillante, e si strinse il capo di lui sul petto.
- Ascoltate, Roberto, ora è vostra madre che vi abbraccia! Anna è morta. Pensate a mia figlia! Amatela per me e per lei. Ella è pura e bella come un angelo. La felicità la farà rifiorire. Voi l'amerete come non avete mai amato... Dimenticherete ogni cosa...
siate tranquillo!... - Roberto era pallido.
Il matrimonio della contessina Bice fu annunciato officialmente pochi giorni dopo che ella entrò in convalescenza. Amici e parenti venivano a congratularsi dei due fortunati avvenimenti in una volta. Il marchese Danei era un partito convenientissimo; e se un qualche indiscreto arrischiò delle osservazioni sulla disparità degli anni, o altro, fu messo subito a tacere dal coro unanime delle signore che si sollevava scandalizzato. La fanciulla risanava davvero, raggiante di una vita nuova, colla cecità, colla credulità, coll'oblio, coll'egoismo della felicità che espandeva nel seno della madre, la quale sorrideva. Il dottore si fregava le mani, borbottando:
- Io non ci ho alcun merito. Io faccio come Pilato. Questa benedetta gioventù se ne ride della scienza. Io non ci ho altro da prescrivere qui: Recipe. - L'inverno a San Remo o a Napoli.
L'estate a Pegli o a Livorno. Una scappata a Roma pei balli del carnevale, e un bel maschiotto alla fine della cura -.
La contessa, alla figlia che avrebbe voluto condurla seco rispondeva:
- No. Io e il dottore non ci abbiamo più nulla a fare in questo viaggio. Tutta la mia pretesa è che siate felici! - E sorrideva agli sposi, del suo sorriso un po' stanco. La figlia alle volte aveva inconsciamente degli sguardi acuti che correvano come un lampo dal fidanzato alla madre. A quelle parole, senza saper perché l'abbracciò stretta, nascondendole il viso in seno.
La contessa diceva che quella era l'ultima sua festa; e le sue spalle bianche e delicate si mostrarono un'ultima volta alla cerimonia dello sposalizio, nelle sale scintillanti di lumi, e affollate di amici e parenti come nei giorni più tristi in cui venivano a chieder notizie della Bice. Roberto le baciò la mano senza poter dissimulare un certo turbamento. Poi, quando l'ultima carrozza fu partita e non rimase a piè dello scalone che il piccolo coupé del marchese, e la carretta inglese che portava il bagaglio degli sposi, mentre Bice era andata a cambiarsi d'abito, rimasero soli un momento, Roberto e lei.
- Fatela felice, Roberto -.
Danei era nervoso, abbottonava macchinalmente il suo ulster da viaggio, si cavava e tornava a infilarsi i guanti. Non disse una parola.
Madre e figlia si abbracciarono strette, strette, lungamente. Poi la contessa respinse quasi bruscamente la figliuola, dicendo:
- È tardi. Perdete il treno. Andate! andate! - La contessa Orlandi aveva tossito un poco quell'inverno, e di tanto in tanto aveva avuto bisogno del medico. Costui, onde non spaventarla, la sgridava perché passava le mattinate in chiesa a salvarsi l'anima e perdere il corpo. Parlava di semplici raffreddori. In realtà entrambi pensavano ad altro, ad una minaccia più grave, e sapevano d'ingannarsi a vicenda. Bice scriveva che stava bene, che era contenta, che era felice, e più tardi accennò anche velatamente a un altro avvenimento che avrebbe affrettato il loro ritorno prima dell'anno.
La contessa telegrafò di non farne nulla, di aspettare l'avvenimento là dove si trovavano. Ella era inquieta; temeva lo strapazzo del viaggio. Piuttosto sarebbe corsa lei a raggiungerli, all'ultimo momento. Però tardava sempre. I telegrammi si succedevano. Infine Roberto ebbe un dispaccio. - Arrivo stasera -.
Il viaggio le parve eterno. Ma allorché udì il fischio dell'arrivo si sentì mancare; ebbe quasi paura.
La prima persona che vide sul marciapiede della stazione, in mezzo alla folla, fu Roberto, che l'aspettava, solo. Ella si strinse con forza il manicotto sul cuore, quasi le mancasse il respiro.
Roberto le baciò la mano, sul guanto, e passarono insieme pel cancello. Intanto balbettava:
- Bice? come sta? - Fuori era fermo il piccolo coupé del marchese, col servitore accanto allo sportello aperto. Doveva montare insieme a lui! Ella si stringeva nel suo cantuccio, chiusa nella sua pelliccia, col velo sul viso.
- Bice sarà tanto contenta! - mormorava lui - tanto contenta! - Ripeteva sempre la stessa cosa, col viso rivolto allo sportello, impaziente d'arrivare. Sfilavano le case e le botteghe illuminate.
Ad un tratto successe l'oscurità, nell'attraversare una piazza.
Tutti e due istintivamente si scostarono, e tacquero.
Poi si udì rimbombare il rumore della carrozza sotto la vòlta dell'androne. Bice era corsa a piedi della scala; si buttò al collo della mamma con un diluvio di carezze e di parole sconnesse.
Era sofferente, e Roberto le diede il braccio per salire le scale.
La madre veniva dopo, un po' stanca anche essa e soffocata dalla sua gran pelliccia.
Quando furono nel salone, in piena luce, ella fu colpita dall'aspetto di Bice, dalla veste da camera discinta, dalle mani venate d'azzurro posate sui bracciuoli, dal viso sbattuto ma raggiante di una felicità serena. Roberto si chinava per parlarle all'orecchio. Senza avvedersene si erano appartati alquanto, vicino al parafuoco che li colorava di un'aureola rosata.
Allora alla donna lasciata in disparte sfuggì un'occhiata rapida e scintillante come una saetta.
Un momento rimasero sole madre e figlia. Dopo avere esitato alquanto, la madre chiese:
- Sei felice?
- Sì, mamma!... Tanto felice! - Anna sola sembrava calma. Allorché rimasero faccia a faccia con Roberto, ed egli parlava, parlava, quasi avesse paura del silenzio, - ella ascoltava col sorriso distratto, sprofondata nella poltrona accanto al fuoco che lumeggiava d'azzurro i capelli neri, col fine profilo opaco inquadrato nella luce al pari di un cammeo.
Una sera che Bice si era ritirata prima del solito, e Roberto era restato con la contessa nel salone a farle compagnia, il silenzio piombò all'improvviso fra di loro.
La contessa si alzò, e gli diede la buona notte semplicemente, accusando un po' di stanchezza anche lei. Roberto era turbato parimente. In questa apparve Bice, come un fantasma, vestita del suo accappatoio bianco.
Madre e figlia si guardarono: e la prima rimase senza parola, quasi senza fiato. Roberto, il meno imbarazzato di tutti e tre, disse:
- Che hai, Bice?
- Nulla... Non potevo dormire... che ora è?
- Non è tardi. Tua madre voleva ritirarsi perché è stanca...
- Miei cari - disse questa con un mesto sorriso. - Alla mia età...
Pensateci bene... - E come Roberto, per abitudine, faceva un gesto... essa rialzò alquanto i capelli sulle tempie, per mostrare quelli di sotto, tutti bianchi.
- Oh, è un pezzo! - rispose all'atto di sorpresa di Bice.
Questa, con uno slancio affettuoso, le buttò le braccia al collo, e le cacciò la testa in seno, senza dir nulla. Però le mani della madre sentivano che tremava tutta.
Roberto era presso il camino, in silenzio, col capo un po' curvo, come gli pesasse qualche cosa sull'anima, e sentisse di essere di troppo fra quelle due donne, in tal momento. Quando i suoi occhi si incontrarono con quelli di Anna arrossì; e fu quella l'unica volta che fra di loro divampasse un ricordo del passato!
- Ora son nonna! - osservò sorridendo la contessa, ritta di faccia allo specchio, e lisciandosi i capelli con le mani bianche. E rivolgendosi verso di loro, stese semplicemente le mani a tutti e due. Roberto gliele baciò, chinando profondamente il capo. Bice di tanto in tanto le stringeva la destra nervosamente; ed ella sentiva quella stretta penetrarle sino al cuore, come una fitta.
Allorquando fu sola nella sua stanza, si buttò ginocchioni davanti al crocifisso, col capo fra le braccia, e la luce della candela solitaria le baciò a lungo la nuca bianca e delicata.
Passò due settimane in casa della figlia, dove si sentiva estranea, accanto a Bice, accanto a lui! Com'erano mutati! quando egli le dava il braccio per andare a tavola; quando Bice diceva, - Mamma! - senza guardarla, e arrossiva se parlava di suo marito! - Dimenticherete, siate tranquillo! - ella avea detto a Roberto. E per dimenticare era bastato!... Ahi! Ella chiudeva gli occhi rabbrividendo a quel pensiero. Qualche volta, all'improvviso, sentiva degli impeti di collera, quasi di gelosia pazza. Gli aveva tolto persino il cuore di sua figlia! Tutto gli aveva tolto quell'uomo!
Una sera avvenne un gran trambusto nella casa; cocchieri e servitori spediti in furia; medici che arrivavano frettolosi, ed entravano difilato nella camera di Bice.
Ad intervalli succedeva un gran silenzio. C'era una bugia sola che rischiarava il salone. Tutt'a un tratto si udì un grido: un grido straziante che risonò dentro di lei come uno schianto. E non poteva pregare nemmeno. La sua ragione se ne andava dietro quei passi che si udivano frettolosi, in anticamera, pel corridoio, per le scale.
Più tardi, Roberto bussò
discretamente all'uscio di lei, ella proferì:
- Entrate! -
con voce rauca.
Era commosso e raggiante insieme. Non l'avea mai visto così.
Volevano che venisse a vedere il neonato; che fosse la madrina; che so io... - No! - rispose, con la febbre negli occhi.
Poscia accorse nella camera della figlia, convulsa. Bice era supina sul letto, bianca, estenuata, con gli occhi socchiusi e ancora umidi, e i denti stretti dall'angoscia. La madre si sentiva dentro di sé questo ruggito:
- Voi me l'avete uccisa voi! - Venne il
giorno del battesimo, nella chiesa tutta scintillante di lumi. La
contessa aveva poi consentito a fare da madrina. Se alle volte usciva
in qualche stranezza, dovevano accusarne lo stato di salute della
povera nonna; diceva sorridendo:
- Anche le nonne hanno dei nervi!
- Quando le tolsero di dosso la pelliccia, sotto i merletti e i
diamanti dell'abito di gala, parve di vedere uno spettro. Gli omeri
aguzzi mal dissimulati, e gli occhi arsi di febbre, in fondo alle
occhiaie livide, sul volto solcato. La bambina fu battezzata Carlotta
Danei.
Bice andava rimettendosi lentamente. Era un organismo delicato che vibrava al minimo urto. Nei lunghi giorni di convalescenza le venivano dei pensieri neri, degli impeti di irritazione sorda ed ingiusta, degli scoramenti improvvisi, come se tutti l'abbandonassero. Allora guardava muta, cogli occhi neri, e diceva al marito con un accento indefinibile:
- Perché esci? Dove vai? Perché mi lasci sola? - La sera del battesimo, al vedere i pizzi e i diamanti della mamma, aveva mormorato, stringendosi nelle coperte, aggrottando le ciglia, con uno strano accento di rancore quasi selvaggio:
- Come sei bella! - E poi, una volta,
nella febbre, con gli occhi accesi:
- Quando partirai? - Roberto
abbassava il capo, e la contessa si sentiva soffocare.
Alcuni istanti dopo, dietro alle cortine del letto, si portò il fazzoletto alle labbra, e lo nascose in fretta macchiato di sangue.
Poscia Bice tornava in sé, e pareva chiedere perdono a tutti con le sue parole e le carezze affettuose. Appena cominciò a lasciare il letto, sua madre fissò il giorno della partenza. Bice le rivolse uno sguardo scrutatore e impallidì chinando tosto gli occhi. Quando fu l'ultimo momento, alla stazione, erano commosse tutte e due, abbracciandosi senza dire una parola, come si lasciassero per sempre.
La contessa arrivò tardi, la sera, affranta, intirizzita dal freddo. La casa vasta e deserta era fredda anche essa, col gran fuoco acceso, con le lumiere solitarie, per tutta l'infilata delle sale.
Anna si era ammalata. Prima accusò la stanchezza del viaggio, poi le commozioni, o un colpo d'aria. Stette circa tre mesi fra letto e lettuccio, il medico tornò a venire tutti i giorni.
- Non è nulla - ripeteva lei - oggi mi sento meglio. Domani mi alzerò -.
Alla figlia scriveva regolarmente, e non aveva voluto che il dottore la informasse della malattia.
Verso il principio dell'autunno parve migliorare davvero. Ad un tratto ricadde, e in due giorni peggiorò in guisa che il dottore si credette in debito di telegrafare al genero. Roberto arrivò il giorno dopo, agitatissimo.
- Bice è in stato interessante - disse al dottore, che vide per il primo - e ho temuto che questa notizia...
- Ha fatto bene. Anche la salute della marchesa ha bisogno di molti riguardi.... È una malattia gentilizia... Io stesso non avrei preso su di me questa responsabilità se non fosse stata...
la gravità del caso...
- Molto grave? - balbettò Roberto.
Il dottore scosse il capo.
- Le hanno portato oggi il viatico -.
Per tutte le stanze infatti vagava un odore di incenso. - Odore di morte - diceva il medico, vinto nella camera della moribonda da un odore più forte di etere, acuto, penetrante, che sembrava andare al cuore. Il letto bianco impallidiva in fondo alla vasta alcova oscura spalancata.
Roberto si arrestò su quella soglia, sconvolto, e fece un passo indietro.
- Non vuol vederla? - chiese la vecchia cameriera.
- No... Non so... Bisognerebbe avvertirla... - La cameriera si accostò al letto, e si chinò sulla moribonda. Poi le fece un segno con la mano. Anna era immobile, con gli occhi spalancati, delle ombre livide sulle guance e alle tempie.
Ai piedi del letto stava una suora vestita di color bruno. La cameriera ritta dall'altro lato, piangendo.
- Bice... - balbettava Roberto - Bice... - E non poteva aggiunger altro, soffocato. Ella non rispondeva, non fiatava nemmeno, sempre con gli occhi aperti, fissi, immobili.
Roberto si volse al dottore, con un'interrogazione d'angoscia repressa negli occhi.
Questi scosse il capo.
Roberto lentamente cadde sui ginocchi, quasi gli fossero mancate le gambe. Tutt'a un tratto la pendola sonò la mezza; egli tornò a rizzarsi in piedi con un sussulto.
La suora si era alzata, e la cameriera si accostava al letto, col fazzoletto agli occhi. Ma la moribonda non si era mossa. Il medico le teneva il polso con gli occhi fissi su di lei. Da lì a poco come un'ombra le passò sul viso.
Roberto sentì una mano che lo prendeva per il braccio, e lo conduceva via dolcemente.
Ecco come lo zio Lio raccontava poi quella faccenda:
Mancava dove andare ad ammazzarsi? Nossignore, proprio qui; ché per dieci miglia in giro ne fecero piangere degli occhi! E anche loro ne seminarono delle ossa a far concime, lungo la strada, fra le siepi, dietro i muri, uomini e bestie mietuti a fasci, talché un mese dopo, a dar un colpo di zappa, ne saltavano ancora fuori, ossa di cristiani! Figuratevi i campi e gli orti! E la povera gente del paese che non c'entrava per nulla in quella lite, e non voleva entrarci. Alcuni vi lasciarono la pelle, infine - per difendere la sua roba. - La roba e la vita, perse!
Basta. Molti se l'erano data a gambe il
giorno prima, a buon conto, come sentivano:
- Vengono! - Gli
svizzeri! - La cavalleria!
- E chi non gli era bastato l'animo di
piantar subito casa e paese, all'ultimo momento disse pure:
-
Meglio il danno che la pelle - e via: uomini, donne, bestie, quello
che si poteva mettere in salvo insomma; le vecchie col rosario in
mano.
Io non avevo nessuno al mondo, soltanto quei quattro sassi al sole, la casa, l'orto, lì proprio sulla strada, con tanti soldati che passavano - chi li diceva dei nostri - chi di quegli altri - ciascuno che voleva mangiarsi il mondo - certe facce! Cosa avreste fatto? Rimasi a guardia della mia casa, lì accanto, seduto sul muricciuolo. - A svignarsela, poi, c'è sempre tempo - pensai.
Intanto passa un'ora, ne passano due. I nostri avevano tirato dei cannoni sin lassù sulla collina, in mezzo alle vigne. Figuratevi il danno! A un tratto giunge uno a cavallo, tutto arrabbiato, che pareva volesse mangiarsi il mondo anche lui - uno di quelli che insegnano a farsi ammazzare agli altri - e si mette a gridare da lontano. Allora uomini, cannoni, muli, via a rompicollo dall'altra parte; povere vigne! Però stavolta quello del cavallo aveva pure la testa fasciata; segno che si picchiavano diggià, in qualche luogo. Però non si vedeva nulla ancora, dalle nostre parti. Il paese quieto, la via deserta, la città che pareva tranquilla anche essa, come se non fosse fatto suo, sdraiata in riva al mare, laggiù, e le fregate che andavano e venivano innanzi e indietro, fumando. - Questa è l'ora d'andare a mangiare un boccone, - dico io, dall'alba che stavo piantato lì come un minchione.
In quella si mette a tuonare, lassù
nella montagna. Uno, due, tre, infine un temporale a ciel sereno, in
quella bella giornata di Venerdì Santo che dovevano succedere
tanti peccati. - Buono! Addio voglia di mangiare un boccone! Lo
stomaco se n'era già bell'e sceso in fondo alle calcagna, con
quella solfa. A buon conto è meglio correre a casa, e stare a
vedere come si mettono le cose da dietro l'uscio. Scendo quatto
quatto dal muricciolo, e filo carponi lungo la siepe. Le Proscimo
allora mi vedono passare; la vecchia apre un po' di finestra, e si
mette a strillare:
- O zio Lio - Cosa succede? - Per amor di Dio!
- C'era anche la figliuola, Nunzia, dietro la madre, più morta
che viva anche lei; tutt'e due che non sapevano far altro:
-
Signore! - Madonna! - Ahimé! - Bene - dico io - chiudetevi in
casa. Stiamo a vedere -.
Mi chiudo in casa mia anche io, e stiamo a vedere. Niente. Non passa un cane. La pace degli angeli da queste parti. Soltanto lassù che si divertono sempre a cannonate. - Buon pro vi faccia!
Tanto, qui il sangue non arriva, quando vi sarete accoppati tutti -. Poteva essere mezzogiorno, a occhio, ché il sagrestano non si arrischiava certo sul campanile quella volta. Quasi quasi m'arrischio a mettere il naso fuori di nuovo, quand'ecco, crac, il tetto dei Minola che rovina, e poi un altro, lì a due passi. Le palle ci piovono sui tetti, adesso!
Che vedeste! Chi è rimasto a fare il bravo va a cacciarsi sotto il letto. Altri che si erano rintanati nelle cantine o in qualche buco, saltano fuori all'impazzata. Pianti, grida, un baccano d'inferno. Io andavo correndo di qua e di là per la casa, senza sapere dove ficcarmi, talmente ogni colpo me lo sentivo fra capo e collo. - Aiuto! - Cristiani! - gridavano le Proscimo. C'è cristiani e turchi in quel momento? Maledette donne che ce li tirano addosso, ora! Eccoli infatti che arrivano, prima dieci, poi venti, poi, che vi dico? un fiume. Soldati e poi soldati che si vedono passare dal buco della chiave, per più di un'ora, a piedi, a cavallo, con certi cannoni di qua a là. Povera la città che se li vede capitare addosso!
Intanto, se Dio vuole, di qui se ne
vanno, a poco a poco; ché quando pareva fossero passati tutti,
ne giungevano altri ancora, a frotte, alla spicciolata, zoppi,
sfiniti, strascinandosi dietro il fucile e le gambe, con certe facce
nere e arse. E a un tratto ecco che si mettono a bussare in mala
maniera dalle Proscimo, alla mia porta, qua e là alle poche
case lungo la strada, volendo da bere, coi sassi, coi fucili, e
minacciano di sfondare ogni cosa. Al vedere che lo fanno davvero,
dove non rispondono subito, aprono le Proscimo, apro io pure, e ci
mettiamo alla fune del pozzo. Acqua all'uno, acqua all'altro; ne
vengono sempre! Bisogna vedere come vi si buttavano, colla faccia,
colle mani, coi berretti, e spinte, e busse, una ressa indiavolata.
Delle facce, Dio ne scampi, che avevano gli occhi come brace. E
alcuni si lasciavano cadere giù in fascio col fucile dove
c'era un po d'ombrìa. Altri si cacciavano nelle case e
mettevano le mani da per tutto. - Ah le mani! - Questo poi! Sì
e no. - Tira e molla. - Si cercava di persuaderli colle buone e colle
cattive:
- Caporale! - Che fate? - Siamo poveri campagnoli! -
Noialtri non c'entriamo colla guerra -. A chi dite! Come parlare al
muro. E a capire ciò che dicevano loro, peggio, con quel
linguaggio di bestie che hanno. Andare a far sentir ragione alle
bestie! La Proscimo che ci si era provata con uno che le sembrava più
faccia da cristiano, un ragazzo addirittura, biondo come l'oro, fine
e bianco di pelle che sembrava una donna, cercava di addomesticarlo
narrandogli guai e miserie - Sono una povera vedova - con due orfani
sulle spalle! - Ci avrete la mamma anche vossignoria, laggiù
al vostro paese!... - Sissignora che quello invece le adocchia la
figliuola, e tirava a farsi intendere colle mani, giacché
colla lingua non si capivano né lei, né lui. L'uno
peggio dell'altro, in una parola. Gente venuta da casa del diavolo ad
ammazzare e farsi ammazzare per un tozzo di pane. Dopo che ebbero
bevuta l'acqua, vollero bere il vino, e dopo vollero il pane, e dopo
volevano anche la ragazza.
Ah, le donne, poi! Qui non si usa! Pazienza la roba, e tutto il resto. Ma anche le donne adesso? proprio sotto il mostaccio?
Allora era meglio pigliare lo schioppo anche noi, e come finiva, finiva. Vero che erano in tanti, e facevano tonnina nel villaggio intero! La Nunzia, però - una ragazza onesta - quel discorso sotto gli occhi della madre e dei vicini per giunta... - Urli, graffi, morsi, si difendeva come una leonessa. E la vecchia! Avete visto una chioccia, che è una chioccia, se la toccano nei pulcini?
Insomma, sul più bello salta in mezzo anche il ragazzo dei Minola, che stava abbeverando quei porci lui pure - con quel bel costrutto. - Salta in mezzo, e si mette a dar botte da orbi con un pezzo di legno che trovò lì nel cortile - o che gli premesse la ragazza, vicini come erano, oppure che gli sia andato il sangue agli occhi finalmente, dopo tante soperchierie. Botte da orbi, a chi piglia, piglia.
Ma chi le pigliò peggio fummo noi poveri diavoli del paese. Le case arse, i poderi distrutti, il ragazzo Minola con una baionetta nella pancia, la mamma Proscimo ridotta povera e pazza, e Nunzia con un figliuolo che non sa di chi sia, adesso.
Una volta, mentre il treno passava
vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone,
esclamaste:
- Vorrei starci un mese laggiù! - Noi vi
ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott'ore; i
terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli
avranno creduto che ci sareste rimasta un par d'anni. La mattina del
terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell'azzurro,
e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e
gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da
odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non
spuntava mai. In quelle quarantott'ore facemmo tutto ciò che
si può fare ad Aci-Trezza: passeggiammo nella polvere della
strada, e ci arrampicammo sugli scogli; col pretesto di imparare a
remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i
baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti
tanto per far qualche cosa che a' barcaiuoli potesse parer meritevole
di buscarsi dei reumatismi, e l'alba ci sorprese in cima al
'fariglione' - un'alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli
occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde
cupo, raccolta come una carezza su quel gruppetto di casucce che
dormivano quasi raggomitolate sulla riva, mentre in cima allo
scoglio, sul cielo trasparente e limpido, si stampava netta la vostra
figurina, colle linee sapienti che vi metteva la vostra sarta, e il
profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. - Avevate un vestitino
grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell'alba.
- Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapeste anche voi,
dal modo in cui vi modellaste nel vostro scialletto, e sorrideste coi
grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a
quell'altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa
avveniva nella vostra testolina allora, di faccia al sole nascente?
Gli domandaste forse in qual altro emisfero vi avrebbe ritrovata fra
un mese? Diceste soltanto ingenuamente:
- Non capisco come si
possa vivere qui tutta la vita -.
Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po' di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell'azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta, perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anche esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli.
È una cosa singolare; ma forse non è male che sia così - per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, «gente di mare», dicono essi, come altri direbbe «gente di toga», i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano - quando ne mangiano - giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti... Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato. In quei giorni c'è folla sull'uscio dell'osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo.
Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.
Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamentte il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. - Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; - ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall'altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà.
Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina. Perché? 'à quoi bon'? come dite voi. Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant'è, mi son rammentato del vostro capriccio, un giorno che ho rivisto quella povera donna cui solevate far l'elemosina col pretesto di comperar le sue arance messe in fila sul panchettino dinanzi all'uscio.
Ora il panchettino non c'è più; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po' più in là a stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchio 'Posto' della guardia nazionale; ed io, girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com'è, vi aveva vista passare, bianca e superba.
Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo, e a questo proposito. Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più dove - forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti - e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste, e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell'adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante - sazia così, da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro.
Quando scriverò il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, così lontani da voi, in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l'effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiù, se pur vi ritornerete, e siederemo accanto un'altra volta, a spinger sassi col piede, e fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita altrove. Potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, - o per distogliere i miei occhi dal luccichìo che vi segue dappertutto, sia di gemme o di febbri - oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al teatro!
Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù, all'ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.
Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero, vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia «sotto le sue tegole», tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi.
Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore, col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua «occhiata di sole» accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quelli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere si inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche.
La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro.
Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anche essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell'altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l'avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all'ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi aveva soffiato sopra - un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria - «nei guai!» come dicono laggiù.
Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l'uno, il più grande, quello che vi sembrava un David di rame, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell'ellera. Grande e grosso com'era, si faceva di brace anche esso quando gli fissaste in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame, levando in alto il berretto, e salutando un'ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d'isolano; l'altro, quell'uomo che sull'isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli, nel quale v'eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d'inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c'erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell'uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio.
Meglio per loro che son morti, e non «mangiano il pane del re», come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, o quell'altro pane che mangia la sorella, e non vanno attorno come la donna delle arance, a viver della grazia di Dio - una grazia assai magra ad Aci-Trezza.
Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! lo disse anche il ragazzo dell'ostessa, l'ultima volta che andò all'ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto di quelle chiocciole stufate che son così buone a succiare per chi non ha più denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, sicché sgattaiolando nella corte, andò a piantarsi dinanzi a una porta tutta brandelli di cartacce, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l'estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era buttato un lenzuolo, greve e rigido. E pensando che quelli là almeno non avevano più bisogno di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano più, per passare il tempo.
Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire, al povero vecchio.
Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arance; rimangono a ronzare attorno alla mendica, e brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, bucce d'arance e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via, ma che pure devono avere ancora qualche valore, poiché c'è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci-Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro, solo pregando Iddio di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull'asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va.
- Insomma l'ideale dell'ostrica! - direte voi. - Proprio l'ideale dell'ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.
Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano - forse pel quarto d'ora - cose serissime e rispettabilissime anche esse.
Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo si addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. - Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente.
Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme.
Un dramma che qualche volta forse vi
racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in
ciò:
- che allorquando uno di quei piccoli, o più
debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle
staccarsi dai suoi per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o
per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace
che egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi
con lui. - E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca
d'interesse. Per le ostriche l'argomento più interessante deve
esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del
palombaro che le stacca dallo scoglio.
- Paggio Fernando sarà lei! - esclamò il signor Olinto, puntando l'indice peloso. - Lei sarà un amore di 'paggio', parola d'onore! - Don Gaetanino Longo, rosso dal piacere, seguitò a tormentare i baffetti che non spuntavano ancora, e balbettò:
- Se crede... se le pare...
- E come! e come! - Il capocomico, col pugno sull'anca e il busto all'indietro, colla tuba bisunta sull'orecchio, e il mento ispido in mano, saettando un'occhiata sicura di conoscitore di fra le setole delle sopracciglia aggrottate, continuava a dire:
- Ma sicuro! Lei ha il fisico che ci vuole! Faranno una bella 'macchia' insieme alla mia Rosmunda! - Allora scoppiarono i malumori e le gelosie fra i dilettanti raccolti intorno al biliardo nel Casino di conversazione. Si udì prima un'osservazione timida, come un sospiro; poscia il coro delle lagnanze: Perché è figliuolo del sindaco!... Perché torna dagli studi col solino alto tre dita!...
- Eh?... Che cosa?... Dicano, dicano pure liberamente. Siam qui apposta per intenderci... fra amici... - Si fece avanti un giovanotto magro e barbuto, sotto un gran cappellaccio nero, e cominciò:
- Io vorrei... Non dico per la distribuzione delle parti... Non me ne importa... Ma quanto alla scelta della produzione... Mi pare che sarebbe ora di finirla colla camorra...
- Eh? Che dice? Non le piace la 'Partita a scacchi' dell'avvocato Giacosa?... Lavoro applaudito in tutte le piazze!...
- L'altro fece una spallata, e l'accompagnò con un risolino che diceva assai. Don Gaetanino, che pigliava le parti dell'avvocato Giacosa, come si sentisse già sulle spalle la responsabilità della parte affidatagli, tirava grosse boccate di fumo dal virginia lungo un palmo, col cuore alla gola.
- Vediamo. Mi trovi di meglio. Cerchi lei, signor... signor... - Il giovanotto s'inchinò; cavò fuori dal portafogli un biglietto di visita, e lo presentò, con un altro inchino al signor Olinto.
- Ah! ah! corrispondente della 'Frusta teatrale' e dell''Ape dei teatri'?... Felicissimo! Io non domando di meglio che contentare la libera stampa e la pubblica opinione...
Vediamo, dica lei. Mi suggerisca, signor... - E tornò a leggere il biglietto di visita.
- Barbetti, per servirla.
- Signor Barbetti, dice lei... Se ci ha sotto mano qualche altra cosa che si adatti meglio al gusto di questo colto pubblico...
Qualche lavoro di polso... - Barbetti si faceva pregare, masticando delle scuse, fingendo di ribellarsi all'amico Mertola, il quale moriva dalla voglia di tradire il segreto dell'amico Barbetti. Infine Mertola non seppe più frenarsi, e alzò la voce, scostandosi dall'amico, additandolo al pubblico per quel grand'uomo che egli era.
- Il lavoro di polso c'è... inedito... la sua 'Vittoria Colonna'!... Gli è costata due anni di lavoro!...
- Ah! ah! - fece il capocomico. - Ah! ah! e me lo teneva nascosto, lei! Non sa ch'io sono ghiotto di simili primizie? - Barbetti s'arrese infine, e tirò fuori dal soprabitino un rotolo legato con un nastro verde.
- Adesso? - rispose il signor Olinto. - Su due piedi? Che mi canzona, caro lei?... Un lavoro di polso come il suo!... Bisogna vedere... bisogna studiare... Intanto dò un'occhiata... - Colla schiena appoggiata alla sponda del biliardo e il mento nel bavero di pelliccia, andava sfogliando le pagine, aggrottato, e borbottava:
- Bene, bene!... Effetto scenico!... Bei pensieri!... Stile elevato!... In questa parte la mia signora... Non le dico altro!...
- Con permesso! con permesso! - interruppe il cameriere del Casino, spingendosi avanti a gomitate. - Ecco qui don Angelino e il notaro Lello. Devo preparare il biliardo per la solita partita -.
Il capocomico si cacciò la mazza sotto l'ascella, e raccattò gli scartafacci e i telegrammi sparsi sul panno verde.
- Va bene, va bene, ne riparleremo. Intanto bisogna far girare la pianta -.
Fu il più difficile. I giuocatori di tressetti rispondevano picche, e brontolavano contro quel forestiere che portava la iettatura. Seduta stante si dovettero ribassare i prezzi. Ma l'avvocato Longo, sentendo che c'era per aria un dramma dell'avvocato Barbetti, repubblicano e suo avversario nel Consiglio, una gherminella per togliere la parte di Paggio Fernando al suo figliuolo, dichiarò che non dava il teatro per rappresentazioni immorali e sovversive. Il signor Olinto, che andava mostrando la pianta del teatro col cappello in mano, gli disse:
- Ma che! Lei ci crede alla 'Vittoria Colonna'? Una porcheria! Servirà per accendere la pipa. Lasci fare a me che so fare... Me ne trovo tra i piedi una ogni piazza, delle 'Vittorie'!...
- Bene, faccia lei. Ma a buon conto sa che al sindaco spetta un palco, e un altro alla Commissione teatrale, senza contare il tanto per cento sull'introito lordo a beneficio dell'Asilo Infantile -.
Le trattative durarono otto giorni. Il signor Olinto si scappellava con tutto il paese, per rabbonire la gente, e la signorina Rosmunda aiutava dal balcone, civettando, vestita di seta, con un libro in mano, mentre la mamma badava alla cucina.
Don Gaetanino Longo, oramai sicuro del fatto suo, aveva confidato all'amico Renna:
- Quella me la pasteggio io! - E passava e ripassava sotto il balcone, succhiando il virginia, a capo chino, rosso come un pomodoro, lanciando poi da lontano occhiate incendiarie.
Il signor Olinto, che l'incontrava spesso, gli disse infine:
- Voglio presentarti alla mia signora. Così ti affiaterai pure con Jolanda -.
Il tu glielo aveva scoccato a bruciapelo, fin dal primo giorno. Ma quel tratto d'amicizia commosse davvero don Gaetanino. Trovarono la signorina Rosmunda che stava leggendo accanto al lume posato su di un cassone, colla fronte nella mano, la bella mano delicata e bianca che sembrava diafana. Aveva i capelli nerissimi raccolti e fermati in cima al capo da un pettine di tartaruga, un casacchino bianco e un cerchietto d'argento, dal quale pendeva una medaglina, al polso. Da prima alzò il capo arrossendo e fece un bell'inchino al figliuolo del sindaco. Gli occhioni scuri e misteriosi sotto le folte sopracciglia lasciarono filare uno sguardo lungo che gli cavò l'anima, a lui! Ma in quella comparve la mamma infagottata in una vecchia pelliccia, coll'aria malaticcia, un fuoco d'artificio di ricciolini inanellati sulla fronte, e le mani, nere di carbone, nei mezzi guanti.
- Da artisti, alla buona, senza cerimonie - disse il signor Olinto. E cominciò a parlare dei suoi trionfi e delle famose candele che gli dovevano tanti autori che adesso andavano tronfi e pettoruti; e delle birbonate che aveva salvato da un fiasco sicuro, e passavano ora per capolavori.
- Anche quella 'Vittoria Colonna', vedi, se mi ci mettessi!...
Don Gaetanino assentiva col viso e con tutta la persona. Ma intanto guardava di sottecchi la figliuola, che aveva il viso lungo e il naso del babbo, ingentiliti da un pallore delicato, da una trasparenza di carnagione che sembrava vellutata, dalla polvere di cipria abbondante, e da una peluria freschissima che agli angoli della bocca metteva l'ombra di due baffetti provocanti. Essa di tratto in tratto gli saettava addosso di quelle occhiate luminose che lo irradiavano internamente.
- Ah! anche il signore si occupa?...
- Sì. Non hai inteso? Lui è Paggio Fernando...
Essa allora gli piantò addosso gli occhi e non li mosse più, perché egli vedesse ch'erano proprio belli. Il babbo colse giusto quel momento per passare in cucina; e don Gaetanino, sentendo di dover spifferare qualche cosa, balbettò col cuore che battevagli forte:
- Signorina!... son fortunato!... davvero!...
- Oh! Che dice mai?... Piuttosto io!...
- Il bicchiere dell'amicizia! - interruppe il signor Olinto tornando con una bottiglia in mano e gli occhi già accesi. - Da artisti, alla buona. Scuserai... Non abbiamo mica il buon vino che bevete voi altri proprietari del paese... - La ragazza non volle bere. Il giovanetto, per cortesia, bagnò appena le labbra in quell'aceto, dicendole:
- Alla sua salute! - Essa alzò gli occhi su di lui, e lo ringraziò con quella sola occhiata.
- Divino!... Squisito! - sentenziò don Gaetanino, che non sapeva più quel che si dicesse. - Vi manderò domani un po' di quel vecchio... Questo qui è eccellente... Non c'è che dire... Ma domani... - La mamma voleva protestare. Il marito le chiuse la parola in bocca:
- Per qualche bottiglia di vino... Non è un gran male. Non è un regalo di valore. Fra amici... pel bicchiere dell'amicizia. Già verrai a berlo anche tu... la sera, quando non avrai altro da fare... intanto vi affiaterete con Jolanda -.
Jolanda appoggiò l'invito con un'altra occhiata, e Paggio Fernando balbettò:
- Sì!... certamente!...
felicissimo!... - Stava poi per rompersi l'osso del collo quando
imboccò la botola della scaletta. Fuori c'era un bel chiaro di
luna, una striscia d'argento fredda e silenziosa che divideva la
strada in due. Egli camminava in quella striscia d'argento, col piede
leggiero, il cervello spumante, il virginia rivolto al cielo, il
cuore che batteva a martello, e gli diceva:
- È tua! è
tua! - A casa trovò una lavata di capo per l'ora tarda, e andò
a letto senza cena. Il povero giovane passò una notte
deliziosa, cogli occhi sbarrati nel buio, a veder pettini di
tartaruga e occhiate lucenti che illuminavano la camera. Appena
uscito, il giorno dopo, provò subito una smania di correre
dall'amico Renna.
- Una divinità, caro mio! Una cosa da ammattire! - Renna, ch'era indiscreto, volle sapere a che punto fossero le cose, e lo costrinse a inventare dei particolari.
- Benone! - conchiuse. - Sai però cosa ti dico? Alla lesta! Non perdere il tempo a filare il sentimento. Già è donna di teatro; non ti dico altro!
- Io?... Filare il sentimento?... - borbottò Gaetanino, quasi reputandosi offeso. - Vedrai!...
Ma il signor Olinto era lì ogni sera, a fumare la pipa e centellinare il vino dell'amicizia. Quando lui usciva a prender aria poi, la mamma, che stava appisolata in un cantuccio, collo scaldino sotto le sottane, apriva un occhio. Filavano le occhiate, del resto, che era uno struggimento, e le pedate sotto la tavola, e il fuoco e l'accento di certe frasi, alle prove:
Io ti guardo negli occhi che son tanto belli!!!
- Così - esclamava il capocomico, picchiando della mazza per terra. - Faremo saltare in aria il teatro! - Intanto quel briccone di Barbetti metteva dei bastoni nelle ruote.
Erano giunte due copie della 'Frusta teatrale' con un articolaccio che diceva ira di Dio della camorra letteraria ed artistica, e fecero il giro del paese. La pianta del teatro rimaneva mezzo vuota. Don Gaetanino, per onore di firma, dovette prendere un palco ad insaputa del genitore. C'erano pure delle altre nubi in quel cielo azzurro. Il vino vecchio scorreva com'olio; e l'amico Olinto qualche volta, conducendolo a braccetto per le strade remote, gli faceva delle confidenze:
- Sono sulle spese... Otto giorni inoperoso sulla piazza... La recita non va... - Don Gaetanino dovette carpire le chiavi del magazzino e vendere del grano di nascosto.
Intanto il capocomico, per rabbonire il corrispondente della 'Frusta teatrale' e dell''Ape dei teatri', aveva tirato in casa pur lui, a studiare 'Vittoria Colonna', insieme alla sua signora e alla ragazza. Quando don Gaetanino trovò anche Barbetti installato accanto alla Rosmunda, col cappellaccio in testa e il bicchiere in mano, fece tanto di muso, e andò a sedere in disparte.
- Lei mi deve fare entrare Vittoria alla terza scena - stava dicendo il capocomico. - C'è più interesse e movimento. Un valletto solleva la tenda, giusto all'ultima battuta mia: «sulla tua corona superba, il mio piede sovrano di pezzente!...» e comparisce lei, bella, maestosa, imponente... - E così dicendo additò la sua signora. Costei al richiamo spalancò gli occhi di botto, e si rizzò sulla vita, col viso di tre quarti, e un sorriso sospeso all'angolo della bocca. Rosmunda finse di dover andare di là, e passando vicino a don Gaetanino disse piano:
- Che seccatore!...
- No! - ribatté Barbetti solennemente. - Non muto neppure una virgola! Mi farei tagliare la mano piuttosto!
- Ah! Bene! bene! Questo si chiama aver coscienza artistica! Non come tanti altri che magari vi aggiungono o tagliano degli atti intieri... quasi fosse un giuoco di bussolotti!... Mi pareva soltanto... pel movimento scenico... per l'interesse... per la pratica che ci ho!... Ma già, lei è il miglior giudice. Alla sua salute! - Don Gaetanino vedeva nell'altra stanza lampeggiare al buio gli occhi della Rosmunda, la quale si voltava a guardarlo di tanto in tanto. Poi essa ritornò con un lavoro all'uncinetto e gli si mise allato.
- Che hai, Paggio Fernando?... - gli chiese sottovoce, con una musica deliziosa nella voce, e i begli occhi chini sul lavoro.
Allora senza curarsi di Barbetti, senza curarsi di nessuno, egli le disse il suo segreto, col viso acceso, colle parole calde che le balbettava all'orecchio come una carezza. Essa chinavasi sempre più sul lavoro, quasi vinta, scoprendo la nuca bianca. Poscia si sollevò con un sospiro lungo di cui non si udì il suono, appoggiando le spalle alla seggiola, colle mani abbandonate sul grembo, la testa all'indietro, il viso pallido, la bocca semiaperta, gli occhi languidi di dolcezza che si fissavano su di lui.
Ma quello sfacciato di Barbetti non se ne dava per inteso.
Sembrava anzi che si pigliasse da sé la sua parte di confidenza e d'intimità in casa dei comici. Era lì ogni sera, stuzzicando la ragazza a fare il chiasso, bevendo il vino di don Gaetanino, giuocando a briscola col signor Olinto, sparlando di questo e di quello. - Da artisti! Una vita quieta e tranquilla, che si sarebbe dimenticato volentieri di cercar le piazze e le scritture, in quell'angolo del mondo! - diceva il capocomico. Quando non c'era l'amico Barbetti, faceva dei 'solitari', o si esercitava in certi giuochi di mano coi quali aveva messo sossopra dei teatri.
Don Gaetanino, purché lo lasciassero quieto nel suo cantuccio, portava nelle tasche del cappotto salsicciotti e altri salumi, che piacevano tanto alla mamma, felicissimo quando poteva starsene insieme alla Rosmunda, colle mani intrecciate, guardandosi negli occhi, spasimando di desiderio, e volgendo le spalle agli altri.
- Eh? a che punto siamo? - chiedeva il Renna di tanto in tanto.
Don Gaetanino rispondeva con un sorriso che voleva sembrar discreto.
- Ma c'è sempre Barbetti?
- Ci vado di notte... - confessò finalmente Gaetanino facendosi rosso, - dalla finestra!... - Tutto il paese sapeva ch'egli era l'amante della «prima donna» e papà Longo sequestrò le chiavi della dispensa, vedendo diradare i salsicciotti appesi al solaio, e avendo anche dei sospetti quanto al grano e al vino vecchio. Fu un affare serio, poiché l'orologio d'argento messo in pegno non durò neanche quarantott'ore. Per giunta il povero don Gaetanino era geloso di quella bestia di Barbetti, il quale colla Rosmunda si pigliava troppa libertà, senza educazione, subito in confidenza, con quelle manacce sudice sempre per aria, e le barzellette salate che facevano ridere la ragazza. Due o tre volte, giungendo prima dell'ora solita, li aveva trovati a tavola tutti quanti, mangiando e bevendo alla sua barba. Vero è che Rosmunda si era alzata subito, con un pretesto, ed era venuta a dirgli in un cantuccio:
- Quel seccatore!... L'ho sempre fra i piedi! - Le prove tiravano in lungo, come la vendita dei biglietti per la serata. Il signor Olinto passava le giornate dal barbiere, al caffè, nelle spezierie, dando anche la sera una capatina nel Casino di conversazione, cavando fuori ogni momento la pianta, fermando la gente per le strade col cappello in mano. Aveva pure radunata una Commissione, «senza colore politico», per 'proteggere la serata', il presidente della Società operaia insieme al vice pretore, i quali avevano accettato soltanto per godersi la 'Partita a scacchi' gratis. A Barbetti poi diceva, con una strizzatina d'occhi che doveva chetarlo:
- Abbi pazienza! Prima bisogna adescare il pubblico con quella roba lì! Più tardi poi... se abboccano... fuoco alla grossa artiglieria! E diamo mano all'arte sul serio! - Perciò ogni mattina alle 10, tutti in teatro per le prove: lui gesticolando colla canna d'India in mano e predicando dentro il bavero di pelo; la sua signora, come una marmotta, colla sciarpa di lana intorno al capo; Rosmunda col nasino rosso sul manicotto di pelle di gatto, e la veletta imperlata dal freddo.
- Là! Fatemi suonare quei versi! - Oh! Ma non sai, Jolanda, che ho giuocato la vita?
- Flon! flon! flon! La gamba un po' più avanti! La mani sul petto!
Viva quella mano, perdio! che palpiti e frema! Tu sei innamorato della mia ragazza... - Il fatto è che a dirglielo in versi dinanzi a tanta gente, don Gaetanino diventava un minchione. C'erano pure gli altri dilettanti, in posizione, ad aspettare la loro battuta colla bocca mezzo aperta, e il cappellaccio di Barbetti che andava svolazzando al buio per la platea, come un uccello di malaugurio.
Jolanda al contrario, padrona di sé e del palcoscenico, si muoveva come una regina, agitava drammaticamente il manicotto, si piantava sull'anca, col seno palpitante, il torso audace, gli occhi stralunati sotto la veletta.
Tu giungesti, Fernando, tu che sei forte e bello.
E una voce nell'anima mi gridò tosto: È quello!...
- Perdio! Porca fortuna! - il babbo picchiava con forza il bastone sulle tavole. - Un insieme come questo!... Il pubblico balzerà in piedi, vi dico!... Dove me lo trovate?... Li tengo negli stivali tutti quei cavalieri e commendatori, quanto a saper mettere in scena!... È che la fortuna!... - Allora se la pigliava colla cabala, col gusto corrotto del pubblico, coi tempi che non dicevano, e deplorava che ora si corra dietro all'apparato, ai vestiti delle prime attrici, roba che non ha nulla a fare coll'arte, anzi che la corrompe. Un'artista, per contentare tutti al giorno d'oggi deve fare quel mestiere!
Don Gaetanino, mortificato, scusavasi col dire:
- Sicuro... quando avrò il costume... Adesso, con questi abiti...
mi sento tutto... - Finalmente, papà Longo sequestrò anche le chiavi del magazzino.
Allora il signor Olinto accorciò le prove. A Barbetti, che gli ronzava sempre intorno colla 'Vittoria Colonna', disse chiaro e tondo:
- Mio caro, se mi dai teatro pieno, volentieri... Ma se no, salutami tanto donna Vittoria. Da tre settimane son qui sulle spese! - Sembrava che la sera della recita alla Rosmunda le parlasse il cuore. Nervosa, irrequieta, correndo ogni momento dinanzi allo specchio per darsi un po' di cipria, o per accomodarsi meglio la parrucca bionda.
Appena i tre violini della Filarmonica attaccarono il valzer di 'Madama Angot', essa stessa si buttò singhiozzando nelle braccia di Paggio Fernando, il quale aspettava dietro una quinta, irrigidito, e lo baciò sulla bocca, lievemente, tenendolo discosto per non sciupare il belletto.
- Che hai, Rosmunda?...
- Ora andremo via... fra qualche
giorno!... Non ci vedremo più! - Comparve all'improvviso il
babbo, come uno spettro, infarinato, bianco di pelo, colle calze
bianche della moglie tirate sulle polpe, e due ditate nere sotto gli
occhi:
- Ragazzi! attenti!
Fuori di scena! - Andò a rotta di collo la 'Partira a Scacchi'. Sia che ci fosse «il partito contrario»; sia che Paggio Fernando, con quei stivaloni e quella penna di struzzo dinanzi agli occhi, perdesse la tramontana. Incespicò, s'impaperò, batté i piedi in terra, tornò da capo: insomma un precipizio. L'amico Olinto, bestemmiando nel barbone di bambagia, gli faceva degli occhiacci terribili.
Jolanda fu lì lì per isvenire. Barbetti e tre o quattro amici suoi dal cappellaccio repubblicano, in piedi addirittura fischiavano come locomotive. La mamma di don Gaetanino e tutto il parentado se ne andarono prima che calasse la tela. Il Sindaco, furibondo, voleva fare arrestare tutti quanti.
Ma fu peggio il giorno dopo, quando il povero innamorato, di sera, pigliando le strade fuori mano, andò a trovare la Rosmunda, con tanto di muso e bisbetica, che gli fece appena la carità di un'occhiata e di una parola. Meno male l'amico Olinto, che non ne parlava più e badava soltanto a fare i conti dello spesato, e con Barbetti, il quale prometteva mari e monti, e aveva di nuovo intavolato il discorso della 'Vittoria'.
- Se avessi dato retta a me!... Quella è roba che fa ridere oramai... Non parlo per l'esecuzione... - Più di una volta, in quella sera disgraziata, don Gaetanino accarezzò l'idea del suicidio. Girovagò sin tardi per le strade buie come l'inferno. Andò a chinarsi sul parapetto del Belvedere, scivolando sui mucchi di sterro, colla morte nell'anima. Da per tutto, nella vallata scura e sinistra, nel cielo nuvoloso, sugli usci neri, vedeva il viso di lei rigido e chiuso; la vedeva ancora colla parrucca bionda e il bacio sulle labbra di carminio. Non chiuse occhio tutta la notte, tormentato da quella visione implacabile, colle stesse parole di Paggio Fernando che gli martellavano le tempie, ridicole, simili agli sghignazzamenti della platea, che gli facevano cacciare il capo disperatamente fra i guanciali.
Poi, come tutto passa, anche Rosmunda si calmò; il padre stesso di lei venne a cercarlo sin nella strada. Ricominciarono a far girare la pianta, e parlare di un'altra recita con un «lavoro originale di penna paesana».
Il capocomico e Barbetti tornarono a passar la sera discorrendo di 'Vittoria Colonna', egli e Rosmunda parlando di tutt'altro, a quattr'occhi, in un cantuccio, tenendosi le mani, benedicendo a quella 'Vittoria' che tratteneva ancora in paese papà Olinto e la sua ragazza. Ma la gente non voleva più saperne di mettere mano alla tasca per simili sciocchezze. Il teatro rimaneva quasi vuoto. Barbetti seguitava a pigliarsela colla camorra, e don Gaetano era indebitato sino agli occhi. Infine suo padre, vedendo che quella musica non cessava, ed egli rischiava davvero di perdere il figliuolo che già gli si ribellava contro, tanto era innamorato, prese un partito eroico: salassò il bilancio comunale di un centinaio di lire, raccolse un altro gruzzolo per contribuzione, e mandò i denari ai comici per le spese del viaggio.
Che agonia l'ultima sera! Che schianto mentre Rosmunda preparava i bauli colle mani tremanti, e la mamma faceva friggere in cucina un po' di pesce per la cena d'addio! Don Gaetanino seguì la Rosmunda anche lì, dinanzi alla mamma che voltava le spalle, tenendola per mano, appoggiati al muro tutti e due, la ragazza singhiozzando forte come una bambina, nei brevi istanti che la mamma discretamente li lasciava soli.
- Addio!... per sempre!... Non ci vedremo più!... Sempre così!...
sempre così!... - Ora gli parlava a cuore aperto, lamentandosi a voce alta, a rischio d'essere udita dal Barbetti. Che gliene importava? Non si sarebbero visti mai più! così era stato sempre, tutta la sua vita, da un paese all'altro, ogni due o tre settimane uno strappo al cuore, appena il cuore si attaccava a qualcuno...
- Ti ho voluto bene, sai! Tanto bene! tanto! - E lo guardava fisso, accennando anche col capo, cogli occhi pieni di lagrime.
L'amico Olinto, baciandolo sulle due guance, coi baffi ancora umidi di salsa, gli disse all'ultimo momento:
- Arrivederci, Paggio Fernando! Le montagne sole non si muovono.
Chissà!... Rammentati l'amico Olinto, in giro pel mondo, e viva l'allegria! - Don Gaetanino Longo rimase Paggio Fernando: nel paese, all'Università, più tardi, quando vinse il concorso di notaio, consigliere comunale, maritato, padre di famiglia: Paggio Fernando! E la moglie, per giunta, gelosa come una tigre per quel soprannome che gli faceva sospettare non so che infedeltà.
Dopo un gran pezzo, a Roma, dove aveva accompagnato il Sindaco per certo affare del municipio, rivide in teatro la Rosmunda, acclamata, festeggiata, tutti gli occhi su di lei, tutte le mani che l'applaudivano. Provò un tuffo nel cuore, soffiandosi il naso come una trombetta, coi lucciconi di tanti anni addietro che gli tornavano agli occhi. Ma Renna, segretario comunale, ch'era con lui nello stesso palco, se la rideva invece nella barba grigia; e Severino, il suo ragazzo, di già alto così, gli fece capire quant'era sciocco.
- Guarda, papà che piange! Se è tutta una finzione!... - I ragazzi al giorno d'oggi hanno più giudizio dei vecchi.
Nella collina solitaria, irta di croci sull'occidente imporporato, dove non odesi mai canto di vendemmia, né belato d'armenti, c'è un'ora di festa, quando l'autunno muore sulle aiuole infiorate, e i funebri rintocchi che commemorano i defunti dileguano verso il sole che tramonta. Allora la folla si riversa chiassosa nei viali ombreggiati di cipressi, e gli amanti si cercano dietro le tombe.
Ma laggiù, nella riviera nera dove termina la città, c'era una chiesuola abbandonata, che racchiudeva altre tombe, sulle quali nessuno andava a deporre dei fiori. Solo un istante i vetri della sua finestra si accendevano al tramonto, quasi un faro pei naviganti, mentre la notte sorgeva dal precipizio, e la chiesuola era ancora bianca nell'azzurro, appollaiata come un gabbiano in cima allo scoglio altissimo che scendeva a picco sino al mare. Ai suoi piedi, nell'abisso già nero, sprofondavasi una caverna sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di bagliori sinistri, di cui il riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle tenebre.
Narrava la leggenda che la caverna sotterranea, per un passaggio misterioso, fosse in comunicazione colla sepoltura della chiesetta soprastante; e che ogni anno, il dì dei Morti - nell'ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti - un prete sepolto da cent'anni nella chiesuola abbandonata, si levasse dal cataletto, colla stola indosso, insieme a tutti gli altri che dormivano al pari di lui nella medesima sepoltura, colle mani pallide in croce, e scendessero a convito nella caverna sottostante, che chiamavasi per ciò «la Camera del Prete». Dal largo, verso Agnone, i naviganti si additavano l'illuminazione paurosa del festino, come una luna rossa sorgente dalla tetra riviera.
Tutto l'anno, i pescatori che stavano di giorno al sole sugli scogli circostanti, colla lenza in mano, non vedevano altro che lo spumeggiare della marea, quando si internava muggendo nella «Camera del Prete», e il chiarore verdognolo che ne usciva colla risacca; ma non osavano gettarvi l'amo. Un palombaro che si era arrischiato a penetrarvi, nuotando sott'acqua, uno che non badava né a Dio né al diavolo, pel bisogno che lo stringeva alla gola, e i figliuoli che aspettavano il pane, aveva visto il chiarore che era lì dentro, azzurro e ondeggiante al pari di quei fuochi che si accendono da sé nei cimiteri, il pietrone liscio e piatto, come una gigantesca tavola da pranzo, e i sedili di sasso tutt'intorno, rosi dall'acqua, e bianchi quali ossa al sole. L'onda che si ingolfava gorgogliando nella caverna, scorreva lenta e livida nell'ombra, e non tornava mai indietro; come non tornò più quel poveretto che si era strascinato via. L'estate, nell'ora in cui ogni piccola insenatura della riva risonava della gazzarra dei bagnanti, l'onda calma scintillava, rotta dalle braccia di qualche ragazzo che nuotava verso le sottane bianche, formicolanti come fantasmi sulla spiaggia. - Così quel prete, un sant'uomo, aveva perso l'anima e la ragione dietro i fantasmi delle terrene voluttà, il giorno in cui Lei - la tentazione - era venuta a confessargli il suo peccato, nella chiesetta solitaria ridente al sole di Pasqua, col seno ansante e il capo chino, su cui il riflesso dei vetri scintillanti accendeva delle fiamme impure. Da cent'anni le sue ossa, consunte dal peccato, posavano nella fossa, stringendosi sul petto la stola maculata. Ivi non giungevano gli strilli provocanti delle ragazze sorprese nel bagno, né il canto bramoso dei giovani, né le querele delle lavandaie, né il pianto dei fanciulli abbandonati. La luna vi entrava tacita dallo spiraglio aperto nella roccia, e andava a posarsi, uno dopo l'altro, su tutti quei cadaveri stesi in fila nei cataletti, sino in fondo al sotterraneo tenebroso, dove faceva apparire per un istante delle figure strane. L'alba vi cresceva in un chiarore smorto, che al fuggire delle ombre sembrava far correre un ghigno sinistro sulle mascelle sdentate. Il giorno lungo della canicola indugiava sotto le arcate verdognole, con un brulichìo furtivo di esseri immondi in mezzo all'immobilità di quei cadaveri.
Erano defunti d'ogni età e d'ogni sesso: guance ancora azzurrognole, come se fossero state rase ieri l'ultima volta, e bianche forme verginali coperte di fiori; mummie irrigidite nei guardinfanti rigonfi, e toghe corrose che scoprivano tibie nerastre. Dallo spiraglio aperto nell'azzurro entravano egualmente il soffio caldo dello scirocco, e i gelati aquiloni che facevano svolazzare come farfalle di bruchi le trine polverose e i riccioloni cadenti dai crani gialli. I fiori, già secchi di lagrime, si agitavano pel sotterraneo, come vivi, e andavano a posarsi su altre labbra rose dal tempo; e appena il vento sollevava i funebri lenzuoli, stesi da mani smarrite d'angoscia su caste membra amate, occhi inquieti di rettili immondi guardavano furtivi nelle ossa nude.
Poscia, nell'ore in cui il sole moriva sull'orlo frastagliato dello spiraglio, il ghigno schernitore di tutte le cose umane sembrava allargarsi sui teschi camusi, e le occhiaie vuote farsi più nere e profonde, quasi il dito della morte vi avesse scavato fino alla sorgente delle lagrime. Là non giungeva nemmeno il mormorio delle preci recitate all'altare in suffragio dei defunti che dormivano sotto il pavimento della chiesuola, e i singhiozzi dei parenti non passavano il marmo della lapide. Le raffiche delle notti di fortuna scorrevano gemendo sulla casa dei morti, senza lasciarvi un pensiero per coloro che in quell'ora erravano laggiù, pel mare tempestoso, coi capelli irti d'orrore al sibilo del vento nel sartiame; né un senso di pietà per le povere donne che aspettavano sulla riva, sferzate dal vento e dalla pioggia; né un ricordo delle lagrime che videro forse, nell'ora torbida dell'agonia, e che bagnarono quegli stessi fiori che adesso vanno da una bara all'altra, come li porta il vento. - Così le lagrime si asciugarono dietro il loro funebre convoglio; e le mani convulse che composero nella bara le loro spoglie, si stesero ad altre carezze; e le bocche che pareva non dovessero accostarsi ad altri baci, insegnano ora sorridendo a balbettare i loro nomi ai bimbi inginocchiati ai piedi dello stesso letto, colle piccole mani in croce, perché i buoni morti lascino dei buoni regali ai loro piccoli parenti che non conobbero. - Tanto tempo è passato, insieme alle bufere della notte, e al soffio d'aprile, colle ore che suonano uniformi e impassibili anche esse sul campanile della chiesuola, sino a quella del convito!
A quell'ora tutti gli scheletri si levano ad uno ad uno dalle bare tarlate, coi legacci cascanti sulle tibie spolpate, colla polvere del sepolcro nelle orbite vuote, e scendono in silenzio nella «Camera del Prete», recando nelle falangi scricchiolanti le ghirlande avvizzite, col ghigno beffardo di tutte le cose umane nelle bocche sdentate.
Più nulla! più nulla! - Né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo. - Né i tuoi occhi bramosi, pei quali egli sfidò il disonore e la morte, onde portarti il bacio delle labbra che non ha più. Ti rammenti, i baci insaziati che dovevano durare eterni?
- E neppure i morsi acuti della gelosia, il delirio sanguinoso che mise in mano a quell'altro l'arma omicida. - Né le lagrime che si piangevano attorno a quel letto, e quel morente voleva stamparsi negli occhi dilatati dall'agonia. - Né le ansie delle notti vegliate in quella stanza già funebre, in quell'attesa già disperata. - Né le carezze con cui il caro bimbo pagava il latte di quel seno e i dolori di quella maternità. - E neppure le lotte in cui l'uno si è logorato. - Né le speranze che hanno accompagnato l'altro sin là. - Né i fiori del campo per cui si è tanto sudato. - Né i libri sui quali si è vissuto tanta e tanta vita. - Né la bestemmia del marinaio che stringe ancora le alghe secche nelle falangi contratte. - Né la preghiera del prete che implora il perdono dei falli umani. - E non l'azzurro profondo del cielo tempestato di stelle; né il tenebrore vivente del mare che batte allo scoglio. - L'onda che si ingolfa gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla «Tavola del Prete» si porta via per sempre le briciole del convito, e la memoria di ogni cosa.
Ora nel costruire la diga del molo nuovo, hanno demolito la chiesuola e scoperchiano la sepoltura. La macchina a vapore vi fuma tutto il giorno nel cielo azzurro e limpido, e l'argano vi geme in mezzo al baccano degli operai. Quando rimossero l'enorme pietrone posato a piatto sul piedistallo di roccia come una tavola da pranzo, un gran numero di granchi ne scappò via, e quanti conoscevano la leggenda, andarono narrando che avevano visto lo spirito del palombaro ivi trattenuto dall'incantesimo. Il mare spumeggiante sotto la catena dell'argano tornò a distendersi calmo e color del cielo, e scancellò per sempre la leggenda della «Camera del Prete».
Nel raccogliere le ossa del sepolcreto per portarle al cimitero, fu una lunga processione di curiosi, perché frugando fra quegli avanzi, avevano trovato una carta che parlava di denari, e molti pretendevano di essere gli eredi. Infine, non potendo altro, ne cavarono tre numeri pel lotto. Tutti li giocarono, ma nessuno ci prese un soldo.